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LiviaGloria
00sabato 11 marzo 2006 15:54
Maurizio Blondet
05/03/2006
«Tian Tan Buddha» (Lantau Island, Hong Kong), la più alta statua di bronzo del Buddha sedutoQuando era ancora cardinale, Ratzinger disse una cosa che mi colpì per la comprensione profonda, che dimostrava, dello spirito del buddhismo.
A proposito della credenza nelle rinascite (volgarmente reincarnazione) che tanto attrae certi occidentali in «ricerca spirituale», Ratzinger disse pressappoco (cito a memoria): questa dottrina ha un senso positivo nella cultura e spiritualità buddhista, ma è «veleno spirituale» se trasferita da noi.
E' precisamente così.
Per le signore-bene e i calciatori neo-buddhisti, la prospettiva di «reincarnarsi» «à la Bouddha» ha un fascino edonista: è la fantasia «consolante» e speranzosa di tornare a godersela nella vita i qua.
Per i buddhisti, la rinascita è la punizione - o più precisamente la sanzione impersonale e oggettiva - delle nostre azioni bramose ed egocentriche, che ci fanno ricadere nell''esistenza-sofferenza, nel Samsara, il ciclo del vivere, desiderare, odiare e morire che è, radicalmente, «dolore».
La rinascita ha dunque nello spirito di Buddha un senso assai vicino al nostro purgatorio, o anche all'inferno: ogni uomo che non ha ancora abbandonato se stesso, quando muore qui, rinasce in un altro «loka» (mondo) che come questo sarà soggetto a condizioni, forse anche più costrittive di quelle cui è assoggettato il nostro (lo spazio ed il tempo): il che significa riprovare «sete» e fame, paura ed odio, dolore, bisogni, e il peso causante delle circostanze.



La sola mira del buddhista è non rinascere più, evadere nello stato incondizionato, totalmente libero cui - siccome nell'aldiquà non c'è esperienza né intuizione possibile - si può alludere solo con un termine negativo, il nirvana.
Del resto, signore-bene e calciatori si illudono parecchio sulla certezza che Buddha parli di reincarnazione, o anche solo di rinascita.
Egli nega invece la metempsicosi: nega che l'anima o qualcosa di sostanziale trapassi dall'una «vita» all'altra.
Descrive la rinascita come una candela che ne accende un'altra - nulla è passato dall'una all'altra; o come un carro che viene smontato per recuperarne alcune parti, che andranno a far parte di un altro carro.
Nulla di sostanziale passa al nuovo carro, perché non c'è «io» nel buddhismo («io» è appunto l'illusione colma di brama da cui occorre liberarsi), e ancor meno nell'uomo non realizzato.
Né il Buddha autorizza alcun quietismo progressista reincarnazionista.
Se non c'è l'ho fatta in questa vita, pensano le signore-bene, vorrà dire che ci riproverò nell'altra, c'è tempo.
Al contrario, Buddha urge ad approfittare di «questa vita umana così difficile da ottenere»: perché se esistono infiniti stati d'esistenza condizionata e molti sono superiori all'umano (i mondi dei «deva», angelici), «soltanto» dallo stato di uomo si può raggiungere il nirvana.



La condizione dei «deva», che dura enormi eoni, ma non è eterna, e non è assoggettata allo spazio-tempo, ha una sua speciale infelicità: i deva «sono stupidi», dimenticano l'urgenza del salire.
Rinascere negli stati inferiori, simbolicamente rappresentati dagli animali (i «pashu», «gli inceppati», ancora più allacciati di noi nei legacci degli istinti, del sesso, della fame e della paura) equivale a un inferno di sofferenza la cui fine, benchè non sia esclusa perché tutto ciò che è condizionato è passeggero, non è garantita.
Il doloroso privilegio della condizione umana è che si trova nella posizione centrale della manifestazione. Microcosmo, l'uomo è all'intersezione dell'animalità con l'angelo, e del «qui» con l'«ora»: solo da questa condizione - da questa croce - è possibile evadere verso l'incondizionato.
Ogni animale, ogni «deva», ogni essere altro dovrà, per liberarsi, passare alla condizione umana.
E rinascere uomo due volte è tanto possibile - dice Buddha - come per una tartaruga che nuota nell'oceano, infilare la testa in una tavola bucata che naviga in quello stesso oceano, ma chissà dove.
Non si può escludere, ma miliardi di probabilità sono contro di te.



