LiviaGloria
00venerdì 3 marzo 2006 22:35
Tetsuya
Forse per te é inutile...ma siccome tanti leggono il forum...ci tengo a fare un pochino di contro informazione...sai i passa parola non sono sempre veri...anche che tu ci vuoi credere perché fanno comodo...
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Galileo Galilei: un po’ di verità
di Vittorio Viccardi
E' il paladino della libertà scientifica e il testimone dell'oscurantismo religioso cattolico. Questo nell'immaginario popolare e sui libri di testo scolastici. Ma la verità storica è un'altra. "Eppur si muove!". Chi non ricorda questa celebre frase attribuita a Galileo Galilei che volle così rispondere, ci viene detto, con fiero cipiglio, alla lettura della sentenza di quei feroci inquisitori che lo condannavano per le sue scoperte scientifiche? Gran parte degli studenti ne sono persuasi. Processato, condannato, torturato, incarcerato e, cosi' credono in buona percentuale, anche bruciato sul rogo: questo l'insieme delle cognizioni che la scuola e i mass media ci propinano a proposito dello scienziato pisano. Solo una minoranza esigua, più preparata, risponderà che Galileo è giustamente famoso per aver applicato per primo il metodo sperimentale, tipico della scienza moderna, per aver perfezionato e utilizzato a fini scientifici il cannocchiale, per aver scoperto il termometro, la legge che regola le oscillazioni del pendolo, la montuosità della luna, la natura stellare della Via Lattea, i 4 satelliti di Giove, le anomalie di Saturno, le macchie solari e le fasi di Venere. Diciamo la verità: più che per la sua opera scientifica.
Galileo è noto per i due processi subiti dall'Inquisizione nel 1616 e nel 1633, che lo hanno fatto diventare un paladino della scienza moderna e del progresso ed una vittima dell'oscurantismo religioso e conservatore della Chiesa cattolica. Eccoci dunque di fronte ad una vittima innocente immolata sull'altare di quel cattolicesimo che pretendeva di possedere verità assolute anche in materie scientifiche, ad un martire della scienza, ad un testimone dell'irriducibile contrapposizione tra la Fede religiosa e la scienza. Senza pretesa di esaurire l'argomento, qualche considerazione ci aiuterà ad avere le idee più chiare. In primo luogo: Galileo non si considero' mai avversario della Chiesa, come tenta di convincerci una delle più grandi menzogne che ci siano mai state propinate. Conservo' la fede cattolica fino alla morte, fu amico per lungo tempo di papi e di cardinali, (il cardinale Maffeo Barberini, poi eletto Papa con il nome di Urbano VIII, fu suo grande ammiratore) e da molti religiosi fu protetto e incoraggiato nelle sue ricerche. Quando nel 1611 si reco' a Roma fu molto ben accolto dal padre Cristoforo Klaus (Clavio) e dai gesuiti del Collegio Romano. Fu ricevuto persino da Papa Paolo V, con il quale ebbe un lungo e caloroso colloquio. Qualche mese prima, si era convinto delle fasi di Venere analoghe a quelle della Luna, segno che il pianeta girava intorno al Sole dal quale riceveva la luce. Il sistema tolemaico era cosi' confutato, quello eliocentrico non era certamente dimostrato, e tutto questo non sembrava pregiudicare i suoi rapporti con il mondo ecclesiale. Anzi, mentre i colleghi scienziati, con in testa il famoso Cremonini, accusavano Galileo di vedere "macchie sulle lenti del telescopio", non mancava al pisano l'appoggio dei potentissimi astronomi e filosofi della Compagnia di Gesù (gesuiti), capitanati da san Roberto Bellarmino, generale dell'Ordine dei Gesuiti e consultore del Sant'Uffizio. E ancora. Quando padre Cavini attaccherà Galileo a Firenze, nella chiesa di santa Novella, lo scienziato verrà difeso dal padre Benedetto Castelli, suo discepolo e professore di matematica a Pisa, e dal maestro Generale dei Domenicani, padre Luigi Maraffi. Sara' poi il cardinale Giustiniano ad ordinare al Cavini di ritrattare pubblicamente le sue accuse. Senza dimenticare che a Napoli, un altro religioso, il padre Foscarini, pubblicava un elogio di Galileo e del sistema copernicano (che molti gesuiti dotti approvavano) ottenendo l'approvazione ecclesiastica. E ancora. Anche dopo la sentenza del 1633, che, oltre all'abiura, lo "condannava" a recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali per un periodo di tre anni, fu ospitato nella villa del cardinale di Siena, Ascanio Piccolomini, "uno dei tanti ecclesiastici che gli volevano bene" (Messori).
