Motu proprio testo

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LiviaGloria
00giovedì 19 febbraio 2009 08:45
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LETTERA APOSTOLICA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI "MOTU PROPRIO DATA" SUMMORUM PONTIFICUM SULL’USO DELLA LITURGIA ROMANA ANTERIORE ALLA RIFORMA DEL 1970

«Uso straordinario dell'antica forma del rito romano»

''I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maesta' un culto degno, ''a lode e gloria del Suo nome'' ed ''ad utilita' di tutta la sua Santa Chiesa''.
Da tempo immemorabile, come anche per l'avvenire, e' necessario mantenere il principio secondo il quale ''ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l'integrita' della fede, perche' la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede''.
Tra i Pontefici che ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di san Gregorio Magno, il quale si adopero' perche' ai nuovi popoli dell'Europa si trasmettesse sia la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti. Egli comando' che fosse definita e conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l'Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava nell'Urbe. Promosse con massima cura la diffusione dei monaci e delle monache, che operando sotto la regola di san Benedetto, dovunque unitamente all'annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: ''Nulla venga preposto all'opera di Dio'' (cap. 43). In tal modo la sacra Liturgia celebrata secondo l'uso romano arricchi' non solo la fede e la pieta', ma anche la cultura di molte popolazioni. Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle varie sue forme, in ogni secolo dell'eta' cristiana, ha spronato nella vita spirituale numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtu' di religione e ha fecondato la loro pieta'.
Molti altri Romani Pontefici, nel corso dei secoli, mostrarono particolare sollecitudine a che la sacra Liturgia espletasse in modo piu' efficace questo compito: tra essi spicca s. Pio V, il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell'esortazione del Concilio di Trento, rinnovo' tutto il culto della Chiesa, curo' l'edizione dei libri liturgici, emendati e ''rinnovati secondo la norma dei Padri'' e li diede in uso alla Chiesa latina.
Tra i libri liturgici del Rito romano risalta il Messale Romano, che si sviluppo' nella citta' di Roma, e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi piu' recenti. ''Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l'aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all'inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale''. Cosi' agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII, san Pio X, Benedetto XV, Pio XII e il B. Giovanni XXIII. Nei tempi piu' recenti, il Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessita' della nostra eta'. Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa latina approvo' i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione tipica del Messale Romano. Cosi' i Romani Pontefici hanno operato ''perche' questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per dignita' e armonia''.
Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto cosi' profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell'anno 1984 con lo speciale indulto ''Quattuor abhinc annos'', emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facolta' di usare il Messale Romano edito dal B. Giovanni XXIII nell'anno 1962; nell'anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica ''Ecclesia Dei'', data in forma di Motu proprio, esorto' i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facolta' in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.
A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate gia' dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull'aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue:

Art. 1. Il Messale Romano promulgato da Paolo VI e' la espressione ordinaria della ''lex orandi'' (''legge della preghiera'') della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa ''lex orandi'' e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della ''lex orandi'' della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella ''lex credendi'' (''legge della fede'') della Chiesa; sono infatti due usi dell'unico rito romano.
Percio' e' lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l'edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa. Le condizioni per l'uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori ''Quattuor abhinc annos'' e ''Ecclesia Dei'', vengono sostituite come segue:

Art. 2. Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, puo' usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e cio' in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l'uno o l'altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, ne' della Sede Apostolica, ne' del suo Ordinario.

Art. 3. Le comunita' degli Istituti di vita consacrata e delle Societa' di vita apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, che nella celebrazione conventuale o ''comunitaria'' nei propri oratori desiderano celebrare la Santa Messa secondo l'edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono farlo. Se una singola comunita' o un intero Istituto o Societa' vuole compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari.

Art. 4. Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all'art. 2, possono essere ammessi - osservate le norme del diritto - anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volonta'.

Art. 5. § 1. Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l'unita' di tutta la Chiesa.
§ 2. La celebrazione secondo il Messale del B. Giovanni XXIII puo' aver luogo nei giorni feriali; nelle domeniche e nelle festivita' si puo' anche avere una celebrazione di tal genere.
§ 3. Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi.
§ 4. I sacerdoti che usano il Messale del B. Giovanni XXIII devono essere idonei e non giuridicamente impediti.
§ 5. Nelle chiese che non sono parrocchiali ne' conventuali, e' compito del Rettore della chiesa concedere la licenza di cui sopra.

Art. 6. Nelle Messe celebrate con il popolo secondo il Messale del B. Giovanni XXIII, le letture possono essere proclamate anche nella lingua vernacola, usando le edizioni riconosciute dalla Sede Apostolica.

Art. 7. Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all'art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo e' vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non VUOLE provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia ''Ecclesia Dei''.

Art. 8. Il Vescovo, che desidera rispondere a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause e' impedito di farlo, puo' riferire la questione alla Commissione ''Ecclesia Dei'', perche' gli offra consiglio e aiuto.

Art. 9 § 1. Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, puo' anche concedere la licenza di usare il rituale piu' antico nell'amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell'Unzione degli infermi, se questo consiglia il bene delle anime.
§ 2. Agli Ordinari viene concessa la facolta' di celebrare il sacramento della Confermazione usando il precedente antico Pontificale Romano, qualora questo consigli il bene delle anime.
§ 3. Ai chierici costituiti ''in sacris'' e' lecito usare il Breviario Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962.

Art. 10. L'Ordinario del luogo, se lo riterra' opportuno, potra' erigere una parrocchia personale a norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la forma piu' antica del rito romano, o nominare un cappellano, osservate le norme del diritto.

Art. 11. La Pontificia Commissione ''Ecclesia Dei'', eretta da Giovanni Paolo II nel 1988[5], continua ad esercitare il suo compito. Tale Commissione abbia la forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorra' attribuire.

Art. 12. La stessa Commissione, oltre alle facolta' di cui gia' gode, esercitera' l'autorita' della Santa Sede vigilando sulla osservanza e l'applicazione di queste disposizioni.
Tutto cio' che da Noi e' stato stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di Motu proprio, ordiniamo che sia considerato come ''stabilito e decretato'' e da osservare dal giorno 14 settembre di quest'anno, festa dell'Esaltazione della Santa Croce, nonostante tutto cio' che possa esservi in contrario''.
LiviaGloria
00giovedì 19 febbraio 2009 09:02
paparatzinger-blograffaella.blogspot.com/2007/11/messa-tridentina-mons-ranjith-pet...



Pubblichiamo questa importantissima intervista del Segretario per la Congregazione del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige a Petrus sulla CORRETTA INTERPRETAZIONE del motu proprio Summorum Pontificum:

Messa tridentina, il richiamo del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti: “Sacerdoti, Vescovi e Cardinali obbediscano al Papa”

di Bruno Volpe

CITTA’ DEL VATICANO –

Il clero ad ogni livello obbedisca al Papa: e' la parte centrale del messaggio di Monsignor Albert Malcolm Ranjith Patabendige (nella foto), segretario per la Congregazione del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti intervistato in esclusiva da ‘Petrus’.

Eccellenza, che accoglienza ha avuto il Motu Proprio di Benedetto XVI che ha liberalizzato la Santa Messa secondo il rito tridentino? Qualcuno, in seno stesso alla Chiesa, ha un po’ storto il naso…

"Vi sono state reazioni positive e, inutile megarlo, critiche e prese di posizione contrarie, anche da parte di teologi, liturgisti, sacerdoti, Vescovi e persino Cardinali. Francamente, non comprendo queste forme di allontanamento e, perche' no?, di ribellione al Papa. Invito tutti, soprattutto i Pastori, ad obbedire al Papa, che e' il successore di Pietro. I Vescovi, in particolare, hanno giurato fedelta' al Pontefice: siano coerenti e fedeli al loro impegno".

A Suo, avviso, a cosa si devono queste manifestazioni contrarie al Motu Proprio?

"Lei sa che ci sono stati, da parte di alcune Diocesi, anche documenti interpretativi che mirano inspiegabilmente a limitare il Motu Proprio del Papa. Dietro queste azioni si nascondono da una parte pregiudizi di tipo ideologico e dall’altra l'orgoglio, uno dei peccati piu' gravi. Ripeto: invito tutti ad obbedire al Papa. Se il Santo Padre ha ritenuto di dover emettere il Motu Proprio, ha avuto le sue ragioni che io condivido in pieno".

La liberalizzazione del rito tridentino decisa da Benedetto XVI è parsa come il giusto rimedio ai tanti abusi liturgici registrati tristemente dopo il Concilio Vaticano II con il ‘Novus Ordo’…

"Guardi, io non voglio criticare il ‘Novus Ordo’. Pero' mi viene da ridere quando sento dire, anche da amici, che in una parrocchia un sacerdote e' Santo per l’omelia o per come parla. La Santa Messa e' sacrificio, dono, mistero, indipendentemente dal sacerdote che la celebra. E' importante, anzi fondamentale, che il sacerdote si faccia da parte: il protagonista della Messa e' Cristo. Non comprendo, quindi, le celebrazioni Eucaristiche trasformate in spettacolo con balli, canti o applausi, come purtroppo spesso accade con il Novus Ordo"

Monsignor Patabendige, la Sua Congregazione ha più volte denunciato questi abusi liturgici…

"Vero. Esistono tanti documenti, che pero' spiacevolmente sono rimasti lettera morta, finiti negli scaffali polverosi o, peggio ancora, nel cestino dei rifiuti".

