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Sangue nello smartphone. Dal coltan del Congo al nostro iPhone6

Ultimo Aggiornamento: 14/11/2019 18:57
07/11/2014 23:27
 
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Coltan e cassiterite. La maggior parte di voi non sa neanche cosa siano, sebbene li abbiate ogni giorno tra le mani. Sono due minerali, utilizzati per costruire i componenti elettronici di cellulari e computer, che si estraggono nelle miniere del Congo. Sono i cosiddetti “minerali conflittivi”, perché le mine dove si estraggono sono gestite dai membri del FDLR (Forces Démocratiques pour la Libération du Rwanda), riconosciuto come uno dei più violenti e sanguinari gruppi di combattenti africani. In questo articolo vi presento come noi, comprando a fior di quattrini l’ ultimo modello di iPhone o di qualsiasi altro smartphone o computer, finanziamo direttamente l’ approvigionamento d’ armi di questi guerriglieri, che vivono estorsionando, stuprando ed uccidendo giovani e giovanissimi che si fanno “minatori” per non morire di fame ed inseguire il sogno impossibile di costruirsi casa e famiglia. Nel 2010, il direttore danese Frank Piasecki Poulsen ha girato un documentario fantastico dal titolo “Blood in the Mobile”, con l’obiettivo di far conoscere all’opinione pubblica mondiale da dove vengono e come sono estratte le materia prime dei nostri cellulari. Guardando il documentario verrete a conoscenza del lato peggiore delle compagnie d’elettronica, che si pubblicizzano come scintillantemete “social”, responsabili e vicine ai bisogni delle persone. Nessuna di queste compagnie si salva, tutte colpevoli d’utilizzare minerali conflittivi, minerali che provengono dalle miniere di Bisiye, nel territorio di Walikale (regione di Kivu, Congo Orientale), il centro nevralgico dell’estrazione di coltan e cassiterite. Non solo Poulsen è riuscito ad ottenere i permessi direttamente dai gruppi militari congolesi per farsi scortare fino a Bisiye (i portavoce delle Nazioni Unite si erano rifiutani di dargli il permesso di addentrarsi nella giungla, per paura d’essere complici del suo assassinio) ma è addirittura entrato in una di queste terribili miniere, che sarebbe meglio chiamare buchi, scavati fino ed oltre cento metri di profondità e dove ogni giorno muore qualcuno. Paulsen ha portato la scottante questione direttamente ai piani alti della Nokia, che da sempre si vanta d’essere la compagnia leader mondiale nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa. È tristemente divertente vedere come i direttori del colosso finlandese dei cellulari cerchino di evitare il confronto diretto davanti alle telecamere.



L’amministratore delegato della Nokia, la responsabile del controllo della catena d’approvvigionamento dei materiali utilizzati nella catena di montaggio dei cellulari ed il portavoce dell’ufficio responsabilità sociale della Nokia, intervistati da Poulsen, cercando pateticamente di minimizzare la propria responsabilità riguardo l’utilizzo di minerali conflittivi e, visibilmente imbarazzati, cercano di difendersi a suon di retorica e promesse del tipo “ci stiamo impegnando per fare luce sulla questione, il cammino è lungo e difficile e non dipende solo da noi”. La verità è che da oltre quindici anni tutti i cellulari del mondo e tutti i componenti di computer ed accessori elettronici utilizzano coltan e cassiterite come materie prime nelle catene di montaggio. Le multinazionali dell’elettronica, acquistando questi minerali, sono i diretti responsabili del finanziamento delle mafie africane, che forniscono ai guerriglieri le armi necessarie a mantenere l’Africa in un continuo stato di schiavitù e guerra perpetua. Qual’è il percorso che dalle miniere arriva fino a casa Nokia, Apple o Samsung, ad esempio? Brevemente (potrete approfondire il tema guardando il documenterio), coltan e cassiterite vengono estratti a mano, a suon di martello e a mani nude nelle miniere sparse per tutto il Congo, soprattutto nella regione di Kivu.



Nelle zone d’estrazione, i guerriglieri obbligano i “minatori” a pagare una quota per ogni chilo di minerali estratti. Non serve che dica, lo avrete immaginato, che in queste miniere muoiono ogni giorno decine di persone, a causa di frane, asfissia, lavoro forzato, o giustiziati dai membri del FDLR. Dalle miniere, dopo aver pagato il pizzo ai guerriglieri, questi giovani e giovanissimi minatori camminano per due giorni con circa venti, trenta, cinquanta chili di minerali caricati in sacchi sulle spalle, fino ad arrivare a Goma, città di confine, punto di raccolta dove coltan e cassiterite vengono smistati e registrati per la prima volta in maniera ufficiale. Ovvero, volendo risalire all’origine di un minerale conflittivo prima dell’arrivo a Goma, non esiste alcun tipo di documento ufficiale. Questo è uno dei punti chiave che fa capire come si sia creato nella catena di approvvigionamento di materie prime un falso punto di partenza, sganciando le multinazionali dell’elettronica dalla relazione diretta con le miniere dei guerriglieri del FDLR. L’opinione pubblica deve conoscere la verità, il loro intrinseco rapporto commerciale venditore-compratore. Minerali in cambio d’armi. Da Goma, coltan e cassiterite vengono caricati in piccoli aerei e inviati in Ruanda, Uganda, Tanzania, Kenya, Burundi, dove gli emissari delle multinazionali europee, asiatiche ed americane li comprano e li portano direttamente nelle catene di montaggio dei nostri cellulari. Morale della favola, con ogni cellulare e computer che compriamo, diamo il nostro piccolo apporto al finanziamento dei gruppi armati africani, gli paghiamo le armi e li aiutiamo a perpetrare le loro violenze, le mattanze, gli stupri e le ingiustizie, che ogni giorno distruggono il più bello e ricco continente del mondo. Prima i militari, gli uomini d’affari ed i politici africani, poi gli intermediari del “primo mondo” ed infine noi. Siamo tutti assassini, diretti od indiretti, della popolzaione del Congo, siamo tutti responsabili della distruzione dell’Africa, dell’annichilimento dell’essere umano, dell’oblio, della giustizia e della dignità umana. Tutto questo per non essere mai coscienti, per non voler conoscere la verità, per infischiarsene dei valori e di sapere da dove proviene quello che utilizziamo nella nostra vita quotidiana. Dovreste per lo meno esserne coscienti adesso e parlarne con amici e figli, far capire ai più piccoli che la gioia nel ricevere per regalo un iPad o uno samrtphone nuovo, corrisponde alla schiavitù di un altro bambino del Congo, che probabilmente non arriverà a compiere trent’anni e la cui madre o sorella saranno state stuprate e trucidate.



A parte Poulsen, a chi interessano i minerali conflittivi? Nonostante la burocrazia internazionale si muova più lenta di una lumaca col piede in gesso, esiste l’associazione Raise Hope for Congo, che lavora per rendere cosciente l’opinione pubblica ed incita i governi a bandire e regolare questo mercato. Ma la situazione è difficile, l’interesse in gioco è troppo grande e, diciamola tutta, ad una persona su due o su tre, sinceramente, non gliene frega niente se l’Africa muore. Questa è la più grande vergogna dell’uomo moderno, il menefreghismo e l’egoismo, sempre ben accompagnati da ignoranza, avarizia e pigrizia. Se alle persone del cosiddetto primo mondo non gliene frega un cazzo dei bambini del Congo, non saremo mai capaci di utilizzare, tutti assieme, l’arma più grande che possediamo: la capacità di boicottare il mercato dei cellulari o qualsiasi altro mercato che non segua ed attui secondo principi etici. Tradotto, non dovremmo comprare nessun cellulare, almeno fintantoché l’uomo non imparerà a rispettare i diritti e si farà carico delle proprie responsabilità, nel nome del bene comune.



