religione
I due «messia»
Domenico Savino
13/12/2006
Nel corso della storia del giudaismo l'idea messianica ha subìto una progressiva evoluzione.
Per non incorrere in equivoci va anzitutto ed immediatamente ricordato che per il giudaismo talmudico non c'è differenza tra l'età presente e il «mondo a venire», tranne che per l'assoggettamento di Israele ai gentili, da cui Israele con l'avvento del «messia» verrebbe liberata, rovesciando addirittura questa condizione.
L'antica tradizione dell'Haggadah (1), ripresa ad esempio da Rabbi Berak Berekyah, sosteneva riguardo alle motivazioni della venuta del «messia» un'idea in fondo non distante da quella che è propria della fede cristiana e cioè che «benché tutte le cose siano state create nella pienezza del loro essere [in uno stato di perfezione] attraverso il peccato di Adamo esse furono corrotte e non verranno restaurate nella loro perfezione fino a quando non verrà il 'messia'». (2)
Anche per il giudaismo dell'Haggadà, quello cioè della tradizione rabbinica, il «messia» atteso sarebbe stato dunque colui che avrebbe ripristinato ogni cosa nella sua perfezione originaria.
A mano a mano che si affermano le correnti cabalistiche ed in particolare quella luriana, per contro la prospettiva si invertì: il «messia» non venne più considerato la causa e l'inizio del processo di «redenzione», ma la sua conclusione.
Anzichè limitarsi ad attendere l'avvento del «messia», dunque, esso va preparato e in questo Israele acquista un ruolo centrale.
Secondo le scuole cabalistiche, infatti, il «male» non era il frutto dell'azione del Maligno, ma nasceva come risultato di un processo le cui dinamiche erano profondamente radicate all'interno della divinità stessa: insomma non c'era stato alcun difetto, disastro o catastrofe nel processo divino che avessero determinato l'irrompere del «male», costituendo piuttosto questo un dispiegarsi organico di certe leggi fisse insite nell'attività creatrice di Dio.
Si può dire che sussista una certa analogia tra le teorie del Vedanta indu e le diverse scuole cabalistiche e dello Zohar: come nell'induismo il Brahman è l'immanifesto e «colui» del quale nulla si può dire (il Nirguna), che degrada, apparendo nei diversi gradi della manifestazione dai più «sottili» fino a quelli più «grossolani», anche nel giudaismo esoterico e cabalistico la semplice «manifestazione» del «divinum» ne determina la «caduta».
A mano a mano che il flusso dell'emanazione divina procede dalle sefirot (o luci divine) verso le diverse forme del manifestato, esso diviene meno spirituale e raffinato, più manifesto e grossolano, sicchè - per usare l'espressione dello Zohar - il nostro mondo materiale altro non è che «la veste della divinità».
Tra i cabalisti di Safed e ancor più nel sistema luriano le cose si complicano: la realtà non si produce per emanazione, ma per ritrazione (simun) dell'En Sof che produce il vuoto (tehriu), al cui interno cominciano a delinearsi le Sefirot, strutture riflesse del mondo delle luci divine.
La luce che attraversò lo spazio primordiale fu quella dell'Adamo primordiale.
Le luci, che a loro volta emanavano da lui, venivano raccolte in vasi (o gusci della sostanza divina) che però ad un tratto esplosero, consentendo alle scintille di luce di ritornare in parte alla luce originaria.
In parte però esse rimasero attaccate ai frammenti dei vasi rotti, producendo le forze negative delle qellipah (letteralmente l'altra parte).
Ma quelle luci che esplosero e si dispersero nel vuoto erano parte della divinità, sicchè quell'esplosione produsse in realtà un evento all'interno della «divinità», che è rimasta essa stessa perturbata dal «caos» e dal «male».
Per rimediare a ciò occorre procedere a realizzare il tiqqun, cioè la riparazione o restaurazione.
Per le scuole cabalistiche il tiqqun non è però dipendente essenzialmente da un intervento soprannaturale, ma è l'esito di un processo di purificazione che deve essere compiuto nel corso del divenire storico.
