Armeni

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LiviaGloria
00martedì 23 gennaio 2007 18:33
Trovo interessante in questi giorni che si parla di strage degli armeni...trovo interessante l omissione ripetuta del nome "cristiani armeni"....perché in veritá fu una strage di CRISTIANI armeni....ma ogniuno ha i suoi morti...ma sintomatico é l omissione ripetuta e sicuramente voluta di "CRISTIANO"....


Giovanni Sale S.I., Lo sterminio degli Armeni durante la prima guerra mondiale: un "genocidio" dimenticato e contestato ©2003, The Vatican Files.net



1. Introduzione

2. Il problema del genocidio

3. Il genocidio, la Chiesa e "La Civiltà Cattolica"

Note


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1. Introduzione



Il recente viaggio di Giovanni Paolo II in Armenia ha riportato ancora una volta in primo piano davanti all’opinione pubblica mondiale il problema degli armeni e dell’Armenia, e in particolare quello dello sterminio di un milione e mezzo di innocenti, perpetrato dal Governo dei Giovani Turchi (1908-18) durante la prima guerra mondiale per motivi ideologici e razziali. Questo, come hanno ricordato il Catholicos e il Papa nella Dichiarazione Congiunta è generalmente considerato come il primo genocidio del XX secolo; purtroppo esso fu per lunghi anni dimenticato, negato o disconosciuto anche da molti Stati civili per motivi eminentemente economici, diplomatici e politici. Soltanto negli ultimi decenni e grazie a nuovi studi storici, condotti con metodo critico e lontani da preoccupazioni di carattere ideologico, il mondo ha potuto conoscere in tutto il suo orrore la verità (storica) su questo «genocidio dimenticato», che fu soltanto il primo di molti altri che, purtroppo, si sarebbero poi consumati nel «secolo miserabile e grande» [1] appena concluso. Per riparare tale «dimenticanza» le maggiori istituzioni pubbliche internazionali (ONU, Parlamento europeo ecc), e anche alcuni Stati occidentali (Francia, Italia, Belgio, Russia, diversi Stati USA, Grecia, Bulgaria ecc.) hanno ritenuto opportuno, come segno morale di riparazione storica, riconoscere pubblicamente e ufficialmente il carattere di «genocidio» allo sterminio degli armeni perpetrato durante la «grande guerra».

Anche il Papa, durante il suo viaggio apostolico, ovunque accompagnato dal Catholicos di tutti gli armeni, è ritornato diverse volte su questo tema. Una prima volta in occasione della visita-pellegrinaggio al mausoleo di Tzizernakaberd (che significa fortezza delle rondini), dove ha pregato - davanti al grande braciere di bronzo dove arde una fiamma in ricordo degli uccisi - dicendo: «Ascolta, o Signore, il lamento che si leva da questo luogo, l’invocazione dei morti dagli abissi del Metz Yeghérn, il grido innocente che implora come il sangue di Abele, come Rachele che piange per i suoi figli perché non sono più». Nella sua preghiera il Papa ha continuato: «Profondamente turbati dalla terribile violenza inflitta al popolo armeno, ci chiediamo con sgomento, come il mondo possa ancora conoscere aberrazioni tanto disumane» [2] . Il giorno successivo, prima della partenza Giovanni Paolo II e Karekin II hanno firmato insieme nell’antica cattedrale di Etchmiadzin - il luogo più sacro e caro agli armeni - una Dichiarazione Comune, dove tra le altre cose si legge: «Lo sterminio di un milione e mezzo di armeni cristiani, ciò che generalmente è considerato il primo genocidio [genocide] del ventesimo secolo e il seguente annichilamento di migliaia [di persone] sotto il precedente regime totalitario, sono tragedie ancora vive nella memoria dell’attuale generazione» [3] . Già precedentemente nella visita che nel settembre 2000 Karekin II fece a Roma per invitare in Papa in Armenia, nel documento congiunto che entrambi firmarono prima di lasciarsi, vi era un esplicito riferimento al genocidio armeno. «Il genocidio degli armeni, che ha dato inizio al secolo, – si legge in quel documento – è stato il prologo degli orrori che sarebbero seguiti».

