La7 - La Gabbia. Nuova Costituzione sponsorizzata dalle banche

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wheaton80
00giovedì 19 maggio 2016 20:01

wheaton80
00martedì 12 luglio 2016 23:19
Non sono modifiche, è un’altra Costituzione

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo. La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere. Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione. Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal Governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti.

Così è stato per la Costituzione Italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque Costituzione degna di questo nome. La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal Presidente del Consiglio, che lo ha trasformato in un voto su se stesso.

Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra Governo e Parlamento se questa riforma andasse in porto: un Parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del Governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di Governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte Costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito. Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione Repubblicana, dopo il quale la nostra Costituzione non sarà più la stessa, perché non avrà più lo stesso prestigio.

Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti. Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni. In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure:

A) Le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica
B) Tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi:

B1) Le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva
B2) Le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione
B3) Le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera

All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due Presidenti non raggiungeranno un accordo?

E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza. Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera, della quale il Governo è espressione.

Solo così il monocameralismo è un fattore di rafforzamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei Deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del Governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

Luigi Ferrajoli
24 giugno 2016
www.left.it/2016/06/24/non-sono-modifiche-e-unaltra-costi...
wheaton80
00lunedì 29 agosto 2016 22:18
Panico referendum, Stiglitz: italiani, se votate crolla l’euro

Joseph Stiglitz, già Premio Nobel per l’economia, dichiara che teme una catastrofe per l’Europa, in particolare per quanto riguarda l’Italia: se vincesse il No nel referendum, potrebbe seguirne il crollo dell’euro. Di conseguenza, invita Renzi a “rinunciare al referendum” disdicendo la consultazione popolare. Stiglitz non è un giurista, dice Aldo Giannuli, ma almeno potrebbe informarsi prima di aprir bocca. Il referendum? Non dipende dalla volontà di Renzi, ma dalla Costituzione: che prevede norme precise in caso di revisioni costituzionali. Referendum confermativo obbligatorio, se la riforma della Carta non è approvata dai 2/3 di ciascuna camera, oppure se ne facciano richiesta 500.000 elettori o il 20% dei parlamentari. «E non è scritto da nessuna parte che possa essere revocato, rinviato o anche solo sospeso», tantomeno dal Presidente del Consiglio:«Si chiamerebbe colpo di Stato». Se desse retta a Stiglitz, Renzi «potrebbe essere arrestato per attentato alla Costituzione». Ad allarmare però non è l’ignoranza del Nobel americano, ma il pensiero retrostante: «Se c’è pericolo per gli assetti di potere esistenti, e in particolare quelli monetari, si sospendono le garanzie costituzionali e si toglie la parola all’elettorato». Così, infatti, avevano già detto «quei due gioielli del pensiero democratico che rispondono ai nomi di Giorgio Napolitano e Mario Monti». Il popolo «non può esprimersi su cose così complesse per le quali non ha le conoscenze necessarie», perché queste cose «le devono decidere le élite, quelli che sanno». E la sovranità popolare sancita dalla Costituzione? «Be’, è un bell’ornamento che fa la sua figura, ma non è che ci dobbiamo proprio credere!». Per Giannuli, «qui sta venendo a galla il carattere elitario, oligarchico e antidemocratico dell’ideologia liberista, e non c’è più neppure il pudore di far finta di dirsi democratici». Certo, l’uscita di Stiglitz rivela il timore della vittoria del No, che ormai «inizia a diventare panico nei salotti buoni di politica e finanza».

