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USA, ancora fallimenti e chiusure. L'apocalisse dei centri commerciali

Ultimo Aggiornamento: 10/07/2020 00:35
27/11/2017 21:37
 
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In America si chiama «Retail Apocalypse» ed è il fenomeno che sta annientando il commercio al dettaglio, ridisegnando il mercato del consumo e le economie a esso legate. L'apocalisse del commercio al dettaglio USA travolge non solo i grandi marchi ma anche le catene distributive, i luoghi fisici e i centri commerciali. Un mese fa Toys «R» Us, il colosso USA di giocattoli (64mila dipendenti e 1.600 punti vendita) ha dichiarato bancarotta, la più grande nella storia del retail USA dopo quella di Kmart nel 2002. Solo nel 2017 sono oltre venti le grandi catene commerciali USA che hanno presentato istanza di fallimento; tra queste Gymboree Corp, con i suoi 1.200 negozi di abbigliamento per bambini in USA, Canada e Portorico. La crisi non guarda in faccia neppure i simboli del consumismo americano: per esempio Macy's, una delle più antiche catene di distribuzione USA, fondata nel 1858; fu in uno dei suoi magazzini che venne ambientato il film «Miracolo nella 34esima strada», dove il vero Babbo Natale veniva assunto come finto Babbo Natale. Per il 2017 Macy's ha deciso la chiusura di 68 punti vendita (che dovrebbero arrivare a 100 il prossimo anno), il 15 per cento del totale, mettendo in crisi 10mila posti di lavoro (3.900 sono già stati sacrificati nel 2016). Sears Holding (il gigante distributivo americano) ha annunciato la chiusura, dopo Natale, di altri 63 negozi (45 Kmart e 15 Sears), la cessione di asset importanti e accordi con Amazon; nel 2017 la sua quotazione in borsa ha perso oltre il 40 per cento. Tutto questo ha una ricaduta inevitabile sul mercato immobiliare legato al comparto commerciale. Un'analisi di Cushman&Wakefield, una delle più grandi società immobiliari del mondo, prevede la chiusura di 13mila spazi commerciali nel 2018 (da sommare ai quasi 10mila di quest'anno) e la scomparsa di 300 centri commerciali. Le immagini di queste cattedrali del consumismo abbandonate e decadute, sono parte delle nuove configurazioni urbane.

Secondo uno studio Bloomberg/CoStar, nei prossimi anni sarà necessario chiudere oltre il 10 per cento degli spazi retail USA, convertirli per altri usi o rinegoziarli per affitti più bassi. Eppure l'economia americana non va male, la disoccupazione è bassa, la fiducia dei consumatori è tornata a salire ai livelli precedenti la grande crisi del 2009; ci sarebbero tutte le condizioni per un boom del retail. E allora perché i grandi marchi falliscono e i centri commerciali chiudono? Certo la crescita dell'e-commerce ha drenato risorse e consumatori dagli spazi fisici alle piattaforme on-line come Amazon (ma anche AliBaba, Zalando e altre); tuttavia l'e-commerce rappresenta solo il 9 per cento dell'intero mercato USA, quindi non giustifica questa «Apocalisse». Certo, gli stili di vita sono cambiati e la nuove generazioni (che comunque hanno un potere di acquisto minore di quelle precedenti) privilegiano il consumo delle esperienze a quello delle cose. Ma la verità sembra essere un'altra: ciò che sta facendo crollare il commercio al dettaglio USA è il fatto che, negli anni passati, per affrontare la crisi recessiva, i grandi marchi e molte catene distributive si sono «sovraccaricate di debiti» a causa di spericolate operazioni finanziarie di leveraged buyout, affidate a società di Private Equity, che oggi sono i veri controllori del mercato. Secondo uno studio Bloomberg, «questa bolla debitoria scoppierà nei prossimi anni con effetti spaventosi sull'economia americana». Come conferma il giornalista economico David Dayen:«Otto milioni di lavoratori americani potrebbero vedere il loro impiego evaporare, non a causa della sostituzione tecnologica, ma di uno schema finanziario predatore» che arricchirà la solita élite a scapito dell'economia reale. L'ennesima riprova di come la finanza rapace è un pericolo per la libertà economica e per l'impresa.

Giampaolo Rossi
26/11/2017
www.ilgiornale.it/news/politica/usa-ancora-fallimenti-e-chiusure-lapocalisse-dei-centri-1467...
15/03/2018 15:43
 
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Chiude Toys 'R' Us

La famosa catena di negozi di giocattoli Toys 'R' Us chiuderà o venderà tutti i suoi 800 punti di vendita negli Stati Uniti, mettendo a rischio circa 33mila posti di lavoro. Lo scrive il 'Washington Post'.