Il tiqqun, che secondo la vecchia tradizione haggadica, deve attendere l'arrivo del «messia» per poter essere compiuto, nella visione cabalistica luriana deve precederlo, perché, anzi, senza di esso è impossibile che il «re» messianico possa venire.
Anziché produrre il tiqqun, il «messia» ne è dunque egli stesso prodotto: egli apparirà solo dopo che il tiqqun è stato raggiunto.
La redenzione per i cabalisti appare come il logico e necessario compiersi della storia ebraica.
Il compito di Israele non è dunque quello di essere luce delle genti, ma al contrario di strappare proprio alle genti le scintille di santità e di vita che vi sono rimaste imprigionate dopo la «rottura dei vasi».
Il processo del tiqqun, benché sostanzialmente costruttivo per i giudei, «non è privo però di aspetti distruttivi rispetto al potere usurpato delle qelippot e dai loro rappresentanti storici, i gentili». (3)
Si comprende allora che, se per il Talmud nessun convertito sarebbe più stato accettato nell'era messianica, un cabalista come Hayyim Vital spiegò che l'ipotesi di una conversione di un qualche gentile non sarebbe stata neppure immaginabile, perchè non sarebbero rimaste più anime sante tra i gentili, dato che per definizione, il «messia» sarebbe potuto venire soltanto dopo che le residue scintille di santità erano state loro sottratte.
Come scrive Scholem «la redenzione cosmica dell'elevarsi delle scintille si fonde con la redenzione nazionale d'Israele e il simbolo della radunanza degli esuli le comprende entrambe». (4)
Ovvio che in conseguenza di ciò le «doglie messianiche» sarebbero state accompagnate con l'annientamento delle genti, oramai private di qualsiasi scintilla della luce primordiale.
E' evidente che, trasferendo a Israele, la nazione storica, gran parte del compito di redenzione precedentemente assegnato al «messia», molte delle sue caratteristiche personali distintive che precedentemente figuravano nella letteratura apocalittica, venivano così ad essere cancellate.
E' in questo contesto che si viene sviluppando anche l'idea della venuta non di uno, ma di due «messia»: il «messia» figlio di Giuseppe ed il «messia» figlio di Davide, il primo «messia» della sofferenza, il secondo «messia» della vittoria.
La haggadah rabbinica, incorporata nel Talmud, non aveva fatto alcun accenno al «messia» figlio di Giuseppe.
E' a partire dall'analisi della sezione Ra'aya mehemma dello Zohar che sono esposti alcuni pensieri mistici riguardo all'anima dei due «messia», alle radici delle loro anime e al loro destino alla fine del tempo.
Si tratta di idee molto complesse, tranne per il fatto che i due «messia» sono in qualche modo connessi con Mosè e si riveleranno con lui nella generazione finale.
Mentre infatti nell'ebraismo haggadico tradizionale - al contrario di ciò che accade nel cristianesimo - il passo del «servo sofferente» di Isaia non è in alcun modo riferibile al Messia (tranne che talvolta durante il periodo tannaitico), fu con i cabalisti di Safed che cominciò a farsi strada l'idea di un «messia» sofferente, anche se a ben vedere non tutti gli scrittori distinguono con precisione il «messia» vittorioso, figlio di Davide, dal «messia» che cade in battaglia, figlio di Giuseppe.
Sempre dallo Zohar poi i discepoli di Luria traggono la convinzione che il «messia» figlio di Giuseppe compare e rinasce in ogni generazione in individui diversi: se non c'è un numero sufficiente di uomini giusti nella sua generazione per salvarlo dalla morte, creando le premesse per la venuta del «messia» figlio di Davide, il «messia» figlio di Giusepe deve morire, finché la reintegrazione non sia compiuta.
Il compito di preparazione dell'era messianica comporterà per Israele ed il mondo intero un periodo di sofferenza terribile.