È chiaramente impossibile un discorso del genere, vero? Vedo persone adulte e d’ogni età che fanno assurde file di ore ed ore per accaparrarsi a prezzi esorbitanti l’ultimo iPhone, per poi passare metà delle proprie giornate a cliccare “mi piace” e “condividi”, perdendo il senso della propria vita e la capacità di vivere e sapersi arrangiare. Invece di renderci conto di quello che succede nel mondo ed agire, consultiamo ogni giorno centinaia di inutili apps, create per aiutarci a vivere meglio ma che però, alla fine, ci hanno fagocitato e trasformato in patetici tamagochi dal collo ricurvo e culi flosci. Siamo davvero ridotti male, da far pena. Congo, un tempo colonia privata di Leopoldo II, oggi colonia privata delle multinazionali dell’elettronica, che grazie ai nostri acquisti possono continuare ad arricchirsi sulle spalle dei nuovi schiavi 2.0. L’unica differenza è che oggi non ci si pavoneggia in pubblico dei propri schiavi, mostrandoli in catene o fotografandoli mentre gli si amputano le mani, come faceva quel buonuomo belga. Oggi si fa tutto di nascosto e, sebbene salga sempre tutto alla luce, si smentisce, si cerca di corrompere chi tira fuori il tema o, in casi estremi, di farlo fuori. Anche se potremmo cambiare il mondo, non lo faremo perché saremo occupati a twittare un emoticon che piange accanto ad una foto di un bambino africano massacrato dai guerriglieri, nelle vicinanze delle mine di Bisiye, nella profonda giungla congolese. Oltre che ignoranti, siamo patetici.





Link documentario: vimeo.com/109513062

Matteo Vitiello
21 ottobre, 2014
buenobuonogood.com/6597/minerali-in-cambio-darmi-giovane-europeo-acquista-iphone-e-finanzia-stupri-i...
[Modificato da wheaton80 07/11/2014 23:32]
18/08/2016 19:42
 
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Congo, bambini in miniera ad estrarre cobalto per cellulari, tablet, computer e auto

ROMA - Tutti noi oggi facciamo largo uso di cellulari, tablet, computer portatili e altri dispositivi elettronici portatili e tutti noi spesso imprechiamo a causa della scarsa durata delle batterie al litio ricaricabili che li fanno funzionare. Pochi di noi però hanno la consapevolezza del fatto che il cobalto, elemento grazie al quale si riesce a produrre quelle batterie, viene ottenuto attraverso il lavoro sottopagato e inumano di adulti e bambini nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo (RDC).

Mappa del mercato globale del cobalto

www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2016/01/27/foto/il_mercato_globale_del_cobalto_la_mappa-132148283...

Là sotto scendono bambini di 6-7 anni
Da un’indagine congiunta pubblicata martedì da Amnesty International e Afrewatch, emerge che i principali marchi di elettronica, tra cui Apple, Samsung e Sony, non attuano i dovuti controlli di base per garantire che il cobalto usato nei loro prodotti venga estratto rispettando i diritti umani e non passi attraverso lo sfruttamento e il lavoro minorile. Il rapporto, intitolato “Questo è ciò per cui moriamo: Abusi dei diritti umani in RDC alimentano il commercio globale di cobalto”, ripercorre la strada che il cobalto compie dalle miniere in RDC, dove uomini e bambini sotto i 7 anni lavorano in condizioni estremamente insicure e dannose per la salute, passando attraverso la lavorazione per ottenere le batterie fino al loro utilizzo finale nei prodotti dei grandi brand di elettronica che troviamo nei nostri negozi.

Lavoro disumano
Più della metà del totale della fornitura mondiale di cobalto proviene dalla RDC e secondo le stime del governo congolese, il 20% di questo elemento attualmente esportato viene estratto da minatori artigianali nella regione del Katanga nella parte meridionale del Paese. Si tratta dunque di una parte molto significativa. Non a caso il numero di minatori artigianali in questa regione va dai 110mila ai 150mila. Essi lavorano al fianco di attività industriali molto più grandi gestite da aziende occidentali e cinesi.

In galleria non si respira e ci si ammala
In un Paese come la RDC, tra i più poveri del mondo (136mo su 188 nell'Indice di Sviluppo Umano dell'UNICEF) e ancora instabile a causa dei conflitti etnici interni e dell’assenza di istituzioni statali forti, i minerali preziosi rappresentano l’unica fonte di sostentamento per molte persone che lo estraggono autonomamente senza permesso. Il tutto può avvenire o scavando profonde gallerie con semplici scalpelli senza ventilazione né misure di sicurezza, o setacciando senza permesso i materiali di scarto delle miniere industriali della regione. L'esposizione cronica a polveri contenenti cobalto può causare malattie, asma e riduzione della funzione polmonare.

Per i crolli centinaia di morti ogni anno
I crolli nelle gallerie artigianali sono comuni e provocano centinaia di morti all’anno. Dato allarmante è quello che riguarda il lavoro e lo sfruttamento minorile. L'UNICEF ha stimato che nel 2014 nel comparto minerario della RDC lavoravano circa 40.000 fra bambini e bambine, molti di questi nel settore del cobalto. I bambini intervistati dai ricercatori di Amnesty hanno detto di aver lavorato fino a 12 ore al giorno nelle miniere guadagnando in media uno o due dollari. Questi minori non frequentano la scuola perché le loro famiglie non possono permettersi le tasse scolastiche e vengono dunque impiegati nelle stesse mansioni degli adulti, danneggiando la loro salute e mettendo a rischio le proprie vite.

Il percorso del cobalto
Il prodotto che i minatori artigianali riescono a ottenere viene poi venduto in alcuni mercati locali a commercianti intermediari, i quali poi rivendono il minerale a grandi aziende che lavorano nel Paese che poi procedono a esportarlo assieme al resto della materia prima che producono nei loro stabilimenti. Dall’indagine di Amnesty è emerso che la più grande azienda al centro di questo commercio in RDC è la Congo Dongfang Mining International (CDM), controllata al 100% dalla cinese Zhejiang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), uno dei più grandi produttori al mondo di cobalto. La CDM e la Huayou Cobalt lavorano successivamente il cobalto prima di venderlo a tre produttori di componenti di batterie a litio: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. A loro volta, queste aziende vendono le loro merci ai produttori di batterie, i quali poi le distribuiscono ai più importanti brand di elettronica o di automobili che noi tutti conosciamo.

L'opacità di un paradosso
Una volta fatta questa ricostruzione, Amnesty ha dunque contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende che producono batterie per apparecchi elettronici e per automobili utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo: Ahong, Apple, Byd, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE. Di queste una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto l’evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso indagini. Nessuna delle 16 aziende è stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto usato nei loro prodotti. Un risultato opaco in termini di trasparenza che non può che far apparire la situazione paradossale e ipocrita (dato che alcune di queste aziende si vantano di avere una politica di tolleranza zero sul lavoro minorile). Com’è possibile che alcune delle più ricche e innovative aziende del mondo non siano a conoscenza della catena di approvvigionamento delle materie prime dei loro prodotti?

Manca impegno, ma anche regole
Ignavia e indifferenza dolose, dettate dai lucrosi profitti che si ottengono. Si compra l’indispensabile cobalto senza fare domande su dove e come venga estratto, l’importante è che si continui a produrre a bassi costi. Certo, questa è sicuramente la principale spiegazione. Ma va anche considerato che non c’è nulla che obbliga le aziende a farlo. Esiste infatti una grossa lacuna nel sistema del diritto internazionale. Come sottolinea Amnesty, ad oggi non esiste un regolamento del mercato globale del cobalto, che non è neanche inserito nella lista dei “minerali dei conflitti”, la quale comprende invece oro, coltan, stagno e tungsteno.