Non tratteremo qui della storia di questo «genocidio», che sarà oggetto di uno specifico studio, ma dei problemi che esso pone dal punto di vista storico e politico. Nella seconda parte si tratterà della posizione che la nostra rivista assunse su questi fatti. Essa infatti, incoraggiata da Benedetto XV, il Papa della pace, fu una delle poche voci che si alzarono in quegli anni difficili per denunciare il massacro degli armeni e il «colpevole silenzio» delle potenze occidentali – la Francia e l’Inghilterra prima, poi la Germania dopo - sotto lo sguardo non innocente delle quali esso veniva consumato.



2. Il problema del genocidio



Come sappiamo, sono numerose le questioni ancora controverse in sede storica sullo sterminio degli armeni. Noi limitiamo la nostra ricerca al periodo centrale di questa vicenda - sebbene tale eccidio sia continuato fino agli inizi degli anni Venti - , che coincise con l’ascesa al potere nel 1908 dei Giovani Turchi [4] e che si protrasse fino alla fine della prima guerra mondiale. Ci proponiamo, inoltre, di toccare soltanto alcuni punti più scottanti e ancora aperti dal punto su vista storico-interpretativo di questa dolorosa vicenda.

Anzitutto ci chiediamo: quale fu l’incidenza dell’elemento religioso sullo sterminio degli armeni? Qualcuno nel passato ha ritenuto che tale massacro fosse dovuto fondamentalmente a motivi di carattere religioso, dettato dal «fanatismo oscurantista» di entrambe le parti. «Una tale azione – disse il Presidente nel 1926 a un giornalista svizzero che lo intervistava - rifletteva il clima di discriminazione religiosa [nel quale allora si viveva], quello che il nuovo Stato-nazione non può più tollerare». Il massacro degli armeni invece, come dimostrano le fonti a nostra disposizione, fu dovuto a motivi squisitamente politici, dettati dall’ideologia panturca professata dai Giovani Turchi, nonché dal timore che la «nazione» armena, una volta finita la guerra, rivendicasse, attraverso il sostegno delle potenze occidentali, una qualche forma di autonomia all’interno del nuovo Stato che si voleva costruire. Dalle testimonianze che ci sono pervenute sappiamo invece che alcuni turchi di religione musulmana aiutarono armeni (cristiani) a nascondersi o a fuggire, e non furono pochi coloro che, anche a costo della loro vita, si opposero alla politica criminale dell’Ittihad ve Terakki. Un telegramma cifrato spedito dal Ministero dell’Interno il 15 giugno 1915 così ordinava a un governatore di provincia: «Noi abbiamo appreso che alcuni musulmani proteggono gli armeni nella regione dove gli abitanti sono stati deportati verso l’interno. Agendo così contro le decisioni del governo, i musulmani proprietari di una casa nella quale osano accogliere armeni, devono essere impiccati davanti alla loro casa e questa incendiata […]. Gli armeni che cambiano di religione non debbono essere risparmiati» [5] . La lunga convivenza, durata per secoli, tra musulmani e cristiani aveva finito col creare tra queste popolazioni legami di amicizia e di vera solidarietà, che soltanto la nuova ideologia panturca dell’Ittihad, cercava in tutti i modi di spezzare e di cancellare.