Quindi, si trasferì nella sua villa di Arcetri, detta "il gioiello", alla periferia di Firenze. Morì con la benedizione del Papa e ricevendo l'indulgenza plenaria, segno che la Chiesa non lo considerava certamente un avversario né lui considerava tale la Chiesa. Proprio una favola quella dell'inimicizia, della contrapposizione invincibile, dell'insanabile rottura tra lo scienziato pisano e la Chiesa cattolica. Una favola che per primo contesterebbe proprio lo scienziato pisano. Non va dimenticato, infatti, che al termine della sua vita movimentata, lasciò scritto che "in tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa". In secondo luogo: la teoria eliocentrica (la Terra e i pianeti ruotano attorno al sole) non fu inventata da Galileo. Già Aristarco di Samo e la scuola pitagorica, cinque-sei secoli prima di Cristo avevano sostenuto fosse la Terra a ruotare annualmente intorno al sole. Questa teoria venne ripresa da Copernico, sacerdote polacco, morto 21 anni prima della nascita di Galileo. Se Copernico decise di pubblicare i suoi studi solo l'anno della sua morte fu per timore di essere dileggiato dai colleghi di studi, non certo da uomini di Chiesa (i papi Clemente VII e Paolo III, cui l'opera di Copernico era dedicata), dai quali ebbe favori e incoraggiamenti. Proprio come accadde a Galileo, che ebbe tra i suoi più fieri avversari i colleghi, peraltro irritati dal carattere tutt'altro che facile dello scienziato pisano, non i religiosi. In terzo luogo: Galileo non porto' alcuna prova scientifica che potesse sostenere senza ombra di dubbio la teoria eliocentrica. Per "provare" che la Terra ruotava intorno al sole sosteneva che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque causato dal movimento terrestre. Ma questo argomento era scientificamente insostenibile. Avevano ragione i suoi "giudici inquisitoriali", i quali sapevano bene che le maree sono dovute all'attrazione lunare. Sentiamo Messori: "In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero". Il Cardinale Bellarmino sosteneva che la teoria eliocentrica, considerata come "ipotesi" scientifica (e ipotesi doveva correttamente considerarsi, fino a quando non fosse stata dimostrata vera) non era da scartare a priori, ma bisognava portare le prove. La posizione del Bellarmino è assai più corretta di quella di Galileo, che senza prove la spacciava per tesi inconfutabile. Anzi, in questo specifico caso, proprio il Bellarmino aveva assunto allora una posizione che la fisica moderna, quella dei nostri tempi, dà per scontata. In quarto luogo: nel processo del 1616 di Galileo non si parla nemmeno. Ma, successivamente convocato al Sant'uffizio, gli fu reso nota la condanna della tesi copernicana e imposto di non insegnarla prima che venisse corretta (quattro anni dopo la teoria fu corretta e qualificata come ipotesi e non come tesi). L'ingiunzione gli venne comunicata privatamente per non esporlo al dileggio dei colleghi. Galileo promise di obbedire (e non lo fece) e venne ricevuto dal Papa in persona. Una "condanna" straordinariamente mite.
Come mite fu la "condanna" subita nel processo del 1633. Galileo non passò nemmeno un minuto in carcere, non venne mai torturato, non gli fu impedito di incontrare colleghi e religiosi (vanno a trovarlo uomini del calibro di Hobbes, Torricelli e Milton), di scrivere, di studiare e di pubblicare, tant'è che il suo capolavoro scientifico - Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze - risale al 1638, cinque anni dopo la condanna. Ci manca ancora un punto. La famosa frase "Eppur si muove" con la quale abbiamo aperto queste considerazioni. Un altro falso storico. Fu inventata a Londra, nel 1757, dal brillante e spesso inattendibile giornalista Giuseppe Baretti. Come si vede, nel caso Galilei abbiamo bisogno di un po' di verità.
BIBLIOGRAFIA "
LiviaGloria
00sabato 4 marzo 2006 14:16
Galileo Galilei /1
di Vittorio Messori
Stando a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase "sicuramente storica", un suo "Eppur si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici. Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero" (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere. Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.
Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco. In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente frasi "titaniche" (il troppo celebre "Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un "caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.
Torture? carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il gioiello".
Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze - che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro l'oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: "In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".
I suoi guai, del resto, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.
