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Infallibilitá del Papa come e quando

Ultimo Aggiornamento: 15/02/2011 19:33
15/02/2011 19:25
 
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L'infallibilità del magistero del papa
"Come si può pretendere che degli uomini possano imporre ad altri quello che devono pensare?" (*)

di don Pietro Cantoni



Avete il novo e 'l vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Par. 5, 76-78)

Un fatto di cronaca, la comparsa in un breve arco di tempo di una serie di "manifesti" di protesta ad opera di teologi di tutto il mondo, ha riportato l'attenzione dei cristiani su una componente importante della vita della Chiesa: il magistero. I commenti non hanno sempre colto il nocciolo del problema; se ne è parlato spesso in chiave sociologica, come della lotta fra "dirigenti" e "teorici". I "teorici" preoccupati della verità e dei problemi che suscita la sua ricerca, i "dirigenti" dell'efficienza di un organismo sociale che ha bisogno di compattezza e di sicurezza. Oppure in chiave psicologica: la tensione fra chi ha un morboso bisogno di sicurezza, che solo un'autorità esterna gli può dare e chi invece non si spaventa davanti ai rischi di una piena assunzione della propria responsabilità personale. In realtà il problema è innanzitutto teologico: la posta in gioco è la natura stessa della fede che sta a fondamento della Chiesa ed è solo a partire dalla fede che può essere correttamente impostato. Non si tratta tanto allora di problemi di tensione sociale o di lotta tra sensibilità diverse (anche se c'è certamente anche questo) ma di capire che rapporto c'è tra fede e "magistero".

1. Il clima

Capire una realtà dipende anche dal modo con cui la si guarda, dai sentimenti che suscita in noi, quasi senza accorgercene, il solo fatto di occuparcene. L'uomo non è solo intelligenza, ma anche volontà, affetto e sentimenti. C'è tutta una sfera del nostro io che è pesantemente influenzata dall'ambiente, dal "clima" culturale e che, a sua volta, influenza l'esercizio della nostra intelligenza. Ora è indubbio che una parola come "magistero", che non vuol dire altro che autorità dottrinale, suscita in noi, in quanto immersi in un determinato clima culturale, una eco emotiva sfavorevole. La parola autorità evoca oggi l'idea di limite, di ostacolo alla libertà. Non che si voglia, per lo più, negare questa realtà. Solo che essa, più che accettata e amata come una componente della realtà umana, è piuttosto tollerata, come qualche cosa di cui non si può realmente fare a meno, ma di cui si farebbe a meno volentieri. Essendo la libertà spesso concepita come un puro "poter fare quello che si vuole", come "assenza di limite" e - in questa luce - come un valore assoluto, ecco che l'autorità diventa un valore negativo.

Le cose però cambiano se noi cerchiamo di criticare questa "filosofia circostante", se cerchiamo di sottoporre questi valori al vaglio dei criteri che per un credente dovrebbero essere determinanti. Il primo passo è mettere a nudo i presupposti del "si dice", "si crede", "si pensa", contemporanei, per sottoporli impietosamente al vaglio della fede. Togliere i pre - giudizi dall'ombra compiacente dell'ovvio televisivo e giornalistico, per portarli al centro del tavolo e metterli sotto il riflettore della ragione e della fede. Qui si può scorgere la verità profonda di tre passi della Scrittura:

"Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8, 31-32);

"E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna." (1 Gv 2, 27);

"L'uomo spirituale (...) giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno" (1 Cor 2, 15).

