Bioetica : Gli ambasciatori dell'eugenetica

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LiviaGloria
00martedì 27 marzo 2007 22:05
Bioetica : Gli ambasciatori dell'eugenetica
Inviato da Giovanni Nocera il 21/3/2007 0:54:40 (10 letture)
Sono medici, sono britannici e sono molto preoccupati "per il bene della specie". Ministri del culto scientista all'arrembaggio
di Giulio Meotti

Tratto da TEMPI del 15 marzo 2007

È la patria della nobile famiglia Huxley, che ha dato all'Occidente generazioni di biochimici e scrittori e un nome allo scientismo contemporaneo.

È la nazione del controllo capillare delle nascite e del primo aborto legale, dove si azzera una vita liberamente fino al settimo mese e dove i primi esperimenti clandestini di fecondazione in vitro si facevano già negli anni Trenta. Dove lo Stato soprattutto rimborsa ogni trattamento di fertilizzazione in vitro. La patria di Francis Galton (1822-1911), il cugino di Charles Darwin che ha coniato la parola "eugenetica": «Se venisse speso in provvedimenti per migliorare la razza umana anche solo un ventesimo dei costi e dei sacrifici che si spendono per migliorare la razza dei cavalli e dei bovini, che galassia di genii potremmo creare! Potremmo introdurre nel mondo profeti e gran sacerdoti della civilizzazione così come ora possiamo moltiplicare gli idioti mettendo insieme i cretini». Parole che scremate della loro meschina volgarità sarebbero un manifesto perfetto del nuovo mito della riprogrammazione genetica.

È di una decina di giorni fa la notizia che in Gran Bretagna al vaglio del governo di Tony Blair c'è anche una proposta che consentirebbe agli scienziati di intervenire sui geni degli embrioni congelati per "migliorarli". Una visione fatta di eugenismo decentralizzato e animali transgenici, felicità geriatrica e centri di benessere, nascita e morte in clinica, turismo biogenetico e vita mercanteggiata, laicismo protestante e transumanismo liberale, teologia della liberazione biologica e materialismo riduzionistico dell'homme machine illuministico. «Le decisioni qui non sono prese dalla bioetica, ma dagli scienziati. Questo è il problema fondamentale dell'Inghilterra», dice a Tempi Josephine Quintavalle, la baronessa che guida il movimento per la vita inglese. «Il discorso è trascinato dalla scienza, e non dalla filosofia. E questa è l'origine della distruzione del paese».

Uno dei capostipiti degli scienziati-oracoli che hanno portato Londra in testa alla corsa della medicina rigenerativa è Ian Wilmut, il padre non solo della pecora Dolly e dei primi embrioni clonati al mondo, ma anche dell'idea di «creare bambini clonati geneticamente modificati per prevenire gravi malattie ereditarie». Nel suo libro, After Dolly, il veterinario auspica l'utilizzo delle tecniche di manipolazione embrionale contro «gli oltraggi del caso». Wilmut è arrivato a chiedere di poter produrre embrioni in vitro per poi "curarli" da eventuali malattie genetiche, clonarli e impiantarli nell'utero di una donna. «Faranno anche questo», dice Quintavalle che ha letto le bozze di riforma della legge nazionale sulla bioetica. Su questo orrore utilitaristico Wilmut stende una vernice aulica («non un passo in direzione delle tenebre ma verso la luce»). Il luminare aveva già proposto di sottoporre i malati neurodegenerativi a esperimenti anche senza certificazione medica: se non c'è coscienza allora non c'è più libertà. Prima ancora aveva invitato a «stimolare» la malattia nell'embrione da sottoporre a «terapia».

A superare il Rubicone della clonazione era stato un altro embriologo inglese, il «socialista accanitamento ateo» Bob Edwards, papà scientifico di Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta. «Quanti pazienti potrebbero beneficiarne!», disse nel 2005 il medico inglese. Forte della fama di benefattore delle coppie infertili, venticinque anni fa Edwards si spinse a suggerire che «dedicarsi alla fecondazione in vitro senza prevenire la nascita di bambini minorati è una posizione indifendibile». Chiese di provocare parti gemellari allo scopo di conservare uno dei "semiembrioni" come riserva di pezzi di ricambio. In un'intervista al Sunday Times del 4 luglio del 1999 dichiarò che «presto sarà considerato peccato per i genitori avere un figlio portatore dei tetri fardelli delle malattie genetiche. Stiamo entrando in un mondo in cui dobbiamo considerare la qualità dei nostri figli». Lord Richard Harries of Pentregarth, vescovo anglicano emerito di Oxford, oggi è presidente della Hfea, l'agenzia che si occupa di consigliare i centri decisionali britannici sulle questioni bioetiche. Il vescovo è a favore delle maternità tardive e della ricerca su embrioni umano-animali, li chiama «prevalentemente umani». «Quando parla Harries è letteralmente il vangelo», spiega Quintavalle. Julian Savulescu è il direttore dell'Oxford Center di Etica applicata e del Journal of Medical Ethics, la rivista scientifica con maggiore impatto nel campo dell'etica medica e applicata. Ebbene, Savulescu disquisisce tranquillamente di «beneficenza procreativa», di «selezionare il bambino migliore» e di «lotteria delle cellule staminali embrionali». Joyce Harper della London University è fra le voci più ascoltate sulla diagnosi prenatale. Il gruppo di Nuffield non è nominato dallo Stato, è privato ma ha una grandissima influenza sull'etica pubblica. Recentemente ha realizzato un'inchiesta sulle nascite premature e la necessità di autorizzare l'eutanasia neonatale. E in proposito non si può dimenticare l'antichissimo Royal College, che ha chiesto di aprire all'eutanasia dei bambini disabili. «Un bambino disabile significa una famiglia disabile», recita la proposta pubblicata dai quotidiani anglosassoni.