In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto "grande" quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II "non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell'inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo". Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il "caso" è troppo importante, per non parlarne ancora.
LiviaGloria
00sabato 4 marzo 2006 14:49
Chi ha condannato Galileo?
di Federico Di Trocchio
Tratto dal capitolo V, Scienza e senso comune, di F. Di Trocchio, Il genio incompreso, Mondadori 1997.
La padronanza dei principi della dinamica dava insomma a Galilei una netta superiorità sugli scienziati suoi contemporanei che tentavano di sostenere le ragioni del sistema tolemaico contro il copernicanesimo avanzante. Lo scontro, inevitabile, era destinato a risolversi necessariamente, almeno sul piano scientifico, a suo favore, anche se Galilei non era in grado di fornire una prova definitiva della validità del sistema copernicano, non sapeva ancora spiegare quale fosse la forza che muoveva la Terra e, oltretutto, rimaneva fedele all'antiquato pregiudizio secondo il quale la Terra e gli altri pianeti si muovono attorno al Sole in orbite rigorosamente circolari. Dopo l'insuccesso di Aristarco e la disattenzionè riservata a Copernico, Galileo poteva insomma finalmente imporre l'eliocentrismo. Ma nonostante tutto non vi riuscì. La responsabilità di questo insuccesso viene in genere attribuita alla Chiesa che, pur non avendo competenza in materia, con una decisione non solo scientificamente scorretta, ma anche azzardata e compromettente sul piano teologico, condannò l'eliocentrismo come una teoria eretica. Dopo l'umiliazione di un'abiura pubblica Galilei venne posto agli arresti domiciliari "come veementemente sospetto di eresia", una formula di compromesso che consentì di evitare il rogo al "colpevole".
Le indagini storiche hanno però accertato che fu un gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l'ultima possibilità di arrestare il co-pernicanesimo, vista l'impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico. L'ostilità de la comunità scientifica nei confronti dì Galilei fu infatti, almeno all' inizio, generale. L'amico Paolo Gualdo gli scriveva da Padova nel 1612: "Che la Terra giri, sinhora, non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all'opinione di Vostra Signoria, pensi adunque bene prima che asseverantemente pubblichi questa sua opinione per vera". I più accaniti oppositori furono però un gruppo di studiosi di Pisa e di Frenze: Giorgio Coresio, professore di greco all'università di Pisa, Vincenzo di Grazia, che insegnava invece filosofia, nonché Arturo Pannocchieschi, rettore della stessa università. Altro importante membro del gruppo era Cosimo Boscaglia, professore a Pisa prima di logica e poi di filosofia, che fu molto apprezzato da Ferdinando I e Cosimo II de' Medici. Il più agitato del gruppo era però un filosofo dilettante di Firenze, Lodovico delle Colombe, che viene descritto da un contemporaneo come un individuo "lungo, magro, nerastro e di fisionomia sgradevole". Galilei lo chiamava Pippione, che in toscano vuol dire sia "piccione" che "coglione" nel duplice senso, sia letterale sia metaforico. Tutto il gruppo veniva perciò indicato neile sue lettere come "la lega del Pippione". Il luogo dì ritrovo di questi "malotichi et invidiosi", come li chiamava Lodovico Cigoli, amico di Galilei, era la casa fiorentina dell'arcivescovo Marsimedici, dove si incontravano talora con due frati domenicani: Nicolò Lorini e Tommaso Caccini.
I motivi di risentimento dei membri di questa "lega" nei confronti di Galilei erano molteplici. Essi erano innanzitutto umiliati per la propria manifesta incapacità di controbattere le sue argomentazioni contro il sistema tolemaico e la filosofia aristotelica, della cui attendibilità scientifica si sentivano garanti e custodi. Galilei, oltretutto, aveva un modo di argomentare molto più logico, razionale e lucido del loro, e in più era arguto e sottile, sicché si divertiva a imbarazzarli con i paradossi impliciti nelle loro stesse asserzioni, il che finiva per renderli ridicoli. Accanto a questi motivi di carattere scientifico e psicologico esistevano però anche delle ragioni personali di invidia. I risultati clamorosi ottenuti con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale e la pubblicazione del Sidereus Nuncius avevano reso Galileo rapidamente famoso, sicché per tornare dall'università di Padova a Pisa aveva preteso delle condizioni di privilegio. Per essere libero di fare ricerca, non aveva infatti alcun obbligo di insegnamento: il suo stipendio veniva però pagato con i fondi dell'università e si trattava, oltretutto, di uno stipendio superiore a quello degli altri professori, i quali erano tenuti, oltre che a insegnare, anche ad abitare a Pisa, obbligo dal quale Galilei era invece esentato. Questi e altri privilegi, accordati a chi si contrapponeva così direttamente all'ortodossia scientifica del tempo, apparivano ampiamente ingiustificati al mondo accademico pisano.