Le richieste di Amnesty
C'è chiarezza su ciò che andrebbe fatto: le aziende non dovrebbero boicottare la produzione mineraria della RDC, ma attuare la cosiddetta "due diligence", ossia fare un approfondimento meticoloso sui loro fornitori diretti e non, imponendo il rispetto dei diritti umani. La RDC dovrebbe regolarizzare le aree minerarie non autorizzate e far rispettare le norme sul lavoro, specialmente quello minorile. Infine, gli stati di residenza fiscale delle grandi multinazionali e il mercato globale, che dovrebbero varare norme congiunte per obbligare le aziende alla trasparenza sulle loro catene di approvvigionamento. Ciò che manca però è la volontà.

Marco Simoncelli
27 gennaio 2016
www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2016/01/27/news/miniere_di_cobalto-13...
18/12/2016 16:27
 
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Mentre il sole tramontava su uno dei giacimenti minerari più ricchi della Terra, in uno dei Paesi più poveri al mondo, Sidiki Mayamba si stava preparando per andare al lavoro. Mayamba è un minatore di cobalto. La savana di terra rossa che si estende fuori dalla porta di casa sua contiene una quantità così grande di cobalto e di altri minerali che una volta un geologo la descrisse come uno «scandalo geologico». Questo remoto territorio nel sud dell’Africa è al centro della frenetica corsa globale per il cobalto a basso costo, un minerale essenziale per le batterie agli ioni di litio che alimentano gli smartphone, i computer portatili e i veicoli elettrici prodotti da società come Apple, Samsung e dalle grandi case automobilistiche. Ma Mayamba, 35 anni, non era a conoscenza del suo ruolo in questa catena di approvvigionamento dalla crescita incontrollata: prese la sua pala di metallo e il suo martello dalla testa rotta da un angolo della camera che divideva con sua moglie e il loro figlio, e si infilò una giacca impolverata. Da uomo orgoglioso, gli piaceva mettere una camicia con il colletto abbottonato anche per andare al lavoro. Mayamba avrebbe scavato a mano per tutto il giorno e tutta la notte, dormicchiando di tanto in tanto nelle gallerie sotterranee. Senza nessun attrezzo industriale e nemmeno un elmetto, con il rischio costante di un crollo in una delle gallerie. «Hai abbastanza soldi per comprare la farina oggi?», chiese Mayamba a sua moglie, che rispose di sì. Adesso alla loro porta c’era però un agente del recupero crediti. La famiglia si era indebitata per comprare il sale. La farina avrebbe dovuto aspettare. Mayamba provò a rassicurare sua moglie e salutò suo figlio prima di mettersi la pala sulle spalle. Era tempo di andare. A soddisfare l’altissima domanda globale di cobalto a volte sono gli operai, anche bambini, che lavorano in condizioni difficili e pericolose. Si stima che in Congo ci siano 100mila minatori che lavorano usando strumenti manuali per scavare a diversi metri di profondità, con scarsa supervisione e poche misure di sicurezza, stando a quanto emerso da minatori, funzionari del governo e dalle prove raccolte dal Washington Post durante alcune visite nelle miniere congolesi.

Morti e infortuni sono frequenti, e l’attività mineraria espone le comunità locali a livelli di metalli tossici che sembrano essere collegati a disturbi come problemi respiratori e difetti alla nascita, secondo quanto riportato da alcuni funzionari della sanità. Il Washington Post ha rintracciato per la prima volta il percorso del cobalto del Congo, mostrando come il minerale estratto in queste condizioni precarie finisca poi all’interno di prodotti popolari, passando dalle piccole miniere congolesi a un’unica azienda cinese – la Congo DongFang International Mining (CDM), che fa parte di una delle più grandi società produttrici di cobalto al mondo, la Zhejiang Huayou Cobalt – che rifornisce da anni alcuni dei più grandi produttori di batterie al mondo. Queste aziende producono a loro volta le batterie che si trovano all’interno di prodotti come gli iPhone di Apple, una scoperta che solleva domande sulle dichiarazioni fatte da alcune aziende, che sostengono di essere in grado di monitorare le loro catene di approvvigionamento per evitare casi di abusi dei diritti umani o lavoro minorile. In risposta ad alcune domande del Washington Post Apple ha ammesso che il cobalto proveniente da queste miniere è finito all’interno delle sue batterie. Apple ha detto di calcolare che il 20 per cento del cobalto usato dalla società viene dalla Huayou Cobalt.

Paula Pyers, la direttrice che si occupa della responsabilità sociale della catena di approvvigionamento di Apple, ha detto che la società ha in programma di aumentare il controllo sui metodi con cui viene ottenuto tutto il cobalto usato per i suoi prodotti, e ha aggiunto che Apple si impegna a lavorare con Huayou Cobalt per “ripulire” la sua catena di approvvigionamento e occuparsi delle questioni alla base del problema, come la povertà estrema, che portano a condizioni di lavoro precarie e lavoro minorile. Un altro dei clienti di Huayou, LG Chem, uno dei più importanti produttori di batterie del mondo, ha raccontato al Washington Post di aver smesso di comprare minerali estratti in Congo dalla fine dell’anno scorso. Samsung SDI, un altro grosso produttore di batterie, ha detto di avere avviato un’indagine interna, aggiungendo che stando alle informazioni a sua disposizione la società usa cobalto congolese che non proviene da Huayou. Le aziende che tracciano regolarmente la provenienza del loro cobalto sono poche. Il Washington Post ha scoperto che seguire il percorso del cobalto dalla miniera al prodotto finito è difficile ma non impossibile. In molte miniere del Congo ci sono guardie armate che impediscono l’accesso, e il cobalto estratto in questi posti passa poi attraverso diverse aziende e viaggia per migliaia di chilometri. Il 60 per cento del cobalto mondiale viene dal Congo, un Paese caotico, con un problema di corruzione diffusa e una lunga storia di sfruttamento delle risorse naturali da parte di stranieri. Un secolo fa, quando il Congo era ancora una colonia belga, c’erano aziende straniere che saccheggiavano la linfa dell’albero della gomma e le zanne degli elefanti. Oggi, a oltre cinquant’anni dall’indipendenza del Paese, sono i minerali ad attrarre le aziende straniere. Su alcuni di questi minerali sono aumentati i controlli. Una legge americana del 2010 impone alle aziende statunitensi di cercare di accertarsi che lo stagno, il tantalio, il tungsteno e l’oro che usano non provenga da miniere controllate dalle milizie della regione del Congo. La legge ha portato a un sistema che secondo molti pareri previene i casi di abusi dei diritti umani. Alcune persone sostengono che il cobalto dovrebbe essere aggiunto alla lista delle “risorse da conflitto” – quei materiali provenienti da zone di guerra, la cui vendita alimenta i combattimenti – anche se non si ritiene che le miniere di cobalto finanzino guerre.

Apple ha detto al Washington Post che sostiene l’inclusione del cobalto nella lista. Il commercio di cobalto del Congo è al centro di critiche da decenni, soprattutto da parte di gruppi di pressione. Persino le associazioni commerciali americane hanno riconosciuto il problema. Nel 2010 l’Electronic Industry Citizenship Coalition – di cui fanno parte aziende come Apple – si disse preoccupata per i potenziali abusi dei diritti umani legati all’estrazione dei minerali come il cobalto e per le difficoltà nel tracciare le catene di approvvigionamento. Il Dipartimento del Lavoro americano ha inserito il cobalto congolese nella lista dei materiali che si presume siano ottenuti attraverso il lavoro minorile. Le preoccupazioni sui metodi con cui il cobalto viene estratto «riemergono di tanto in tanto», ha detto Guy Darby, un analista che si occupa da molto tempo di cobalto e lavora a Londra per Darton Commodities. «Ci sono un sacco di lamentele e manifestazioni di dissenso, ma poi si ritorna a non parlarne più», ha aggiunto Darby. L’anno scorso un gruppo di pressione dei Paesi Bassi, il Center for Research on Multinational Corporations, o SOMO, e Amnesty International, hanno diffuso alcuni rapporti in cui si denunciavano irregolarità come il trasferimento forzato di alcuni villaggi e l’inquinamento delle acque. Il rapporto di Amnesty, in cui si accusava Congo DongFang di aver comprato materiali estratti da bambini, ha spinto altre società ad assicurarsi che le loro attività legate al cobalto fossero sotto esame. Quando però quest’estate alcuni giornalisti del Washington Post hanno visitato degli impianti minerari in Congo, i problemi erano ancora evidenti. A settembre Chen Hongliang, Presidente di Huayou Cobalt – la società che controlla Congo DongFang – ha raccontato al Washington Post che la sua società non si era mai fatta domande sul modo in cui venivano ottenuti i suoi minerali, nonostante operi in Congo e in città come Kolwezi da circa dieci anni. «È stata una nostra mancanza», ha detto Chen durante un’intervista a Seattle, commentando per la prima volta la questione pubblicamente. «Non ce n’eravamo accorti», ha aggiunto. Chen ha detto che Huayou ha intenzione di cambiare il modo in cui compra il cobalto, che aveva ingaggiato una società esterna per vigilare sul processo e che stava collaborando con alcune società sue clienti come Apple per creare un sistema per prevenire gli abusi.