Sono le doglie dell'era messianica, quando, per dirla con Moshè Cordovero «le sofferenze di Israele aumenteranno al massimo ed essi [il popolo d'Israele] saranno così sofferenti che diranno alle montagne 'copriteci' ed alle colline 'cadete su di noi' …[ Israele] passerà attraverso un raffinamento dopo l'altro finchè sarà [come] argento puro». (5)
Significativo è il fatto che secondo un precetto talmudico (bSanedrin 98a) il figlio di Davide sarebbe comparso solo in una generazione che fosse «o del tutto peccatrice o del tutto giusta».
Se i cabalisti di Safed coltivarono l'idea di affrettare l'avvento del «messia» con opere di santità, i cabalisti sabbatiani e frankisti fecero invece della trasgressione della «legge» e dell'iniquità lo strumento della loro opera di preparazione del tiqqun.
In ogni caso questa idea dell'esistenza di due «messia» servì per spiegare il «fallimento» di tanti «maestri», che pure talvolta avevano suscitato tanta speranza (il caso di Shabbetai Zevi o quello di Jakob Frank sono al riguardo significativi), oppure per dare ragione in qualche modo delle sofferenze che colpivano il popolo di Israele, ma è alla base di quel messianesimo laico che si arrivò a far nascere con una tenacia altrimenti inspiegabile lo Stato di Israele.
La pericolosità di questa idea dei due «messia» fu avvertita con straordinaria lucidità un secolo e mezzo fa da La Civiltà Cattolica, quando il giornale dei Gesuiti era ancora un saldo baluardo della dottrina cattolica: «Consta del resto dalle tradizioni cabalisticlie ebree presenti che (come si legge presso l'Imbonati a pagina 50 dell'appendice alla sua Bibliotheca latino-Hebraica) nel libro del rabbino Meir Aldabi Sephardi intitolato: Via de/la Fede: Via Decima: Capo 1°, pagina 123, si legge che quando verrà il Messia anche il Messia Figliuolo di Giuseppe (cioè Gesù Cristo) risorgerà. Ed andranno i due Messia insieme e faranno 'pace tra loro': quasi come due Re a braccetto, come dicono ora certi conciliatori ebrei della Libertà e dell'Opinione». (6)
La follia apocalittica dei «cristiani rinati» si fonda proprio su questa visione pervertita della verità, sulla conciliazione tra il Messia della Croce e quello della stella di Davide: è la grande menzogna che spalanca le porte alla «grande apostasia».
Jerry Falwell, il telepredicatore padrone di uno dei grandi imperi mediatici religiosi, assicura: «L'età delle Genti (Luca 21:24) o è finita con la conquista ebraica di Gerusalemme nel 1967, oppure finirà in un futuro molto prossimo […]. Israele e la Chiesa cristiana tutt'e due sono stati eletti da Dio […] nessuno è responsabile della morte di Cristo che ha dato volontariamente la vita per lavare i peccati dell'umanità […]. Oggi, lo Stato d'Israele è la sede della profezia. Nel Vecchio Testamento il ruolo degli ebrei era quello di testimoniare, oggi è quello di preparare la Seconda Venuta di Cristo».
Poi ammonisce: «Nel giorno di Armageddon, in data ancora imprecisata, pur se prossima, milioni saranno inceneriti, ma proprio per questo non dobbiamo dimenticare com'è bello esser cristiani! Noi abbiamo un futuro meraviglioso davanti!» (7), quando i «rinati in Cristo», i reborn, verranno «rapiti», raptured, sollevati a mezz'aria tra la terra e il cielo e lì resteranno per «tutti i sette anni delle Tribolazioni».