Una tale situazione di notevole animosità nei suoi confronti costituì un motivo determinante nell’evoluzione e nell’origine del dramma personale di Galilei. Fu infatti in seguito alla verificata impossibilità di arrestarlo con argomentazioni di carattere scientifico che i suoi oppositori si decisero a usare argomentazioni di carattere teologico, che consistevano essenzialmente nel mettere in evidenza la natura eretica di ogni teoria che affcrmasse l'immobilità del Siole e la mobilità della Terra, perché contraria a ciò che sostiene la Bibbia. Questo tipo di argomentazione compare per la prima volta, tra la fine del 1640 e l'inizio del 1614, in una dissertazione dal titolo Contro il moto della Terra che fu fatta circolare manoscritta da Lodovico delle Colombe. L'attacco preludeva alle denunce verbali e scritte di Lorini e di Caccini, coordinate in una sorta di piano di congiura, denunciato già dallo stesso Galilei e ricostruito, in un libro famoso, da Giorgio de Santillana. Secondo questo piano, Galileo doveva essere provocato sul problema del rapporto tra teoria copernicana e testo biblico in modo da attirare l'attenzione dei teologi sulla necessità, da parte dei copernicani, di interpretare in senso non letterale i vari passi nei quali la Bibbia, accogliendo il senso comune, affermava chiaramente che è il Sole a muoversi e che la Terra sta ferma. L’inizio dell'Ecclesiaste dice ad esempio: "Una generazione va e l'altra viene; ma la Terra rimane sempre. lì Sole sorge e tramonta e torna al suo luogo; da qui, rinascendo, gira a mezzogiorno e poi piega a settentrione". C'era poi il famoso passo del Libro di Giosuè che narrava il miracolo dell'arrestarsi del Sole, prodotto da Dio dopo la pressante richiesta di Giosuè: "O Sole, fermati a Gabaon, e tu, o Luna, alla valle di Aialon. E il Sole si fermò, e la Luna ristette finché la nazione ebbe vendetta dei suoi nemici".
Se i copernicanì avevano ragione, i casi erano due: o si ammetteva che la Bibbia aveva accettato una teoria sbagliata sulla costituzione dell'universo, oppure quei passi andavano reinterpretati. Si doveva supporre cioè che, affidandosi al senso comune e non essendo un astronomo, Giosuè avesse chiesto a Dici di fermare il Sole, e che questi avesse arrestato o rallentato il moto di rotazione della Terra per produrre il miracolo richiesto. La situazione era effettivamente molto imbarazzante per la Chiesa, che però avrebbe volentieri evitato il problema se non fosse stata costretta a prendere posizione dal clamore suscitato dagli attacchi della "lega".
Galilei capì che se voleva far trionfare il copernicanesimo doveva affrontare questione e, con l'aiuto di due preti suoi allievi, Benedetto Castelli (che fu anche un ottimo matematico) e un frate barnabita, si improvvisò teologo. In due lettere comunemente note come Lettere copernicane trovò una via d’uscita che poteva servire, non solo in quel caso specifico ma anche in futuro, a evitare contrasti e contrapposizioni tra verità di fede e verità scientifica. Si trattava semplicemente di ammettere che, in molti caso, e in particolare in rapporto a questioni scientifiche, la Bibbia non poteva essere presa alla lettera. Il suo ragionamento era semplice e facilmunte condivisibile: la verità non può essere che una ma è scritta in due libri diversi, la Bibbia e la Natura, che usano linguaggi altrettanto diversi. La Bibbia è scritta in funzione dell'uomo e mira essenzialmente a fornire all'uomo quelle indicazioni morali che gli possono consentire di vivere, con piena consapevolezza e con tranquilla berenita, la propria vicenda esistenziale. Il libro della Natura, invece, non contiene verità di carattere morale, ma solo descrizioni fedeli dei fenomeni naturali esposte in un linguaggio tecnico: quello matematico. La comprensione delle leggi di natura richiede dunque una competenza diversa da quella del teologo: bisogna essere buoni matematici ma anche buoni sperimentatori, in altri termini bisogna essere scienziati. La conclusione era che, secondo Galilei, nei casi in cui la scienza scopriva leggi o fenomeni che le Scritture presentavano in modo diverso, i teologi non dovevano, non essendo competenti, contestare le conclusioni degli scienziati, ma piuttosto prenderne atto e affrettirsi a cambiare l’interpretazione dei testi sacri.