No, Buddha ha poco per compiacere le signore-bene italiane («ma il buddhismo è duro!», s'indignò con me una di loro, cui avevo dato da leggere il «Dhammapada»).
E di più, come ben sa Ratzinger, non si consigliano contaminazioni fra i due sistemi spirituali, perché sono in agguato malintesi terribili per la sorte delle anime.
Basta pensare che Cristo usa la parola «vita» e la esalta («Io sono la vita», «non sono il Dio dei morti, ma dei viventi») in modo che urta frontalmente con tutto ciò che il buddhismo chiama «vita», sinonimo di ciclo di dolore, da cui bisogna assolutamente uscire: e la liberazione buddhista viene chiamata «estinzione».
Si ha un bel dire che Cristo usa la parola in senso eminente, trascendente: è vero, eppure Gesù guarisce malati, fa risorgere Lazzaro; il canto che Cristo ha dato al mondo profondamente simpatizza per la vita così come la viviamo nell'aldiquà.
Come disse Giovanni Paolo II, «per noi (cattolici) esistere è meglio che non esistere», ed è qui la divaricazione radicale dal buddhismo.
Chi parla troppo facilmente di «identità trascendente delle religioni» dovrebbe poi vederle nella pratica.



Ad esempio come, quando lo tsunami falciò migliaia di vite a Sri Lanka, tanti monaci buddhisti osservarono con ostile diffidenza il gran darsi da fare dei cattolici (nell'isola esistono da secoli) per soccorrere i sopravvissuti che avevano perduto tutto, aiutare gli sventurati nelle loro necessità quotidiane e materiali, metterli al lavoro a fabbricar mattoni non tanto per ricostruire ma per sottrarli all'impotenza annichilita; non che i monaci mancassero di buddhista carità (o «compassione»), ma per loro con lo tsunami, i colpiti avevano avuto quel che meritavano nell'immutabile ordine oggettivo del Samsara; dare loro cibo e tetto, o aiutarli a richiedere
i documenti perduti (senza carte e autorizzazioni a Sri Lanka non si può nemmeno pescare) era inchiodarli ancor più alla «vita», a questa illusione; con in più il sospetto che i preti approfittassero per un vile proselitismo.
Un gesuita italiano, vivendo da mezzo secolo sull'isola la pensava come i buddhisti sull'ordine oggettivo che aveva provocato lo tsunami: «la creazione non è finita», spiegava.
Non per questo cessava di aiutare e soccorrere.
Detto questo tuttavia - e si potrebbe dire molto di più - è impossibile non rilevare un fatto: le strane, profonde analogie «storiche» fra Buddha e Cristo.



Vissuto l'indiano sei secoli prima di Cristo, entrambi svolgono un ruolo analogo di riformatori religiosi.
E lo esercitano con modi analoghi.
Né l'uno né l'altro nascono dal nulla, ma crescono all'interno di una fede più antica e consolidata. Gesù contrasta la riduzione dell'ebraismo a formalismi, a ossessioni di purezza rituale.
Forse è meno noto che Buddha lacera la gabbia di formalismo e ritualismo dell'induismo della sua epoca.
Il quale allora ancor più che oggi, consisteva e si esauriva nei riti e nella separazione di casta, ferocemente presidiate da avide torme di bramini.
Il formalismo dei farisei, che «scolano il moscerino» (per non rendersi ritualmente impuri) «e ingollano il cammello» delle mancanze di carità, è il ben noto bersaglio polemico di Gesù.
Il formalismo brahmanico dell'induismo ai tempi di Buddha era ancora più estremo.
Al punto che dobbiamo ad esso un fatto provvidenziale per la cultura: mentre ignoriamo come vocalizzassero greci e latini, il sanscrito è la sola lingua morta di cui conosciamo l'esatta pronuncia.
Difatti, un errore di pronuncia nelle formule rituali rendeva nullo il rito, e obbligava a ripeterlo da capo; sicché i brahmani scrissero manuali giunti fino a noi, dove la vocalizzazione di ogni lettera è descritta.
La distinzione delle consonanti in dentali, labiali, esplosive, ecc., per esempio (la base della glottologia anche moderna) è già in quei manuali.



