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Gli huthi hanno preso il potere nello Yemen

Ultimo Aggiornamento: 16/03/2024 17:47
29/04/2020 00:55
 
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Yemen, i secessionisti del sud sfidano l’Arabia Saudita

Né il mese sacro del Ramadan, né lo spettro della diffusione di Covid-19, né gli appelli delle Nazioni Unite frenano i conflitti nel mondo arabo: lo Yemen è lì a dimostrarlo. Per fare una tregua, ancor prima di un cessate il fuoco, non bastano due interlocutori: in Yemen ce ne vorrebbero almeno una decina, tale è la frammentazione politico-militare degli attori locali ed esterni. E non c’è solo la guerra contro gli insorti Houthi, sostenuti dall’Iran. Lo scontro fra il governo filo-saudita, riconosciuto dalla comunità internazionale, e i secessionisti del sud, informalmente appoggiati dagli Emirati Arabi Uniti, si è riaperto: i secessionisti hanno proclamato lo stato di emergenza e l’autogoverno ad Aden, controllerebbero il porto, la raffineria nonché la sede della banca centrale. L’Arabia Saudita, a nome della Coalizione che include anche gli Emirati, ha reagito con un fermo comunicato: Riyadh chiede il ritorno agli equilibri pre-dichiarazione e continuerà a sostenere l’accordo tra governo riconosciuto e STC (Consiglio di transizione del Sud), da lei mediato nel 2019. Infatti, con il “quasi governo” degli Houthi nel nord-ovest e ora con l’autogoverno dei secessionisti nel sud-ovest, a restare senza un centro di potere sono proprio, paradossalmente, le istituzioni riconosciute fin qui e sostenute da Riyadh, rilocate ad Aden dopo il golpe degli Houthi a Sanaa (2015).

In più, l’esecutivo degli Houthi e quello dei secessionisti non sono direttamente rivali, rivendicando territori diversi. Non sarebbe dunque clamoroso se essi cercassero forme di coesistenza, o addirittura di convergenza, contro ciò che rimane del governo riconosciuto. Il 25 aprile scorso lo STC ha proclamato l’autogoverno secessionista nella città di Aden, capitale provvisoria del governo riconosciuto, nonché nei territori sud-occidentali controllati dalle milizie a lui affiliate. Una scelta, sostengono i secessionisti, causata dai fallimenti amministrativi del governo nonché dalla mancata applicazione dell’accordo di power sharing siglato con il governo nel novembre 2019 (l’accordo di Riyadh): un documento che lo STC aveva sottoscritto seppur non vi si citasse mai la questione dell’autonomia per il sud. Questo è il terzo passo che i secessionisti meridionali dello Yemen compiono verso l’autogoverno di Aden. Il primo fu la fondazione del Consiglio di Transizione del Sud (maggio 2017), con un “esecutivo” e un’“assemblea parlamentare” basati ad Aden per il futuro Stato del sud. Il secondo passo vide i secessionisti conquistare manu militari l’intera città, espugnando simbolicamente anche il (vuoto) Palazzo Presidenziale (agosto 2019).

Ma ora, a saltare è un’intesa negoziale chiamata “accordo di Riyadh”: ovvero il patto politico-militare che l’Arabia Saudita aveva negoziato in prima persona fra il governo riconosciuto e i secessionisti (agosto-novembre 2019). Un accordo di condivisione del potere, rimasto pressoché lettera morta. Per Riyadh, spegnere il conflitto nel sud yemenita significava unire le forze contro gli Houthi, per poi trattare un cessate il fuoco con gli insorti del nord da una posizione di maggior forza: esattamente ciò che non sta avvenendo. In questo scenario ancora in bilico, quattro dinamiche sono però decifrabili. Innanzitutto, il Presidente ad interim Abd Rabbu Mansour Hadi e le istituzioni legittime sono ormai politicamente marginali. Da sempre Hadi ha scarso seguito popolare e risiede a Riyadh per motivi di sicurezza (e si sta recando spesso negli USA per ragioni di salute). Ciò che resta dell’Esercito Yemenita controlla porzioni sempre più ridotte di territorio. Il governo non è in grado di pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e la fornitura dell’elettricità va a singhiozzo, anche se le proteste scoppiate ad Aden pochi giorni fa, dopo le inondazioni che hanno colpito l’area, erano rivolte anche contro le autorità dello STC, di fatto già le uniche in città.