Il presidente M. Kemal già all’indomani della «grande guerra», come del resto fecero, e continuano a fare, i suoi successori, si ostinò nel minimizzare quanto avvenne sotto il Governo precedente, pensando in tal modo di difendere «l’onore» della Patria e riaffermarne la sua «laicità» [6] . Questa non ci sembra la strada giusta da seguire per ricostruire la verità storica e rimarginare ferite ancora aperte anche sul fronte dei rapporti tra Stati. Dagli orrori commessi nel secolo appena trascorso abbiamo imparato a nostre spese una lezione che, cioè, il dissociarci dal male che è dentro la nostra storia, aiuta noi stessi e gli altri a costruire la cultura della pace e una società più aperta alla tolleranza e al dialogo tra i popoli: la verità ci fa liberi; la «verità storica» ci libera dai fantasmi del nostro passato e dal senso di colpa che talvolta opprime la coscienza collettiva di un popolo. In quest’ottica va anche compresa la «purificazione della memoria storica» «celebrata» dalla Chiesa cattolica in occasione del grande giubileo del Duemila. Chiedere perdono per gli errori commessi anche da altri, ma di cui portiamo il peso morale, (come anche sapere con umiltà accettare la richiesta di perdono), non è un atto di debolezza ma al contrario di grande forza morale e di civiltà.

Un altro punto controverso riguarda il carattere di «genocidio» da attribuire al massacro degli armeni sotto il governo dei Giovani Turchi. Diciamo subito che negli ultimi anni, seguendo le indicazione delle risoluzioni votate sia dalla Commissione ONU per i Diritti dell’Uomo (1985) sia dal Parlamento Europeo (novembre 2000), alcuni Stati occidentali (tra cui anche l’Italia), hanno riconosciuto in sede pubblica (cioè in Parlamento) il carattere di «genocidio» di quell’evento storico; vi sono però altri Stati, peraltro democratici, che non lo riconoscono. Ci ha molto colpito la dichiarazione che il ministro Shimon Peres, in occasione della sua visita ufficiate ad Ankara nell’aprile di quest’anno, ha rilasciato a un quotidiano turco, secondo cui «quella del popolo armeno è stata una tragedia ma non un genocidio». Le asserzioni degli armeni, che pretendono l’uso dei termini «olocausto» e «genocidio» anche per il loro milione e 500.000 morti, sono, secondo quel premio Nobel per la pace, «senza senso». A questa dichiarazione ha reagito energicamente il prof. Israel Charny, direttore della nuova Encyclopaedia of Genocide, affermando, (in una lettera aperta indirizzata a S. Peres), che con queste dichiarazioni, sebbene non ufficiali, il ministro degli Esteri israeliano si metteva sullo stesso piano dei rivisionisti-negazionisti – coloro cioè che negano o sminuiscono l’Olocausto degli ebrei sotto il nazi-fascismo – e che così facendo egli «è andato contro i limiti morali che nessun ebreo dovrebbe oltrepassare» [7] . Su questo tema I. Charny, nell’enciclopedia da lui diretta, scrive: «Il genocidio armeno si verificò in occasione della rivoluzione turca e della prima guerra mondiale», mentre «l’Olocausto fu il prodotto della rivoluzione nazista e della seconda guerra mondiale». Questa dolorosa «simmetria» non solo ci sembra opportuna ma anche doverosa. Ricordiamo infatti che il carattere di genocidio non dipende da elementi per cosi dire «quantitativi», ma esso è fissato da una Convenzione dei diritti dell’uomo dell’ONU del 1948, secondo la quale, perché un fatto criminoso possa essere definito, sotto il profilo giuridico-internazionale, «genocidio», è necessario che ricorrano contemporaneamente tre requisiti: 1) un elemento materiale (cioè gli atti criminali); 2) un elemento morale (l’intenzione di distruggere una parte o tutto un gruppo sociale); 3) un destinatario particolare (un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso). Ora nello sterminio degli armeni troviamo riuniti tutti e tre questi requisiti, per cui dal punto di vista storico e giuridico - che non sempre coincide con gli interessi della politica - non gli può essere negato il carattere di genocidio.

Tale conclusione non è accolta dagli storici turchi, né dal governo di Ankara, che protesta – talvolta anche con forza - presso gli Stati ogniqualvolta questi ufficialmente dichiarano che il massacro subito dagli armeni durante la «grande guerra» per ordine dei Giovani Turchi è da considerarsi sul piano giuridico-internazionale un genocidio, e che in ogni caso tale questione riguarda non il campo della politica, ma soltanto gli storici.