Analogo era il potere, occhiutamente difeso, delle corporazioni sacerdotali che gestivano i riti.
Ai tempi di Buddha, l'induismo era infinitamente più politeista di oggi; tutto un pullulare di dei, a milioni, da placare e ingraziarsi per ogni circostanza della vita - il che significava offerte ricche ai templi, e un gran numero di mercanti in essi, fornitori di animali e vegetali da «offrire»: ancora oggi, chi voglia avere un'idea dell'avido mercato del tempio di Gerusalemme che suscitò l'ira
di Gesù, può visitare il tempio di Kalì a Calcutta (lo stesso nel cui angolo esterno è ricavato il primo rifugio del morenti di Madre Teresa): dovunque sangue di capretti uccisi, animali in vendita, pentole fumanti di cibo «sacro» per i poveri e i devoti, e sacerdoti che esigono soldi e pedaggi.
Anche per questo, credo, il principe Siddharta Gautama negò tutti gli dei, e ne negò il culto.
Sistema «ateo» dicono i cristiani del buddhismo: nella temperie culturale che Buddha voleva contrastare, l'ateismo assume un senso profondamente purificatore.
Se la Realtà Suprema che egli chiamò Nirvana sia davvero «il nulla», è impossibile dire.
Certo era la sua Realtà Suprema.
E' dunque Dio, il Nirvana?
Buddha avrebbe rifiutato questa domanda.
Se lo è, non è un Dio da adorare, ma in cui entrare.
Non rispose a domande: se nel Nirvana si sarà coscienti o incoscienti, perché l'urgenza non è speculare «sul» Nirvana ma entrare nel Nirvana.



Religioni arcaiche come l'ebraismo e l'induismo non si pongono il problema della teologia, né della credenza ortodossa.
Ai brahmani (come ai leviti) bastava che chi era nato nell'ebraismo (o in una casta) praticasse i riti, poi poteva pensare quel che voleva su Dio.
Perciò ai tempi di Gesù, pullulavano scuole e sette dottrinarie diversissime e contrastanti, in forme di fondamentalismo estremo.
Sappiamo che Buddha polemizzò con scuole altrettanto pullulanti: si oppose a certi quietisti che ritenevano non doversi fare nulla perché la liberazione sarebbe comunque arrivata alla fine degli eoni; si oppose agli eccessi fakiristici assai diffusi, austerità e mutilazioni atroci comprese; e naturalmente, agli orgiasmi e agli erotismi anch'essi proliferanti attorno ai santuari shivaiti, col culto del fallo e della yoni, e le prostitute sacre.
Dovette affrontare dispute filosofiche con gli esponenti di questi gruppi: ecco un motivo per cui si rifiutò di speculare sul Nirvana e la sua natura.



Gesù anche polemizzò con parole, e ancor più nei fatti: gli Esseni si tenevano separati persino dai farisei, considerandoli non abbastanza puri e perciò contaminanti; Gesù andava a pranzo con «peccatori e prostitute».
Altri digiunavano con rigore formalistico, e gli domandavano perché i suoi discepoli non digiunassero; o non si lavassero le mani prima di mangiare; o non osservasse, lui e loro, il sabato.
Buddha contrastò sette indù materialiste, veramente atee.
Propose la sua via come una via «soave», contro le austerità dei fachiri, che aveva provato e trovato inutili.
Anche Gesù diceva che il suo giogo era soave, e smascherò come ipocriti i rigorismi farisaici; per gli Esseni, ossessionati dai lavacri e dalle abluzioni, sarebbe stato addirittura un impuro da segregare o lapidare, per le compagnie che frequentava (eppure c'è chi insiste a dire che Gesù era un esseno).



Va notata un'altra analogia.
Quella realtà incondizionata di Buddha, quel «Nulla» in cui bisogna entrare, benchè inaudita nei termini, era in realtà un ritorno all'origine dell'Induismo.
Dietro il pullulare delle divinità, restava l'idea originaria della «fusione» con lo status divino impersonale (il neutro Brahman), era questo il fuoco che animava il Vedanta della «non-dualità» (adwaita), e le mistiche Upanishad: il mite spegnersi dell'io dell'asceta nel «Questo» dell'indicibile trascendenza.
«Tu sei questo», «ta tatvam asi», è il motto centrale dell'induismo.
E il grido: «neti, neti».
Non è questo né questo: andare oltre tutto ciò che si può dire «questo», trascendere tutto.
Parimenti Gesù: non è il rito che salva ma l'adesione interiore al bene, l'umile porsi nelle mani del Padre.
Non la forma, ma la sostanza dell'ebraismo, la sua «origine», spogliata di tutte le aggiunte della casta sacerdotale e dell'elaborazione giuridico formale pre-talmudica, era ciò a cui chiamava. Il ritorno alla coscienza, alla verità interiormente vissuta: che questo fosse il senso vero dell'Alleanza era tanto evidente, che i Farisei, ribollendo di rabbia, non sapevano cosa rispondere
a Gesù.