Jerry Falwell
Così invece descrivono il mondo post-apocalittico gli esponenti della International Christian Embassy in Jerusalem, una denominazione «cristiana» (si fa per dire!) al cui vertice sta il pastore pentecostale americano David Allen Lewis e Willem van der Hoeven, predicatore sudafricano e sostenitore storico dell'apartheid: «Il Messia regnerà dal trono ristabilito di Davide a Gerusalemme. Risorto, Re Davide sarà co-reggente assieme a Cristo. Israele occuperà una posizione di gloria e dominio sulle nazioni del mondo. I Cristiani rinati [reborn, come si definisce lo stesso G.W. Bush nda] si uniranno al Messia e ai dirigenti di Israele nell'amministrare il regno di Dio sulla terra. Siamo in marcia verso Sion!». (8)
E' un'idea che si è fatta strada purtroppo anche nella coscienza di molti cattolici o sedicenti tali, specie oggi che l'antica teologia della sostituzione (secondo cui la Chiesa è il nuovo Israele che ha sostituito l'Israele storico nella Nuova Alleanza) sta pericolosamente lasciando il posto alla teologia delle salvezze parallele.
Questa falsa teologia secondo la quale Israele avrebbe una propria e speciale via di salvezza, fondata sull'irrevocabilità dell'Antica Alleanza a prescindere dal Cristo, è quanto di più perverso e anticristiano il dialogo interreligioso abbia prodotto e possa produrre.
E' davvero cambiato il rapporto tra ebrei e cristiani!
Molti cristiani, specie protestanti, sono oramai giudaizzati.
In fondo i Christian Zionists e i teocon di tutte le Americhe sono solo la punta dell'iceberg, giacchè anche i cattolici non sono più quelli di una volta.
Ha detto Olivier Clément, denunciando un complesso di inferiorità nei confronti del mondo ebraico: «Con l'ebraismo è in corso una vera sfida spirituale. Molti cristiani occidentali sono diventati spiritualmente degli ebrei; ormai non si studia più il greco patristico, bensì l'ebraico. L'espressione 'fratelli maggiori' è bella, ma per noi ciò che conta alla fine è Cristo». (9)
Pressati da un'opinione pubblica sovente manipolata, in un rapporto sempre più problematico e perdente col mondo, incapaci di controbattere ad infondate accuse di antisemitismo, spesso tremebondi nell'annuncio della fede, prigionieri dell'ossessione di non offendere nessuno, anche i cattolici, pur di non vedersi accusati di essere contro gli ebrei, hanno smesso il severo antigiudaismo di una volta.
Eppure mai come in questo campo sarebbe da applicare - diciamolo provocatoriamente - la roncalliana distinzione tra errore ed errante.
Ma tant'è, la paura fa novanta.
Sono in pochi ad avere ancora coraggio e idee chiare.
Vittorio Messori ad esempio: «E' abbastanza rattristante e anche un po' buffo osservare come il cattolicesimo cerchi in ciò di scimmiottare - in ritardo - la Riforma […] Sotto questa moda per l'ebraismo, vedo un problema teologico: si vuol passare cioè dalla cristologia alla teologia; 'Basta con Cristo - si dice -, e torniamo a Dio'. Ecco: stiamo riscoprendo il monoteismo ebraico, magari non abbandonando Gesù ma certo declassandolo da Dio a profeta: e ciò risponde al bisogno di normalizzare lo 'scandalo' e la follia cristiana di rendere un uomo Dio. Le nostre radici sono indubbiamente in Israele, ma si rischia di dimenticare che il Dio rivelatoci da Cristo non è affatto quello ebraico; anzi, quel Dio scandalizza un ebreo osservante. Mettere continuamente ebraismo (e islamismo) accanto al cristianesimo mi pare dunque gravemente abusivo: il nostro non è affatto un monoteismo come gli altri; ed è proprio il Nuovo Testamento che ci impedisce di essere rimasti una setta ebraica. Come sempre, è Gesù a far problema; e lo si vuol demitizzare anche enfatizzando il suo contesto». (10)
Ma Messori è una mosca bianca, i più si adeguano.
Oramai per tutti - o quasi - gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori.
Ma questo non basta agli ebrei, forse perché lo Spirito non ha permesso che la Chiesa, dietro un'espressione di riconciliazione, nascondesse comunque la Verità.