Ma quali sono gli argomenti che gli studiosi turchi portano a sostegno delle loro tesi e che spesso sono ritenute dai loro colleghi occidentali insufficienti o inficiate di «giustificazionismo»? Esse possono essere sintetizzati in tre punti fondamentali [8]

Innanzitutto si contesta la «quantità» - cioè il numero degli armeni che sarebbero stati massacrati durante la deportazione - ritenuta troppo elevata e quindi appositamente «gonfiata» a fini di propaganda politica; gli storici turchi infatti basano la loro stima su fonti governative, secondo le quali a quel tempo il numero dei sudditi armeni non avrebbe superato la cifra di 1.300.000, mentre le liste conservate presso il patriarcato di Costantinopoli, che era l’autorità preposta alla difesa della «nazione» armena presso la Sublime Porta, recensiscono circa 2.100.000 sudditi armeni. Queste cifre sono ritenute dagli occidentali più attendibili, anche perché sono più specificamente ripartite (per vilayet e città) e quindi più facilmente verificabili.

Si dice, inoltre, che la deportazione fu una misura di sicurezza necessaria, presa sia per proteggere la popolazione armena innocente da eventuali rappresaglie, sia perché questi erano ritenuti dal Governo centrale poco affidabili per la loro propensione filorussa: preoccupazione, peraltro, non totalmente infondata. Tali studiosi ritengono, inoltre, che in ogni caso da parte turca non ci fu nessuna «premeditazione» in ordine ai suddetti massacri, e che questi furono causati dalla generale insicurezza dovuta allo stato di guerra e dalla durezza della deportazione (mezzi di trasporto inadeguati, carestia, malattie varie ecc). Su questo punto la relazione inviata dal Governo turco al Tribunale Permanente dei Popoli, riunitosi a Parigi nel 1984, afferma che «sui 700 mila armeni che furono deportati fino alla fine del 1917, ci furono certo delle perdite. L’intensità delle operazioni militari e le attività di guerriglia che regnava allora nella regione attraversata dai deportati ne furono parzialmente la causa; vi contribuì ugualmente i regolamento di conti che certe tribù cercarono di esercitare al passaggio dei convogli sui loro territori, come anche lo stato di insicurezza generale». Le fonti turche, inoltre, ripetono che molti ottomani, musulmani e non, morirono in quello stesso periodo per fame, malattie e altro, nel numero di 4 0 5 milioni, «così – si dice nella relazione governativa - come tutti i sudditi ottomani, anche gli armeni hanno senza dubbio sofferto duramente la guerra, ma è tragico vedere con quale insensibilità i nazionalisti armeni vogliono attribuire la responsabilità di ciò che è accaduto ad altre cause che non siano le condizioni di anarchia di cui erano vittime tutti i sudditi del sultano» [9] .

L’accusa di premeditazione, invece, riposa su fonti, a parere degli esperti, ben sicure, cioè su telegrammi cifrati (circa 50) inviati dal Ministero dell’Interno alle province ottomane o viceversa, sebbene i turchi ne contestino l’autenticità, ritenendoli «interamente fabbricati» dai rivoluzionari armeni residenti all’estero e dunque inaffidabili «nelle affermazioni che intendono sostenere» [10] . Uno fra i tanti spediti dal ministero dell’interno così interpellava il suo destinatario: «Gli armeni deportati laggiù sono stati liquidati? Datemi le informazioni sui massacri e sugli stermini. Le persone pericolose sono state massacrate o soltanto cacciate dalle città e deportate? Fammelo sapere chiaramente, fratello mio (21 aprile 1915)» [11] .