Ma se la via di Buddha era - in una formulazione nuova e polemica - la dottrina stessa del Vedanta «adwaita», perché la casta bramanica la rigettò?
I brahmani riconoscono sei «filosofie» («darshanas») ortodosse - chi le pratica resta induista - e il Vedanta è una di queste, la superiore.
Invece, sancirono che il buddhismo era un «darshan eterodosso».
Eretico.
E per quale motivo?
Un motivo per nulla spirituale: perché Buddha rifiutò (e abolì) le caste.
Anche per lui non ci sono più «impuri» e «inferiori» se avviati sul suo sentiero.
Ora, l'ordine tripartito (o quadripartito) della società umana, radicato nell'arcaica culyura indo-aria, corrisponde a una profonda intuizione della natura umana e dei suoi limiti; anche Platone divide gli uomini in concupiscibili, irascibili, pneumatici secondo la prevalenza della loro pulsione dominante (per gli indù si tratta di tre fili di cui è tessuto l'uomo: il nero-concupiscenza domina
nei sudras, il rosso-passione negli kshatryia, il bianco-ascendente nei bramani; le caste sono infatti dette «colori», varna, e non in senso razziale).
Ma l'organizzazione delle caste, ferreamente basata sull'idea di impurità, era una cosa ben diversa: era la base del dominio dei brahmani sulla società.
Su altre «eresie» di Gautama potevano transigere; su quella no.
Così, i farisei condannarono Gesù non per l'essenziale, ma perché aveva «parlato contro il Tempio», il centro del loro potere anche finanziario.



Eppure, anche l'induismo sapeva che la divisione in caste non vale più su un piano superiore: colui che abbandona la vita per andare a meditare, nudo asceta, nella foresta o sui monti, a qualunque casta abbia appartenuto, diventa «attivarna», «sopra le caste».
Il Buddhismo era un monachesimo, i suoi monaci e asceti erano per questo stesso «attivarna». Evidentemente, era in gioco il potere.
C'è analogia anche nel destino ulteriore delle due vie.
La via di Cristo, rifiutata dagli ebrei cui era da prima destinata, si è sparsa fra «le genti».
Così il buddhismo è vasto nell'Asia, ma non esiste più in India dove nacque.
Non fu così sempre.
Nel terzo secolo praticamente tutta l'India era buddista; il re Ashoka lasciò testimonianza della sua conversione.
L'induismo, ridotto a pochi presidi attorno a santuari marginali.
Come in Europa il politeismo nelle ridotte dei villaggi, pagi, divenuto ormai «paganesimo».
Ma poi, a poco a poco, l'induismo ha riconquistato l'India.
Non l'ha fatto con la spada e col sangue, ma al suo modo avvolgente e «materno»: adottando nella sua visione dosi massicce di buddhismo, fino a stingere - agli occhi del popolino devoto - la differenza.



La via di Buddha d'altronde era un monachesimo; alla gente comune, la casta brahmanica offrì templi che pullulavano di celebri sculture erotiche (all'esterno soltanto: e solo nel periodo della necessaria riscossa).
L'induismo d'oggi - o meglio di ieri, quello che videro gli inglesi colonizzatori - aveva spiritualità e puritanesimo di sapore buddhista.
Ma le caste erano tornate ad esercitare la loro presa di ferro, e il culto di Kali, l'orgiasmo tantrico (oggi domina un induismo peggiore: identitario e «nazionale», xenofobo, aggressivo come l'induismo non è stato mai).
Voglio citare un'ultima, ma cruciale analogia.
Sia Gesù sia Buddha, che hanno recuperato l'«origine» della loro rispettiva religione storica, spogliandola di tutte le superfetazioni che ostacolano la salvezza, non appartennero a caste sacerdotali.
Cristo discendeva da Davide, stirpe di re, ossia guerriera: Buddha non era bramano, ma principe, kshatrya.
Entrambi figli della seconda casta: forse perché la qualità necessaria a tali riformatori è il coraggio combattivo?
Non intendo qui assolutamente confondere e sfumare le differenze radicali.
Del resto Buddha stesso raccomandò - sia detto a suo onore – «non divinizzatemi».



Una differenza radicale ci viene da Cristo, e la esemplifica Jack Miles nella prefazione di un suo acuto libro su Gesù e sulla «crisi» che rappresenta nell'Alleanza (1).
Un artista giapponese gli racconta che, da bambino, inorridì di fronte all'immagine del crocifisso, il cadavere appeso alla croce.
«Se Gesù era buono, perché ha fatto quella morte? I buoni finiscono la vita con una bella morte, anzi meravigliosa, come Buddha. Uno che muore in un modo così spaventoso non può essere che un criminale».
E' vero, ed ogni cristiano dovrebbe recuperare l'orrore del giapponese: i criminali, quelli che dovevano morire così orrendamente, siamo noi.
Cristo è morto così per i nostri peccati, «al posto nostro».
Buddha, dicono, aspetta sulla soglia del Nirvana e non vi entrerà finché l'ultimo filo d'erba non vi sia entrato, e in questa attesa è venerato come «avalokiteshvara», «signore della compassione». Ma è una cosa diversa. Con diverse conseguenze anche nella vita.



