Quando un vecchio amico e collega ambasciatore in Myanmar m’inviò a novembre l’intervista di Aung San Suu Kyi al Washington Post, ne fui sbalordito. Il colloquio smentiva la valutazione comune di Suu Kyi nel nostro Paese come creazione dell’occidente contro il ventre molle della Cina. Nell’intervista, Suu Kyi di punto in bianco si rifiutava di accreditare agli Stati Uniti i successi nel promuovere la democrazia. Ha sottolineato che l’interesse del Myanmar sarà perseguito con politiche non allineate, differenziando inoltre la posizione del Myanmar sul problema del Mar Cinese Meridionale, sottolineando l’importanza delle relazioni con la Cina. (https://www.washingtonpost.com/opinions/aung-san-suu-kyi-im-going-to-be-the-one-who-is-managing-the-government/2015/11/19/bbe57e38-8e64-11e5-ae1f-af46b7df8483_story.html)
Nella visione strategica indiana, un pio desiderio spesso si tramuta in ipotesi. Il punto è la rivalità intensa con la Cina, prisma dei pandit indiani, che porta ad avere idee sbagliate su Suu Kyi dipendente dal sostegno degli Stati Uniti per la propria sopravvivenza politica. (http://blogs.timesofindia.indiatimes.com/toi-edit-page/as-foreign-minister-suu-kyis-first-task-is-to-manage-large-chinese-shadow-looming-over-myanmar/)
Finiamo dritti nel complotto? Data “l’emergenza unipolare” degli esperti indiani, spesso essi attribuiscono agli Stati Uniti un’influenza esagerata sugli altri Paesi. Neanche le lezioni dall’Afghanistan sono state apprese correttamente, cioè il fatto che ci sono limiti al potere degli Stati Uniti. In realtà, vi sono sempre più indicazioni sull’emergere di un attrito latente tra Washington e Suu Kyi, e sul fatto che gli Stati Uniti stiano cercando d’imporsi su di lei. Il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Myanmar ha sfidato apertamente il consiglio dato dal Ministero degli Esteri (guidato da Suu Kyi) a non riferirsi al problema dei Rohingya.
(http://www.theguardian.com/world/2016/may/11/us-defies-myanmar-government-rohingya-muslims)
In effetti, il problema dei Rohingya è estremamente consequenziale per l’India, perché nella stragrande maggioranza dell’opinione pubblica in Myanmar il problema è legato alla grande migrazione illegale di musulmani dal Bangladesh e non riguarda una questione etnica o una minoranza perseguitata. Ora, con il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti che solleva un polverone sul problema Rohingya sul piano diplomatico, il New York Times ha scritto un editoriale rabbioso contro l' “atteggiamento vile” di Suu Kyi. The Times è sempre stato indicativo, facendo capire che il vero problema qui è Suu Kyi:“Alla fine, la ragione per cui Aung San Suu Kyi non vuole che gli statunitensi dicano “Rohingya” non ha molta importanza. Ciò che conta è che una donna il cui nome è stato sinonimo di diritti umani per una generazione, una donna che ha mostrato coraggio inflessibile di fronte al dispotismo, abbia continuato la politica del tutto inaccettabile dei governanti militari che ha sostituito… La sua aura era un fattore centrale nel reinserimento del Myanmar nella comunità mondiale… ma già vi sono appelli dai gruppi per i diritti umani negli Stati Uniti al Presidente Obama per rinnovare le sanzioni contro il Paese entro il 20 maggio”. (http://www.nytimes.com/2016/05/09/opinion/aung-san-suu-kyis-cowardly-stance-on-the-rohingya.html?_r=1)
Il Los Angeles Times è stato più esplicito nel raccomandare che “il governo degli Stati Uniti mantenga almeno alcune regole per gli investitori e le sanzioni contro il Myanmar che dovrebbero scadere a fine mese, in particolare quelle che richiedono alle aziende statunitensi attive in Myanmar di riferire sugli sforzi per garantire che i diritti umani e del lavoro siano mantenuti, e di non fare accordi con i cittadini denunciati per violazioni dei diritti umani”. (http://www.latimes.com/opinion/editorials/la-ed-0510-rohingya-name-20160510-story.html)
Gli Stati Uniti puntano a modificare l’obiettivo delle sanzioni. Nel frattempo, Wall Street Journal citava il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Myanmar, secondo cui “Washington non è pronta a togliere tutte le sanzioni contro il Myanmar, in attesa di progressi su questioni come i diritti umani”. (http://www.wsj.com/articles/u-s-unlikely-to-shed-myanmar-sanctions-yet-ambassador-indicates-1462871308)
Evidentemente, la questione centrale qui è la politica di Suu Kyi verso la Cina. La pressione degli Stati Uniti avviene proprio quando Suu Kyi è chiamata a decidere sui programmi cinesi in stallo nel Myanmar. Si trova di fronte alla stessa situazione che ha affrontato Ranil Wickremesinghe nello Sri Lanka. Suu Kyi si piegherà alla pressione statunitense? Pechino sembra ragionevolmente fiduciosa a che Suu Kyi, in ultima analisi, decida per il meglio nell’interesse del suo Paese, come nello Sri Lanka fece infine il Primo Ministro Ranil Wickremesinghe.
(http://www.globaltimes.cn/content/982411.shtml)
Tutto questo è importante in un momento in cui Nuova Delhi deve capire il proprio approccio verso il governo di Suu Kyi. Il Ministro degli Esteri Sushma Swaraj doveva visitare il Myanmar la scorsa settimana, ma ha rimandato per motivi di salute. L’India ha interessi vitali in gioco, che rende imperativo essere un’alleata amichevole, cooperativa e reattiva con Suu Kyi, al di là della disillusione dello Zio Sam nei suoi riguardi. La linea di fondo è che l’India dovrebbe avere una politica estera indipendente verso il Myanmar.
MK Bhadrakumar
11 maggio 2016
Fonte:
blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/2016/05/11/myanmars-suu-kyi-is-pivoting-away-...
Traduzione: Alessandro Lattanzio (rivista da Wheaton80)
aurorasito.wordpress.com/2016/05/11/il-myanmar-di-suu-kyi-si-allontana-da...