In ultimo tali studiosi sostengono che il numero di civili turchi uccisi dagli armeni durante l’avanzata dell’esercito russo in territorio ottomano nell’autunno del 1915 fu di gran lunga superiore a quello degli armeni massacrati nella deportazione, che secondo le fonti turche non furono più di 300.000. Per essi, insomma, tale azione di «pulizia etnica», di sterminio programmato e poi freddamente attuato, non fu altro che una semplice operazione di legittima difesa o peggio «un’operazione umanitaria» finita male per motivi semplicemente contingenti. Invece, secondo gran parte degli storici occidentali [12] - e secondo molte istanze politiche istituzionali sia internazionali sia nazionali - la deportazione degli armeni non fu altro che il pretesto per annientare una volta per sempre il popolo armeno e che il genocidio è stato premeditato e spietatamente eseguito dal governo ottomano e dal partito Unione e Progresso in quegli anni al potere. Ma lasciamo lo sviluppo di questo punto - peraltro decisivo per dare un «giudizio storico» equilibrato - a uno studio successivo su questa materia.



3. Il genocidio, la Chiesa e la "Civiltà Cattolica"



Durante l’estate del 1915 erano giunte in Vaticano notizie molto preoccupanti su stragi e deportazioni che si stavano perpetrando a danno dei cristiani ottomani, cattolici compresi, nonostante le garanzie date, e insistentemente ripetute ma non attuate, dal Governo dei Giovani Turchi al delegato apostolico mons. Dolci. Benedetto XV era costantemente informato di ciò che stava accadendo sia dalla stampa dei paesi dell’Intesa, sia dagli ambienti della diplomazia, che si rivolgevano al Pontefice, perché facesse udire la sua voce di condanna per quanto stava accadendo. Ma la sua fonte più certa e diretta era il suo delegato a Costantinopoli, mons. Dolci. Questi nell’agosto di quell’anno scriveva al segretario di Stato, card. P. Gasparri: «Orrori raccapriccianti sono stati commessi da questo Governo contro armeni nell’interno dell’impero. In alcune regioni sono stati massacrati, in altri deportati in luoghi incogniti per morire di fame durante il tragitto […]». La linea che la Santa Sede in quel momento decise di adottare fu quella di condannare apertamente le stragi e le deportazioni di cristiani innocenti, senza far distinzione tra cattolici, ortodossi o protestanti. Nel settembre di quell’anno il Papa, accogliendo l’invito di molti cattolici orientali, inviò una sua lettera al sultano Maometto V, dove gli chiedeva di aver «pietà e intervenire a favore di un popolo, il quale per la religione medesima che professa, è spinto a mantenere fedele sudditanza verso la persona della stessa Maestà Vostra» e ancora di distinguere tra armeni «traditori o colpevoli di altri delitti» perché «siano giudicati e puniti», dagli «innocenti», perché, prosegue il Papa, «non permetta Vostra Maestà che nel castigo siano travolti gl’innocenti e anche su i traviati scenda la Sovrana Sua clemenza». La notizia dell’intervento pontificio ebbe una grande risonanza sulla stampa europea, ed ebbe come conseguenza, un certo riguardo del Governo nel trattare le questioni concernenti i cattolici. Nella risposta che il sultano diede in udienza privata a mons. Dolci, vennero ribadite le tesi ufficiali: il governo si era trovato innanzi ad una congiuntura che rendeva impossibile altra misura che non fosse lo spostamento dei popoli. «Era impossibile alle Nostre Autorità – scrive mons. Dolci - poter fare una distinzione tra l’elemento tranquillo e quello perturbatore», si ammette infatti che l’operazione svolta dai rivoluzionari abbia anche finito per coinvolgere indistintamente tutto il popolo armeno [13] .

Nel concistoro del 6 dicembre 1915, Benedetto XV denunciò davanti al mondo civile «l’estrema rovina» che si era abbattuta contro il popolo armeno. La sua fu una delle poche voci che si alzò a quel tempo in difesa «del popolo armeno gravemente afflitto condotto alla soglia dell’annientamento». La voce del Papa, come avvenne anche successivamente, non fu ascoltata, e la rovina per l’Europa e il mondo fu grande.