Un altro punto: molte volte si assiste ad omelie lunghissime...

"Anche questo e' un abuso. Sono contrario a balli e agli applausi nel corso delle Messe, che non sono un circo ne' uno stadio. In quanto alle omelie, esse devono riguardare, come ha sottolineato il Papa, esclusivamente l'aspetto catechetico evitando sociologismi e chiacchiere inutili. Ad esempio, spesso i sacerdoti la buttano sul politico perche' non hanno preparato bene l’omelia, che invece deve essere scrupolosamente studiata. Un’omelia eccessivamente lunga e' sinonimo di scarsa preparazione: il tempo giusto di una predica deve essere di 10 minuti, al massimo 15. Ci si deve rendere conto che Il momento culminante della celebrazione e' il mistero Eucaristico, senza con ciò voler sminuire la liturgia della Parola ma chiarire come va applicata una corretta liturgia".

Tornando al Motu Proprio, qualcuno critica l’impiego del latino durante la Messa…

"Il rito tridentino fa parte della tradizione della Chiesa. Il Papa ha doverosamente spiegato le ragioni del suo provvedimento, un atto di liberta' e di giustizia verso i tradizionalisti. In quanto al latino, vorrei sottolineare che non e' mai stato abolito, ed in piu' garantisce l’universalita' della Chiesa. Ma lo ripeto: invito sacerdoti, Vescovi e Cardinali all’obbedienza, lasciando da parte ogni tipo di orgoglio o pregiudizio".

© Copyright Petrus


LiviaGloria
00giovedì 19 febbraio 2009 11:07
www.cistercensi.info/testi/liturgia.htm


I Cistercensi


Testi liturgici
Liturgia



Il contrasto tra la riforma cistercense e le usanze di Cluny era evidente nella liturgia; in questo settore caratteristico della vita monastica, l’atteggiamento della severa critica di Cîteaux nei confronti di Cluny è ampiamente giustificato.

La preponderanza della liturgia nell’orario giornaliero della vita monastica risale alla riforma di Benedetto di Aniano (750 ca.-821), che abbandonò il lavoro manuale, mettendo in risalto l’Opus Dei, quale unica occupazione degna dei monaci. Sotto la sua influenza, la proporzione degli uffici religiosi nell’orario benedettino continuò ad aumentare fino ad assorbire, verso la metà dell’XI secolo, quasi interamente la giornata monastica nelle comunità cluniacensi.

Per prepararsi all’ufficio canonico, i monaci recitavano la trina oratio che consisteva in tre gruppi di salmi: per i vivi, per i defunti e per le intenzioni speciali. Processioni si snodavano da un altare all’altro della chiesa, mentre i monaci cantavano le litanie e dei salmi selezionati, come i quindici salmi graduali, i sette salmi penitenziali e altri scelti con criteri complicati, i primi e gli ultimi 30 salmi del Salterio in aggiunta agli uffici canonici, altri uffici occupavano il tempo che distanziava le Ore del Breviario. Il più diffuso era l’Ufficio dei Defunti; ma ve ne erano inclusi altri, ad esempio quello della santa Croce, della Santissima Trinità, dello Spirito Santo, dell’Incarnazione, dei Santi Angeli e più tardi l’Ufficio della Beata Vergine Maria.

Alla Messa Conventuale consueta, era stata aggiunta un’altra Messa obbligatoria, la missa matutinalis. Lunghe processioni, con stazioni e litanie, prima della celebrazione della Messa Conventuale solenne, erano divenute abitudini quasi quotidiane.

Con tutte queste aggiunte, la recita di Prima occupava un tempo corrispondente circa all’intero Ufficio canonico, così come viene descritto dalla Regola. L’Ufficio notturno che precedeva le grandi feste veniva iniziato la sera precedente, perché altrimenti sarebbe stato impossibile poterlo recitare per intero prima dello spuntare del giorno. Secondo la Regola di san Benedetto, si supponeva che i monaci recitassero i 150 salmi del Salterio nel corso di una settimana; ma nella liturgia cluniacense, la comunità doveva recitare ogni giorno circa 2 10 salmi. Alcuni monasteri erano giunti persino ad obbligarsi con la laus perennis, per cui i monaci e gli oblati erano suddivisi in tre turni, per permettere che i vari servizi liturgici si succedessero senza interruzione.

Ovviamente, tale esagerazione aveva come risultato l’affaticamento generale (taedium prolixitatis), causato dai servizi religiosi protratti troppo a lungo. Un senso di insoddisfazione andava diffondendosi perfino all’interno della congregazione cluniacense, mentre critici esterni esprimevano liberamente il loro scetticismo sulla validità di tali pratiche devozionali. L’autore cistercense del Grande Esordio utilizzava parole eccezionalmente severe per indicare la necessità di un ritorno alla purità della Regola, in materia di liturgia.

Per quanto riguarda il modo e l’ordine degli uffici divini, i monaci di Cîteaux decisero fin dall’inizio di osservare in ogni cosa la tradizione della Regola, troncando e respingendo qualsiasi appendice di salmi, orazioni e litanie arbitrariamente aggiunte all’Opus Dei da monaci meno prudenti. Coscienti della fragilità e debolezza umana, dopo attenta ponderazione, essi ritennero che tali addizioni erano, per i monaci, più nocive che benefiche, dato che la loro molteplicità portava alla recita completamente tiepida e negligente non solo da parte delle persone più pigre ma anche di quelle diligenti.

I fondatori di Cîteaux avevano portato da Molesme i libri, liturgici, ma desideravano molto ritornare allo schema originario della Regola, per la celebrazione dell’Ufficio Divino; tanto più che l’unica fonte di entrate consistente nel lavoro dei campi ‘ era incompatibile con l’orario di Cluny. Ad eccezione di un breve Ufficio per i Defunti, essi omisero semplicemente tutto ciò che era stato aggiunto all’Ufficio canonico nel corso degli ultimi due secoli; per la recita delle restanti Ore del Breviario si attennero con precisione alle direttive della Regola, che suddivideva i 150 salmi dei Salterio in modo uguale, nei diversi giorni della settimana. Alcune indicazioni lasciano intendere che l’Ufficio dei Defunti all’inizio non faceva parte della liturgia di Cîteaux, ma venne probabilmente aggiunto solo verso il 1130.

Una riforma così radicale sollevò proteste e indignazione in tutto il mondo monastico contemporaneo, come documenta appieno una lettera di Abelardo indirizzata a san Bernardo, scritta tra il 1132 e il 1136. Viene elencata tutta una serie di innovazioni scandalose, tra le quali l’omissione di inni adottati ovunque, sostituiti da altri sconosciuti e insoliti, cantati senza variazioni 365 giorni all’anno, senza sottolineare le feste e i tempi liturgici. Sappiamo da altre fonti che quegli strani inni erano stati attinti da Cîteaux all’antica liturgia Ambrosiana, come era eseguita a Milano, perché la Regola parlava di inni ambrosiani. Abelardo accusava inoltre i Cistercensi di aver omesso varie orazioni e commemorazioni di santi, anche della Beata Vergine Maria; la riduzione drastica delle processioni (erano state conservate solo quella della Candelora e della Domenica delle Palme), l’omissione dei simbolo degli apostoli prima della recita delle Ore Canoniche. Si recitava soltanto il Credo di sant’Atanasio, e solo la domenica. Ma agli occhi dei critici contemporanei, la caratteristica meno accettabile della riforma liturgica cistercense era quella della celebrazione della Quaresima: non tenendo in nessun conto le usanze correnti, i Cistercensi continuavano a recitare l’Ufficio feriale, senza cambiare nulla, fino a Pasqua. Così, dopo la Domenica di Settuagesima, non cessavano di cantare gli alleluia, anche-durante la settimana santa concludevano i salmi con la recita del Gloria, e cantavano gli stessi inni di sempre.

Durante la seconda guerra mondiale è stata ritrovata a Berlino una copia del più antico breviario cistercense, che risale all’epoca di Stefano Harding; è possibile verificare così non soltanto questo elenco di caratteristiche particolari, ma vi si ritrova anche il primo calendario cistercense autentico, prova ulteriore della tendenza di Cîteaux a far ritorno alle tradizioni più antiche. Le commemorazioni dei santi erano numerose, ma il numero delle feste con un Ufficio proprio era estremamente ridotto, cinquantasette in tutto. Come nella Regola, non vi erano differenze di grado: le festività erano celebrate come la domenica, con dodici lezioni. Il gruppo più numeroso era costituito dalle feste degli apostoli; le celebrazioni della Beata Vergine Maria erano solo quattro (la Purificazione, l’Annunciazione, la Assunzione, la Natività); l’elenco delle restanti ventisei feste di santi denotava caratteristiche spiccatamente romane, con leggere tracce di influenza gallica.