La fede dispone ad un continuo atteggiamento critico ed autenticamente anticonformista nei confronti del "mondo". Ora, la visione delle cose che scaturisce dalla fede ci dà tutto un altro quadro rispetto a quello della "filosofia circostante". L'uomo è uscito dalle mani di Dio. Non si è fatto da sé. Dio lo ha pensato e lo ha voluto. La "verità" dell'uomo consiste dunque nella conformità al progetto che ha presieduto alla sua creazione. Il peccato è scaturito proprio dalla pretesa di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male: "Sarete come dei, conoscitori del bene e del male" (Gn 3, 5). Il bene e il male cioè non lo desumerete più dalle cose e dalla parola di Dio, ma lo deciderete in piena autonomia, "come dei" appunto. E' nella natura dell'uomo (e costituisce la sua "dignità") di essere intelligente e quindi libero, di essere per questo capace di scelte che scaturiscono non da imposizioni esteriori, ma dal profondo del suo io, da quel santuario nascosto che è il suo spirito e la sua coscienza. Ma se l'uomo compie delle scelte non in obbedienza alla verità delle cose (e quindi alla verità di se stesso) - che non dipende da lui, perché non è lui che ha fatto le cose e neppure se stesso - allora fatalmente si snatura, si allontana, dalla sua verità, cioè dal suo essere intelligente e libero e cade nelle tenebre dell'ignoranza e della schiavitù. "Chi fa il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8, 34). Se invece l'uomo compie delle scelte in conformità alla verità delle cose e alla parola di Dio che ne è lo specchio e la sorgente, realizza ciò che deve essere e compie e perfeziona il suo essere libero: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi."! Il fatto di agire in conformità a dei dati, di conformare la propria coscienza ad una legge non è contro la libertà, ma il cammino del suo inveramento e perfezionamento. La coscienza non è legislatrice autonoma, ma piuttosto araldo della legge di Dio e la libertà non è innanzitutto libertà da ma libertà per, per il vero e per il bene oggettivi che non sono un frutto del capriccio dell'uomo ma dell'intelligenza creatrice di Dio e, in definitiva, sono Dio stesso.

2. Credere

La fede è il fondamento della vita del cristiano: "Il giusto vivrà per la sua fede" (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38)1 e la fede è, per ciò stesso, il fondamento della Chiesa. Classica è l'espressione di san Tommaso: "Ecclesia instituta per fidem et fidei sacramenta - La Chiesa è stata fondata per mezzo della fede e dei sacramenti della fede" (Sum. theol. III, q. 64, a. 2, ad 3.). Tutto quello che si fa e si dice e si vive nella Chiesa è fondato sulla fede, si giustifica per la fede e vive della fede. Quando si perde di vista questo dato abbastanza ovvio, si riduce la Chiesa a una realtà umana, ad una struttura burocratica affannosamente protesa a giustificare la propria esistenza agli occhi del mondo.

A questo punto sorge spontanea una domanda: che cos'è la fede? Il concilio Vaticano II ce ne dà una bella definizione: "A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede, con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che rivela"[Vaticano I] e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui" (2). Vediamo subito che la fede è una obbedienza. E' così che ce la descrive san Paolo: "Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato per ottenere l'obbedienza della fede (uJpakoh; pivstew") da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome" (Rm 1, 5; cfr. 16, 26); "Distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo." (2 Cor 10, 5).

Vediamo anche subito che è un'obbedienza di tipo particolare: essa non coinvolge soltanto il nostro agire esterno. E' tutto l'uomo che si deve abbandonare a Dio: non solo nel suo agire e nel suo volere, ma anche nel suo pensare. Credere comporta un "pensarla" in tutto e per tutto come Gesù (3).

3. La "logica" dell'Incarnazione

L'obbedienza, poiché di obbedienza si tratta, è una obbedienza a Dio, non all'uomo. Che c'entra dunque un magistero di uomini?