Anche La Civiltà Cattolica (come pure l’Osservatore Romano) incoraggiata dal Papa, aveva trattato in diverse occasioni delle stragi perpetrate contro civili armeni da parte delle milizie turche o curde. L’aveva fatto, prima nel 1896, quando la strage fu ordinata dal sultano-califfo Abdul Hamid II, con l’intento di decimare e indebolire le comunità armene nel suo regno, per realizzare il suo progetto panislamico, denunciando in quell’occasione la complice passività delle potenze occidentali che si limitarono esclusivamente a «fare una rivista militare o meglio una mostra teatrale delle loro armi» [14] e nulla più. Tali potenze, infatti, non avevano interesse a indebolire «il grande malato d’Europa», cioè l’impero ottomano, per non avvantaggiare le mire espansionistiche della Russia. Ma la nostra rivista intervenne soprattutto per denunciare le stragi del 1909 (ad Adana) e lo sterminio dell’intero popolo armeno nel 1914-15. Toccante è l’articolo sulla strage di Adana, dove lo scrittore utilizza fonti di prima mano, cioè una sorta, diremo oggi, di reportage inviatogli dai padri del collegio gesuitico della città, dove avevano trovato rifugiati circa 4.000 armeni. Anche in questa occasione la rivista ritenne complice di quelle stragi le potenze occidentali, che pur trovandosi sul posto non intervennero a difendere la popolazione armena minacciata. Furono così trucidati più di 300.000 armeni. A questo proposito La Civiltà Cattolica scrisse: «La civiltà dell’Europa moderna, e più della Francia laica, contempla vigile questi orrori e il loro rinnovarsi quasi periodico; senza turbarsene troppo essa li segue dalle sue corazzate vicine, e vi manda alfine i suoi rappresentanti a prenderne nota e a protestare. […] La barbarie di altri tempi o di altre nazioni, che noi chiamiamo inferiori, non avrebbe conosciuta questa indifferenza di fronte alla ferocia inumana del turco; l’avrebbe o prevenuta o riparata, o almeno vendicato il sangue di tante vittime innocenti. Il mondo può stare contento del progresso e la storia scrivere ancor questa: che a pochi miglia da un rada ove sorgevano corazzate di nazioni civili, da una città dove erano i loro consoli e i loro rappresenti, succedeva per mezzo mese un macello di popolazioni innocenti senza che una mano di uomini risoluti o un passo vigoroso di potenze europee valesse ad impedirlo» [15] .

Allo stesso modo in una lunga cronaca del 1915 la rivista dei gesuiti intervenne per denunciare i massacri e le terribili deportazioni degli armeni indifesi, che si stavano operando dalle «Organizzazioni Speciali», sottoposte al comando del Governo centrale, : «Ora dell’una e dell’altra – scriveva l’autore dell’articolo - noi siamo in grado di confermare, non su notizie incerte o esagerate di giornali, ma su dati precisi» [16] . Ancora una volta La Civiltà Cattolica tira in ballo la responsabilità dei governi occidentali, alcuni alleati della Turchia, incapaci di far cessare il massacro: «solo a strage compita – scriveva l’autore – e costrettovi dall’Europa interviene una qualche tardiva repressione o riparazione che suona quasi un’ironia. Ma esso è pronto di lasciare incominciare da capo alla prima occasione. Ora l’occasione si porgeva di nuovo all’entrata della Turchia in guerra con la Russia nel novembre 1914» [17] . La denuncia che Civiltà Cattolica faceva in ordine ai fatti riportati è chiara e precisa: gli Stati occidentali sono anch’essi responsabili, sebbene indirettamente, del massacro degli armeni, per il semplice fatto che esso è stato perpetrato sotto i loro occhi, in particolare ad Adana nel 1909. Ma nessuno è più cieco di chi - per interesse o convenienza di parte - non vuol vedere.

L’articolo inoltre ci dà una descrizione dettagliata della situazione della Chiesa armena sia ortodossa sia cattolica al tempo della deportazione: da esso sappiamo che la Chiesa, e in particolare il suo clero, ha sofferto l’orrore della persecuzione e sperimentato il coraggio del martirio. Nella recente Dichiarazione congiunta, sottoscritta da Giovanni Paolo II e dal Catholicos Karekin II, di cui abbiamo sopra parlato, si legge: «Questi innocenti massacrati ingiustamente non sono canonizzati, ma molti di essi furono certamente confessori e martiri nel nome di Cristo» [18] .