I primi cistercensi avevano drasticamente ridotto la lunghezza dell’Ufficio Divino ed avevano conformato gli Uffici rimasti a uno schema generale semplice ed austero; ciò non significava che i fondatori di Cîteaux trascurassero o minimizzassero l’importanza della liturgia nella vita monastica. Anzi, gli sforzi accurati di Stefano Harding e dei suoi fratelli per restaurare la liturgia nella sua purezza originale, prevedendo anche di essere criticati dai conservatori, dimostra con evidenza la loro profonda stima del valore intrinseco della liturgia. Lo zelo che nutrivano per una esecuzione perfetta della liturgia andò perfino oltre. Quando era ancora Priore di Cîteaux, Stefano Harding aveva intrapreso la revisione della Bibbia, per il desiderio di usare nella liturgia dei testi privi di errori. Il suo sforzo non fu né l’unico né il primo nel suo tempo, ma il metodo sorprendentemente avanzato che egli utilizzò per restaurare il testo originale della Vulgata non ebbe uguali nel suo secolo. Oltre a un certo numero di manoscritti latini, aveva consultato anche degli studiosi ebraici di grande fama per poter comprendere alcuni passi difficili del testo ebraico. Dopo la sua elezione abbaziale, nel 1109, egli pubblicò i quattro meravigliosi volumi stupendamente miniati della sua Bibbia, composti con molta fatica: essi costituivano un modello ufficiale per la riproduzione di altre copie, ed era rigorosamente proibito apportare alterazioni al testo.

Il dotto abate si preoccupò attentamente anche della qualità delle musiche gregoriane dei libri liturgici che adottarono. Si riteneva generalmente a quel tempo che la liturgia di Metz conservasse le melodie originali del tempo di san Gregorio Magno; alcuni monaci furono inviati a Metz e fecero ritorno con un Antifonario copiato con estrema attenzione. La Carta di Carità dichiarò che questi ed altri libri liturgici riveduti e corretti, fossero i testi ufficiali dell’Ordine e i monasteri appena fondati erano tenuti a farsene delle copie e conservarli intatti per mantenere così l’uniformità perfetta in materia di liturgia e di usanze monastiche.

La celebrazione della liturgia era precisata in tutti i dettagli nel Libro degli Usi, (Ecclesiastica Officia) e ne occupava la parte preponderante. Si trattava di un codice di 121 paragrafi, che conteneva non solo le indicazioni necessarie per l’esecuzione concreta della liturgia ed altre cerimonie d’obbligo, ma anche direttive pratiche sullo svolgimento di tutto ciò che comportava l’attività quotidiana dei monaci e la descrizione degli obblighi a cui erano tenuti gli ufficiali del monastero.

In queste norme, non c’era niente di propriamente originale. Il piano generale dell’opera era stato preso a prestito da Cluny, mentre alcuni dettagli concreti erano stati assimilati da Molesme e dall’abbazia di San Benigno di Digione, i due monasteri più vicini a Cîteaux. Le istruzioni erano concise, e si attenevano rigorosamente a una tradizione considerata genuinamente benedettina: tutte caratteristiche conformi ai principi fondamentali dei fondatori di Cîteaux.

L’esemplare più antico che esiste degli Ecclesiastica Officia fu scritto tra il 1130 e il 1134, ma è probabile che le norme siano frutto delle sessioni dei Capitoli generali del decennio precedente. La velocità relativa e l’accuratezza con cui i padri ne completarono la redazione dà prova del loro fermo desiderio di mantenere l’uniformità all’interno di un Ordine che si stava rapidamente diffondendo in tutta Europa. Come capitò a molti altri testi della legislazione di Cîteaux, gli Ecclesiastica Officia vennero sottoposti a modifiche successive e adattate man mano nei secoli successivi.

La riforma liturgica di santo Stefano non era destinata a durare a lungo nella forma originale. Non appena scomparve il grande abate, la seconda generazione cistercense, sotto la direzione di san Bernardo, sottopose a revisione critica tutto il patrimonio dei fondatori, applicando inesorabilmente i principi della semplicità e del distacco totale dal mondo in quei settori della vita monastica che erano sfuggiti all’attenzione dei predecessori. Insoddisfatto dell’Antifonario di Metz, il Capitolo nominava una commissione presieduta da san Bernardo stesso per la revisione totale del canto liturgico seguito nell’Ordine, allo scopo di migliorarne i presunti difetti e di eliminare le parti superflue. I principi di san Bernardo in questo campo erano abbastanza simili a quelli che tempo addietro egli aveva esposto nell’Apologia, a proposito delle arti figurative. Una lettera del santo, indirizzata a Dom Guy, abate del monastero benedettino di Montiéramey, sottolineava che “il canto, là dove è usato, dovrebbe essere realmente solenne, senza nulla di sensuale o di grossolano. La sua dolcezza non deve essere frivola. Deve provocare godimento all’ascolto solo quel tanto che fa nascere la compunzione nel cuore, allontanando il dolore ed addolcendo l’aggressività. Non dovrebbe distogliere dall’attenzione al testo, ma piuttosto renderlo più ricco di frutti. Non è cosa da poco mettere in pericolo il profitto spirituale quando si deve fare più attenzione agli effetti vocali che al significato delle parole”.

L’abate di Clairvaux era però occupato in affari di ben altra importanza e il lavoro di revisione venne portato a termine dagli esperti della commissione, tra cui Guy, abate di Cherlieu. Dopo l’esame di molti e diversi codici, il nuovo Antifonario venne presentato per l’approvazione un po’ prima dei 1147. Le modifiche, tuttavia, non erano state apportate in base ai dati emersi dall’analisi dei manoscritti, ma in base a principi teorici cari alla nuova generazione di seguaci della Scolastica, che preferiva considerare la musica come un ramo della scienza.

Tali principi sottolineavano l’unità modale delle melodie e, in particolare, escludevano qualsiasi mescolanza di modi plagali ed autentici; insistevano sulla legge dell’intervallo di dieci note; era escluso il si bemolle; venivano eliminate tutte le ripetizioni sia nel testo che nella melodia; le frasi troppo esuberanti, soprattutto negli alleluia, venivano semplificate e abbreviate. Secondo i musicologi moderni, la revisione fu a detrimento della qualità artistica dei brani, ma non a giudizio di san Bernardo, il quale, nella Prefazione all’Antifonario, assicurava le generazioni successive che “era irreprensibile sia nella musica che nel testo”.

Con grande disappunto della nuova fervente generazione di giovani teorici, tale riforma, troppo zelante, veniva notevolmente ristretta dalla protesta energica della generazione più anziana, ancora influente. Di conseguenza il nuovo Antifonario, riveduto e corretto, fu soltanto un compromesso e preservava alcuni degli elementi caratteristici del canto gregoriano cistercense più antico. Molti aspetti del programma di riforma, menzionato precedentemente, rispecchiavano una tendenza comune ai musici del tempo; ma l’ultimo principio, cioè la predilezione aperta per la brevità e la semplicità delle melodie, era una caratteristica tipicamente cistercense, sostenuta in modo speciale dallo stesso san Bernardo.

Il canto gregoriano cistercense restò immutato fino alla metà del XVII secolo, ma non fu possibile eliminare i gusti locali e neppure sottrarsi all’impatto del cambiamento degli stili musicali. Viveva ancora Bernardo, quando il Capitolo generale dovette insistere sul timbro virile dell’esecuzione del canto (non more femineo tinnulis) e sull’esclusione degli effetti teatrali del falsetto (falsis vocibus velut histrionicam imitari lasciviam). Il Capitolo del 1217 protestò contro il tentativo di introdurre la polifonia nel canto (triparti vel quadriparti voce more saecularium canitur), come era avvenuto furtivamente a Dore e a Tintern. Nel 1302, lo stesso corpo giuridico condannava le novità e le curiosità stravaganti che si introducevano in coro. Nel 1320 il Capitolo si infastidì molto quando venne a conoscenza di innovazioni così assurde come l’uso di note sincopate o di singhiozzi, una delle prime caratteristiche del contrappunto. Ben presto l’introduzione della musica strumentale contrariò i padri più fedeli alle tendenze conservatrici. Ma le proteste e le proibizioni ripetute si dimostrarono sforzi vani. Il movimento continuò a diffondersi e alla fine, nel 1486, il Capitolo concedeva l’uso dell’organo. Nel corso dei XVII secolo l’esecuzione di musica strumentale divenne del tutto normale, almeno nelle solennità più grandi e nelle abbazie più numerose.

Il Rinascimento e il Barocco portarono, nel campo della musica sacra, a reinterpretare il canto liturgico tradizionale secondo il gusto della polifonia trionfante, con poca comprensione della vera natura del canto gregoriano. Il movimento sboccò nell’edizione così detta medicea dei libri liturgici, avvenuta a Roma nel 1614-1615: ne uscirono delle melodie mutile che costituiscono una drastica rottura nella continuità delle tradizioni gregoriane. Una riforma liturgica cistercense patrocinata da Claude Vaussin, abate Generale dell’Ordine dal 1645 al 1670, diede vita alla pubblicazione di un nuovo messale e di un nuovo breviario, ma sia l’uno che l’altro presentavano le melodie mutile dell’edizione medicea.

Solo due secoli dopo, il canto gregoriano, restaurato nella sua originale bellezza, grazie agli sforzi dei monaci benedettini di Solesmes, riconquistava il posto che gli compete nella vita liturgica della Chiesa. Il movimento nacque per il rinnovamento della liturgia e ispirò anche il nostro Ordine a intraprendere il ripristino del canto gregoriano cistercense nelle sue caratteristiche primitive, quelle del dodicesimo secolo. Questo lavoro, basato sui risultati del lavoro di Solesmes, venne assunto da alcuni membri della Stretta Osservanza e il risultato fu la pubblicazione del nuovo Graduale, avvenuta nel 1899, seguita da quella dell’Antifonario, nel 1903. Le nuove edizioni vennero adottate anche dalla Comune Osservanza e da allora fino al 1960 circa, le due osservanze usarono gli stessi libri liturgici.