La papessa dei biodiritti
Altra paladina di questa specie di nuovo eugenismo inglese è la baronessa Mary Warnock, che è stata per molti anni a capo della Hfea. Quintavalle dice che «è la filosofa che ha regalato al mondo il bellissimo concetto dell'essere umano "graduale"». Warnock è la papessa della fecondazione eterologa, dell'accesso al vitro anche per le coppie che hanno coscientemente oltrepassato l'età fertile, della selezione eugenetica, dell'adozione omosessuale («non c'è prova che questi bambini sarebbero danneggiati per sempre»), dell'autoinseminazione delle lesbiche, dell'utero in affitto («non sono sicura che la società ne avrebbe un danno»), della fecondazione con seme di persona morta e perfino della clonazione riproduttiva. «È forse un peccato che il Regno Unito si sia unito al resto d'Europa in una completa messa al bando della clonazione», lamenta la baronessa, che al contrario considera tale tecnica lecita, ad esempio, «nel caso di completa sterilità maschile».

Ovociti in cambio di buoni sconto
Poi c'è Ian Gibson, membro della Hfea, quello della selezione in vitro del sesso del figlio: «Se le coppie vogliono un maschio dopo aver avuto cinque femmine, che c'è di male?». Alison Murdoch, capo della British Fertility Society, è celebre per aver detto che «i bambini hanno bisogno di essere cresciuti nell'amore, non importa il sesso dei genitori». Alla London University troviamo Marshall Marinker sull'utero artificiale: «Va sviluppato per la salute di quelle donne che non possono portare avanti una gravidanza». Il North East England Stem Cell Institute di Newcastle è celebre per aver escogitato la soluzione dell'"egg-sharing", grazie alla quale le donne che cercano di avere un figlio in provetta, e che quindi si sottopongono a stimolazione ovarica per un proprio e inequivocabile interesse, possono regalare gli ovociti non utilizzati ai laboratori di ricerca, in cambio di uno sconto della metà sui costi della fecondazione assistita. C'è anche l'ex presidente della Associazione per la pianificazione familiare, la baronessa Flather, che ha auspicato che i poveri evitino di avere un gran numero di figli. Infine il filosofo liberale John Harris di Manchester, membro della British Medical Association e proveniente dalla scuola neodarwiniana di Peter Singer. Harris è celebre per aver detto che «l'infanticidio non è sempre ingiustificato».

L'acume di un figlio Down
Il filosofo Michael Bérubé lotta da anni contro questa eugenetica strisciante. «Nel 1991, quando mia moglie era incinta del nostro secondo figlio, ci venne detto da una ostetrica che potevamo prendere in considerazione una amniocentesi. "Per essere sicuri di cosa?", chiedemmo. Una amniocentesi avrebbe estratto materiale genetico dal feto per trovare eventuali "anomalie". Con Janet discutemmo della possibilità. "E cosa facciamo se aspettiamo un bambino con la sindrome di Down?", chiese Janet. "Allora dovremo soltanto amare il bambino ancora di più", risposi. Eravamo entrambi a favore del diritto all'aborto. Il piccolo Jamie è nato di settembre, con la sindrome di Down. Ci delizia ogni giorno, è un bambino acuto, divertente. Non sapevo niente della sindrome di Down nel 1991. Oggi rifarei la stessa cosa. È anche grazie a Jamie che ho capito che il dibattito sullo screening prenatale, una tecnica dei cui effetti non sappiamo niente, oscura un elemento clamoroso, cioè che non abbiamo alcuna idea di cosa diciamo quando parliamo di "bene inquantificabile per la specie"». Eppure si parla sempre più spesso di "migliorare ciò che Dio ha lasciato imperfetto". «Una volta che iniziamo a pensare la vita nei termini della scala biochimica e molecolare, siamo già sulla strada della micro-eugenetica e su un terreno etico completamente nuovo, terribile. Tutto ciò che leggo sulla sindrome di Down è errato. La chiamano "nascita sbagliata", un concetto di cui dovremmo fare a meno. Le questioni bioetiche sono troppo importanti per essere lasciate nelle mani dei professionisti della bioetica».

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