Ma il fatto che problemi così gravi abbiano potuto perdurare per così tanto tempo – nonostante le frequenti avvisaglie – illustra bene quello che può succedere all’interno di catene di approvvigionamento opache quando c’è una mancanza di regolamentazione diffusa: la priorità è mantenere il prezzo basso e i guai capitano in una parte lontana e agitata del mondo. Nello smartphone da cui forse state leggendo questo articolo potrebbe esserci un piccolo pezzo di cobalto di Kolwezi. Le batterie agli ioni di litio dovevano essere diverse dalle tecnologie inquinanti e tossiche del passato. Queste batterie, più leggere e in grado di immagazzinare più energia rispetto alle tradizionali batterie al piombo, sono considerate “verdi”. Hanno un ruolo fondamentale per i programmi che puntano a superare in futuro i motori a benzina che generano smog, e sono già parte integrante dei dispositivi tecnologici di tutto il mondo. Se non fosse per queste batterie, gli smartphone che usiamo non entrerebbero nelle nostre tasche, non potremmo sistemare i computer portatili sulle nostre gambe e i veicoli elettrici sarebbero poco pratici. Sotto molti punti di vista, l’attuale corsa all’oro della Silicon Valley – dai dispositivi mobili alle auto che si guidano da sole – è costruita sulla potenza delle batterie agli ioni di litio. Il prezzo da pagare, però, è altissimo. «È vero: in queste miniere ci sono dei bambini», ha detto in un’intervista Richard Muyej, governatore provinciale di Kolwezi, il funzionario governativo più alto in grado della città, che ha anche riconosciuto il problema delle morti e dell’inquinamento legati all’estrazione di cobalto. Il suo governo, però, ha detto Muyej, è troppo povero per affrontare questi problemi da solo. «Il governo non è un mendicante», ha detto, «queste aziende hanno il dovere di creare ricchezza nella zona in cui operano». È improbabile che le società che lavorano in Congo lascino il Paese, e il motivo è semplice: il mondo ha bisogno di quello che il Congo offre. Secondo Chen le controversie sui metodi di estrazione del cobalto in Congo si estenderanno ben oltre Huayou Cobalt. «Non credo siamo gli unici ad avere questo problema», ha detto Chen, per poi aggiungere:«Crediamo che ci siano molte altre aziende in una situazione simile alla nostra».

I polmoni del Congo
A lavorare nelle condizioni peggiori sono i “minatori artigianali” del Congo, un termine pittoresco usato per descrivere i lavoratori poveri che devono scavare senza usare martelli pneumatici o escavatori diesel. Questo esercito informale rappresenta un grosso business, ed è responsabile di una quota stimata tra il 10 e il 25 per cento della produzione mondiale di cobalto, e dal 17 al 40 per cento circa di quella congolese. Da soli, i minatori artigianali del Paese estraggono più cobalto di ogni altra Nazione del mondo al di fuori del Congo, superati solo dalle miniere industriali del Paese. Il settore del cobalto dovrebbe essere una manna dal cielo per il Congo, un Paese che le Nazioni Unite classificano tra i meno sviluppati al mondo. Le cose, però, non sono andate così. «Viviamo il paradosso di avere così tante risorse e allo stesso tempo una popolazione poverissima», ha detto Muyej. Kolwezi è una città molto isolata immersa nel cobalto e nel rame, che spesso si trovano insieme. Per la sua rilevanza economica a volte la città viene chiamata i “polmoni del Congo”. Kolwezi si trova lungo un’autostrada a due corsie famosa per il passaggio di camion carichi di minerali che sfrecciano verso il confine con lo Zambia, a 400 chilometri di distanza, per poi proseguire verso i porti della Tanzania o del Sudafrica. Da qui la maggior parte del cobalto viene trasportato per nave verso l’Asia, dove ha sede la maggior parte dei produttori mondiali di batterie a ioni di litio. Circa il 90 per cento del cobalto della Cina arriva dal Congo, dove le imprese cinesi controllano l’industria mineraria. Il cobalto inizia il suo viaggio in miniere come quella di Tilwezembe, un ex sito industriale convertito alla periferia di Kolwezi, in cui centinaia di uomini scavano la terra con attrezzi manuali. Questi uomini si definiscono “creuseurs“, “scavatori” in francese. Lavorano all’interno di decine di buche scavando il fondo della miniera, che ricorda un paesaggio lunare. Le gallerie vengono scavate a mano in profondità e sono illuminate soltanto da lampade di plastica che sembrano giocattoli sistemate sulla testa dei minatori. A giugno, durante una visita del Washington Post, sembrava di trovarsi su un sito dell’era preindustriale. Nonostante ci fossero decine di uomini impegnati a scavare, l’unico suono era quello attutito del metallo che picchiava sulla roccia. «Soffriamo», ha detto un minatore 29enne, Nathan Muyamba, «e a cosa serve la nostra sofferenza?».

‘Fleur du cobalt’
Gli scavatori non hanno mappe delle miniere e non hanno ricevuto un addestramento da esploratori: si affidano all’intuito. «Viaggiamo con la fede, nella convinzione che un giorno si possa trovare un buon giacimento», ha raccontato Andre Kabwita, un minatore di 49 anni. Si dice che una della guide dei minatori sia la natura. I fiori selvatici gialli sono considerati un segnale della presenza di rame. Una pianta dai piccoli fiori verdi viene chiamata in modo eloquente ‘la fleur du cobalt’, il fiore del cobalto. Dal momento che i siti ufficiali in cui possono lavorare sono pochi, i minatori artigianali scavano dove possono: lungo le strade, sotto i binari ferroviari e nei cortili. Quando qualche anno fa nell’affollato quartiere di Kasulo fu scoperto un grosso giacimento di cobalto, per raggiungerlo i minatori scavarono delle gallerie direttamente dai pavimenti in terra delle loro case, creando un labirinto di caverne sotterranee. Altri minatori aspettano che faccia buio per entrare nei terreni di proprietà di società minerarie private, causando scontri con le guardie di sicurezza e la polizia in cui spesso ci sono morti. I minatori sono disperati, ha detto Papy Nsenga, minatore e Presidente di un sindacato di minatori appena nato. La retribuzione varia a seconda di quello che trovano: niente minerali, niente soldi. La paga è comunque bassa, l’equivalente di 2 o 3 dollari per una giornata buona, ha raccontato Nsenga. «Non dovremmo vivere così», ha detto. Quando ci sono incidenti, i minatori sono lasciati a loro stessi. L’anno scorso, dopo che la gamba di un minatore rimase schiacciata e un altro minatore si ferì alla testa in una miniera, Nsenga dovette raccogliere da altri minatori centinaia di dollari per pagare le cure mediche. Nsenga e altri minatori hanno raccontato che le società che comprano i minerali sono raramente d’aiuto. Anche i casi di morte sono frequenti, hanno raccontato i minatori. Solo le morti di massa sembrano però arrivare ai pochi media locali, come Radio Okapi, che è finanziata dalle Nazioni Unite. Nel settembre del 2015 tredici minatori di cobalto morirono per il crollo di una galleria di terra a Mabaya, vicino al confine con lo Zambia.