Fra l'altro, questa.
Per noi, un uomo condannato da giudici e tribunali può essere innocente.
O assolto a nostra insaputa da un Giudice che supera tutti.
Un cristiano anche tiepido non corre alla conclusione del giapponese: se l'hanno messo in croce, è un criminale.
Noi al contrario davanti a un criminale suppliziato, abbiamo il dubbio: e se fosse Cristo?
O dovremmo averlo.
E' questo l'apice della nostra «civiltà occidentale».
Ma infine - poi smetto - mi piacerebbe almeno accennare a una più sfuggente somiglianza, e più radicale.
Questa: non sono convinto che la nostra religione possa dirsi un «monoteismo», nello stesso senso biblico o coranico.
Il nostro Dio (che è trino nella Sua intimità d'amore) non è uno, ma l'Uno, di fronte a cui non c'è pluralità.
Dirlo «Tu» è un'approssimazione umana, perché Egli è più intimo a noi di noi stessi come dice Agostino o, come rudemente dice Maometto, «più vicino a te della tua vena iugulare».
Quell'Uno ci è dentro, «è» noi per suo deliberato amore, ma noi non siamo Lui: non c'è panteismo, non è Dio a coincidere col mondo, ma il mondo ad essere in Dio.
In una relazione ineguale.
E' questo vicino al Vedanta non-duale, più che a Jahwe?
All'indicibile Nirvana, che per Buddha è lo stesso Samsara visto da chi, liberato, «non trema più»? Non sarei mai capace di scrivere su questo.
Ma mi piacerebbe.

Maurizio Blondet



Ghergon
00domenica 12 marzo 2006 14:10
Livia
Bell'articolo. Un' esposizione molto lucida.
Non posso che concordare con l'autore e condividere pienamente quello che ha detto Papa Ratzinger.
area7
00domenica 12 marzo 2006 14:57
wesak
................................................................................il buddha si è seduto fuori il nirvana e dice che vi entrerà dopo che sarà entrata l'ultima creatura....................
LiviaGloria
00domenica 12 marzo 2006 15:49
area
Mi spieghi in parole semplici per una come me che non sa molto ,cosa vuole dire quella frase?
area7
00domenica 12 marzo 2006 18:08
.................
i buddhisti dicono che alle porte del nirvana si è soffermato a guardare il mondo e ,vista tanta ignoranza e sofferenza , si è seduto qui ad attendere tutti e ,x testimoniare che ci attende , il giorno della Wesak (ogni anno) si fa vedere .....La storia è pressapoco così
area7
00domenica 12 marzo 2006 18:21
..............................
diciano che i buddhisti vedono buddha , i cristiani vedono Cristo , i devoti Krishna.............La wesak dovrebbe essere fine aprile-primi di maggio
LiviaGloria
00domenica 12 marzo 2006 18:36
area
Tu credi a quello che si dice di quella festa?
area7
00domenica 12 marzo 2006 22:52
...........................
amo tutte le feste sia delle streghe , che politiche , che divine ...Sono sempre gli uomini con i timbri nel cuore a dargli significati e importanze
LiviaGloria
00lunedì 13 marzo 2006 11:27
area
Allora tu non credi esistano delle forze da parte del male?
LiviaGloria
00martedì 14 marzo 2006 18:02
Corrispondenza romana n. 912 - 10 settembre 2005



TURCHIA: il Nunzio a Istanbul denuncia la mancanza di libertà religiosa

(Corrispondenza romana) Secondo il Nunzio apostolico a Istanbul, monsignor Edmond Farhat, in Turchia la libertà religiosa non esiste. "In Turchia, Paese che si definisce una democrazia laica, la libertà religiosa esiste solo sulla carta. Viene sancita dalla Costituzione, ma nei fatti non viene applicata", ha detto Monsignor Farhat, secondo quanto riferito all'agenzia "Zenit" (1 settembre 2005) dal vaticanista della "Stampa" Marco Tosatti.

"Mancanze nell'applicazione delle leggi a tutela dell'esercizio delle altre religioni, processi che durano decenni, strani ritardi e rinvii a ripetizione, reticenze e resistenze fanno pensare ad una strategia per non consentire ai cristiani la stessa libertà di cui le religioni non cristiane godono in Europa", ha continuato monsignor Farhat.

