II pentito Vassallo: così per venti anni abbiamo avvelenato la Campania

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wheaton80
00lunedì 21 luglio 2014 18:59
Intervista a Gaetano Vassallo – «Rifiuti, affari con clan e P2». L’incontro in un carcere di massima sicurezza del Nord



«Ci sono i fanghi dell’ Acna, le ceneri dell’Ilva, calce spenta dell’Enel, ma niente di radioattivo»: Gaetano Vassallo è il manager dei rifiuti diventato collaboratore di giustizia. Adesso, in carcere, accetta di fare chiarezza sui traffici illegali e sul sistema di garanzie. «Le aziende con noi risparmiavano il 75% – dice – così per vent’anni, spargendo i liquami con le pompe per l’irrigazione, abbiamo avvelenato la Campania con la complicità di clan e P2. Ci siamo arricchiti anche con il Commissariato per l’emergenza rifiuti». «Ho accompagnato i magistrati nei siti dove io e i miei colleghi abbiamo sversato. In quelle aree sono stati fatti anche i carotaggi. So quello che abbiamo scaricato e dove lo abbiamo portato. Ci sono i fanghi dell’Acna di Cengio, ci sono le ceneri dell’Ilva e la calce spenta dell’Enel, ma non ci sono rifiuti radioattivi»: Gaetano Vassallo è il primo manager dei rifiuti ad aver intrapreso la strada della collaborazione con la magistratura. Adesso, in carcere, accetta di fare chiarezza su quello che è stato portato in Campania fino al 2008. Elegante, cortese, arriva in sala colloqui con il suo legale, Sabina Esposito, e offre i cioccolatini che ha portato con sé. Il suo è un racconto serrato. Ai giudici Giovanni Gonzo, Alessandro Milita e Maria Cristina Ribera ha raccontato come, insieme ai suoi complici, ha avvelenato la Campania e ha sostenuto le accuse in molte aule giudiziarie. Con “Il Mattino” ripercorre venti anni di sversamenti illegali. E ribadisce le accuse all’ex sottosegretario Nicola Cosentino e all’onorevole Luigi Cesaro. Saranno i magistrati della Cassazione a emettere giudizi definitivi e fino ad allora per tutti vale la presunzione di innocenza. Ma Vassallo ha sversato veleni in prima persona e ne ha gestito i traffici: per questo la sua testimonianza è unica e fondamentale per gettare luce sulla situazione drammatica che ci troviamo ad affrontare. In carcere Vassallo è finito nel dicembre dello scorso anno per condanne sugli appalti truccati, dopo aver cominciato una nuova vita in una località protetta, dove era riuscito anche a trovare un lavoro come carrellista in un centro commerciale. Ha cominciato a collaborare quando in Campania è arrivato Giuseppe Setola e ha realizzato che la sua vita era a rischio. Poi ha cominciato a pentirsi:«Solo adesso», dice, «sto rendendomi conto fino in fondo del disastro che abbiamo combinato».

Quando incomincia questa storia?

«Ho iniziato a lavorare nel campo dei rifiuti subito dopo aver ottenuto il congedo militare nel 1980. Mio padre lavorava nel settore e lo faceva addirittura senza partita Iva. I Comuni che avevano bisogno di scaricare facevano i mandati di pagamento e noi incassavamo. Eravamo tutti improvvisati e ci siamo trovati a gestire una cosa talmente grossa dove gli interessi economici erano così elevati che abbiamo affrontato una situazione più grande di noi. Io che avevo un diploma e avevo studiato decisi che così non si poteva andare avanti e, tra l’81 e l’82, in contrasto con la mia famiglia, aprii una partita Iva e una ditta individuale».

Avevate già rapporti con la camorra?
«Sì. Mio padre aveva ospitato Santo Flagiello di Sant’Antimo, del clan Mallardo, che era latitante e che sarebbe poi stato anche mio compare di nozze. Io sono entrato in contatto con il clan Bidognetti dopo un’estorsione fattami da De Simone, Francesco Biondino e Vincenzo Zagaria. Ci mettemmo d’accordo e stabilimmo che gli avrei dato trecento milioni ogni dodici mesi, ma già all’epoca incassavamo sette otto miliardi all’anno».

Cosa garantiva il clan?
«Fino all’entrata in vigore della legge 915 del 1982 bastava che un sindaco ti autorizzasse agli sversamenti e il gioco era fatto. Così noi abbiamo ottenuto il via libera tramite gli amici di Giugliano, ma non è mai stato fatto nessun sopralluogo, non sono mai state individuate planimetrie e particelle catastali. Si indicava solo genericamente una località. Chi ci doveva controllare, chi ci doveva dare le autorizzazioni non lo faceva. E così noi abbiamo utilizzato anche tre volte gli stessi invasi: bastava cambiare il nome della discarica nel chiedere l’autorizzazione».