La Regola di san Benedetto non fa allusione alla celebrazione dell’Eucaristia, e le abbazie benedettine, di conseguenza, seguirono ovunque il rito della diocesi in cui erano situate. Anche i Cistercensi percorsero la stessa via e il rito più antico della celebrazione dell’Eucaristia presso i Cistercensi corrisponde a quello della provincia di Lione, modificato secondo l’uso di Molesme, il quale, del resto, si basava sul Rituale di Cluny. La liturgia seguita a Lione era una variante del così detto “rito Gallo-Romano”, derivazione della riforma di Carlomagno; questi aveva conformato l’antica liturgia delle Gallie al rito romano, pur conservando alcuni elementi caratteristici. Non era abitudine cistercense procedere in modo progressista alla formazione di una nuova liturgia; principi innovatori vennero seguiti piuttosto dai Certosini e dai Premonstratesi prima, e dai Domenicani e dai Carmelitani, poi. In realtà, prima del Concilio di Trento, non era stata mai richiesta una rigorosa uniformità tra i vari riti; in Francia, quasi ogni diocesi seguiva una variante locale del rito gallo-romano, ovunque accettato.

Il contributo di Cîteaux allo sviluppo della liturgia del XII secolo fu soprattutto apporto critico e in questo senso piuttosto negativo, in quanto i Cistercensi applicavano con logica coerenza i principi di povertà e semplicità, in opposizione all’esuberanza dei cluniacensi. Ad eccezione di un crocifisso di legno, era strettamente proibito introdurre qualsiasi decorazione nel presbiterio o sull’altare; venne eliminato l’uso di metalli preziosi nei vasi sacri; i paramenti erano solo di lino o di lana, senza varietà di colore o di qualità. C’era un’unica Messa quotidiana, celebrata dopo Terza. Nelle feste più grandi, indicate in seguito come Feste di due Messe veniva aggiunta una Messa recitata, prima di cantare l’Ora canonica di Prima. Nei giorni feriali la Messa Conventuale era celebrata con un solo ministro, possibilmente un diacono. Nelle prime consuetudini di Cîteaux, era prevista una Messa quotidiana per i defunti, sia per i membri dell’Ordine che per i parenti e i benefattori; non si raccomandava e neppure si proibiva la celebrazione quotidiana di Messe private. Durante il Medio Evo non era molto diffusa la consuetudine di celebrare frequenti Messe private. Ciò nonostante nei monasteri cistercensi, era previsto un tempo adeguato fra le ore canoniche proprio a questo fine.

Notevole incentivo per la celebrazione di Messe private fu il numero sempre crescente di fondazioni di Messe richieste dai donatori più devoti, in suffragio dei loro amici o benefattori defunti. Nel corso del XIII secolo tali “fondazioni” divennero un grave peso sulle comunità, quando cioè il numero dei monaci già stava diminuendo. Già dal 1192 il Capitolo generale si trovò costretto a proibire l’accettazione di simili fondazioni di Messe senza il permesso del Capitolo, ma i vantaggi economici immediati erano tali che l’usanza continuò. Alla fine, abati, priori ed altri membri illustri dell’Ordine giunsero a stabilire degli anniversari in favore di se stessi, fino a che il Capitolo del 1609 annullò tutte queste arbitrarietà come contrarie alla povertà monastica. Quando era impossibile adempiere agli obblighi assunti, il Capitolo generale distribuiva la celebrazione degli anniversari dei benefattori tra varie comunità o autorizzava l’introduzione di commemorazioni collettive.

Il rito della Messa Cistercense, così come era eseguito nel Medio Evo, presentava alcune notevoli peculiarità se confrontato con la liturgia romana che ebbe il sopravvento successivamente. Ma per noi, che abbiamo esperienza del pluralismo in campo liturgico e della possibilità degli esperimenti introdotti dal Concilio, le differenze non sembrano così sorprendenti come potevano risultare alle precedenti generazioni. Di fatto, alcuni aspetti dell’antico rito cistercense facevano presagire molto delle innovazioni più recenti. L’altare delle chiese cistercensi era assolutamente spoglio; solo due candelabri, uno per lato. Il rito cistercense non richiedeva la recita del sl. 42 (judica) ai piedi dell’altare, e quanto al Confiteor, prevedeva un unico testo breve, simile a quello che si usa oggi. Il ruolo principale del Celebrante, fino all’offertorio, consisteva nel canto dell’orazione; tutte le altri parti erano assicurate dai chierici o dal coro. Non si usava né palla né velo per coprire il calice, che era protetto soltanto da un angolo del corporale ripiegato all’insù. L’elevazione dopo la consacrazione venne prescritta solo nel 1210. Le genuflessioni erano inferiori di numero, rispetto al rito romano più recente il Padre Nostro era seguito da una serie di preghiere chiamate Suffragi per la Pace. Si cantava anche il Libera come si fa oggi nelle messe cantate. Fino al 1261 tutti i comunicandi ricevevano tutte e due le Sacre Specie, usando una cannuccia d’oro per il vino. Da allora in poi, questo modo di comunicare rimase privilegio dei chierici addetti al servizio dell’altare, ma anche questa usanza cessò nel 1437. La Messa si concludeva con l’Ite Missa est, senza l’aggiunta dell’Ultimo Vangelo, consuetudine resa popolare solo più tardi ad opera dei Domenicani.

Un’altra caratteristica dell’Ordine era la semplicità del Rituale. Lungo il corso dei secoli seguenti, tuttavia, si aprì la via a riti più elaborati e si terminò con il perdere quasi del tutto, le caratteristiche originali. Tale sviluppo veniva promosso da fattori storici di gran peso, ad esempio dal crescere della reputazione e dell’influenza dell’Ordine, dalla accumulazione di favori e di privilegi papali, dal carattere pontificale assunto dal servizio abbaziale, dal cambiamento delle occupazioni dei monaci e dalle loro attività pastorali, dalla diminuzione delle attività agricole e, soprattutto, dall’influenza crescente della liturgia romana. Il Capitolo generale assumeva posizioni piuttosto conservatrici quando si trattava di introdurre innovazioni nel rituale; questo del resto avveniva anche di fronte a cambiamenti relativi ad altri campi delle consuetudini monastiche. Tale resistenza rallentò un poco il movimento che trascinava verso espressioni progressiste, ma non riuscì ad arrestarne completamente lo sviluppo.

Il fenomeno più evidente di tale tendenza fu l’aumento graduale del numero delle feste del Calendario Cistercense e la loro elevazione di grado. Verso il XVII secolo le Feste di Sermone erano state raddoppiate; il numero delle Feste di due Messe era passato da venti a trentadue durante il periodo che va dal 1173 al 1259 ed era diventato di quarantuno verso il 1300. Questa ultima data coincide con il culmine della Scolastica; verso quest’epoca l’orario originale di Cîteaux per i giorni feriali e festivi aveva subito già un certo numero di cambiamenti e il lavoro manuale era stato già sostituito dallo studio. Senza tali precedenti, l’aumento del servizio liturgico non avrebbe mai potuto avere luogo; prima di allora l’intenso lavoro nei campi non avrebbe permesso né il proseguimento di studi regolari né lo sviluppo della liturgia. Così l’allontanamento graduale dell’Ordine dalla sua iniziale semplicità, per quanto riguarda la liturgia, può essere considerato come un risultato indiretto della Scolastica. Nel frattempo, il Capitolo generale cercava di dare nuova importanza alla tradizione liturgica dell’Ordine con l’introduzione di feste dei santi cistercensi. La festa di san Bernardo venne celebrata per la prima volta nel 1174, anno della sua canonizzazione; quella di san Roberto, nel 1222; la festa di Stefano Harding non venne introdotta, invece, che nel 1638, mentre quella di sant’Alberico venne istituita ancora più tardi, nel 1738.

Alcuni sviluppi dell’ufficio quotidiano, dapprima aspramente criticati, trovarono in seguito una giustificazione nell’orario cistercense. L’Ufficio della Beata Vergine Maria venne prescritto nel 1157 per quanti lavoravano o dimoravano nelle grange; nel 1185 divenne obbligatorio per coloro che dimoravano in infermeria, poi nel 1373 venne fatto precedere, in coro, alle Ore dell’Ufficio Canonico; è probabile che in molte comunità lo si recitasse anche prima. Altro esempio sul movimento che portava all’amplificazione della liturgia fu il ripristino delle processioni prima della Messa Conventuale. Durante la vita di san Bernardo, si introdusse una processione per la Festa dell’Ascensione; nel 1223 venne introdotta per la Festa dell’Assunzione. Già dal 1441 tutte le Feste di Sermone prescrivevano una processione; verso lo stesso periodo, in Francia, cominciarono ad essere introdotte processioni per tutte le domeniche, e l’abitudine venne presto imitata ovunque. Nel corso del XVII secolo, le processioni si moltiplicarono ulteriormente.