"In Turchia c'è una cristianofobia istituzionale non molto dissimile da quella esistente in altri Paesi musulmani", ha affermato il Nunzio apostolico ad Istanbul, spiegando che "dal 1967 non riusciamo a farci riconoscere il diritto di passaggio per accedere ad una chiesa ad Adana dopo che la stessa chiesa è stata operante, grazie a quel passaggio, per più di 150 anni. Il diritto c'è ma non viene riconosciuto. La stessa cosa ci accade per quella che per 130 anni è stata la sede della rappresentanza diplomatica del Vaticano a Istanbul, dove due Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II, hanno alloggiato - ha aggiunto -. Nonostante diritti maturati in 150 anni, non riusciamo a fare riconoscere lo status diplomatico di quell'edificio. Non si dà risposta. È questa la prassi turca".

Stessi problemi per il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni in Turchia, richiesto già dal 1970: nel 2003 tutte le Chiese cristiane hanno chiesto unitariamente allo Stato turco questo riconoscimento; nel 2004 lo ha fatto anche la Conferenza episcopale dei Vescovi cattolici. Monsignor Farhat si è incontrato con il Premier Erdogan. Successivamente, nel febbraio scorso, gli ha scritto anche una lettera ufficiale, senza ottenere finora alcuna risposta.

Le fonti storiche sono concordi nel sostenere che la Cilicia, l'Anatolia, erano zone dove fino a novant'anni fa la presenza cristiana era altissima. Nel 1927, secondo il censimento di quell'anno, in Turchia vivevano 900 mila cristiani su una popolazione di circa 13 milioni. Mentre, secondo il censimento del 2001 i cristiani erano scesi a 150 mila su una popolazione di 71 milioni.

Per dare un'idea di quanto la libertà di espressione e di parola siano diritti non ancora acquisiti in Turchia, Tosatti ha raccontato la storia di Ragip Zarakolu, un editore turco che non ha potuto partecipare a un convegno, tenutosi nel giugno scorso a Milano, perché, per aver pubblicato nel suo Paese traduzioni di libri normalmente in commercio altrove, su di lui ci sono adesso quattro processi in corso.

Per aver osato raccontare quanto accaduto nel 1915 agli armeni, che furono quasi sterminati dal governo turco - fatto ormai riconosciuto dagli stessi storici turchi -, Ragi Zarakolu, ha subito censura, boicottaggio, mentre una autrice, Ayse Nur, è stata condannata a due anni di prigione. La sua casa editrice è stata sottoposta a pressioni giuridiche ed economiche, le società di distribuzione sono riluttanti e nessuno recensisce libri sugli armeni, varie conferenze di presentazione sono state annullate dalle Università.

Secondo la rivista della Compagnia di Gesù "La Civiltà Cattolica" (quaderno 3712, 19 febbraio 2005), i Giovani Turchi trucidarono 1.200.000 armeni. Tra i tanti cristiani che non rinnegarono la fede oltre al beato Maloyan, vi fu anche Mikael Khatchadourian, Vescovo di Malatya, il quale venne strangolato con la catena della sua croce pettorale

Corrispondenza romana n. 912 - 10 settembre 2005







TURCHIA: il governo continua a negare il genocidio degli armeni

(Corrispondenza romana) Per Marco Tosatti (cfr. CR 912/01) "il genocidio degli armeni del 1915 è stato il primo, gigantesco passo nell'erosione della presenza cristiana a oriente di Costantinopoli. Un'erosione che purtroppo continua; anzi sembra accelerare il suo ritmo". Il 24 aprile del 1915 si è consumata in Turchia quella che è stata chiamata "l'Auschwitz degli armeni".

I Giovani Turchi, un movimento ultranazionalista laico, a cui per un certo tempo appartenne anche Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, per motivi etnici e religiosi sterminò gli armeni cristiani. Le vittime sono calcolate tra le ottocentomila e un milione e duecentomila. Con lo slogan la "Turchia ai turchi", i greci vennero espulsi, gli assiri cancellati e i curdi perseguitati.

Per ricostruire la memoria di quello che fu il primo genocidio del XX secolo è stato pubblicato recentemente un volume dal titolo: Mussa Dagh, gli eroi traditi (Guerini e Associati, Milano, 2005, pp.154, ¤ 14,00). Gli autori, il vaticanista del quotidiano "La Stampa" Marco Tosatti, e la scrittrice Flavia Amabile, ricostruiscono la storia dei cinquemila armeni che nei villaggi del Mussa Dagh si ribellarono all'ordine di deportazione nel deserto di Deir-es-Zor, dove sarebbero andati incontro a morte certa.

Questi armeni decisero piuttosto di sostenere un assedio su quella montagna, a nord del Libano, vicino Antiochia, resistendo per quarantacinque giorni, finché la nave francese "Guichen" non avvistò la loro bandiera, bianca e con una grande croce rossa al centro, e li pose in salvo. Furono circa quattromila le persone scampate allo sterminio. La loro vicenda venne immortalata nelle pagine del romanzo dell'ebreo austriaco Franz Werfel, dal titolo I quaranta giorni del Mussa Dagh.