Renzi sa di rischiare grosso: in caso di vittoria del No, «a “dimetterlo” ci penserebbe il suo partito (e non penso all’inutile Bersani e al decorativo Cuperlo, ma ai ben più fattivi Franceschini, De Luca, Fassino, Rossi) che cercherebbe di mettere insieme i cocci e non trasformare la sconfitta referendaria in una irrimediabile débacle elettorale», scrive Giannuli. La legislatura potrebbe anche continuare grazie a Mattarella, Franceschini e Berlusconi, che potrebbero dar vita ad un “governo di scopo”. E il peggioramento della situazione economica, insieme a una «opportunissima bocciatura dell’Italicum da parte della Consulta» darebbero uno strepitoso alibi per farlo. Il “verdetto” della Corte Costituzionale è atteso per il 4 ottobre, ma i giudici potrebbero anche prendere tempo e sospendere la decisione:«Se conferma l’Italicum, lo scontro sul referendum si radicalizzerebbe diventando l’ultima spiaggia contro il progetto di regime in atto. Se lo bocciasse, anche solo parzialmente, ci sarebbe un effetto di riflesso sul referendum, delegittimando il progetto renziano». Secondo Giannuli, Renzi «tradisce quella stessa paura che leggiamo nelle parole di Stiglitz: non sappiamo se per un qualche sondaggio riservato, se per la previsione di una pronuncia sfavorevole della Corte o se per notizie che fanno temere un disastro bancario in ottobre, ma quello che si capisce è che Renzi cerca (invano, direi) di disinnescare la bomba, ritenendo più probabile la vittoria del No». Intanto, «ringraziamo Stiglitz per averci fornito questa ulteriore riprova sulla natura di questo referendum: uno scontro fra democrazia e oligarchia, senza mediazioni possibili: chi vincerà, chiunque esso sia, non farà prigionieri».

29/8/2016
www.libreidee.org/2016/08/panico-referendum-stiglitz-italiani-se-votate-croll...
wheaton80
00mercoledì 14 settembre 2016 15:53
Referendum costituzionale in Italia e minacce USA

Il referendum costituzionale ha una valenza ben più importante delle argomentazioni di renziani&affini sul risparmio dei (modestissimi) costi ed altre collaterali amenità. Confindustria, agenzie di rating, banche d’affari, FMI e Unione Europea sono compatti per ultimare l’opera di decostruzione delle strutture della Repubblica Parlamentare Italiana. Subordinare il Parlamento al Governo, addomesticare la Corte Costituzionale e pilotare l’elezione del Presidente della Repubblica sono i tre assi strategici della riforma, uniti all’esplicito ingresso del diritto comunitario come elemento conformatore del nostro ordinamento giuridico. L’eliminazione dell’elezione diretta del Senato è il più vistoso e percepibile aspetto di restringimento degli spazi democratici; a tale aula di nominati sarà peraltro delegato il recepimento della normazione europea, il cui ingresso nel nostro ordinamento sarà veicolato da un organo non più elettivo. Quanto sia importante la posta in gioco lo dimostra l’intervento di John Phillips, ambasciatore USA in Italia.

Intervenendo oggi, a Roma, presso l’Istituto di Studi Americani, ad un incontro sulle relazioni transatlantiche, ha avvertito minacciosamente che, in caso di vittoria del “No”, vi saranno ripercussioni economiche sul Paese (“un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia”). Washington esige che il Paese garantisca “stabilità politica” e Renzi gode di “grandissima stima da parte di Obama”. A fungere da spalla anche l’agenzia di rating USA, Fitch, secondo quanto riferisce Bloomberg, una multinazionale operativa nel settore dei mass media con sede a New York. Il responsabile “rating” per Europa e Medio Oriente di Fitch, Edward Parker, in conferenza a Londra, avverte: un “No” al referendum sarà uno shock negativo per l’economia e l’affidabilità del credito italiano. Le turbolenze che seguirebbero alla vittoria del “No” si ripercuoterebbero in ultima istanza sull’economia reale e sul debito pubblico. Ne deriverebbe inevitabilmente una valutazione negativa sull’affidabilità internazionale dell’Italia. Insomma, tutte ottime ragioni per votare e far votare “NO”. Non limitandosi solo a questo. C’è un lotta di liberazione (nazionale) e di emancipazione (sociale) da far crescere. “Indipendenza” è attiva da tempo in tal senso.