Due anni fa 16 minatori furono uccisi da una frana a Kawama, e qualche mese dopo 15 minatori morirono a causa di un incendio sotterraneo a Kolwezi. A Kolwezi, un ispettore minerario provinciale – frustrato dalla recente serie di incidenti – ha accettato di parlare con il Washington Post a condizione che non fosse rivelata la sua identità, dal momento che non aveva il permesso di parlare con i media. Ha incontrato i giornalisti dentro un minibus: dopo essere salito ha chiuso la porta e si è seduto nel centro del pullman, lontano dai vetri fumé, in modo da non essere visto da nessun passante sulla strada. Quella stessa mattina – ha raccontato l’ispettore – aveva aiutato a soccorrere quattro minatori artigianali che erano stati quasi uccisi dai fumi di un incendio sotterraneo a Kolwezi. Il giorno prima due uomini erano stati uccisi da un crollo in una galleria all’interno di una miniera. L’ispettore ha raccontato di aver estratto personalmente 36 cadaveri dall’interno di miniere artigianali della zona negli ultimi anni. Il Washington Post non è stato in grado di verificare in modo indipendente le sue affermazioni, che però sono in linea con i racconti dei minatori circa la frequenza degli incidenti in miniera. L’ispettore ha attribuito la colpa alle società che come Congo DongFang comprano il cobalto estratto artigianalmente per poi portarlo all’estero via nave. «A loro non interessa», ha detto. «Se porti loro i minerali e sei malato o ferito, a loro non interessa». Congo DongFang ha ammesso di aver sbagliato a pensare che questi problemi fossero responsabilità dei suoi partner commerciali, che comprano il cobalto dai minatori per poi portarlo alla società mineraria.

Lavoro minorile
Nessuno sa con esattezza quanti minori lavorino nell’industria mineraria congolese. Nel 2012 UNICEF ha stimato che 40mila tra bambini e bambine lavorino nelle miniere nel sud del Paese. Uno studio del 2007 finanziato dall’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale ha scoperto che solo a Kolwezi i bambini che lavoravano in siti minerari erano 4mila. I funzionari del governo locale dicono di non avere le risorse per occuparsi del problema. «Abbiamo grossi problemi con i bambini, perché portarli fuori dalle miniere è difficile quando non ci sono scuole dove possono andare», ha detto Muyej, il governatore provinciale. «Dobbiamo trovare una soluzione», ha aggiunto. Nonostante le autorità e i minatori ne riconoscano l’esistenza, il problema del lavoro minorile rimane un argomento delicato. I bambini non lavorano soltanto nelle miniere sotterranee – violando le leggi sulle miniere congolesi – ma anche ai margini del commercio del cobalto. Alcune guardie hanno impedito al Washington Post di visitare delle zone in cui, secondo dei minatori locali, si possono trovare spesso bambini che lavorano. A un certo punto, dei giornalisti del Washington Post hanno visto un ragazzo con una felpa rossa che portava a fatica un sacco riempito a metà con rocce minerali. Un altro ragazzo, con una maglietta da calcio nera, è corso ad aiutarlo. Kabwita, il minatore, ha osservato la scena. «Hanno solo 10 o 12 anni», ha detto.

Dei giornalisti del Washington Post hanno dato un iPhone a un minatore perché filmasse il modo in cui le donne e bambini lavano insieme i minerali di cobalto. Uno di questi bambini è Delphin Mutela, che sembra più giovane dei suoi 13 anni. Quando ne aveva circa 8, sua madre iniziò a portarlo con lei al fiume per pulire i minerali di cobalto. In questa zona lavare i minerali è un lavoro popolare tra le donne. All’inizio il compito di Delphin era tenere d’occhio i suoi fratelli, ma poi ha imparato a distinguere i diversi pezzi di minerali che cadevano nell’acqua durante la pulitura. Il rame aveva una sfumatura di verde, mentre il cobalto sembrava cioccolato fondente. Se ne avesse raccolto abbastanza frammenti, forse lo avrebbero pagato, magari anche un dollaro. «I soldi che prendo li uso per comprare i quaderni e così posso pagare la retta scolastica», ha detto Delphin. Sua madre, Omba Kabwiza, ha raccontato che quella di suo figlio è una situazione normale. «Ci sono molti bambini qui», ha detto. «È così che viviamo».

Domanda alle stelle
Il cobalto è la materia prima più costosa di una batteria agli ioni di litio. Da tempo è un problema per i grandi rifornitori di batterie e i loro clienti, i produttori di computer e automobili. Da anni gli ingegneri provano a progettare batterie senza cobalto, ma il minerale famoso soprattutto come pigmento blu ha una capacità unica di migliorare le prestazioni delle batterie. Nell’ultimo anno il prezzo del cobalto raffinato è oscillato dai circa 17mila ai 23mila euro alla tonnellata. Negli ultimi cinque anni la domanda di cobalto a livello globale è triplicata e si prevede che aumenti ancora del doppio entro il 2020, secondo Benchmark Mineral Intelligence. L’aumento è stato spinto soprattutto dai veicoli elettrici: tutti le grandi case automobilistiche si stanno affrettando a mettere sul mercato la propria auto alimentata a batterie. Lo stabilimento da 5 miliardi di dollari di Tesla in Nevada, conosciuto come Gigafactory, sta aumentando la produzione. Daimler ha in programma di aprire a breve un secondo stabilimento per la produzione di batterie in Germania. LG Chem costruisce batterie per General Motors in uno stabilimento a Holland, in Michigan. La società cinese BYD sta lavorando alla costruzione di nuovi enormi stabilimenti in Cina e in Brasile. Una batteria di uno smartphone può contenere dai 5 ai 10 grammi di cobalto raffinato, mentre una sola batteria di un’auto elettrica può arrivare ad averne fino a 15mila grammi. Con l’aumento della domanda nei mercati globali è cresciuta anche l’importanza del cobalto artigianale. Questa tendenza si è manifestata chiaramente nel settore delle batterie due anni fa, ha detto Kurt Vandeputte, vicepresidente dell’unità per i materiali delle batterie ricaricabili della società belga Umicore, una delle aziende per la raffinazione del cobalto più grandi al mondo. Il prezzo del cobalto ha continuato a scendere nonostante il grande aumento della domanda di batterie. Il prezzo del litio, invece, un altro componente essenziale delle batterie, è cresciuto vertiginosamente. «Era chiaro che l’estrazione artigianale stava assumendo un ruolo importante nella catena di approvvigionamento», ha detto Vandeputte, che ha aggiunto che Umicore compra il cobalto solo da miniere industriali, anche in Congo.