Le discariche erano su suoli di vostra proprietà?
«Noi avevamo una cava di pozzolana, un materiale che all’epoca serviva a fare intonaci e muratura, e vendevamo i materiali. Compravamo i pezzi di terreno e a quel punto, avendo le buche, abbiamo cominciato a riempirle di spazzatura. Un amico di mio padre che faceva questa attività lo incoraggiò a entrare nel campo dei rifiuti «Compa’, là si fanno i soldi veri», gli disse. E noi ci demmo da fare arrivando a gestire trenta Comuni nelle province di Napoli e Casería. Poi quando io sono entrato in attività ho preso più buche e mi sono adoperato per sfruttarle al massimo. In quel periodo Zagaria faceva i lavori per rimettere a posto i Regi Lagni e scavando abbiamo fatto trincee più profonde».

E questa era la fase che lei definisce legale…

«Sì, ma poi nell’88-89 scoppiò l’emergenza rifiuti in Toscana e la prima discarica campana a ricevere spazzatura da fuori regione fu l’attuale Sogeri, che allora era lo sversatoio di Giacomo Diana e stava a Castelvolturno. I Comuni toscani si affidarono a trasportatori che avevano bisogno di buche e noi gliele offrimmo. Dopo Diana io sono stato il secondo a prendere i rifiuti, poi hanno cominciato Chianese, sempre a Giugliano, Difrabi a Pianura, Giuseppina Rossi di San Marco Evangelista, Ammendola e Formisano di Ercolano. Diventammo nove imprenditori a lavorare in quel settore e ci consorziammo. A quel punto la camorra è entrata direttamente nel campo. In Toscana c’erano dei casalesi, Luigi Caterine e Francesco Di Puerto, che erano vicini al clan. Caterino si rivolse a me per ottenere disponibilità nella mia discarica, ma io mi rifiutai: non avevo bisogno di intermediari perché già pagavo la tangente e stavo a posto. Allora Caterino parlò con Antonio levine, che io già conoscevo perché mi aveva chiamato per farmi fare anche per la raccolta del Comune San Cipriano, dove io in precedenza avevo fatto solo lo smaltimento. Ma visto che ero una persona che si metteva a disposizione anche per fare le assunzioni, decisero che dovevo fare anche la raccolta e non solo lo smaltimento. Fino a quel punto, però, smaltivamo rifiuti urbani e al massimo pulper di cartiera. Ma non avemmo potuto farlo perché le autorizzazioni non prevedevano l’ingresso in Campania di rifiuti da altre Regioni».

Come risolveste il problema?
«Creando le società commerciali. Il rifiuto formalmente arrivava alle società commerciali che poi portavano a noi. E così se ne perdevano le origini. Perciò nel 1989, su consiglio dell’avvocato Chianese (5), demmo vita alla Ecologia 89, fondata da Gaetano Cerci, che era nipote di Bidognetti. Più creavamo disponibilità di spazio, più rifiuti arrivavano. Tutto questo è stato possibile anche grazie alla trascuratezza dell’ente provinciale e regionale: abbiamo fatto quello che volevamo e nessuno ci ha mai controllato. D’altra parte, anche se avessero tentato di controllarci, li avremmo tamponati con altri mezzi».

I proprietari dei terreni sapevano quello che stava succedendo?
«Certo, magari non capivano fino in fondo, ma sapevano che nei loro campi buttavamo rifiuti».

Cerei era amico del maestro venerabile Licio Gelli. Era lui che vi procurava i clienti?
«Non solo. Cerei era amico di Gelli tanto che era stato fermato vicino alla sua casa, e Gelli attraverso la massoneria garantiva anche sul versante politico il rapporto con Perrone Capano,
che avrebbe dovuto dare le autorizzazioni».

A quel punto i clan gestivano direttamente l’affare rifiuti.

«Sì. E sono arrivati rifiuti tossici da tutte le parti».

Che cosa avete interrato?

«Io personalmente ho gestito i rifiuti dell’Acna di Cengio, che sono andati anche alla Resit di Chianese e alla Difrabi. Erano fanghi di colore grigiastro».

Li avete immessi in discariche impermeabilizzate?

«Noi non abbiamo mai impermeabilizzato niente, buttavamo tutto direttamente nei fossi. Per la prima volta abbiamo comprato i teli molto dopo, ma lo abbiamo fatto solo per farli vedere a eventuali ispettori senza metterli mai. Coprivamo i rifiuti tossici con i sacchetti della spazzatura che ci mandavano i Comuni».

Cosa altro avete scaricato?

«Di tutto».

Facciamo qualche esempio.

«Abbiamo smaltito gli acidi della MeridBulloni di Castellammare di Stabia. Quando arrivavano le cisterne usciva questo liquido e bruciava tutto quello che c’era sotto, si vedeva che i rifiuti sottostanti friggevano. Poi c’era la Ciba che ci mandava i suoi scarti e noi li mischiavamo con i rifiuti urbani. Dal Lazio, da Cassino, arrivò della roba talmente infiammabile che per bruciarla usavamo le molotov, che lanciavamo senza avvicinarci per paura di finire tra le fiamme. Dai Pellini ad Acerra i fanghi sono stati diluiti nell’ acqua e sparsi nei campi con gli irrigatori automatici. Il giro si è allargato continuamente: fino al ’93 è stato un macello».

Lei guadagnava molto?

«Moltissimo. Che paradosso, i nostri operai facevano il lavoro e avevano anche il sussidio»

Daniela De Crescenzo, tratto dal quotidiano Il Mattino del 16 luglio 2014
18 luglio 2014
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