13 settembre 2016
associazioneindipendenza.wordpress.com/2016/09/13/referendum-costituzionale-in-italia-e-mina...
wheaton80
00sabato 17 settembre 2016 20:17
L’intervista. Canfora:“Difendere la sovranità dalle mire UE della finanza”



Luciano Canfora non ha bisogno di presentazioni. Storico, filologo, intellettuale tanto coerente quanto solido, Canfora è un uomo che s’è sempre schierato. E anche adesso, al tempo del pensiero unico, allineato e coperto al volere dei mammasantissima, il professore alza la sua voce e combatte la traduzione (in referendum) dei voleri eterodiretti dell’attuale classe dirigente italiana. E, da sinistra, chiama a difesa della sovranità e della peculiarità delle Nazioni contro le mire dell’UE ispirate ai dettami del grande capitale finanziario internazionale.

Professore, più volte si è espresso criticamente sull’intera riforma referendaria. Perché?

“La mia critica si basa su due punti fondamentali. Prima di tutto non è vero che la nostra Costituzione sia arrugginita e faticosa, ha sempre funzionato. Sono piuttosto le forze politiche a generare un blocco legislativo: negli ultimi cinque anni ogni governo in Italia ha abusato del legittimo strumento dei decreti legge. Il governo mente sul perché l’Italia non funzioni. L’altro punto fondamentale è il ruolo del Senato, da sempre un problema per le costituzioni italiane (nello Statuto Albertino era di nomina regia ed era la longa manus della Corona, che riuniva sotto di sé filosofi e alti vertici militari). Togliatti addirittura si schierò manifestamente per il monocameralismo, ma l’obiezione che gli venne fatta fu:“La diversa composizione degli eletti e dell’elettorato conferisce al Senato saggezza, o meglio ripensamento e miglioramento delle proposte di legge”. E così è stato. Il Senato inoltre non è una particolarità italiana. Certo potrebbe avere un profilo diverso, ma non deve diventare non elettivo e pescato dalla parte più brutta della burocrazia”.

Un oplita del Sì al referendum le direbbe che il Senato diventerebbe tramite tra Stato e Regioni.
“Assolutamente no! Non sarebbe certo un ponte “risolvi-conflitti”. Inoltre, tantissime norme dell’UE andrebbero direttamente al Senato, saltando la Camera e ogni processo di approvazione”.

A tal proposito, l’altro giorno l’economista Alberto Bagnai scriveva:“So che non l’avete capito e non lo capire(s)te, ma il referendum non è su Renzi: è sulla BCE”. L’ha scritto lei nel 2011.
“È proprio così, e l’ho già detto pubblicamente. Poco tempo fa, a una mia conferenza su Tucidide, ho incontrato un funzionario italiano a Bruxelles. Mi ha detto:“Quando parla dell’Europa odierna ha ragione. L’ottanta per cento delle normative importanti vengono imposte direttamente dall’UE”. Con questa riforma costituzionale gli ultimi margini del governo nazionale si ridurrebbero definitivamente al minimo, e soprattutto si creerebbe un rapporto diretto tra BCE, UE e Senato, con il ruolo del Parlamento del tutto inutile. Nascerebbe, dopo infiniti tentativi da parte dei gruppi dominanti della finanza, il tanto agognato canale comodo con cui l’UE impartirebbe tutti i comandi al Senato”.

A dirla così, chiunque voti No sarebbe un sovranista.

“Sì! I difensori sono sovranisti. L’UE non è neanche uno stato federale, ma solo un canale a trazione tedesca. Difendere, salvare la sovranità e le peculiarità delle Nazioni è d’obbligo. Lo Stato nazionale e le identità non sono da considerare un ferrovecchio inutile, anzi. Tra l’altro il Senato che riceverà ordini non sarà eletto, ma designato sempre dall’alto. Il piano si compierebbe perfettamente”.