L’imposizione di regole austere per la semplicità dei paramenti, dei vasi sacri ed altre suppellettili si allentò in modo progressivo. Nel 1226 venne data l’autorizzazione di usare paramenti di seta se erano ricevuti in regalo e nel 1256 tale permesso fu esteso ulteriormente. Alcuni anni più tardi si concesse agli abati l’uso della cappa e ai diaconi-suddiaconi l’uso della dalmatica e della tunica, anche se anteriormente tutti questi paramenti erano stati proibiti. Gli abiti pontificali – cioè la mitra, l’anello e i sandali – vennero permessi dapprima agli abati di Santes Creus e di Poblet nel 1336-1337; Salem li ricevette nel 1373, Clairvaux e Les Dunes nel 1376, Cîteaux nel 1380. Lungo il XV secolo, lo spirito del Rinascimento amante del fasto, si diffuse nei monasteri e la semplicità classica del dodicesimo secolo cistercense cadde in oblio.

Le difficoltà tecniche per la realizzazione dell’uniformità furono risolte in gran parte con la diffusione della stampa.

Il Capitolo generale si rese conto immediatamente dell’importanza di quella tecnica rivoluzionaria e, dietro la sollecitazione del Capitolo, fin dal 1484 apparve la prima edizione a stampa del breviario cistercense, realizzata a Basilea, a cura di Nicolas Salicetus, abate di Baumgarten (Alsazia). Seguiva nel 1487 la prima edizione del messale cistercense, stampata a Strasburgo, con la collaborazione dello stesso Nicolas. Ulteriori edizioni dei più importanti libri liturgici vennero fatte successivamente in vari luoghi (Parigi, Lione, Venezia), fino a che il problema dell’autenticità e dell’autorizzazione corrispondente non destò una notevole confusione. Nel 1504 il Capitolo generale proibì l’edizione e la diffusione di qualsiasi libro liturgico senza l’autorizzazione speciale del Capitolo stesso.

Il programma del rinnovamento di tutta la Chiesa sancito dal Concilio di Trento (1545-1563), comprendeva una capillare riforma liturgica che fu condotta a termine da Papa Pio V (1566-1572). Vennero pubblicati allora un nuovo Breviario Romano (1568) e un nuovo Messale (1570), che avevano l’esplicito scopo di promuovere una totale riforma liturgica nel mondo cattolico. L’utilizzazione degli stessi libri liturgici fu imposta a tutti gli Ordini religiosi che avevano una liturgia propria con meno di 200 anni di tradizione. I diversi riti delle istituzioni religiose più antiche furono approvati, ma il Papa estendeva anche ad essi l’invito ad abbandonare le loro antiche liturgie in favore di quella romana. Sembrava apparentemente che l’integrità dell’antica liturgia cistercense fosse, in tal modo assicurata, ma in realtà la pressione morale e il richiamo naturale della liturgia romana, magistralmente rivista e depurata, rendevano assai problematica la conservazione del rito proprio dell’Ordine. Infatti tranne alcune poche eccezioni, tutti gli altri ordini esenti, adottarono spontaneamente la riforma ed anche coloro che, appellandosi ai loro diritti, rifiutarono di abbandonare la loro liturgia tradizionale, conformavano tuttavia i propri testi ai principi della riforma romana.

Fin dal 1573 alcune abbazie, come ad esempio Wettingen e Marienstatt, adottarono il nuovo rito romano; la diffusione di questo movimento venne arrestata solo temporaneamente dalle proteste energiche di Nicola Boucherat I. Il Capitolo generale del 1601 riaffermava di nuovo la necessità di conservare le tradizioni liturgiche cistercensi, ma il Capitolo generale del 1605 autorizzò l’introduzione di alcune parti della liturgia romana. L’Abate Generale Nicola Boucherat II (1604-1625) era molto favorevole all’introduzione della nuova liturgia. Fu con la sua approvazione che il breviario romano venne adottato dalla Congregazione di Lombardia e Toscana e il messale romano dalle abbazie cistercensi di Prussia e Polonia.

L’atteggiamento più diffuso nei confronti di questo problema si esprimeva in modo caratteristico con l’autorità di san Francesco di Sales; questi, presiedendo il Capitolo generale dei Foglianti nel 1622, sollecitava apertamente ad abbracciare la riforma del breviario romano, dietro la accusa che le parti errate, puerili ed oscure contenute negli antichi libri cistercensi erano incompatibili con la dignità della Chiesa.

La corrente sembrava ormai irreversibile. Il Capitolo generale dei 1609 rilevava che solo alcune poche case a quel tempo aderivano all’antica liturgia. Nel 1611 la stessa assemblea permetteva messe private secondo le rubriche della liturgia romana. Nello stesso anno i Foglianti abbandonavano il Breviario Cistercense in favore del breviario monastico approvato dal Papa Paolo VI per i Benedettini. Alla fine, il Capitolo generale del 1618 prescriveva che “d’ora innanzi sia le messe conventuali che le messe private debbano essere recitate da tutti, sia abati che monaci, secondo il rito e le cerimonie della liturgia romana, senza eccezioni”. Lo stesso Capitolo progettava anche la riforma del Breviario Cistercense.

Per motivi pratici, la decisione sul rito della Messa non trovò grandi opposizioni. Il cambiamento si limitò all’ordinario della Messa e il calendario cistercense venne mantenuto invece con molte caratteristiche proprie dell’antica liturgia dell’Ordine. In questo modo, le famose sequenze del Messale Romano (Victimae paschali, Veni sancte, Lauda Sion, Dies Irae) non vennero introdotte nel messale cistercense; nelle celebrazioni delle vigilie e delle Quattro Tempora, la Messa cistercense aveva meno letture dell’A.T. che il rito romano; anche la liturgia della Settimana Santa conservava alcune caratteristiche dell’antico Cîteaux. Le Congregazioni di Castiglia e di Portogallo, separatesi da Cîteaux molto tempo prima della riforma liturgica, mantennero il rito originale della Messa cistercense fino alla loro soppressione, cioè fin verso il 1830; i monasteri cistercensi femminili in Spagna conservarono alcuni elementi tipici dell’antica liturgia fino al Concilio Vaticano II.

A seguito dei dissidi interni dovuti al sorgere della Stretta Osservanza, la revisione del Breviario non poté essere condotta a termine fino al governo di Claude Vaussin. Diversamente da quanto era avvenuto per il messale, non c’erano motivi validi per abbandonare l’antico Ufficio Divino; anzi, la riforma di Vaussin fu solo un buon tentativo per mantenere l’ordinamento originale della Regola di san Benedetto. Il numero delle feste era aumentato di molto e data la prescrizione corrente di utilizzare sempre per i salmi delle vigilie il Comune dei Santi, era impossibile recitare per intero il salterio in una sola settimana (requisito fondamentale della Regola); la riforma creò allora un nuovo tipo di festa, quella di Tre lezioni. In questi casi erano proprie solo le letture dei notturni; i salmi venivano recitati secondo l’ordine prescritto per i giorni feriali: questa sistemazione era già stata adottata dal breviario della riforma di Pio V. Un certo numero di feste, che appartenevano prima a una categoria diversa, vennero ridotte a Tre lezioni, mentre si creava un gruppo di feste nuove senza modificare l’ordine dei salmi feriali. Un numero considerevole di feste e di commemorazioni furono semplicemente soppresse mentre venivano introdotti tre nuovi uffici votivi di Tre lezioni: l’ufficio della Beata Vergine Maria il sabato; l’ufficio di san Bernardo il martedì, e un altro per il Santissimo Sacramento, il giovedì. I testi biblici di tutto il Breviario vennero corretti secondo la nuova edizione della Vulgata promossa da papa Sisto V, e, rispondendo a una richiesta venuta dalla base, l’ufficio degli ultimi tre giorni della Settimana Santa fu interamente ripreso dal Breviario Romano.

Il Breviario Cistercense rinnovato e corretto venne pubblicato nel 1656, sotto l’autorità di Vaussin, Abate Generale, fra le proteste abbastanza forti di quanti appoggiavano l’introduzione del Breviario Romano. I malcontenti trovarono un poderoso alleato nella persona di Giovanni Bona, che a quell’epoca era abate generale dei Foglianti e più tardi doveva diventare cardinale, grande sostenitore della riforma liturgica. Nel 1661 lo stesso Bona, grazie alla grande influenza e alla stima di cui godeva, riuscì ad ottenere dalla Congregazione dei Riti un Decreto che annullò la riforma di Vaussin e che prescrisse per tutto l’Ordine l’adozione del così detto Breviarium Romano-Monasticum, pubblicato da papa Paolo V nel 1612. Tuttavia questo Decreto non venne applicato mai a causa delle pressioni che l’Ordine esercitò nella persona di Ilarione Rancati, Procuratore dell’Ordine residente a Roma: esse furono abbastanza forti da far revocare la decisione della Congregazione. Il Breviario di Vaussin venne implicitamente approvato nel 1666 con la bolla In suprema di Alessandro VII, che garantì l’utilizzazione incontrastata del Breviario Cistercense per i due secoli successivi.