Nella Bibbia infatti i fratelli maggiori non ci fanno una gran figura: Caino è il fratello maggiore di Abele, Esaù vende la primogenitura per un piatto di lenticchie, i fratelli maggiori vendono Giuseppe, ai fratelli maggiori viene preferito Davide.
In quella «storica» visita alla Sinagoga lo Spirito Santo deve avere suggerito al Papa un modo nuovo per ricordare una verità eterna: nella parabola del figliol prodigo colui che si deve convertire resta comunque il fratello maggiore.
La cosa non è passata inosservata in casa ebraica e non è piaciuta.
La Chiesa li ha di nuovo accontentati: la nuova formula è «fratelli privilegiati». (11)
Ma ancora non basta.
Lo ricorda il rabbino Di Segni: c'è una frase nella «Nostra aetate» che non viene quasi mai citata, ma rivela il nodo del problema: «E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio...» dice il documento.
E' in qualche modo una ripresa dell'antico tema del verus Israel , che nella sua formulazione conciliare lascia aperto il problema: se «nuovo» popolo di Dio significa che il vecchio non lo è più, o se insieme vecchio e nuovo hanno un ruolo nella salvezza.
Il cardinale Bea, coraggioso difensore del documento conciliare […] non aveva dubbi su questo punto: spiegava che «naturalmente è vero che il popolo ebraico non è più il popolo di Dio nel senso di istituzione di salvezza per l'umanità». (12)
Tutto ciò che è cattolico dà fastidio.
Il termine in voga è: «inquietante».
Inquietante è stato definito il film di Mel Gibson sulla Passione di Cristo, perché non ha edulcorato il sacrificio cruento di Cristo, perché non ha nascosto la brutalità del modo in cui Egli fu straziato. Inquietante è stata definita perfino la pubblicazione da parte di un'autorevole casa editrice cattolica delle memorie dell'ex rabbino capo di Roma, Eugenio Zolli, convertitosi al cristianesimo nel 1945, accompagnata da recensioni elogiative se non entusiastiche nel mondo cattolico.
Se ne lamenta senza mezzi termini ancora il rabbino Di Segni: «Il dato che segnalo, è che a 39 anni dalla 'Nostra aetate' e a 30 anni dalla Commissione non mi è parso di vedere - e sarei lieto se qualcuno mi potesse contraddire - un solo articolo di un cattolico dove si dicesse che i tempi sono cambiati e che un rabbino che si converte al cristianesimo non è più un obbiettivo e un ideale per la Chiesa cattolica». (13)
Il fatto è che oggi il giudaismo pretende di indicare ai cristiani una teologia ebraica del cristianesimo, di fissarne i termini e i percorsi, specificando che il problema teologico della definizione dell'altro da parte ebraica - visto che unilateralmente si specifica che la halakhà ha le sue regole - è un problema che dovrà essere risolto all'interno dell'ebraismo, con dinamiche interne e fuori dal dialogo.
Si domanda Di Segni: «Ma questa teologia c'è? Certo che c'è. E ci sono state evoluzioni nel pensiero di questi ultimi anni? Certo, come in passato, ma non parallele a quelle del cristianesimo. Molto più lente, e molto più dialettiche. Israele, come il patriarca Ja'aqov nel suo momento di reincontro con il fratello maggiore Esav, che lo invita a viaggiare insieme, risponde che ha bisogno di tempo, del suo tempo, dei suoi ritmi (Gen. 33:14). Il dialogo, che non deve essere teologico, pone inevitabilmente a Israele il problema teologico della definizione dell'altro. Questo è un problema che dovrà essere risolto all'interno e con dinamiche interne, fuori dal dialogo, ma al quale, con i suoi tempi naturali, Israele non potrà sottrarsi. Ma nell'ebraismo la teologia (termine assente dal suo vocabolario classico) non può essere disgiunta dalla halakhà (14), la regola, ben più importante e decisiva. […] la halakhà ha le sue regole, e i risultati non sono programmabili politicamente». (15)
Ma poi si va ancora più in là.