Il ragionamento era plausibile e facilmente condivisibile. Del resto il principio dell'interpretazione non letterale era stato già utilizzato da vari Padri della Chiesa, tra i quali sant'Agostino, e venne poi definitivamente sancito, nel 1893, con un'apposita enciclica emanata da papa Leone XIII. Ma le cose non erano così semplici come poteva apparire a prima vista. Esisteva un problema che rendeva (e rende ancor oggi) inevitabile il contrasto tra scienziati è teologi: prima di modificare l'interpretazione di un passo delle Scritture o, più in generale, di abbandonare un principio morale in conseguenza di un progresso scientifico o tecnico, è saggio e prudente accertarsi in modo definitivo dÙl'attendibilìtà della nuova visione scientifica. Ora, la conoscenza scientifica è fallibile, non offre verità definitive, anzi si distingue dalla magia, come dalla religione, proprio per la capacità di modificare continuamente i propri principi e di progredire in virtù della revisione critica dì vecchie idee. Giustamente il teologo non vuole essere ridotto a passacarte dello scienziato e correre il rischio di avallare precipitosamente teorie che la stessa comunità scientifica potrebbe domani scartare come errate, o comunque modificare. Se deve cambiare idea deve avere buoni motivi, e vuole essere lui a valutarlo.
Nel caso di Galilei, ad esempio, anche gli scienziati hanno sempre ammesso che egli non era stato in grado di fornire una prova definitiva della validità del sistema copernicano, poiché quella che egli riteneva certa (la sua spiegazione del fenomeno delle maree) non era affatto corretta, e appariva errata anche ai contemporanei. L'atteggiamento dei teologi, da questo punto di vista, fu più cauto di quello di Galilei: prima le prove, dicevano in sostanza, poi la revisione teologica.
Questo in effetti poteva portare a un accordo. E fu infatti su questa base che il problema venne provvisoriamente risolto nel 1615, all'epoca del cosiddetto primo processo a Galilei, che fu in realtà un'indagine segreta, una sorta di perizia teologica, nata da una denuncia di Tommaso Caccini, nel corso della quale Galilei non venne neppure disturbato per essere interrogato. La commissione del Sant'Uffizio, a conclusione dei suoi lavori, decretò a quell'epoca che la teoria eliocentrica era scientificamente errata ed eretica dal punto di vista teologico. Ma a proposito della posizione personale di Galilei, che pure sosteneva ormai pubblicamente quella teoria, non si pronunciò. Lo scienziato contro il quale era diretta la denuncia non venne insomma né assolto né condannato. Venne invece convocato, il 26 febbraio 1615, a casa del cardinai Bellarmino, che non faceva parte della commissione ma era il vero ispiratore della linea adottata dalla Chiesa. Nel corso di quel colloquio, che nell'intenzione di Bellarmino doveva essere amichevole e fu invece un po’ teso a causa della presenza e dell'intransigenza del commissario generale del Sant'Uffizio, Michelangelo Segizzi, Galileo venne informato che la Chiesa riteneva eretica la teoria eliocentrica e venne invitato a considerarla da allora in poi solo come ipotesi.
Questo, almeno provvisoriamente, metteva le cose a posto. Se l'eliocentrismo era solo un'ipotesi, non c'era motivo di affrettarsi a cambiare l'interpretazione della Scrittura. Più o meno esplicitamente si ammetteva inoltre che la soluzione proposta da Galilei per i casi di accertato contrasto era valida. Per il momento la questione si poteva considerare chiusa: i teologi avevano indubbiamente commesso un errore dando una valutazione di merito scientifico sull'eliocentrismo ma, nonostante ciò, si rifiutavano di fare il gioco dei nemici di Galileo, al quale intendevano accordare ogni libertà di indagine sull'argomento e anche la possibilità dì discuterne sul piano strettamente tecnico con i propri colleghi.