Solitamente il cobalto artigianale costa meno di quello estratto da miniere industriali, perché le società non devono pagare gli stipendi dei minatori, né finanziare le attività di una grande miniera. Con la grande diffusione del cobalto a basso costo sui mercati, alcuni commercianti internazionali hanno annullato i contratti con le società che fornivano minerali industriali, optando per quelli artigianali. «Tutti quanti sapevano che stava succedendo qualcosa», ha detto Christophe Pillot, un consulente che si occupa di batterie ad Avicenne Energy, in Francia. Allo stesso tempo, le catene di approvvigionamento delle aziende sono sottoposte a maggiori controlli. I clienti chiedono responsabilità da parte delle società, che rispondono promettendo di garantire un’«origine etica» dei loro prodotti e «verifiche alla catena di approvvigionamento». Un risultato di questi maggiori controlli si può constatare in Congo. Nel 2010 gli Stati Uniti hanno approvato una legge sui minerali da conflitto per bloccare i flussi di denaro destinati alle milizie del Congo, responsabili di diversi omicidi, concentrandosi sull’estrazione artigianale di quattro minerali. Per il cobalto, però, non sono richieste le stesse verifiche. Anche se non si ritiene che l’estrazione del cobalto finanzi delle guerre, secondo molti attivisti e analisti del settore i minatori di cobalto potrebbero beneficiare della legge americana per tutelarsi contro lo sfruttamento e gli abusi dei diritti umani. La legge obbliga le società a provare a tracciare le loro catene di approvvigionamento e permette a ispettori indipendenti di svolgere controlli lungo tutta la catena. Se da una parte il Congo è un fornitore minore dei quattro minerali indicati dalla legge, il mondo dipende dal Paese per il cobalto. Secondo l’analista di Benchmark Simon Moores questa è una delle ragioni per cui il cobalto non è stato ancora contemplato dalla legge. Qualsiasi impedimento all’interno della catena di approvvigionamento del cobalto avrebbe effetti devastanti per le società.

«Vendiamo ai cinesi»
Per molti minatori artigianali di Kolwezi, la catena di approvvigionamento globale comincia in un mercato chiamato Musompo. I circa 70 negozietti del mercato, che vengono chiamati ‘comptoirs’, sono addossati l’uno affianco all’altro lungo l’autostrada che porta al confine. I nomi dei negozi sono dipinti su muri di cemento: Maison Saha, Depot Grand Tony, Depot Sarah. Ogni negozio ha un cartello su cui sono scritti a mano i tassi correnti del cobalto e del rame. In un negozio chiamato Louis 14, il listino prezzi offriva l’equivalente di 785 euro per una tonnellata di roccia contenente il 16 per cento di cobalto. Il valore di una roccia con il tre per cento di cobalto era 49 euro. Poco lontano dai negozi si accostavano minibus pieni di sacchi bianchi con dentro cobalto appena estratto, pronto per la vendita. Altri sacchi arrivavano su biciclette cariche come animali da soma. Ogni carico veniva verificato con dei dispositivi simili alle pistole radar usate per misurare la velocità delle auto, chiamati Metorex, che servono a rilevare il contenuto di minerali. Alcuni minatori hanno detto di non fidarsi di queste macchine e che le ritengono truccate, aggiungendo però di non avere alternative. Il governatore provinciale Muyej ha detto di essere alla ricerca di finanziamenti per comprare un dispositivo Metorex in modo che i minatori possano verificare i loro minerali in modo indipendente. A Musompo ci sono molti negozi, ma i minatori hanno detto che vendono tutti alla stessa società, la Congo DongFang Mining. «Vendiamo ai cinesi, che poi portano i minerali alla Congo DongFang», ha detto un dipendente di uno dei negozi, Hubert Mukekwa, mentre caricava il cobalto con la sua pala. In Congo gli stranieri non possono per legge essere proprietari di un comptoir. Ma nessuno dei negozi visitati dal Washington Post sembrava gestito da un congolese.

A manovrare i Metorex c’erano uomini cinesi, che si occupavano anche di fare i conteggi su grosse calcolatrici, gestire i soldi – spessi mazzetti di franchi congolesi – e che spesso rimanevano seduti nel retro mentre uomini congolesi trasportavano i sacchi da oltre 50 chili. Nessun proprietario dei comptoir ha voluto parlare con il Washington Post. Dopo aver finito di riempire uno dei sacchi, Mukekwa ha detto:«Quando raccogliamo abbastanza materiale lo portiamo alla Congo DongFang», indicando un grande complesso circondato da muri blu in lontananza. In un comptoir chiamato Boss Wu, due congolesi in tuta sulla cui schiena era scritto in stampatello “CDM” erano in piedi a guardare altri uomini che caricavano sacchi di cobalto su un furgone. I giornalisti del Washington Post hanno poi visto un altro furgone arancione pieno di sacchi di cobalto allontanarsi da Musompo e dirigersi verso l’autostrada principale. Sulla cabina del camion era dipinta in blu la scritta “C24″. I giornalisti del Washington Post hanno seguito il furgone sull’autostrada per circa 3 chilometri, che si è poi spostato su una strada sterrata lungo un alto muro di mattoni. Il furgone ha proseguito sulla strada fino ad arrivare a un ingresso controllato da guardie armate, dove è poi entrato. Sulla struttura con i grandi muri blu si poteva leggere distintamente la sigla “CDM”. È a questi cancelli che la Congo DongFang dice aver fermato la sua ispezione della catena di approvvigionamento, che non si è mai estesa alle miniere o al mercato, ha raccontato Chen, il Presidente di Huayou Cobalt, la società che controlla la Congo DongFang. «In realtà non lo sapevamo», ha detto Chen parlando alle persone da cui la società compra il cobalto. «Ora svolgiamo verifiche», ha aggiunto.

La versione delle società
In risposta alle domande del Washington Post, anche le società sono sembrate incerte circa la catena di approvvigionamento del loro cobalto, dimostrando quanto poco si sappia dell’origine delle materie prime. Oggi però ci sono aspettative diverse, ha detto Lara Smith della Core Consultants di Johannesburg, una società che fornisce consulenza alle aziende minerarie. «Le società non possono professare ignoranza», ha detto Smith, «perché se avessero voluto sapere, avrebbero potuto farlo. Ma non vogliono». L’anno scorso la Congo DongFang ha detto di aver esportato 72mila tonnellate tra cobalto industriale e artigianale dal Congo, diventando la terza società mineraria del Paese, secondo le statistiche sul settore del Congo. La società è di gran lunga il principale esportatore di cobalto artigianale del Congo, stando agli analisti e alla società stessa. La Congo DongFang spedisce il suo cobalto via mare alla società che la controlla, Huayou, in Cina, dove il minerale viene raffinato. Trai i principali clienti di Huayou ci sono aziende che producono i catodi delle batterie, come Hunan Shanshan, Pulead Technology Industry e L&F Material, stando a quanto emerso da documenti finanziari e interviste. Queste aziende, che comprano minerali raffinati anche da altre società, costruiscono i catodi ricchi di cobalto che sono essenziali per la realizzazione di batterie agli ioni di litio.

Questi catodi sono poi venduti ai produttori di batterie, aziende come Amperex Technology Ltd. (ATL), Samsung SDI e LG Chem. Tutte queste aziende riforniscono Apple, garantendo così l’alimentazione di iPhone, iPad e Mac. Apple ha detto che dalla sua indagine è emerso che le batterie di LG Chem e Samsung SDI contengono catodi di Umicore, che a loro volta potrebbero avere al loro interno cobalto proveniente dal Congo ma non dalla Congo DongFang. Apple ha anche detto di ritenere che il cobalto sospetto usato dalla società sia contenuto nelle batterie di ATL, costruite con catodi della società Pulead. «Penso che i rischi si possano gestire», ha detto al Washington Post il CEO di Pulead Yuan Gao, secondo cui «la maggior consapevolezza sta funzionando, visto che nella catena di approvvigionamento ora tutti controllano tutti». ATL ha fornito le batterie che si trovano in alcuni dei Kindle, gli e-reader di Amazon, secondo un’analisi di IHS, una società internazionale di consulenza economica. ATL non ha voluto commentare. Amazon, la società fondata dal proprietario del Washington Post Jeffrey Bezos, non ha risposto direttamente alle domande del giornale sui potenziali legami con il cobalto di origine sospetta. La società ha diffuso un comunicato in cui si legge:«Lavoriamo a stretto contatto con i nostri fornitori per garantire che rispettino i nostri standard, e ogni anno svolgiamo una serie di accertamenti per garantire che i nostri soci di produzione si attengano alle nostre politiche aziendali».