Allora esiste un filo conduttore tra il variegato fronte del No, che vede Salvini accanto a D’alema? Sono tutti “conservatori”?
“Il filo conduttore del fronte del No non c’è. Semplicemente si deve resistere, non c’entra il conservatorismo e non c’entra Salvini. La Storia ha visto tanti casi di alleanze fra forze “nemiche”. D’alema, poi, è indubbiamente intelligente: dopo aver atteso per tempo un chiarimento, ha capito di essere stato archiviato e ora si è messo in moto (mi chiedo solo quanto la sua immagine possa essere benefica per il fronte del No). Molti dicono che se fosse al posto della Mogherini starebbe tranquillo. Certo è che controllava l’apparato e ora è andato tutto distrutto, soprattutto a causa del sistema delle primarie, che ha permesso l’ascesa di un personaggio come Renzi, che ha stravolto un partito intero…”.

Ed è arrivato a proporre questo referendum. È anche una prova generale per il Partito della Nazione?

“Certo. È esattamente il suo disegno, il centrosinistra si dirige verso questa direzione. Ma Renzi non ce la farà. L’Italia da più di venticinque anni vive la dissoluzione dei partiti tradizionali e soprattutto l’incapacità dei nuovi partiti di trovare solidità. Siamo a pezzi, è una situazione prepolitica: non c’è alcuna forma di partiti, e il Partito delle Nazioni avrebbe grosse chances. Ecco perché Renzi non molla e non si muove da Palazzo Chigi, sperando nell’Italicum”.

Già, l’Italicum.
“Alla Fiera del Levante Renzi ha promesso:“Ora lo cambiamo senza problemi”. L’ha fatto solo per incassare il consenso della minoranza interna (e Speranza sembra esserci cascato). Proprio ieri però il capogruppo del PD, fedelissimo renziano, sul Corriere dichiarava che “i tempi per cambiare l’Italicum non ci sono, se ne parla dopo il referendum”. Sono promesse da marinai veicolate con naturalezza da tutti i mezzi di informazione”.

Mezzi di informazione che non sembrano educare il cittadino, decisamente poco informato sul tema referendario.
“I cittadini non leggono giornali. Stiamo assistendo a un crollo spaventoso della stampa. In più, dei giornali viene letta una minima parte, ormai il dialogo è tra le élites, tra infime minoranze. I TG, poi, sono tutti evidentemente controllati – siamo inondati dal caso Raggi – e peraltro non sono un prodotto di massa, ma sempre di relativa fruizione. La cultura è a un livello bassissimo, del referendum passa solo lo slogan:“Volete il vecchio? Votate no”. La verità è che siamo in piena censura e monopolio dei mass media. E’ servilismo. Ed è utopia educare la massa: il potere di certo non lo vuole né lo saprebbe fare”.

E Renzi saprà sfruttare anche questo? Dove sarà fra un anno?
“Ho i miei dubbi sulla sua permanenza in caso di vittoria del No. Si aprirebbe una nuova resa dei conti, che si stava aprendo già dopo le amministrative (con le quali il PD ha perso tre comuni su quattro). Renzi le sta provando tutte, Mattarella è lì apposta per essere una nullità. Amato, aldilà dei tanti giudizi politici su di lui, è stato scartato perché fa politica propria. Mattarella è un pupazzo che fa comodo: è usato soprattutto per i funerali…”.

Francesco Petrocelli
16 settembre 2016
www.barbadillo.it/59373-lintervista-canfora-difendere-la-sovranita-dalle-mire-ue-della-...
wheaton80
00mercoledì 26 ottobre 2016 21:41
Il Sì al referendum è una minaccia per la tenuta democratica del nostro Paese