A conferma di quanto è stato così autorevolmente detto e scritto, ci sembra opportuno riportare qualche episodio descritto nell’articolo, di cui chi scrive, come egli stesso ci avverte, ha notizia diretta [19] . Riguardo ai cattolici, l’autore scrive: «In Armenia molti cattolici legati insieme a fascio vennero da una collina situata rimpetto alla città precipitati nel fiume sottostante. Fra essi fu pure un sacerdote cattolico, D. Emmanuele Giukunian, per maggiore ignominia, legato ad un cane e così gettato nelle acque a morirvi annegato» [20] . E ancora: «I vescovi cattolici vennero tutti deportati, chi qua chi là […]. Anche le religiose furono strappate dalle loro case, alcune morte o ferite, tutte deportate, come quelle di Angora a Konia, quelle di Samsun a Aleppo, ove giunsero dopo tre mesi e mezzo di cammino, così sfinite che due ne morirono, la superiora e un’altra religiosa alle quali erano state fracassate le mascelle. Una era impazzita prima di partire e morì indi a poco; un’altra si era gettata in una cisterna per l’orrore di cadere nelle mani impure dei turchi. Anche le religiose di Sivas, Tocat, Mersifum, Trebisonda perirono tutte di morte violenta o di patimenti sofferti» [21] .

Dall’articolo sappiamo che dopo il primo anno di guerra più di 40 diocesi degli armeni gregoriani furono distrutte e i loro vescovi e sacerdoti uccisi. La stessa sorte toccò alle cinque diocesi di armeni cattolici: anche qui vescovi e clero furono trucidati insieme al loro popolo nella maniera più spaventosa. «Il vescovo di Diarbekin fu bruciato vivo sulla piazza, mentre si faceva orribile carneficina degli armeni, deportati da molte parte, anche da Costantinopoli. Il vescovo di Malatia fu strangolato, fra la strage del suo clero e il ratto delle religiose. Quello di Karput […] in via per Aleppo e non ancora giunto a Urba, si vide sopraggiunto da una masnada di Kurdi, mandatigli sopra, e da essi fucilato col clero, le suore e il popolo che accompagnava: prima di incontrare la morte l’animoso Pastore esortò tutti alla costanza e a tutti diede l’assoluzione sacramentale. Anche di più fece l’arcivescovo di Mardin: imprigionato col clero e col popolo, non solo confortò ognuno al gran passo, con l’esortazione paterna e l’assoluzione, ma consacrato nella carcere stessa il pane eucaristico, communicò tutti per viatico prima della morte. Il vescovo di Musce invece finì involto nella strage generale del popolo e del clero della provincia di Bitlis e di Musce» [22] . Tutti furono vittime della furia omicida dei Giovani Turchi e delle loro «Organizzazioni speciali» omicide, sia la comunità armena gregoriana sia quella cattolica: il problema di fondo, lo ripetiamo ancora, non era religioso, ma soprattutto politico e razziale.

Va sottolineato infine che né il popolo turco né il suo Governo attuale sono responsabili del genocidio armeno. La responsabilità di questo crimine contro l’umanità va attribuita soltanto alle persone che lo hanno realizzato o reso, anche moralmente, possibile; in particolare al Governo che lo ha «ordinato», alle forze politiche che lo hanno sostenuto, ma anche a tutti coloro che con il loro silenzio lo hanno in qualche modo assecondato. Ciò che si chiede è che esso venga universalmente riconosciuto per motivi di pace e soprattutto di giustizia. «Giustizia – ha scritto un intellettuale armeno – anzitutto verso i caduti; verso la coscienza umana che non può approvare o sottacere i crimini per opportunità politiche; verso i superstiti. Esigenza di pace, infine, e di pace anche e soprattutto tra il popolo turco e il popolo armeno» [23] .


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