Bancarotta

L'annuncio arriva sei mesi dopo che la catena di negozi che ha venduto giocattoli per mezzo secolo ai bambini americani ha avviato lo scorso settembre la procedura di bancarotta, sperando di proteggersi dai creditori e di reinvestire nei negozi.

Europa
Ma la mossa non aveva funzionato e già lo scorso gennaio aveva annunciato la chiusura di 182 negozi in tutti gli Stati Uniti. Ora si parla di un numero molto superiore di rivendite e la misura interesserà anche i 100 negozi in Gran Bretagna. La catena possiede negozi anche nel resto di Europa, Canada ed Asia.

15/03/2018
www.adnkronos.com/fatti/esteri/2018/03/15/chiudetoysmilapostirischio_gItJlbjgZUkLrYTNzf7rOJ.html?re...
23/03/2018 01:38
 
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Una settimana dopo la bancarotta muore Charles Lazarus, il fondatore di Toys 'R' Us



È morto all’età di 94 anni il fondatore di Toys 'R' Us, la mega catena di giocattoli che solo una settimana fa ha dichiarato bancarotta. La notizia del decesso di Charles Lazarus è stata confermata dalla società che aveva fondato nel 1948, quando aveva 25 anni, prevedendo il baby-boom del dopoguerra. Era rimasto CEO del gruppo fino al 1994 e attualmente non possedeva più quote nella società. «È stato il papà del business dei giocattoli», ha commentato Michael Goldstein, che ha ereditato il timone del gruppo che non è riuscito a sostenere la concorrenza di grandi magazzini USA come Walmart o Target. La società ha postato un tweet per annunciare la scomparsa del 94enne:“Ci sono stati molti momenti tristi per Toys 'R' Us nelle ultime settimane, ma nessuno è più straziante della notizia odierna sulla morte del nostro amato fondatore, Charles Lazarus. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con la famiglia di Charles e i suoi cari”. Charles Lazarus ha iniziato a vendere mobili per bambini in un negozio a Washington DC subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1957 aprì il suo primo negozio di giocattoli, una sorta di supermercato con un vasto assortimento di articoli.

22/03/2018
www.lastampa.it/2018/03/22/esteri/una-settimana-dopo-la-bancarotta-muore-charles-lazarus-il-fondatore-di-toys-r-us-7D7D3I4kvGng9y1apNGxCJ/pag...
[Modificato da wheaton80 23/03/2018 01:42]
22/09/2018 17:11
 
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«Il liberismo ci seppellirà, torniamo a Keynes». Intervista ad Ilaria Bifarini

Il suo ‘profilo’ pubblico, e quindi la pagina ‘internettiana’ dal titolo “Blog di una bocconiana redenta”, la descrive in maniera perentoria e senza alcuna possibilità di mediazione. Eppure, Ilaria Bifarini aveva costruito negli anni un esemplare Curriculum Vitae da economista preparata e pronta a maturare importanti esperienze professionali, così come realmente ha fatto, sia nel pubblico che nel privato. Licenza liceale classica, laurea col massimo dei voti in Economia alla Bocconi, perfezionamento alla Scuola Italiana per le Organizzazioni Internazionali di Roma e al Corso di Liberalismo presso l’Istituto “Luigi Einaudi” (sempre di Roma), si è infine progressivamente discostata dal suo ‘milieu culturale’ tanto da diventare tra le più feroci critiche del liberismo e delle politiche economiche ad esso correlato. Il suo primo libro “Neoliberismo e manipolazione di massa” (2017) ha avuto un notevole successo ed ora pubblica “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberalismo e migrazioni di massa” (Youcanprint, pagg. 200), che allarga su un fronte anche sociologico e culturale la critica al modello attuale.

Lei scrive:«Le misure imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale ai Paesi del Terzo Mondo sono le stesse oggi riproposte agli Stati dell’Unione Europea»
Esattamente. A seguito della crisi del debito del Terzo Mondo (1982), questi Paesi hanno subito un processo inarrestabile di rimozione dei dazi commerciali, liberalizzazioni, accordi di libero scambio, privatizzazioni e misure di riduzione della spesa pubblica destinata ai già carenti servizi locali. Con decenni di anticipo, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, attraverso i cosiddetti «Piani di aggiustamento strutturale», hanno attuato in Africa ciò che la Troika ha realizzato in Grecia. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti.