I sauditi hanno contribuito a indebolire Hadi e il suo governo escludendoli dalla trattativa con gli Houthi, avviata da Riyadh dopo gli attacchi del settembre 2019 alle installazioni di Saudi Aramco. Un Presidente debole è sì più controllabile, ma ciò si sta ritorcendo contro la stessa Arabia Saudita. Il Consiglio di Transizione del Sud non rappresenta l’intero sud dello Yemen e tante aree non vogliono essere governate da Aden: questo è un punto a favore della strategia dell’Arabia Saudita. La leadership politica e militare dello STC è radicata soprattutto nell’area di Aden e nel cosiddetto “sud tribale” che corre lungo l’ex confine tra Yemen del nord e del sud (separati fino al 1990). Non è un caso che i governatori di Lahj, Abyan, Shabwa, Hadhramaut, Al Mahra e Socotra, ovvero la maggioranza delle regioni del sud, abbiano rigettato, con comunicati ufficiali, la dichiarazione di auto-governo proveniente da Aden, denunciando il “colpo di Stato” contro il governo [1]. Solo il governatorato di al Dhalae non si è al momento chiamato fuori. Questi governatori, nominati dal governo, sono in molti casi vicini al partito Islah (Fratelli Musulmani e salafiti) che è pro-unità nazionale, quindi fortemente contrapposto ai secessionisti e inviso anche agli Emirati. Ma in alcuni governatorati, oltre all’ostilità verso la Presidenza di Hadi, la compresenza di milizie dello STC e di Islah ha generato scontri in passato, specie nelle aree ricche di risorse gasifere/petrolifere e infrastrutture per l’export energetico: è il caso soprattutto di Shabwa e dell’Hadhramaut.

Davanti all’ennesimo sfaldamento del fronte anti-Houthi, gli insorti settentrionali possono proseguire l’avanzata nel nord-est yemenita, in al Jawf e soprattutto Mareb, l’ultimo bastione del governo: conquistarlo segnerebbe davvero la vittoria militare per gli Houthi. Sede del quartier generale dell’esercito, il governatorato è rimasto fin qui ai margini della guerra: ricco di petrolio, ospita circa 800mila sfollati interni. Il 24 aprile scorso, Riyadh aveva annunciato il rinnovo, per un mese, della tregua unilaterale iniziata due settimane fa: una tregua che gli Houthi non avevano mai accettato, chiedendo la fine dell’embargo della coalizione a guida saudita. Dall’inizio della (non) tregua, i bombardamenti sauditi sono cresciuti proprio sulle regioni di Mareb e al Jawf (si veda Yemen Data Project), segno che è questo il nuovo epicentro della guerra. Infine, per i rapporti tra Arabia Saudita ed Emirati, la mossa dei secessionisti rappresenta uno scomodo ritorno al passato: i loro proxies sono a un punto di rottura come se l’accordo di Riyadh non fosse mai stato negoziato. La tensione fra alleati potrebbe risalire. Il Ministro degli Esteri emiratino Anwar Gargash ha dichiarato che la “frustrazione” per i ritardi nell’applicazione dell’accordo non giustifica scelte unilaterali da parte dei secessionisti; ma al contempo, egli ha rimandato velenosamente la palla nel campo della “sorella Arabia Saudita”, con “l’assoluta fiducia” che Riyadh manterrà gli impegni presi.

Adesso però gran parte dei militari emiratini è tornata in patria e così gli EAU possono esibire qualche grado di separazione in più rispetto alle decisioni del Consiglio di Transizione del Sud, lasciando tutto il peso della sfida sulle spalle dei sauditi. Tuttavia, come Hadi è di casa a Riyadh, Aydarous Al Zubaidi, il Presidente dello STC, lo è ad Abu Dhabi: difficile pensare che i secessionisti abbiano fatto saltare il tavolo senza l’assenso degli emiratini, dai quali sono stati organizzati, addestrati, equipaggiati e anche stipendiati. Farlo adesso significherebbe contrastare un ipotetico accordo tra Houthi e sauditi che includa questo governo, presieduto da Hadi e con il partito Islah come architrave politica. La dichiarazione di autogoverno proveniente da Aden irrita anche l’Oman, che teme le ambizioni dei filo-emiratini e la propagazione dell’instabilità tra regioni del sud. Muscat deve già confrontarsi con la sgradita presenza militare saudita nella confinante Mahra, sua area di tradizionale influenza. Per l’Arabia Saudita, il contrappasso più grande è non riuscire a concludere una guerra che ormai sa di non poter vincere e, probabilmente, neppure pareggiare. Le ambizioni geopolitiche dell’alleato emiratino sono poi un boccone amaro. Ma ora la palla è davvero nel campo di Riyadh: fino a che punto i sauditi vorranno spingersi e fin dove i secessionisti potranno resistere? Lo Yemen è ormai diventato un insieme di “feudi” (o “militiadoms”), in cui realtà tribali-militari adiacenti per territorio, ma separate per agenda politica, danno vita a micro-poteri autonomi e rivali [2]. Tra questi, il feudo dei sauditi è però geograficamente sempre più piccolo e, adesso, anche senza una capitale.

Note
[1] al-masdaronline.net/national/699
[2] www.ispionline.it/it/pubblicazione/dentro-la-guerra-bloccata-lo-yemen-dei-feudipolitico-milita... www.iss.europa.eu/content/beyond-yemen%E2%80%99s-militiadoms

Eleonora Ardemagni
27 aprile 2020
www.ispionline.it/it/pubblicazione/yemen-i-secessionisti-del-sud-sfidano-larabia-saudi...
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