Sotto l'apparente disponibilità si celava però una posizione ben più intransigente. Bellarmino, che non era certamente un genio scientifico (e che forse non meritava di essere fatto santo perché aveva sulla coscienza varie condanne a morte per eresia, non ultima quella di Giordano Bruno), aveva tuttavia una mente molto più sottile e e una cultura più raffinata di quella di Galilei. Fu un teologo forse troppo rigido, ma la sua lucidità può suscitare ancora oggi invidia in molti dottori della Chiesa. Egli riteneva che, se non si voleva aprire una grave falla nelle basi teologiche della religione, si doveva tenere fermo che anche nelle questioni scientifiche l’ultima parola dovesse spettare al teologo, per un principio molto semplice: nel bene e nel male la Scrittura è opera dello Spirito Santo e dunque la distinzione tra questioni di fede e questioni scientifiche non regge. Tutto è questione di fede. Con una formula latina un po' scolastica Bellarmino diceva che una cosa scritta nella Bibbia "se non è materia di fede ex parte objecti [cioè considerando l'oggetto o l'argomento] è materia di fede ex parte dicentis [cioè considerando colui che parla, vale a dire lo Spirito Santo]".
Tutti i commentatori, sia laici sia cattolici, sono oggi concordi nel ritenere questa posizione eccessivamente intransigente, il che ha portato a considerare, almeno sul piano teorico, Bellarmino come il principale responsabile della sfortunata condanna di Galilei all'epoca del secondo processo, quando il teologo era già morto. La Chiesa però non ha mai ufficialmente avallato queste critiche anzi, persino negli atti nei quali normalmente si presume che abbia fatto ammenda e riabilitato Galilei, in realta ha sempre ribadito la posizione di Bellarmino. Prendiamo ad esempio l'enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII. Essa dice: "Nessuna vera contraddizione potrà interporsi tra il teologo e lo studioso delle scienze naturali, finché l'uno e l'altro si manterranno nei propri confini, guardandosi bene, secondo il monito di sant'Agostino, «di non asserire temerariamente alcunché né di presentare una cosa certa come incerta»". I casi di possibili contrasti possono essere regolati, secondo l'enciclica, proprio come suggeriva Galilei: "Se poi vi fosse qualche dissenso, lo stesso santo dà sommariamente le regole di come debba diportarsi in tali casi il teologo: «Tutto ciò che i fisici, riguardo la natura delle cose, potranno dimostrare con documenti certi, è nostro compito provare non essere nemmeno contrario alle nostre lettere»". Il teologo insomma deve essere pronto a reinterpretare il testo della Scrittura per seguire l'evoluzione delle conoscenze scientifiche. Esattamente come sosteneva Galilei. Ma, come c'era da attendersi, c'è un ultimo codicillo che ribalta completamente la situazione. Continuando la citazione di sant'Agostino l'enciclica prosegue: "Ciò che poi presentassero nei loro scritti di contrario alla fede cattolica, o dimostriamo con qualche argomento essere falso ciò che aaseriscono o crediamolo falso senza alcuna esitazione". Nel caso in cui il teologo si trovasse insomma di fronte ad affermazioni scientifiche che ritiene senz’altro contrarie alla fede e alla morale, non solo è autorizzato ma addirittura è sollecitato a condannarle come false, indipendentemente dalla loro validità scientifica.
Espressa in questo modo, la posizione ufficiale della Chiesa potrebbe sembrare non solo eccessivamente intransigente ma anche acritica e ottusa. Se si considera però il modo in cui, più di recente, essa è stata espressa da papa Wojtyla nei due discorsi fatti in apertura (10 novembre 1979) e in chiusura (31 ottobre 1992) del processo di riabilitazione di Galilei, appare sotto tutt'altra luce e, se non condivisibile, almeno giustificata dal punto di vista morale. Partendo dalla considerazione, incontestabile, che "l'uomo d'oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce" e auspicando, come tutti, che "l'uomo deve uscire vittorioso da questo dramma, che minaccia di degenerare in tragedia, e deve ritrovare la sua autentica regalità sul mondo e il pieno dominio sulle cose che produce", Giovanni Paolo II ritiene che l'unico modo per riuscirvi è quello di riaffermare "la priorità dell'etica sulla tecnica, il primato della persona sulle cose, la superiorità dello spirito sulla materia". In buona sostanza il papa afferma, e non ci si poteva aspettare diversamente, che ciò che può garantire la salvezza esistenziale dell'umanità è la religione, assunta come criterio di valutazione degli interventi tecnici resi possibili dalla scienza.