I due autori sono quindi partiti da lì ed hanno tentato, attraverso ricerche condotte in Francia, negli Stati Uniti ed in Libano, e attraverso testimonianze personali e documenti, di raccontare la storia di questi "eroi traditi" che mai fecero ritorno nella loro terra.

Nell'introduzione al libro Marco Tosatti e Flavia Amabile, ricordano che Giovanni Paolo II per due volte nel 2000 e 2001 ha parlato del "genocidio" degli armeni in documenti ufficiali. Nell'ottobre del 2001, lo stesso Pontefice beatificò l'Arcivescovo armeno cattolico di Mardin, Ignazio Maloyan, in quanto martire in odium fidei.

Nelle memorie dei testimoni si narra che un certo Mamdouh chiese una volta all'Arcivescovo: "Non vuoi proclamarti musulmano?", al che Maloyan rispose: "È strano che tu ripeta la domanda. Ti ho risposto più di una volta che io vivo e che io muoio per la mia religione, che è la vera e che mi glorifico nella Croce del mio dolce Salvatore". Il turco Mamdouh sfoderò allora la pistola e sparò al martire che morì dicendo: "Mio Dio abbi pietà di me. Nelle tue mani rimetto il mio spirito". In quella stessa occasione vennero uccisi altri 417 prigionieri, tra cui sacerdoti, armeni, siriani, caldei e protestanti.

Marco Tosatti ha detto a "Zenit" (1 settembre 2005) che il genocidio armeno è "un orrore volutamente nascosto per molti anni" e il governo di Ankara è protagonista di "una sistematica campagna negazionista, nel Paese e all'estero". Per Tosatti, "la componente anti-cristiana del genocidio ha giocato un ruolo determinante, fino a coinvolgere nella morte anche chi armeno non era, ma ne condivideva la fede in Cristo: siriaci, greci e altre minoranze religiose". Tosatti sostiene che il genocidio armeno è di grande attualità, perché adesso è in gioco la libertà di quanti vivono in Turchia
LiviaGloria
00martedì 14 marzo 2006 20:14
ISLAM: come si passa il Natale in Arabia Saudita



In un suo resoconto giornalistico, il quotidiano "Avvenire" (27 dicembre 2005) ha descritto come i cristiani passano il Natale nel Paese islamico dell'Arabia Saudita.
Mentre da noi cattolici compiacenti si preoccupano di abolire canti natalizi o presepi nelle scuole e nei luoghi di lavoro per non urtare la sensibilità musulmana, nella "terra del profeta" ogni manifestazione di festa cristiana è rigorosamente vietata, anche in privato.

Vietato celebrare funzioni natalizie; vietati la produzione, il commercio e la consegna di pacchi che contengano segni cristiani o anche solo la scritta di "Buon Natale"; vietato esporre o anche solo tenere alberi, candele e altri addobbi natalizi; vietato lo scambiarsi auguri, anche per telefono.
A mantenere questi divieti e a punire i trasgressori ci pensano, a livello ufficiale, la polizia statale, ma anche e soprattutto, a livello ufficioso, la polizia religiosa, ossia i temibili mutawa'in, che hanno cura di segnalare, sul loro sito internet, un lungo elenco degli oggetti cristiani vietati. Nel dicembre di ogni anno, il ministero degli Interni saudita ammonisce i cristiani a non festeggiare il Natale, e invita i fedeli di Allah a denunciare i temerari che disobbediscono al divieto.

Due anni fa, la polizia religiosa ha fatto irruzione a Yambu, in una scuola privata per bambini occidentali di lingua inglese, per impedire una festa natalizia. Per i musulmani, il "profeta Gesù" ha valore solo in quanto viene citato nel Corano, ma non ha nulla a che fare col Cristianesimo; i Vangeli non hanno alcun valore religioso, anzi sono una falsificazione operata dai cristiani per giustificare le loro Chiese; perché mai quindi celebrare una falsa natività? Del resto, in Arabia Saudita è vietato perfino celebrare la nascita di Maometto, in quanto ciò è ritenuto un abuso ingiustamente tollerato in altri Paesi islamici.

Così, i 600.000 cristiani del Paese sono costretti a commemorare il Natale nel segreto delle loro case, dopo aver chiuso le finestre e aver creato un'atmosfera da coprifuoco, stando ben attenti alle spie e rischiando la prigione. La Santa Messa può essere celebrata solo a Riad, nelle sedi di alcune Ambasciate di Paesi occidentali, da sacerdoti che vengono fatti passare per funzionari diplomatici.