Samsung SDI, che fornisce le batterie a Samsung, Apple e a case automobilistiche come BMW, ha detto che la sua indagine in corso «non ha evidenziato la presenza» di cobalto sospetto, nonostante la società usi cobalto del Congo. Samsung, intesa come l’azienda che produce i telefoni, ha inviato al Washington Post un comunicato in cui si dice che la società prende sul serio i problemi legati alla sua catena di approvvigionamento, senza però parlare dei potenziali legami con la Congo DongFang. Stando ad alcuni dati industriali, Samsung compra le batterie per i suoi telefoni, tra gli altri, da Samsung SDI e da ATL. BMW ha ammesso che parte del cobalto delle batterie che ha comprato da Samsung SDI viene dal Congo, ma al Washington Post ha detto che per avere maggiori dettagli dovrebbe chiedere a Samsung SDI. LG Chem, il più grande fornitore mondiale di batterie per auto elettriche, ha detto che dall’anno scorso l’azienda da cui compra i suoi catodi, L&F Material, ha smesso di usare il cobalto del Congo di Huayou, sostenendo che Huayou oggi rifornisca la società con cobalto estratto dall’isola di Nuova Caledonia, nel Pacifico del sud. Come prova, LG Chem ha fornito un “certificato di origine” di una spedizione di cobalto di 212 tonnellate risalente al dicembre del 2015. Due analisti esperti di minerali hanno però detto di essere scettici sul fatto che il fornitore di catodi di LG Chem possa essere in grado di passare dal cobalto del Congo a minerali provenienti dalla Nuova Caledonia, o che perlomeno non possa farlo per molto tempo.

LG Chem consuma più cobalto di quanto venga prodotto in tutta la Nuova Caledonia, stando ad analisti e dati pubblici. L&F Material non ha risposto a ripetute richieste di commenti. Quando il Washington Post ha chiesto a LG Chem «una risposta alle affermazioni secondo cui i numeri non tornerebbero», la società non ha risposto direttamente alla domanda, ma ha sottolineato che controlla regolarmente i suoi certificati di origine. LG Chem gestisce anche uno stabilimento di batterie in Michigan per conto di uno dei suoi clienti più grandi, General Motors, che quest’anno ha in programma di iniziare a vendere la Chevrolet Bolt, un’auto elettrica. LG Chem ha detto che lo stabilimento del Michigan non ha mai ricevuto cobalto congolese. Un altro cliente di LG Chem, Ford Motor, ha detto di aver saputo dalla società che le batterie di Ford non hanno mai contenuto cobalto di Congo DongFang. La maggior parte dei modelli di Tesla usa batterie Panasonic, che compra il cobalto del sudest asiatico e dal Congo, mentre le batterie di ricambio sono invece prodotte da LG Chem. Tesla ha detto al Washington Post di essere certa del fatto che le batterie di LG Chem non contengano cobalto congolese, senza però dire come fa a saperlo. Più di ogni altra casa automobilistica, Tesla ha migliorato la sua reputazione per via dell'”origine etica” di ogni componente dei suoi apprezzati veicoli. «È una cosa che prendiamo molto sul serio», ha detto Kurt Kelty, direttore della tecnologia delle batterie di Tesla, durante una conferenza sulle batterie a Fort Lauderdale, in Florida, a marzo. «E dobbiamo prenderla ancora più sul serio. Per questo manderemo sul posto uno dei nostri dipendenti». A sei mesi di distanza, Tesla ha detto al Washington Post di non avere ancora mandato nessuno in Congo.

Difetti alla nascita e malattie

A Lubumbashi, un altro centro dell’industria mineraria congolese, a circa 290 chilometri da Kolwezi, dei medici hanno iniziato a chiarire il mistero che da tempo sta dietro a una serie di problemi di salute avuti dalle persone del posto. Stando alle loro scoperte il problema è l’industria mineraria. Questi medici dell’università di Lubumbashi sanno già che i minatori e i residenti della zona sono esposti a livelli di metalli molte volte superiori a quelli considerati sicuri. Uno dei loro studi ha scoperto che rispetto al gruppo di controllo usato nel loro esperimento, nelle urine delle persone che vivono nei pressi delle miniere o delle fonderie nel sud del Congo sono state trovate concentrazioni di cobalto 43 volte superiori, oltre che livelli di piombo cinque volte più alti, e livelli di cadmio e uranio quattro volte superiori. Nei bambini i valori erano addirittura più alti di così. Un altro studio, pubblicato precedentemente quest’anno, ha trovato livelli di metalli elevati nei pesci della regione in cui si concentrano le attività minerarie. Uno studio che ha esaminato dei campioni di terra prelevata nella zona ricche di miniere intorno a Lubumbashi ha concluso che l’area «era tra le dieci più inquinate al mondo». Ora i medici stanno lavorando per mettere in relazione i diversi elementi. «Stiamo cercando di collegare le malattie ai metalli», ha detto Eddy Mbuyu, un chimico dell’università. I medici però procedono con cautela. «Il settore minerario ha i soldi, e i soldi significano potere», ha detto Tony Kayembe, un epidemiologo dell’ospedale dell’università. Gli studi attuali si stanno concentrando sui problemi respiratori o alla tiroide. Ma la cosa che preoccupa di più i medici sono i difetti alla nascita. Uno studio pubblicato dai medici dell’università nel 2012 ha trovato prove preliminari che dimostrano come il rischio che un bambino abbia un difetto alla nascita visibile aumenti se suo padre ha lavorato nel settore minerario congolese.

I medici di Lubumbashi hanno anche pubblicato dei rapporti su difetti alla nascita così rari – uno di questi è chiamato “sindrome della sirena” – che gli unici casi conosciuti sono stati riscontrati in Congo, e sempre in bambini nati in regioni ad alta concentrazione di miniere. Per Kayembe lo studio più notevole è quello che si è occupato dei bambini nati con l’oloprosencefalia, una malattia solitamente mortale che causa gravi e particolari deformazioni facciali. È una malattia quasi sconosciuta e molti medici hanno concluso la loro carriera senza mai incontrarne un caso. L’anno scorso, però, i medici di Lubumbashi hanno riscontrato tre casi in tre mesi. «Non è una cosa normale», ha detto Kayembe. Questi studi medici potrebbero aiutare persone del posto come Aimerance Masengo, che ha 15 anni e incolpa se stessa per le malformazioni avute da suo figlio alla nascita, l’anno scorso. Con un filo di voce, poco più alto di un sussurro, Masengo ha ricordato il suo spavento nel vedere suo figlio appena nato. Anche il medico era spaventato – ha raccontato Masengo – e le disse che era impossibile stabilire con certezza quale fosse stato il problema, sottolineando però che il padre lavorava come minatore di cobalto e raccontando a Masengo di aver constatato molti problemi nei figli neonati dei minatori. Masengo e il padre di suo figlio vivevano nel vicino villaggio di Luiswishi, 8mila abitanti. Tutte le persone del villaggio sembravano essere legate all’estrazione artigianale. Negli ultimi tre anni, stando ad attivisti locali, quattro neonati del villaggio sono morti per gravi difetti alla nascita.