Da parte ebraica si chiede - a ben vedere - di mutare non solo la dottrina cattolica, ma di adulterarne addirittura l'insegnamento circa la natura del rapporto di Dio col suo popolo: non più un Dio geloso e fedele alla sua Sposa (la Chiesa o da parte ebraica Israele), ma un Dio poligamo e addirittura dominato dall'elemento femminile.
Scrive proprio così il rabbino Di Segni: «Sul piano della dottrina possiamo concederci un po' più di libertà. Certamente, sulla base dei testi, ci sono piste da percorrere anche se con cautela, per nuove riflessioni dottrinali. […] Ma resta un'immagine interessante (che magari non sarà gradita alle donne di oggi): come un uomo può avere più mogli, stabilendo con ognuna un rapporto affettivo speciale, così Dio può unirsi a vari popoli, dopo essere stato unito a Israele come sua prima compagna. Non c'è limite all'amore divino; ma resta da definire se a ogni nuova unione la precedente compagna sia ripudiata e negletta per sempre o se resti sempre amata; e il testo profetico deporrebbe per la seconda ipotesi; ma in fondo questa riflessione rabbinica non esclude la possibilità di affetti non esclusivi per Dio. E con un po' d'ironia potremmo anche immaginare che, come spesso succede nelle famiglie poligamiche dopo l'iniziale contrasto tra le rivali, le mogli si alleino per dominare o resistere al marito. Sarebbe un'imprevedibile e paradossale evoluzione storica». (16)
Il rabbino Riccardo Di Segni
Cosa dovrebbero fare i cristiani per compiacere davvero gli ebrei?
Dovrebbero smettere di dare retta a san Paolo, che aveva predetto che un giorno l'indurimento di Israele sarebbe cessato (Romani 11, 25-27)?
Pare di sì a sentire Di Segni: «[…] racconta la Genesi (27:45) che quando Esav minacciò di uccidere il fratello Ja'aqov non appena il padre Izchaq fosse morto, la madre Rivkà ordinò a Ja'aqov di fuggire, dicendo 'perché dovrei rimanere priva di voi due in solo giorno?' […] Rashì, riprendendo l'idea dal Talmud (TB Sotà 13a), dice che in quel momento Rivkà era stata dotata di spirito profetico, e aveva intuito, come il midrash deduce dal racconto biblico, che effettivamente, dopo molti anni, i due fratelli gemelli sarebbero morti (o sarebbero stati sepolti) nello stesso giorno. Le parole di Rashì fanno pensare a una cosa importante: che tra i due fratelli non ci sarà uno che scomparirà prima dell'altro, magari inghiottito dall'altro. Siamo destinati a stare nel bene e nel male per sempre insieme e finché uno di noi vivrà, vivrà anche l'altro». (17)
Secondo il rabbino di Roma, i cristiani dovrebbero cessare di insistere, di essere «intolleranti», aderendo piuttosto a quello che egli definisce come uno scenario politico: «[…] e che consiste essenzialmente nella volontà di una sorta di moratoria, di una sospensione e di un rinvio all'imperscrutabile volontà superiore alla fine dei giorni. Due grandi ebrei, a distanza di undici secoli e schierati in campi opposti, hanno forse detto la stessa cosa. Il primo, Saul di Tarso, l'apostolo Paolo, davanti al dato per lui inesplicabile dell'incredulità ebraica, ha formulato in 'Romani 10:25' l'idea dell'ostinazione di Israele che durerà finché tutti gli altri popoli non arriveranno alla salvezza, e solo allora 'tutto Israele sarà salvato'. Il secondo, Mosè Maimonide, nelle norme sui Re del suo codice (capitolo 11), dopo aver denunciato l'invalidità della fede di Gesù, ha comunque formulato un'interpretazione sul significato provvidenziale della diffusione del cristianesimo, 'per preparare la strada per il re Messia, e aggiustare il mondo intero al servizio di Dio insieme, come è detto, perché allora riverserò sui popoli una lingua chiara perché tutti invochino il nome del Signore e Lo servano unanimamente' (Zef. 3:9). Forse il pensiero parallelo dei due suggerisce la soluzione, che non può essere immediata ma escatologica. Entrambi abbiamo il diritto di sperare che l'altro riconosca in noi la vera fede, ma lasciamo che la cosa si svolga in tempi lunghi e incontrollabili». (18)
Dunque i cristiani - secondo il rabbino Di Segni - dovrebbero abbandonare la missione, pardòn il «fondamentalismo» dell'apostolo Paolo (assumendo come maestro Maimonide, che peraltro denuncia l'invalidità della fede di Gesù) e adottare una «tollerante e paziente» speranza di reciproco riconoscimento: Israele percorrerebbe il suo cammino come in parallelo, cioè all'interno di un'economia di salvezza completamente staccata e autonoma rispetto al cammino della Chiesa. La sua conversione non si dispiegherebbe nel tempo, perché tutto sarebbe rimandato all'eschaton.