Prima ancora delle questioni prettamente economiche, mette però in primo piano le conseguenze e le relazioni tra immigrazione e demografia
È stato previsto che entro il 2.050 la popolazione africana raddoppierà, passando da 1,2 a 2,5 miliardi di abitanti. Nel Continente Nero non si è riusciti a realizzare quel processo di transizione demografica in grado di traghettare Paesi poveri verso uno stadio di sviluppo. L’Africa, al contrario, si trova invischiata nella cosiddetta «trappola maltusiana», un circolo vizioso di esplosione demografica e povertà endemica causato da politiche economiche inadeguate e fallimentari. Per tentare di uscirne si fa ricorso all’emigrazione che, al contrario, non fa altro che aggravare la situazione economica dei Paesi di origine, privati così della forza lavoro più giovane e intraprendente.

Lei collega tutto ciò facendo un lungo viaggio dal colonialismo classico fino alle sue nuove forme. Da ciò che scrive paiono mutate le forme mentre permangono immutate le strategie di fondo di una certa ossessione imperialistica
Il nuovo colonialismo rispecchia l’essenza del modello neoliberista universale. Non sono più gli Stati in quanto tali a esercitare il loro dominio, bensì gli interessi delle multinazionali e della finanza internazionale che specula e si arricchisce sul rimborso del debito, così come da noi.

Ecco perché parla di «finanziarizzazione della disperazione»
Proprio così. Esistono organizzazioni non governative specializzate nel «prestito» all’emigrazione, indicata e propagandata come modello di crescita per i Paesi del Terzo Mondo. Vengono concessi prestiti alle famiglie per far emigrare i propri figli, che a loro volta dovranno poi inviare a casa denaro per rimborsare il debito. Inoltre, esiste un fiorente business dietro tali trasferimenti di denaro (le cosiddette rimesse economiche) cui vengono applicate provvigioni molto elevate dalle società operanti nel settore. Un business assai fiorente che specula sulla miseria umana.

E così scopriamo che l’austerity, termine tanto inviso ai popoli mediterranei (Grecia, Spagna e Italia su tutti), è concetto che oramai appartiene anche alle logiche di politica economica del continente africano
Sì, studi autorevoli fanno risalire l’origine delle politiche neoliberiste, e dunque delle correlate misure di austerity, proprio all’Africa post coloniale. È impressionante come proprio quei Paesi in cui i piani di riduzione del debito hanno avuto maggior successo sono quelli di principale emigrazione. Un esempio è la Nigeria, Paese di provenienza di gran parte degli immigrati che sbarcano nelle nostre coste: qui il debito pubblico è stato abbattuto fino all’attuale 15%, valore tra i più bassi al mondo. Situazione analoga per Eritrea, Gambia, Costa d’Avorio e altri.

Oltre alla corruzione, ad evidenti interessi geopolitici di non poche potenze internazionali, ci spiega quali sono stati gli errori fondamentali e quelli che ancora si continuano a commettere?

In realtà, la corruzione rappresenta una conseguenza piuttosto che una causa della situazione africana. I dittatori e le élite locali non sono altro che rappresentanti e garanti degli interessi economici e finanziari transnazionali. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale utilizzano la questione della corruzione per giustificare i fallimenti delle politiche economiche da essi imposte. Ma è proprio la loro ingerenza e l’applicazione di un modello economico inadeguato che ha impedito e represso ogni possibilità di sviluppo dell’economia e dell’industria locale.

Ad un certo punto cita la storia di Thomas Sankara

Thomas Sankara è uno dei personaggi più importanti della storia dell’Africa. Con straordinaria lucidità e lungimiranza, più di 30 anni fa, aveva smascherato il piano egemonico messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito, lo stesso che oggi opera in Europa e di cui l’Italia è vittima. Ebbe il coraggio di denunciarlo apertamente durante l’assemblea dell’Unione Africana in un discorso memorabile e impressionante per la sua attualità. Pagò il suo coraggio con la vita: venne assassinato da quello che sarà il suo successore, appoggiato dalle potenze internazionali. Dopo la sua morte, il Burkina Faso, che durante la Presidenza di Sankara aveva avviato un percorso di sviluppo dell’economia locale e di miglioramento dei servizi nazionali, seguirà fedelmente il tracciato neoliberista imposto. A oggi è uno dei Paesi più poveri al mondo.