L’attesa dei creuseur
Per i minatori come Sidiki Mayamba, che si preoccupa di come riuscire a pagare la farina per la sua famiglia, il problema più grande non è la sicurezza o i rischi per la salute, ma i soldi. Mayamba ha bisogno di lavorare, ma non vuole che suo figlio di due anni, Harold, lo segua in miniera. «Quello dei minatori è un lavoro duro con molti rischi», ha detto Mayamba. «Non posso sperare che mio figlio faccia un lavoro di questo tipo». “Ripulire” la catena di approvvigionamento del cobalto non sarà un compito facile per Huayou Cobalt, nemmeno con il sostegno di una società potente come Apple. Ma Chen, il presidente di Huayou, ha detto che è la cosa giusta da fare, non solo per la sua azienda ma anche per i minatori del Congo. «Alcune società vogliono solo allontanarsi dal problema», ha detto Chen, «ma il problema del Congo persiste. C’è ancora povertà». Il punto sarà capire se gli altri clienti di Huayou, dopo aver comprato per anni cobalto a basso costo senza fare domande, saranno d’aiuto. Pyers, la direttrice che si occupa della responsabilità sociale della catena di approvvigionamento di Apple, ha detto che la società non vuole intraprendere misure che abbiano come obiettivo «dare una bella immagine alla catena di approvvigionamento». «Se scappiamo tutti dalla Repubblica Democratica del Congo la situazione per i congolesi sarebbe devastante», ha detto Pyers, «e noi non contribuiremo a far sì che questo succeda». Dall’anno prossimo Apple tratterà il cobalto come se fosse un minerale da conflitto e chiederà a tutte le raffinerie di cobalto con cui lavora di accettare controlli esterni alla loro catena di approvvigionamento e svolgere valutazioni dei rischi. La mossa di Apple potrebbe avere ripercussioni importanti in tutto il settore delle batterie. I cambiamenti, però, saranno lenti. Per Apple ci sono voluti cinque anni di lavoro per certificare che nella sua catena di approvvigionamento non ci fossero minerali da conflitto, e che venissero prese delle misure a livello legislativo. Nessuno di questi tentativi, tuttavia, cambia il destino dei minatori, come Kandolo Mboma. Quest’estate, alla miniera di Tilwezembe, Mboma stava seduto su un masso, in uno stato che sembrava catatonico: i suoi jeans avevano macchie nere e i suoi piedi penzolavano sopra la terra rossa. I suoi occhi non riuscivano a registrare il passaggio degli altri minatori. «Ha lavorato tutta la notte, senza mangiare», ha raccontato un altro minatore. Mboma, 35 anni e tre figli, stava aspettando che pesassero il cobalto che aveva raccolto. Dopodiché, sperava di essere pagato. Era seduto vicino a una serie di piccole bancarelle che vendevano cibo, dei quadrati di tela robusti ricavati dai sacchi buttati via dai minatori e stesi sopra a dei bastoni. Qui i minatori possono comprare un panino per 100 franchi congolesi, circa 8 centesimi di euro. Con il panino le bancarelle offrono anche un bicchiere d’acqua. «Si mangia a seconda di quanto si guadagna», ha detto Mboma. Per mangiare avrebbe dovuto aspettare.

Fonte: www.washingtonpost.com/graphics/business/batteries/congo-cobalt-mining-for-lithium-ion-...

Peter Whoriskey
22 ottobre 2016
www.ilpost.it/2016/10/22/cobalto-congo/
09/12/2017 14:49
 
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Ugo Mattei: perché non ti fanno più togliere la batteria dallo smartphone (e molto altro)

14/11/2019 18:57
 
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I jihadisti arretrano in Congo: esercito e civili uniti contro l’ISIS

L’esercito regolare congolese ha lanciato un’operazione militare nella provincia del Nord Kivu, contro le milizie dell’Allied Democratic Forces, il gruppo jihadista affiliato allo Stato Islamico dell’Africa Centrale. Il successo di quest’operazione è frutto della collaborazione con la società civile, che sta reagendo per contrastare i gruppi armati e l'ebola.

L’ADF indietreggia
Sokala1 Secteur Grand Nord è il nome della sezione delle FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo), che dal 30 di ottobre è impegnata in un’importante offensiva contro le milizie jihadiste dell’ADF. A circa dieci giorni dall’inizio dell’operazione, il portavoce della stessa, il maggiore Mak Hazukayi, ha confermato l’uccisione di 25 ribelli dell’ADF. Tra i militari, guidati dal Generale Jacques Nduru, si contano sei perdite e circa 20 feriti. L’esercito, inoltre, ha comunicato di aver riconquistato quattro importanti avamposti tra Mayangose e la valle di Mwalika. L’obiettivo è riportare le condizioni minime di sicurezza facendo indietreggiare le truppe dell’ADF, per contenere il più possibile la crisi di ebola, in collaborazione con gli operatori sanitari e il personale della Monusco. Negli ultimi mesi gli scontri tra le FARDC e i jihadisti si sono intensificati, per frequenza e portata. L’avanzata dell’esercito di questi giorni è, senza dubbio, il maggior successo militare ottenuto nei confronti dell’ADF, da quando il gruppo jihadista è stato proclamato wilaya dello Stato Islamico. Nonostante la nascita della provincia dello Stato Islamico dell’Africa Centrale, non sembra esserci stata un’escalation di violenza verso i civili, anzi i jihadisti stanno ripiegando su posizioni difensive. Queste dinamiche rendono ancora meno chiaro quale sia l’effettivo peso dello Stato Islamico nella regione, i cui legami con l’ADF devono ancora essere compresi.

Un barlume di speranza
Tra i 130 gruppi armati attivi oggi nella Repubblica Democratica del Congo, l’ADF è tra quelli meglio strutturati e che hanno maggior controllo del territorio. Fornisce servizi base (assistenza sanitaria, scuole, polizia) agendo come un vero e proprio attore parastatale. Una modalità operativa che ha favorito la crescita del consenso verso il gruppo armato negli ultimi anni, ma i recenti eventi sembrano descrivere delle dinamiche in mutamento. Nelle dichiarazioni successive alle operazioni contro i jihadisti, come riportato da Radio Okapi, il Maggiore Mak Hazukayi, ha speso importanti parole verso la popolazione di Beni, che non solo ha cooperato con i soldati delle FARDC, ma ha anche fornito supporto materiale in termini di rifornimenti alimentari. In particolare si sono spesi in favore delle forze lealiste i movimenti Lutte pour le Changement (Lucha) e Je suis Beni. La nascita di questi movimenti, seppur modesti, è rilevante. Nel Nord Kivu, come in altre aree di crisi, i gruppi armati s’inseriscono dove lo Stato è assente, sostituendolo nell’erogazione dei servizi base di sicurezza, sanità e rifornimento di cibo. Le milizie armate, incluse quelle jihadiste, sono una concretizzazione violenta di un problema, ma non la radice del problema. Per sradicare i membri dell’ADF, arroccati sulla catena del Ruwenzori dal 1995, l’azione militare non è sufficiente, ma è necessario andare a colmare quei vuoti riempiti dai jihadisti.

In quest’ottica, la nascita di movimenti che collaborano con l’esercito regolare, sul lungo termine, potrebbe costituire una delle chiavi di volta della crisi apparentemente senza uscita del Nord Kivu. Contestualmente a quest’offensiva sono stati operati numerosi arresti tra le fila dei ribelli hutu e nel Sud Kivu s’inaspriscono gli scontri tra le diverse comunità. A circa un anno dalla sua elezione, Felix Tshisekedi e il suo governo, su cui pende l’ingombrante figura di Joseph Kabila, stanno producendo il massimo sforzo per porre un freno all'ebola, ma sarà sufficiente? E sono davvero queste le reali motivazioni dell’offensiva militare? Difficile dirlo; ciò che appare evidente sono gli interessi delle industrie del coltan e del rame, spalleggiate da Uganda e Rwanda, poco inclini a favorire un processo di pacificazione della regione. Dopo anni di soprusi da parte dell’esercito, delle milizie armate, dei jihadisti e di fronte alla peggiore crisi di ebola mai verificatasi in un contesto di guerra, una parte della popolazione del Nord Kivu abbozza una reazione, prova a riaccendere la speranza. Le comunità di questa provincia hanno dimostrato una resilienza rara, una capacità adattiva che ha portato alla nascita di milizie o alla loro sconfitta. Schierarsi ancora una volta, oggi, cambierebbe le sorti di uno dei più gravi conflitti del mondo.

Emanuele Oddi
12 novembre 2019
it.insideover.com/guerra/i-jihadisti-arretrano-in-congo-esercito-e-civili-uniti-contro-lisis.html?fbclid=IwAR06ysPhxpsfXFkw39CDPj3fVtINBzCZeXyLjzyjCo5BQq-iPRs...
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