Partiamo da un presupposto: il consolidamento della post-democrazia di cui parlava Crouch ha bisogno di riforme costituzionali come quella che saremo chiamati a votare (o meglio a sventare) il 4 dicembre. Il disegno sotteso alla riforma - propagandata come al di sopra del bene e del male, buona di per sé, come se dopo anni di tentativi andati a vuoto il solo concetto fosse salvifico e non ne importasse il carattere migliorativo o peggiorativo - mira alla consacrazione di un sistema politico in cui, invece che restituire sovranità al popolo cui apparterrebbe, si fa il possibile per concentrarla sempre più verso l'alto. Vale la pena ricordare che il colosso finanziario JP Morgan affermava nel 2013 che le costituzioni antifasciste - ispirate ai diritti e all'allargamento della base democratica - sono una zavorra per la crescita e vanno profondamente modificate. L'indicazione giunta al governo dalle istituzioni finanziarie riguarda dunque la creazione delle condizioni di piena esigibilità per le richieste del mercato: necessarie riforme economiche, necessarie grandi opere, necessario sfruttamento delle risorse naturali, necessari tagli ai diritti sociali e al welfare. Il risultato atteso è legittimare la delega dell'intero esercizio deliberativo ad organismi sempre meno rappresentativi dell'interesse collettivo. La ricetta è lineare: svuotamento dei luoghi della rappresentanza, rarefazione dei centri di potere e corsa a verticalizzarne i meccanismi di decisione tramite maggiori poteri all'esecutivo, la camera politica unica e la nuova legge elettorale che la determinerà, le nuove tipologie di procedimenti legislativi che scavalcano le istituzioni di prossimità. Uno degli aspetti meno trattati e più rilevanti della riforma è la revisione del Titolo V, che affermerebbe un modello di gestione delle risorse deciso dai Ministeri - neppure dal Parlamento - senza previsione di correttivi in senso partecipativo. Le competenze esclusive che tornerebbero allo Stato riguardano produzione, trasporto e distribuzione dell'energia; infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e navigazione; beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; attività culturali e turismo; governo del territorio; protezione civile; porti e aeroporti civili. La riformulazione dell'art.117 introduce come ulteriore elemento d'allarme la clausola di supremazia:"Su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale". La formula offre all'esecutivo spazio per molteplici forzature: invocando l'interesse nazionale (leit-motiv dell'ultimo decennio) sarà possibile imporre politiche e progetti invisi agli enti locali e alle comunità chiamate a pagarne i costi economici, ambientali, sociali e sanitari.

Se ha una sua ratio prevedere che sia il livello centrale a stabilire le regole generali dell'agire in materia di ambiente, garantendo come precondizione il pieno rispetto degli art. 9 e 32 della Costituzione, nello scenario dato il nuovo assetto si tradurrebbe inevitabilmente in un ulteriore arretramento delle legittime pretese dei cittadini potenzialmente o concretamente impattati. Gli enti locali sono inoltre i più esposti - e ricettivi - alle pressioni esercitate dalle comunità locali: elemento rivelatosi spesso decisivo per ottenere la rinuncia a progetti a forte impatto ambientale. Escludere le Regioni dal rapporto di "leale collaborazione" con lo Stato su tutte queste materie senza prevedere di compensare con strumenti di concertazione locale avrà l'effetto di aggravare anziché risolvere il gap (in termini di analisi e proposte) tra comunità e governo centrale. Da un altro punto di vista, la riscrittura dell'art. 117 è la testa di ariete attraverso cui si tenta di forzare l'introduzione in costituzione di alcuni dei principi contenuti nel decreto sblocca Italia, convertito nonostante forti proteste nella L.164/2014. Si tratta in parte di principi su cui il governo ha dovuto fare marcia indietro in seguito al deposito dei quesiti referendari promossi da 9 Regioni e centinaia di associazioni ambientaliste. Un punto in particolare, che prevedeva l'esclusione delle Regioni dai processi decisionali in materia energetica e infrastrutturale, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n.7/2016 per violazione degli artt.117-118 e recepito obtorto collo dal governo nella legge di stabilità per evitare di sottoporre tale punto (pronto a rientrare in campo proprio con la riforma costituzionale) alla consultazione popolare dell'aprile scorso. Nonostante la sopravvivenza di un unico quesito, il 17 Aprile oltre 15 milioni di Italiani si sono recati alle urne per affermare il loro diritto a decidere in materia di politiche energetiche. Durante la campagna referendaria il governo ha mostrato quale idea avesse della partecipazione popolare: la proclamazione dell'esistenza di temi troppo difficili su cui esprimersi (guarda caso riguardanti profitti miliardari e devastazioni territoriali), una campagna informativa condotta al fine di boicottare la consultazione, lo sprezzante "ciaone" agli elettori la sera del voto. In quelle stesse settimane emergevano con chiarezza, grazie ad un'inchiesta della magistratura, le connessioni tra il governo e le lobbies energetiche del Paese: scandalo che costrinse l'allora Ministro Guidi a dimettersi. Di oggi, infine, è la notizia che il governo Renzi ha autorizzato nuove attività di ricerca di idrocarburi lungo la riviera Adriatica e nel Mar Ionio. Neppure sei mesi dopo il referendum e le continue rassicurazioni circa la rinuncia a nuovi fronti estrattivi, si imbocca nuovamente, indisturbati, la via nera del petrolio. Ulteriore conferma, questa, che lo spirito di quella campagna referendaria e la rivendicazione democratica costruita su centinaia di territori trovano oggi più che mai la loro naturale continuazione nella costruzione di un No collettivo al referendum costituzionale. Da anni assistiamo all'attivazione di decine di migliaia di persone per ciascuna battaglia territoriale: il movimento No Ombrina in Abruzzo, le lotte contro il Biocidio in Campania, le istanze dei No Triv, No Tav, No Tap e No Muos, le centinaia di altre realtà di resistenza popolare in prima linea per il diritto alla vita, alla salute, all'ambiente.