Questo modo di presentare la questione appare meno intransigente e meno offensivo di quello impiegato da Bellarmino o da Leone XIII. Innanzitutto esso sposta il discorso dalla scienza all'applicazione tecnica delle scoperte scientifiche, il che rende possibile, ad esempio, condannare l'uso delle armi nucleari senza scomunicare Fermi, Oppenheimer e compagni. In secondo luogo fa appello a un diffuso sospetto nei confronti del reale significato del progresso tecnico e scientifico, che costituisce anche il minimo comun denominatore dell'ideologia dei movimenti ambientalisti, pacifisti, antivivisezionisti e di tutti i fenomeni di recupero dei valori mistico-religiosi, come reazione e fuga dalla civiltà tecnologica. Si tratta, più che di un insieme coerente di idee, di un atteggiamento culturale genericamente definibile come progressista e originatosi nel Sessantotto, che percorre trasversalmente anche tutti i fenomeni di presa di coscienza e di rivendicazione sociale da parte di gruppi emarginati, dal femminismo ai movimenti omosessuali e ai comitati per la difesa dei diritti del malato. La linea della Chiesa pare in gran parte convergere con questa ideologia progressista, e appare solo un po’ troppo rigida e retrò per le posizioni che assume in rapporto al divorzio e alle questioni sessuali, al problema del controllo delle nascite o alla bioetica. Oggi ìnsornma le argomentazioni dì Bellarmino potrebbero apparire addirittura più ragionevoli e condivisibili di quanto non fossero nel 1615.
La sostanza del discorso però non è cambiata. La Chiesa ritiene di avere il dovere di tutelare il valore e l'integrità dell'esistenza umana, e per farlo pretende il controllo finale su tutte le decisioni che possono influenzare il destino di individui e società. L'unico sostanziale cambiamento verificatosi dai tempi di Gailei a oggi è che la Chiesa ha perso il potere temporale e non può più quindi usare la forza per esercitare realmente questo controllo, ed emarginare o eliminare come eretici coloro che, non avendo interesse a essere salvati, si oppongono a questa volontà di controllo. Sfortunatamente, nel Seicento il potere temporale della Chiesa era ancora molto forte e il papa dell'epoca, Urbano VIII, non seppe resistere alla tentazione di farne uso. I motivi contingenti che coinvolsero Galilei nel secondo, definitivo, processo ci appaiono, da questo punto dì vista, fin troppo prosaici e personali. Lo scienziato, nel comporre il Dialogo sopra i due massimi sistemi, aveva offeso, non si sa se per caso o per inavvertita arroganza, papa Urbano VIII, che gli aveva sempre mostrato grande benevolenza. Lo scienziato aveva messo le opinioni del papa in bocca a Simplicio, il personaggio che nel Dialogo fa la figura, se non dello sciocco, almeno dell'ignorante; nel frontespizio del libro figuravano poi tre delfini, che sembravano alludere al nepotismo un po' eccessivo del papa. È probabile, anche se non del tutto provato, che due gesuiti, padre Grassi e padre Scheiner, che avevano motivi di cisentimento nei confronti di Galileo, abbiano sfruttato questi elementi per provocare il processo.
I lavori furono lunghi e segnati da alterne vìcende ed è anche possibile che gli accusatori abbiano fatto ricorso a un documento falsificato (o comunque non valido legalmente). Nonostante tutto, a un certo punto si tentò di nuovo una soluzione compromissoria; purtroppo in questa fase Galilei commise degli errori che irritarono l'ala intransigente del tribunale che il 22 giugno 1633, su pressione del papa, emise la sentenza dì condanna. Tre dei giudici, in evidente segno di disapprovazione, non furono presenti alla lettura della sentenza.