Contributo ulteriore per la formulazione definitiva della liturgia cistercense fu la pubblicazione del Rituale Cistercense, una raccolta di norme dettagliate e di usanze diverse adottate nella vita monastica al di fuori della celebrazione della Messa e dell’Ufficio Divino. Le differenze quasi insignificanti che esistevano tra il rituale dell’Ordine e il rituale romano nella amministrazione dei sacramenti, trovavano una giustificazione nel fatto che tutte queste funzioni dovevano svolgersi all’interno di una comunità monastica. Varie commissioni lavorarono fin dal 1667 e il rituale venne pubblicato infine nel 1689, con l’autorità di Jean Petit. Questa edizione fu adottata in forma tipica per la celebrazione di tutte le funzioni liturgiche dall’intero Ordine, ad eccezione dei Foglianti e della Congregazione di Castiglia. L’Abate Generale Edmond Perrot, nel tentativo di conformare alcuni punti importanti delle cerimonie cistercensi con il rituale romano, pubblicava nel 1721 una nuova edizione del Rituale Cistercense, utilizzata ovunque fino al 1892; nel 1892 l’abate di Lérins faceva ristampare il testo del 1689, aggiungendo in nota a pie di pagina le varianti apportate dall’edizione dei 1721, lasciando ad ogni comunità la facoltà di scegliere l’una o l’altra.

Il diritto di seguire il Breviario Cistercense riapparve inaspettatamente verso il 1860. In quel momento la comunità di Bornhem (Belgio) si espresse a favore del Breviario Romano-Monasticum e rinnovò le accuse del Cardinal Bona contro il Breviario Cistercense: si mise in evidenza che la riforma di Vaussin non era mai stata approvata ufficialmente da Roma, e che il Breviario Cistercense non si era mai tenuto al passo con lo sviluppo della liturgia della Chiesa, perché ignorava le feste popolari più comuni e non prevedeva una celebrazione adeguata per le commemorazioni dei santi recentemente canonizzati. La disputa venne sottoposta alla Congregazione dei Riti che, sotto la vigorosa influenza dei Trappisti, confermò la piena legalità della riforma di Vaussin ed approvò formalmente nel 1869 il Breviario Cistercense, nella sua forma tradizionale. Ma per dare adempimento alle legittime richieste, lo stesso decreto proponeva una sistemazione per introdurre 40 nuove feste celebrate in tutta la Chiesa; due nella categoria di Due Messe, due come Dodici lezioni e il resto come feste di Tre lezioni o come semplici commemorazioni. Tale revisione venne solennemente ratificata da papa Pio IX nel 1871, in un Breve che da allora in poi è stato stampato in ogni edizione del Breviario Cistercense.

Fino ai cambiamenti avvenuti in epoca recentissima, i libri liturgici di tutte e due le Osservanze dell’Ordine rimasero identici, stampati e pubblicati, a partire dal 1854, con estrema cura, dai Trappisti belgi di Westmalle.

Il movimento di rinnovamento liturgico sorto attorno agli anni ’30 ebbe come conseguenza la realizzazione di diversi tentativi per restaurare gli antichi Messali e Breviari Cistercensi. Questo impulso venne dalla casa bretone di Boquen dopo la ricostruzione, avvenuta nel 1936 ad opera dell’abate Alexis Presse. Con la restaurazione dell’abbazia svizzera di Hauterive, nel 1938, questa diventava il centro liturgico della Comune Osservanza, dove si seguiva il rito della Messa Cistercense pre-tridentina. Tentativi analoghi vennero realizzati nell’abbazia catalana di Poblet, dopo la riapertura del 1940: le tradizioni antiche erano rimaste in vigore in quel monastero fino al secolo XIX.

Nonostante la separazione delle due Osservanze, (1892) l’uniformità della liturgia, degna di considerazione, costituiva un legame molto significativo. Ma tutto questo, fino alla concezione stessa della uniformità, venne improvvisamente meno con la promulgazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, (4 dicembre 1963). Le interpretazioni radicali di questo documento incoraggiavano una vasta gamma di esperimenti, portavano alla eliminazione del Canto Gregoriano in molte abbazie e all’abbandono quasi totale della lingua latina nell’uso liturgico. Ci si potrebbe chiedere se le soluzioni scelte presentano ancora elementi che si possono considerare propriamente “cistercensi”. Inoltre, per ogni futuro tentativo di recuperare un rito autenticamente cistercense, l’uso delle lingue vernacole rimarrà sempre un grosso ostacolo.

Secondo le statistiche raccolte al Capitolo generale della Comune Osservanza nel 1974, tre monasteri di monaci e 17 comunità di monache continuano ancora a celebrare l’Ufficio Divino nella forma tradizionale; 17 abbazie maschili e 10 case femminili hanno introdotto alcuni cambiamenti a livello di struttura, ma continuano ad usare il latino; 15 abbazie e 23 monasteri di monache hanno un Ufficio misto, con alcune parti in latino ed altre in lingua vernacola; 14 abbazie e 22 monasteri femminili hanno adottato una liturgia esclusivamente in lingua viva.

Una analoga varietà di soluzioni si è affermata tra le case della Stretta Osservanza. Invece, il nuovo Messale Romano è stato accolto unanimemente da tutte e due le Osservanze.
Bibliografia

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L.J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, I, Certosa di Pavia, 1989.
LiviaGloria
00giovedì 19 febbraio 2009 11:29
www.alleanzacattolica.org/comunicati/acnews/acnews007_07.htm


Roma, 17 novembre 2007. Intervista sul Motu Proprio Summorum Pontificum fatta a Sua Ecc. Mons. Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e pubblicata dall'Agenzia Fides.



Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Il 14 settembre è entrato in vigore il Motu Proprio Summorum Pontificum promulgato da Papa Benedetto XVI il 7 luglio 2007 e dedicato al rito di San Pio V rivisto nel 1962 da Papa Giovanni XXIII. Con il Motu Proprio (iniziativa promossa da parte ci chi ne ha le facoltà) torna la possibilità di celebrare col Messale tridentino senza dover necessariamente chiedere il permesso del Vescovo. Con il Concilio Vaticano II e in particolare con la riforma liturgica del 1970 promossa da Papa Paolo VI, l’antico Messale era stato sostituito dal nuovo e, anche se ufficialmente non era mai stato abolito, i fedeli per utilizzarlo dovevano avere espressamente il permesso del Vescovo. Un permesso sancito all’interno di un altro Motu Proprio: l’Ecclesia Dei adflicta firmato da Papa Giovanni Paolo II il 2 luglio 1988. Oggi, con il nuovo Motu Proprio, questo permesso non è più necessario e qualsiasi «gruppo stabile» di fedeli può liberamente chiedere al proprio parroco la possibilità di celebrare seguendo l’antico Messale. L’Agenzia Fides ha rivolto alcune domande a questo proposito a Sua Ecc. Monsignor Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti.



Eccellenza Reverendissima, qual è a suo avviso il significato profondo del Motu Proprio Summorum Pontificum?

Vedo in questa decisione non solo la sollecitudine del Santo Padre di aprire la strada del rientro nella piena comunione della Chiesa ai seguaci di Monsignor Lefebvre, ma anche un segno per tutta la Chiesa su alcuni principi teologico-disciplinari da salvaguardare per un suo profondo rinnovamento, tanto auspicato dal Concilio.

Mi pare che ci sia un forte desiderio del Papa di correggere quelle tentazioni visibili in alcuni ambienti i quali vedono il Concilio come un momento di rottura con il passato e di un nuovo inizio. Basti ricordare il suo discorso alla Curia Romana il 22 Dicembre 2005. D’altronde neanche il Concilio pensò, di se stesso, in questi termini. Sia nelle sue scelte dottrinali che in quelle liturgiche come anche in quelle giuridiche-pastorali, il Concilio fu un altro momento di approfondimento e di aggiornamento della ricca eredità teologico-spirituale della Chiesa nella sua storia bimillenaria. Con il Motu Proprio il Papa vuole affermare chiaramente che ogni tentazione di disprezzo di queste venerate tradizioni è fuori posto. Il messaggio è chiaro: progresso, sì, ma non a scapito, o senza la storia. Anche la riforma liturgica deve essere fedele a tutto ciò che è successo dagli inizi ad oggi, senza esclusioni.

Dall’altro lato, non dobbiamo mai dimenticare che per la Chiesa Cattolica la Rivelazione Divina non è qualcosa proveniente solo dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla Tradizione vivente della Chiesa. Tale fede ci distingue nettamente da altre manifestazioni della fede cristiana. La verità per noi è ciò che emerge, per così dire, da tutti e due questi poli, cioè Sacra Scrittura e Tradizione. Questa posizione per me è molto più ricca di altre vedute perché rispetta la libertà del Signore a guidarci verso una più adeguata comprensione della verità rivelata anche attraverso ciò che succederà nel futuro. Naturalmente, il processo di discernimento di ciò che emerge verrà attuato attraverso il Magistero della Chiesa. Ma ciò che dobbiamo cogliere è l’importanza attribuita alla Tradizione. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum affermò questa verità chiaramente (DV 10).

Inoltre la Chiesa è una realtà che sorpassa i livelli di una pura invenzione umana. Essa è il Corpo mistico di Cristo, la Gerusalemme celeste e la stirpe eletta di Dio. Essa, perciò, supera le frontiere terrestri e ogni limitazione di tempo ed è una realtà che trascende di molto la sua manifestazione terrestre e gerarchica. Perciò in essa, ciò che è ricevuto, dovrà essere trasmesso fedelmente. Noi non siamo né inventori della verità, né i suoi padroni, ma solo coloro che la ricevono e hanno il compito di proteggerla e trasmetterla agli altri. Come diceva San Paolo parlando dell’Eucaristia: “io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1Cor 11, 23). Il rispetto della Tradizione non è dunque una nostra scelta libera nella ricerca della verità, ma la sua base che deve essere accettata. Nella Chiesa la fedeltà alla Tradizione perciò, è un atteggiamento essenziale della Chiesa stessa. Il Motu Proprio, a mio parere, và inteso anche in questo senso. Esso è un possibile stimolo per una necessaria correzione di rotta. Infatti, in alcune scelte della riforma liturgica attuata dopo il Concilio, sono stati adottati degli orientamenti che hanno offuscato alcuni aspetti della liturgia, meglio riflettuta dalla precedente prassi, perché, da alcuni, il rinnovamento liturgico è stato inteso come qualcosa da realizzare ex novo. Però, sappiamo bene che tale non fu l’intenzione della Sacrosanctum Concilium, che rileva che “le nuove forme in qualche modo scaturiscano organicamente da quelle già esistenti” (SC 23).