Terribili e accattivanti parole, dietro cui si nascondono da un lato il prevalere della tendenza esclusivista di separazione del giudaismo e dall'altro la più insidiosa delle prospettive per il cristianesimo, che ne eliminerebbe il carattere di universalità: l'esistenza, cioè, di due popoli distinti (Israele e le Genti), con due distinte vie di salvezza (Cristo e il messia dei Giudei).
E' chiaro che accettare ciò significherebbe per un cristiano rinnegare «Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito». (19)
Al di fuori della prospettiva paolina, i cristiani sono inevitabilmente destinati a diventare - come i Christian Zionists - cristiani giudaizzanti, per giunta col corollario di declassare - come hanno fatto costoro - il Cristo a co-reggente del messia di Israele.
In una parola sono inevitabilmente destinati a renderne vana la Croce, a diventare apostati.
Davvero sorge il sospetto che - come dice san Paolo - «la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia». (20)
Davvero viene da chiedersi a cosa si riferisca l'Apostolo delle Genti, quando predice che «dovrà avvenire l'apostasia».
Davvero agli esponenti di certo ecumenismo, agli estremisti di un certo dialogo interreligioso dovrebbero risuonare nelle orecchie - se ancora le ricordano - le parole tremende di Gesù: «Ma il Figlio dell'Uomo, quando verrà, troverà la Fede sulla terra?».
Domenico Savino
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Note
1) Letteralmente Haggadah significa «racconto» ed è il nome dato a quelle parti del Talmud che sono leggendarie: parabole, allegorie proverbi, preghiere, discussioni, interpretazioni bibliche, ecc. E' un genere letterario tipico del giudaismo rabbinico, a lungo trasmesso oralmente, fu incorporato per la prima volta nel Talmud babilonese, poi in quello palestinese. Non ha valore normativo, ma edificante; rappresenta un documento di grande interesse per conoscere stati d'animo, credenze, usi, ecc. della vita di ogni giorno dei palestinesi nei primi secoli dell'era volgare. Contiene anche una serie di riflessioni sui grandi problemi di Dio e della provvidenza, del premio e della punizione, del tempo presente e di quello futuro, ecc. Una rinascita della Haggadah la si può vedere nel Chassidismo, un movimento mistico dell'ebraismo, diffusosi in Galizia, Volinia ed Ucraina. Esso tendeva all'enfasi della salvezza personale, al rifiuto della magia, all'attaccamento a Dio.
2) Rabbi Berak Berekyah, Genesi, Rabba XII, 6, citato in Gershom Sholem, «Šabbetai Þevi - Il messia mistico», Einaudi.
3) Gershom Sholem, citato, pagina 54.
4) Gershom Sholem, «Šabbetai Þevi - Il messia mistico», Einaudi.
5) M . Cordovero Elimah Rabbati, L'vov 1891, pagina 91.
6) In La Civiltà Cattolica, Anno XXXII, Serie XI, Volume VIII, Quaderno 751, pagina 606.