Si trattò di una condanna manifestamente ingiusta e di un grave errore, come ha voluto definitivamente chiarire Giovanni Paolo II. Quel che ancora oggi non è chiaro è quale sia il senso di questa intricata e sfortunata vicenda e che insegnamento se ne possa trarre. È evidente innanzitutto che Galilei fu condannato prima dalla scienza e poi dalla Chiesa. Si trattò insomma di una duplice condanna i cui motivi, pur essendo diversi, erano collegati dal desiderio di tutelare il più possibile il senso comune. Gli scienziati non volevano allontanarsi dalle opinioni di senso comune, perché erano state incorporate da Aristotele e Tolomeo in una teoria che tutti ritenevano assolutarnonte certa e inattaccabile. I teologi, per parte loro, difendevano il senso comune perché la Bibbia, se presa alla lettera, sembrava avallarlo. Va sottolineato tuttavia che i secondi erano più concilianti e, in fondo, più che a difendere il senso comune, erano interessati a rinsaldare l'autonomia e la supremazia del giudizio etico-religioso anche nelle questioni scientifiche. I teologi insomma avevano già capito, o intuivano, che la scienza poteva costituire un rischio per l'uomo e, per scongiurare il pericolo, volevano soprattutto riaffermare (difendendo il primato della teologia) il diritto prioritario di valutare sul piano morale i progressi che la scienza prometteva sul piano della conoscenza e della tecnica. A sbagliare, dunque, non furono soltanto i teologi ma anche gli scienziati, E sia gli uni che gli altri potevano imparare qualcosa dall'errore commesso. Purtroppo, mentre la Chiesa, seppure con grande ritardo, ha riconosciuto le proprie responsabilita' e corretto, per quanto possibile, il proprio atteggiamento, la scienza, almeno finora, non è stata in grado di fare altrettanto
TOLLERANZA RELIGIOSA E INTOLLERANZA SCIENTIFICA
Dalla vicenda di Galilei la Chiesa ha tratto un grande insegnamento: che non è né giusto né saggio tentare di chiudere la bocca agli scienziati quando dicono cose contrarie alle convinzioni religiose. Si rischia di negare l'evidenza e di compromettere la credibilità degli stessi fondamenti della religione. Meglio tollerare e lasciare alla scienza e agli scienziati la libertà più completa, e anche la responsabilità delle loro affermazioni. Quando giungono a conclusioni incompatibili con la fede o con la morale è inutile contestare la validità scientifica di quello che fanno e dire, come si azzardarono a fare i giudici di Galileo, che l'eliocentrismo è eretico sia scientificamente che logicamente. Se una teoria è scientificamente giusta o sbagliata può dirlo solo la scienza, la quale pure, nel farlo, trova talora notevole difficoltà e impiega molto tempo. Ma, come sosteneva sant'Agostino, i teologi hanno in definitiva tutto il diritto di rifiutare, per ragioni teologiche e morali, anche una teoria che la scienza ritiene ufficialmente vera.
Perciò, di fronte a un problema spinoso la strategia migliore per ogni movimento confessionale è quella di prendere tempo e pronunciarsi ufficialmente solo quando le cose sono abbastanza chiare. A questo punto si integra, per quanto possibile (e soprattutto se è possibile), la nuova teoria con il corpo delle convinzioni religiose altrimenti si ammette molto francarnante che la cosa, per quanto plausibile e accertata possa essere sul piano scientifico, urta contro principi e valori fondamentali, e dunque deve essere rifiutata per ragioni morali. Il problema del contrasto tra religione e scienza non viene risolto perché, come tutti i grandi problemi, non ammette soluzione, ma almeno viene evitato il conflitto frontale. Il vantaggio maggiore di questo cauto atteggiamento è, paradossalmeiìte, proprio quello di non risolvere ma anzi di riproporre continuamente il problema, tenendo però aperto il dialogo e il confronto dialettico. Pur non potendo più aspirare a ricostituire l'antica identità la scienza e la religione hanno bisogno l'una dell'altra. Il loro continuo confronto è infatti uno dei meccanismi fondamentali di crescita della cultura umana. Dal caso Galilei la Chiesa ha insomma imparato a rispettare i diritti della scienza e a controntarsi con essa francamente, da pari a pari, senza più ricorrere alla violenza, di qualsiasi tipo essa sia.
Anche la scienza avrebbe dovuto, dallo stesso caso, imparare qualcosa di analogo. Non tanto a rispettare la religione, che ha abbastanza forza per far valere i propri diritti, quanto a rispettare le opinioni scientifiche minoritarie o emergenti e rivoluzionarie come era quella di Galilei agli inizi del Seicento. Per essere più chiari la comunità scientifica doveva capire a) che arroccarsi a difesa del senso comune era stata un'iniziativa del tutto inopportuna e controproducente; b) che ogni teoria scientifica corre il rischio di trasformarsi (anzi quasi sicuramente si trasformerà) in una forma evoluta di senso comune o di opinione pregiudiziale; c) che, come ha fatto la Chiesa, bisognava mettere a punto una strategia che evitasse il ripetersi in futuro dello stesso incidente. E proprio per non aver capito questo che la scienza si ritrova oggi a dover affrontare e risolvere, al suo interno, il problema dell'eresia, che per lungo tempo ha considerato come un problema esterno che la vedeva sempre come vittima e mai come diretta responsabile di un'ingiustificabile emarginazione. L'ortodossia scientifica è chiamata oggi a dimostrare quella stessa apertura al dialogo che ha consentito alla Chiesa di evitare un secondo clamoroso incidente nel caso dì Darwin.