Una caratteristica del Pontificato di Benedetto XVI sembra essere l’insistenza intorno a una corretta ermeneutica del Concilio Vaticano II. Secondo Lei il Motu Proprio “Summorum Pontificum” va in questa direzione? Se sì, in che senso?



Già da Cardinale nei suoi scritti il Papa aveva rigettato un certo spirito di esuberanza visibile in alcuni circoli teologici motivati da un cosiddetto “spirito del Concilio” che per lui fu in realtà un vero “anti spirito” o un “Konzils - Ungeist” (Rapporto sulla Fede, San Paolo, 2005, capitolo 2). Cito testualmente tale scritto in cui il Papa sottolinea: “bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo” (ibid p. 33).

Ora, un tale errore di interpretazione del Concilio e del cammino storico-teologico della Chiesa ha influito su tutti i settori ecclesiali, liturgia inclusa. Un certo atteggiamento, di facile rigetto degli sviluppi ecclesiologici e teologici, come anche di quelli liturgici dell’ultimo millennio da un lato e una ingenua idolizzazione di ciò che sarebbe stato la mens della Chiesa cosiddetta dei primi cristiani dall’altro, ha avuto un influsso di non poca rilevanza sulla riforma liturgico-teologica dell’era post conciliare.

Il rigetto categorico della Messa pre-conciliare, come un relitto di un’epoca ormai “superata”, fu il risultato di questa mentalità. Tanti hanno visto le cose in questo modo, per grazia di Dio, non tutti.

La stessa Sacrosanctum Concilium, la Costituzione Conciliare sulla Liturgia, non offre alcuna giustificazione a tale atteggiamento. Sia nei principi generali che nelle norme proposte, il Documento è sobrio e fedele a ciò che significa la vita liturgica della Chiesa. Basti leggere il numero 23 di detto documento per essere convinti di tale spirito di sobrietà.

Alcune di queste riforme hanno abbandonato importanti elementi della Liturgia con le relative considerazioni teologiche: ora è necessario e importante recuperare questi elementi. Il Papa, considera il rito di San Pio V rivisto dal Beato Giovanni XXIII una via di recupero di quegli elementi offuscati dalla riforma, avrà certamente riflettuto tanto sulla sua scelta; sappiamo che ha consultato diversi settori della Chiesa su tale questione e, nonostante alcune posizioni contrarie, ha deciso di permettere la libera celebrazione di quel Rito. Tale mossa non è tanto, come dicono alcuni, un ritorno al passato, quanto il bisogno di riequilibrare in modo integro gli aspetti eterni, trascendenti e celesti con quelli terrestri e comunitari della liturgia. Essa aiuterà a stabilire eventualmente un equilibrio anche tra il senso del sacro e del mistero da un lato e quello dei gesti esterni e degli atteggiamenti e impegni socio-culturali derivanti dalla liturgia.



Quando era ancora Cardinale, Joseph Ratzinger insisteva molto sulla necessità di leggere il Concilio Vaticano II a partire dal suo primo documento e cioè la Sacrosanctum Concilium. Perché, secondo Lei, i Padri Conciliari hanno voluto dedicarsi innanzitutto alla liturgia?



Prima di tutto dietro tale scelta stava sicuramente la consapevolezza dell’importanza vitale della liturgia per la Chiesa. La liturgia, per così dire, è l’occhio del tifone, perché ciò che si celebra, è ciò che si crede e ciò che si vive: il famoso assioma Lex orandi, lex credendi. Perciò ogni vera riforma della Chiesa passa attraverso la liturgia. I Padri erano consci di tale importanza. D’altronde la riforma liturgica era un processo già in atto anche prima del Concilio a partire soprattutto dal Motu Proprio Tra le Sollecitudini di San Pio X e la Mediator Dei di Pio XII.

È San Pio X che attribuì alla liturgia l’espressione “prima sorgente” dell’autentico spirito cristiano. Forse già anche l’esistenza delle strutture e dell’esperienza di chi si impegnava per lo studio e l’introduzione di alcune riforme liturgiche, stimolava i Padri Conciliari a scegliere la liturgia come materia da considerare per prima nelle sedute del Concilio. Papa Paolo VI rifletteva la mens dei Padri Conciliari sulla questione quando disse: “noi vi ravvisiamo l’ossequio della scala dei valori e doveri: Dio al Primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che possiamo fare al popolo cristiano…” (Paolo VI, Discorso di chiusura del 2° periodo del Concilio, 4 dicembre 1963).



In molti hanno letto la pubblicazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum” come una volontà del Pontefice di avvicinare la Chiesa agli scismatici lefebvriani. È così secondo Lei? Va anche in questo senso il Motu Proprio?



Si, ma non solo. Il Santo Padre spiegando le motivazioni della sua decisione, sia nel testo del Motu Proprio che nella lettera di presentazione scritta ai Vescovi, elenca anche altre ragioni importanti. Naturalmente avrà tenuto conto della richiesta sempre più crescente, fatta da diversi gruppi e soprattutto dalla Società di San Pio X e la Fraternità Sacerdotale di San Pietro come anche da Associazioni di Laici, per la liberalizzazione della Messa di San Pio V. Assicurare l’integrazione totale dei Lefebvriani era importante anche per il fatto che spesso, nel passato, sono stati commessi degli errori di giudizio causando inutili divisioni nella Chiesa, divisioni che ora sono diventate quasi insuperabili. Il Papa parla di questo possibile pericolo nella lettera di presentazione del Documento scritta ai Vescovi.



Quali sono a Suo avviso le problematiche più urgenti per la giusta celebrazione della Sacra liturgia? Quali le istanze su cui insistere maggiormente?



Credo che nella crescente richiesta per la liberalizzazione della Messa di San Pio V, il Papa abbia visto segni di un certo svuotamento spirituale causato dal modo con cui i momenti liturgici, sono finora celebrati nella Chiesa. Tale difficoltà scaturisce tanto da certi orientamenti della riforma liturgica post conciliare che tendevano a ridurre, o meglio ancora, a confondere aspetti essenziali della fede, quanto da atteggiamenti avventurosi e poco fedeli alla disciplina liturgica della stessa riforma; il che si constata ovunque.

Credo che una delle cause per l’abbandono di alcuni elementi importanti, del rito tridentino nella realizzazione della riforma post conciliare da parte di certi settori liturgici sia il risultato di un abbandono o d’una sottovalutazione di ciò che sarebbe successo nel secondo millennio della storia della liturgia. Alcuni liturgisti vedevano gli sviluppi di questo periodo piuttosto negativamente. Tale giudizio è erroneo perché quando si parla della tradizione vivente della Chiesa non si può scegliere qua e là ciò che concorda con le nostre idee pre concepite. La Tradizione, considerata in un senso generale anche negli ambiti della scienza, filosofia o teologia, è sempre qualcosa di vivente che continua a evolvere e progredire anche nei momenti alti e bassi della storia. Per la Chiesa la Tradizione vivente è una delle fonti della rivelazione divina ed è frutto di un processo di evoluzione continuo. Ciò è vero anche nella tradizione liturgica, con la “t” minuscola. Gli sviluppi della liturgia nel secondo millennio hanno il loro valore. La Sacrosanctum Concilium non parla di un nuovo Rito, o di un momento di rottura, ma di una riforma che emerga organicamente da ciò che già esiste. È per questo che il Papa dice: “nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (Lettera ai Vescovi, 7 luglio 2007). Idolatrare ciò che è successo nel primo Millennio a scapito di quello successivo è, dunque, un atteggiamento poco scientifico. I Padri Conciliari non hanno mostrato un tale atteggiamento.

Una seconda problematica sarebbe quella di una crisi di obbedienza verso il Santo Padre che si nota in alcuni ambienti. Se tale atteggiamento di autonomia è visibile fra alcuni ecclesiastici, anche nei ranghi più alti della Chiesa, non giova certamente alla nobile missione che Cristo ha affidato al suo Vicario.

Si sente che in alcune nazioni o diocesi sono state emanate dai Vescovi delle regole che praticamente annullano o deformano l’intenzione del Papa. Tale comportamento non è consono con la dignità e la nobiltà della vocazione di un pastore della Chiesa. Non dico che tutti siano così. La maggioranza dei Vescovi ed ecclesiastici hanno accettato, con il dovuto senso di riverenza e obbedienza, la volontà del Papa. Ciò è veramente lodevole. Purtroppo ci sono state delle voci di protesta da parte di certuni.