Per rispondere adeguatamente a questa domanda dobbiamo innanzitutto meditare ancora un passo di san Paolo. Non si può essere "giustificati (cioè essere resi giusti)" senza credere. Credere è fondamentale, ma "Come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati?" (Rm 10, 14-15). Notiamo attentamente la sequenza: la fede dipende dall'annuncio, e questo si capisce benissimo. Nessuno può credere a qualcosa o a qualcuno che non ha mai visto né conosciuto. Tuttavia vediamo anche che non una persona qualsiasi può essere l'annunciatore delle cose della fede, ma solo qualcuno che sia inviato, cioè autorizzato, abilitato. La necessità del mediatore non è soltanto di ordine pratico, ma di ordine più profondo, "ontologico". Potremmo tuttavia chiederci: ma Dio non avrebbe potuto scegliere un'altra modalità per portare gli uomini alla fede? Per esempio rivelandosi a ciascuno di essi direttamente, o abilitando di volta in volta colui che occasionalmente parla ad un altro delle cose di fede... Certamente che sarebbe stato possibile. Ma di fatto non è stato così. La fede viene dall'udito ha ripetuto sempre la tradizione cristiana, basandosi su questo passo della Scrittura, e ciò significa che ci deve essere sempre un annuncio esterno, visibile e sensibile (anche se, naturalmente, non può mancare anche una ispirazione interiore...). E inoltre ci deve essere una missio: Per parlare con autorità delle cose di Dio bisogna essere autorizzati. E scrutando il modo che Dio ha scelto per salvarci, dobbiamo dire che tutto è straordinariamente coerente e profondamente sapiente e corrisponde ad un disegno unitario bellissimo.

Come Dio si è comunicato a noi? Fra i tanti modi possibili ne ha scelto liberamente uno. E' chiaro che lo possiamo conoscere solo perché Dio ce l'ha detto, perché dipende interamente dalla sua libertà (4). Questo modo, fra l'altro, ci è rivelato con particolare chiarezza nell'inno che fa da prologo al Vangelo secondo Giovanni: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il verbo era Dio. [...] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1, 1. 14). Dio ha scelto la via dell'Incarnazione e rivela all'uomo di volerlo salvare così, rivelando al contempo la sua vita intima che è vita di relazioni sussistenti (Padre - Figlio, Spirito del Padre e del Figlio), che comporta una trinità di persone... E' comprensibile che tutto l'agire di Dio sia poi coerente con questa scelta, che sia tutto comandato dalla "logica dell'incarnazione", che è la logica di Dio che si fa "carne", e salva l'uomo attraverso questa "carne".

Non dobbiamo ingannarci sul significato di questa parola "carne". Essa non sta sempre a indicare esattamente quello che noi intendiamo oggi con il vocabolo corrispondente. L'ebraico basár (rc;B;) indica piuttosto tutto l'uomo in quanto però debole ed effimero, in quanto sottoposto alla morte e a tutti i limiti che le sono connessi (5) Non mi sembra inutile osservare che, con tutta probabilità, Gesù ha utilizzato lo stesso vocabolo quando ha istituito l'Eucaristia: "Questo è il mio corpo offerto per voi..." (6).

Non soltanto la mia carne, ma la mia intera persona, in quanto, per la sua umanità, è soggetta ai limiti del dolore e della morte... Così Dio, in Gesù, si presenta all'uomo "nella carne". Ha fame, ha sete, si addormenta in fondo alla barca. Prova compassione e tristezza e scoppia anche a piangere. Vive tutti gli aspetti dell'umanità in modo pieno: sa stare con gli uomini, al punto che è fatto spesso oggetto di invito alle feste e ai banchetti... Vive tutte le componenti dell'umanità concreta, tranne il peccato. Non solo si presenta così, ma salva così. In modo umano, nella "carne" e per mezzo della carne. Credo che non sia neppure superfluo fare un'altra osservazione: componente indispensabile di questa scelta è anche il fatto che la persona di Gesù (e quindi la persona del Verbo, che fa tutt'uno con Dio) abbia una Madre: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna" (Gal 4, 4). La nascita di Gesù poi, essendo avvenuta miracolosamente senza intervento di seme maschile, fa sì che tutta la "carne" di Gesù venga dalla Vergine. Ecco allora profilarsi un legame misterioso ma solidissimo fra Maria e la "carne" di Gesù, fra Maria e la logica dell'Incarnazione. Maria viene così ad essere come la custode discreta della "carne" dell'Incarnazione in tutto il suo sviluppo nella storia.
[Modificato da Heleneadmin 15/02/2011 19:28]
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