Corrispondenza romana n. 928 - 7 gennaio 2006





ISLAM: una lettera del beato Charles de Foucauld



All'indomani della beatificazione del padre Charles de Foucauld, è stato reso noto il testo integrale di una lettera da lui scritta all'amico René Bazin, letterato ed Accademico di Francia, che poi diverrà il suo primo biografo. In questa lettera, datata 29 luglio 1916, l'apostolo dell'Africa musulmana risponde alla domanda se i maomettani provenienti dalle colonie francesi potranno integrarsi nella Repubblica francese. In questo periodo di rivolte islamiche nelle periferie francesi, la tesi di Foucauld è di notevole interesse; quello che egli dice sulla Francia può valere anche per le altre nazioni europee.
"I musulmani possono diventare veramente francesi? In via eccezionale, sì; ma in maniera generale, no", afferma Foucauld, e spiega: "molti dogmi fondamentali della religione islamica vi si oppongono. Con alcuni di questi vi possono essere degli accomodamenti; ma con uno, quello del mahdì, non c'è spazio di mediazione.

Ogni musulmano crede che, all'arrivo del giudizio finale, arriverà il mahdì che dichiarerà la guerra santa e stabilirà l'Islam su tutta la Terra, dopo aver sterminato o sottomesso tutti i non-musulmani. All'interno di questa visione di fede, il musulmano considera l'Islam come la sua vera patria e ritiene che i popoli non-musulmani siano destinati, presto o tardi, ad essere sottomessi da lui, o al massimo dai suoi discendenti.

Se è governato da una nazione non musulmana, egli considera questa situazione come una prova passeggera; la sua fede lo rassicura che ne uscirà e trionferà su coloro che al momento lo tengono sottomesso. Per questo, i fedeli islamici possono preferire una nazione a un'altra, possono preferire la sottomissione ai francesi piuttosto che ai tedeschi, perché sanno che i primi sono più accondiscendenti che i secondi; possono essere attaccati a questo o a quel francese, come si è affezionati ad un amico straniero; si possono battere con grande coraggio per la Francia, con sentimento d'onore e carattere guerriero, con spirito di corpo e fedeltà di parola, come i soldati di ventura del XVI e XVII secolo.

Ma, in un senso più generale e senza eccezioni, finché sono musulmani, essi non saranno francesi, perché attenderanno, più o meno pazientemente, il giorno del mahdì, quando sottometteranno la Francia. Il solo modo in cui queste persone possono diventare francesi, è che diventino cristiane".


Corrispondenza romana n. 928 - 7 gennaio 2006

area7
00mercoledì 15 marzo 2006 20:20
ordine
chiedi se non credo vi siano delle forze da parte del male ? Vedo semplicemente che in noi vi è tanta paura , cattiveria , violenza e solo noi possiamo indagarla con chiarezza e arrivare fino in fondo al problema .....una volta appurata tutta questa confusione tutto va al posto giusto dove deve stare ....tutto si armonizza senza sforzo ...
LiviaGloria
00mercoledì 15 marzo 2006 21:45
Area
Se tutto deve andare al suo posto grazie alle forze solo dell uomo...posso pensarci,ma mi viene spontanea una domanda...forse due.
E possibile che l uomo con le migliaia di anni a sua disposizione,l intelligenza...ancora non ha trovato da solo la strada dell armonia?Mi sembra un tempo spropositato per esseri intelligenti...
La seconda domanda...se dipende solo dalle nostre forze...come mai invece di migliorare stiamo peggiorando...e peggioriamo proprio nel tempo in cui si é perso un certo tipo di fede?
Insomma se é vero che siamo liberi....dovrebbe essere vero anche che dovremmo migliorare...

Forse la "libertá" che noi pensiamo di avere é un miraggio...!?
Forse le forze che noi pensiamo di avere sono un miraggio?!

Come mai l uomo piu é libero da Dio...piu peggiora?Perché l egoismo aumenta?
Allora non abbiamo tutta la forza che pensiamo di avere...e se c é questa forza...almeno diventando vecchi dovremmo non "peccare" piu,non sbagliare piu...
Invece non é cosí...muoriamo sbagliando ancora...
Siamo in un aumento di mancanza di moralitá,di principi...

Come mai tutte queste forze dell uomo...diventano debolezze rapportate alla realtá dei fatti?
area7
00mercoledì 15 marzo 2006 22:05
*
in tutta sincerità ...Leggi attentamente quel che tu stessa scrivi
LiviaGloria
00mercoledì 15 marzo 2006 22:33
Area
Ho riletto...ma non capisco sosa mi vuoi comunicare....?
area7
00giovedì 16 marzo 2006 20:59
..............
....E qui solo tu puoi capire . Nessuno può spiegarti !!!
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