Questo aumento della conflittualità sociale attorno all'imposizione di politiche impattanti (con gravi effetti documentati da rigorosi e numerosi studi ambientali, epidemiologici, economici e demografici) suggeriscono che i meccanismi di funzionamento della democrazia andrebbero riformati in direzione opposta da quella indicata dalla riforma: devolvendo potere decisionale alle comunità sulla gestione delle risorse e inaugurando un nuovo concetto di sovranità legato al territorio. Alcune tra le maggiori organizzazioni ambientaliste, le 19 big firmatarie dell'appello in cui si chiede al governo di rivendicare la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale senza postulare la necessità di una riforma in senso partecipativo, dimostrano di non aver compreso che la partecipazione alle decisioni e la centralità della volontà popolare non è affatto un corollario marginale per una piena tutela dell'ambiente e dei diritti a esso connessi. La riforma aiuta infine l'ufficializzazione di una prassi di sospensione democratica già arbitrariamente utilizzata: il massiccio ricorso alla gestione commissariale e allo stato di emergenza, attraverso le quali nell'ultimo decennio si è imposto il meccanismo del comando e controllo come risposta autoritaria all'emergere delle istanze più disparate. Questa riforma è l'atto finale del processo di trasformazione dello Stato e del suo asservimento a logiche puramente neoliberiste, succubi del mercato e della finanza. Un processo che dopo vent'anni di "berlusconismo", l'avvento dei tecnici (Monti) e il ricorso a larghe intese (Letta) ha trovato il suo perfetto scudiero in Renzi e la sua definizione formale nella proposta di modifica costituzionale. Di fronte a questa minaccia, convinti che sia necessario ricostruire un sistema Paese fondato sulle redistribuzione dei poteri e della ricchezza e sulla giustizia ambientale, non possiamo che individuare nell'approvazione della riforma un rischio enorme per la tenuta sociale e democratica del Paese e nel coinvolgimento pieno delle realtà di resistenza territoriale nella campagna del No una prospettiva concreta per una reale trasformazione del nostro Paese.

Marica Di Pierri, Stefano Kenji Iannillo
21/10/2016
www.huffingtonpost.it/marica-di-pierri/si-referendum-minaccia-_b_12575...
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