Allo stesso tempo non si può ignorare che tale decisione fu necessaria perché come dice il Papa la Santa Messa: “in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso veniva addirittura inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni della liturgia al limite sopportabile”. “Parlo per esperienza”, continua il Papa “perché ho vissuto anche io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni e ho visto quanto profondamente siano state ferite dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa” (Lettera ai Vescovi). Il risultato di tali abusi fu un crescente spirito di nostalgia per la Messa di San Pio V. Inoltre un senso di disinteresse generale a leggere e rispettare sia i documenti normativi della Santa Sede, nonché le stesse Istruzioni e Premesse dei libri liturgici peggiorò la situazione. La liturgia ancora non sembra figurare sufficientemente nella lista delle priorità per i Corsi di Formazione continua degli ecclesiastici.

Distinguiamo bene. La riforma post conciliare non è del tutto negativa; anzi ci sono molti aspetti positivi in ciò che fu realizzato. Ma ci sono anche dei cambiamenti introdotti abusivamente che continuano ad essere portati avanti nonostante i loro effetti nocivi sulla fede e sulla vita liturgica della Chiesa.

Parlo qui per esempio d’un cambiamento effettuato nella riforma, il quale non fu proposto né dai Padri Conciliari né dalla Sacrosanctum Concilium, cioè la comunione ricevuta sulla mano. Ciò ha contribuito in qualche modo ad un certo calo di fede nella Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Questa prassi, e l’abolizione delle balaustre dal presbiterio, degli inginocchiatoi dalle chiese e l’introduzione di pratiche che obbligano i fedeli a stare seduti o in piedi durante l’elevazione del Santissimo Sacramento riducono il genuino significato dell’Eucaristia e, il senso della profonda adorazione che la Chiesa deve rivolgere verso il Signore, l’Unigenito Figlio di Dio. Inoltre, la Chiesa, dimora di Dio viene in alcuni luoghi usata come un’aula per incontri fraterni, concerti o celebrazioni inter-religiose. In qualche chiesa il Santissimo Sacramento viene quasi nascosto e abbandonato in una Cappellina invisibile e poco decorata. Tutto questo oscura la fede così centrale della Chiesa, nella presenza reale di Cristo. Per noi cattolici la Chiesa è essenzialmente la dimora dell’eterno.

Un altro serio errore è quello di confondere i ruoli specifici del clero e dei laici sull’altare rendendo il presbiterio un luogo di disturbo, di troppo movimento e non certamente “il luogo” dove il cristiano riesce a cogliere il senso di stupore e splendore davanti alla presenza e all’azione salvifica del Signore. L’uso delle danze, degli strumenti musicali e di canti che ben poco hanno di liturgico, non sono per nulla consoni all’ambiente sacro della chiesa e della liturgia; aggiungo anche certe omelie di carattere politico-sociale spesso poco preparate. Tutto ciò snatura la celebrazione della S. Messa e ne fa una coreografia e una manifestazione di teatralità, ma non di fede.

Ci sono anche altri aspetti poco coerenti con la bellezza e lo stupore di ciò che si celebra sull’altare. Non tutto va male con il Novus Ordo, ma molte cose ancora devono essere messe in ordine evitando ulteriori danni alla vita della Chiesa. Credo che il nostro atteggiamento verso il Papa, le sue decisioni e l’espressione della sua sollecitudine per il bene della Chiesa deve essere solo quello che San Paolo raccomandò ai Corinzi - “ma tutto si faccia per edificazione” (1Cor 14, 26). (P.L.R.) (Agenzia Fides 16/11/2007)
LiviaGloria
00giovedì 19 febbraio 2009 11:33
www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=14839&lan=ita

VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello - “La liturgia, relazione totale della Chiesa con Gesù Cristo Mediator Dei”
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Com’è noto è l’incipit dell’Enciclica del Servo di Dio, Papa Pio XII: il pronunciamento più organico del Magistero della Chiesa sulla liturgia che finora sia stato prodotto. La stessa Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II si fonda sui suoi principi dottrinali e ne ripercorre la struttura ampliandola. La sorpresa nel leggere un documento vecchio di sessant’anni è di scoprirne ancora l’attualità: è mosso da intento pastorale, avendo aperto la strada alla ‘pastorale liturgica’, come dimostrarono le “instaurationes” o riforme che seguirono nel decennio successivo, la più celebre quella dell’Ordo della Settimana santa (1955), inaugurata nel 1951 con il restauro della Veglia pasquale in tutta la sua antichità.
La preoccupazione pastorale si documenta anche nel metodo: non imporre all’improvviso un assetto che stravolga l’impianto delle ‘unità liturgiche’ (Messa, Ufficio, Calendario…), ma proporre un restauro graduale delle parti più antiche, senza però eliminare gli sviluppi, in quanto la liturgia come il corpo ecclesiale è un organismo vivente: non si possono amputare parti solo perché non c’erano alla nascita. E’ un po’ il metodo che si applica nelle opere d’arte. Alcuni studi hanno messo in luce i principi che guidarono quel grande Pontefice: in specie quello dell’innovazione nella continuità, ben diverso da archeologismo e creativismo (Cfr in specie: C.Braga, La riforma liturgica di Pio XII. Documenti-1.La ‘Memoria sulla riforma liturgica’, Roma 2003, CLV, BEL 128; N.Giampietro, Il Card.Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, SA, Roma 1978.). Giovanni XXIII e Paolo VI ebbero intenzione di continuare nel solco e col metodo di Pio XII, come dimostrano le edizioni del Messale Romano del 1962 e del 1965. Ora il Motu proprio di Benedetto XVI si ricollega a tale impostazione tradizionale e a un tempo innovatrice.
E’ nota l’affermazione di Dostoevskj nei “Fratelli Karamazov”: “Se qualcuno potesse dimostrarmi che la verità si trova al di fuori di Cristo, io preferirei rimanere con Cristo piuttosto che con quella verità”. Probabilmente non è teologicamente corretto, ma esprime l’essenziale per il cristiano: l’irriducibilità fra la Chiesa e il mondo, come tra il sale e la pietanza a cui deve dare sostanza. Il mondo potrà accettare la tradizione, il pensiero, l’arte, i valori del Cristianesimo, al limite anche l’esempio morale di Cristo: ma lo spirito del mondo non accetterà mai di lasciarsi possedere dallo spirito di Cristo, perché aspira continuamente all’autonomia. Mentre la Chiesa è totalmente relativa a Cristo: non sarebbe più Chiesa se cessasse di esserlo.
Il culto o liturgia della Chiesa manifesta totalmente tale relazione, come in capite afferma l’Enciclica Mediator Dei. Altrimenti si crea qualcosa di simile al culto cristiano, ma senza Cristo. O un culto lontano dalla gloria da dare a Dio e dalla salvezza da dare all’uomo, occupato a celebrare se stessi, la comunità, il prete, oppure un culto relegato in una evanescente dimensione ‘spirituale’, in cui viene meno la consapevolezza e l’esperienza, il cambio di una soddisfazione unicamente estetica. Nell’uno e nell’altro caso è stato rifiutato il metodo essenziale del Cristianesimo, quello di una comunione cui aderire e obbedire, che è il necessario presupposto dell’accostamento prima e della partecipazione poi dell’uomo al culto.
Un Vescovo italiano tra i più attenti alla liturgia, scrive tra l’altro: “ Il pelagianesimo, nelle sue varie gradazioni, è sempre un pericolo per la vita della Chiesa (anche quando non si parla quasi mai della Grazia, anche quando non si conosce quasi per nulla il contenuto nel quale è nato ed ha avuto acuta manifestazione). Se la mentalità pelagiana viene applicata alla Liturgia, si arriva ad insistere di più e a dare più importanza all'azione esteriore che l'uomo ivi compie, che a quello che Cristo compie attraverso l'azione ministeriale strumentale di chi è stato da Lui reso capace di agire ‘in persona Christi et Ecclesiae’, attraverso la Parola che è annunciata, attraverso i segni che sono compiuti. Si arriva a dimenticare che quello che conta è l'azione divina, dello Spirito, della Grazia, non quella dell'uomo, sia esso il singolo fedele, la comunità o lo stesso Ministro” (Mons.Mario Oliveri, La Divina Liturgia, Albenga 2007, p 7) .
La presunzione di creare una nuova liturgia e la debolezza esistenziale e culturale della Chiesa, hanno contribuito al clima in cui hanno attecchito gli abusi, segni della ribellione e disobbedienza, così opposti all’obbedienza di Cristo fino alla morte di croce, che la liturgia essenzialmente deve annunciare. Così, come qualcuno ha detto, quanti avrebbero dovuto entrare in Chiesa con la riforma liturgica, sono rimasti fuori. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro, ma noi cristiani abbiamo la responsabilità di testimoniare che il nichilismo e il relativismo penetrati nella liturgia non possono vincere, perché sono già stati sconfitti da Colui che continuamente fa “nuove tutte le cose”(Ap 21,5).
Se tutto questo si fosse tenuto più in conto nell’attuazione della riforma liturgica postconciliare, si sarebbero evitati traumi e contrapposizioni. Ora si apre una stagione in cui deve prevalere il confronto franco e pacato delle idee, perché nessuno da solo rappresenta tutta la Chiesa, eccetto il Vescovo di Roma; non deve mancare l’aiuto di benemerite istituzioni liturgiche, in primis quelle guidate dai Benedettini, sotto la guida della Congregazione del Culto Divino, suprema autorità moderante della liturgia “per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità” (Lettera di Benedetto XVI ai Vescovi, che accompagna il Motu proprio Summorum Pontificum). (Agenzia Fides 6/12/2007; righe 61, parole 882)
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