7) I sionisti cristiani in soccorso del grande Israele di Michele Giorgio, Il Manifesto, 19 maggio 2004 ed anche su
www.kelebekler.com/occ/giammanco.htm
8)
www.kelebekler.com/christianzionism-it.htm
9) Confronta «Ebrei, dialogo o moda?», di Roberto Beretta, «Avvenire», 3 marzo 2000.
10) Confronta «Ebrei, dialogo o moda?», di Roberto Beretta, «Avvenire» 3 marzo 2000.
11) Nelle «Considerazioni sul messaggio del Papa per il Centenario della Sinagoga» di Roma il Rav dottor Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma sottolinea come «il dato più rilevante e certamente positivo è che si usi ora l'espressione di 'fratelli prediletti', e non si faccia più riferimento ai 'fratelli maggiori'; quest'ultima espressione usata nel 1986 fu certamente geniale e grazie ad essa l'uomo della strada capì che il rapporto con gli ebrei poteva essere di fratellanza; per il teologo o il conoscitore della Bibbia, invece, l'espressione poteva conservare il sapore della cattiveria dei biblici fratelli maggiori, da Caino a Esaù insieme all'idea della perdita della primogenitura a favore del fratello minore. L'aver ora tralasciato questa espressione segnala sensibilità alle ripetute proteste in campo ebraico».
12) Intervento del Rav dottor Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma: «Percorsi, fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico cristiani oggi», Roma, 19 ottobre 2004 presso la Pontificia Università Gregoriana; «Trent'anni della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo».
I teologi spesso si arrampicano sui vetri, ma alla fine - come giustamente evidenzia Di Segni - il problema resta. Ed è insolubile. Don Pietro Cantoni, dopo avere impiegato pagine intere a illustrare il quadro dello sviluppo che la dottrina della Chiesa cattolica ha conosciuto su questo tema soprattutto a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, non può che concludere in maniera tradizionale: «La Chiesa è l'Israele messianico che si sente sempre legata all'Israele antico, come appunto ai suoi 'fratelli' maggiori. Questo non vuole ovviamente togliere la differenza. Per la Chiesa un velo rimane steso sugli occhi di Israele. Il velo non significa di suo che la legge a cui Israele rimane attaccato sia qualcosa di falso o di transitorio, ma che gli occorre un passo - che è la conversione - per coglierne il vero senso. Che non è quello della sua distruzione, ma del suo compimento. Neppure si deve pensare che Israele percorra ora il suo cammino come in parallelo, cioè completamente staccato e autonomo rispetto al cammino della Chiesa. Tutto sarebbe rimandato all'eschaton. In quell'occasione Israele si convertirà. Questa visione trasmette un'immagine falsa dei rapporti tra piano di Dio e libertà umana. La conversione è sempre un dono di Dio, ma un dono fatto alla libertà dell'uomo che - per sua natura - si dispiega nel tempo. Così deve essere per la conversione di Israele». (confronta don Pietro Cantoni «Antigiudaismo, antisemitismo e Chiesa cattolica», Studio Teologico Interdiocesano «Monsignor Enrico Bartoletti», Camaiore, intervento al convegno «Ebraismo moderno, antisemitismo e Chiesa cattolica» organizzato dal CESNUR e dall'Arcidiocesi di Monreale, 24 febbraio 2005).
13) Intervento del Rav dottor Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma: «Percorsi, fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico cristiani oggi», Roma, 19 ottobre 2004 presso la Pontificia Università Gregoriana; «Trent'anni della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo».
14) L' halakhà (via da seguire) è il complesso delle norme codificate della legge ebraica. Deriva dalla codificazione delle regole del Talmud espresse in tutte le opere che seguono, ovvero è l'aspetto giuridico cui tutti gli ebrei sono tenuti a osservare.
15) Intervento del Rav dottor Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma: «Percorsi, fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico cristiani oggi», Roma, 19 ottobre 2004 presso la Pontificia Università Gregoriana; «Trent'anni della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo».
16) Idem.
17) Idem.
18) Idem
19) Confronta Ef. 2, 14-18.
20) Lettera ai Romani 11, 11. San Paolo tuttavia prosegue: «Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?».
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