La sua ricetta sembra essere quella che riporta in uno degli ultimi paragrafi:«Più Stato per garantire il Mercato!». Un ritorno al passato?
Sì, un passato ancora recente, quello del “Trentennio glorioso” che, attraverso l’applicazione di politiche keynesiane, ha consentito all’Occidente e persino al Terzo Mondo uno dei periodi più floridi della storia moderna. La stigmatizzazione neoliberista dello Stato come fonte di tutte le inefficienze in nome della deificazione del mercato non trova alcun fondamento scientifico né empirico. È infatti provata l’esistenza di una correlazione positiva tra l’esposizione al commercio estero di una Nazione e la dimensione del suo settore pubblico. Affinché il libero mercato possa funzionare è fondamentale che lo Stato svolga il suo ruolo di tutela dei cittadini più svantaggiati e di redistribuzione della ricchezza per contenere la disuguaglianza, principale fonte di corruzione.

Ritiene le ricette sovraniste, seppur variegate e diverse (Trump, Putin, Le Pen, Salvini), una risposta credibile e soprattutto concreta?
Molte di queste ricette vanno nella direzione giusta. L’attuale modello dell’Unione Europea è quello neoliberista collaudato nei Paesi del Terzo Mondo e le sue politiche di «austerity» attraverso privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica che impoveriscono i cittadini e li privano dello Stato sociale. Lo stesso Fondo Monetario ha affermato in un suo studio interno che le misure di consolidamento del debito («austerity») provocano un aumento del livello di disoccupazione e del tasso di disuguaglianza tra la popolazione. È dunque necessaria e improrogabile un’inversione di rotta. Come insegna il caso africano, la tutela della sovranità e della democrazia degli Stati sono una condizione indispensabile per avviare un nuovo percorso, capace di riportarci alla crescita e al benessere su scala nazionale e mondiale. Occorre però tener conto dei cambiamenti economici e sociali avvenuti rispetto al passato e avere chiaro un modello di sviluppo alternativo a quello fallimentare e ormai arrugginito del neoliberismo. Proporre soluzioni vecchie a scenari nuovi è sempre sbagliato.

Luigi Iannone
17 maggio 18
blog.ilgiornale.it/iannone/2018/05/17/il-liberismo-ci-seppelliratorniamoakeynesintervistaadilariab...
10/07/2020 00:35
 
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La Francia sfida Amazon e nazionalizza 10mila piccoli negozi

Per salvare dalla chiusura le attività commerciali del centro storico della città, la Francia si prepara a nazionalizzare 10.000 piccoli negozi di vicinato e botteghe artigiane. Saranno rilevati gli esercizi in difficoltà finanziaria per poi essere riaffittati a canoni iper-agevolati a chiunque voglia farsene carico garantendo la continuità dell’esercizio. Un vero e proprio intervento pubblico per sostenere il commercio al dettaglio, messo a dura prova dalle chiusure imposte mesi fa dal movimento dei Gilet Gialli, dallo stop imposto alle attività a causa dello scoppio pandemico e dallo tsunami dell’e-commerce. Una volta dato il via libera alla “Caisse des Dépots, l’istituto finanziario pubblico francese affiderà a una serie di società immobiliari, costituite a livello locale, il compito di individuare gli esercizi che necessitano e meritano l’intervento pubblico anti-crac, per poi procedere all’acquisizione con soldi pubblici”. Ad oggi, nel centro risulta sfitto ben il 12% delle vetrine, percentuale che cresce nei paesi più piccoli. Il quotidiano La Repubblica, dal quale riprendiamo la notizia, evidenzia come negli ultimi anni le aperture dei centri commerciali in periferia, l’aumento degli acquisti online in Francia (+ 11,6% nel 2019, oltre quota 100 miliardi) e il fenomeno di Airbnb, abbiano cambiato il panorama delle vendite al dettaglio. Va aggiunto che la misura salva-negozi è in realtà parte di un più ampio ventaglio di interventi da parte dello Stato per sostenere l’economia reale (sospensione di oneri contributivi e aiuti a fondo perduto per gli affitti) e di iniziative promosse dalle varie amministrazioni locali impegnate a frenare il fenomeno di svuotamento del centro. Inoltre, nelle scorse settimane, l’Unione Nazionale dei Commercianti, che rappresenta oltre 450mila punti vendita, ha chiesto al governo di imporre una moratoria di almeno due anni alla costruzione di nuovi magazzini di Amazon e Alibaba.

07 Luglio 2020
www.ilparagone.it/attualita/la-francia-sfida-amazon-e-nazionalizza-10mila-piccoli...
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