Putin ospite di Bush. Padre

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Kattolico
00venerdì 29 giugno 2007 14:42
Putin ospite di Bush. Padre
Maurizio Blondet
29/06/2007
George W. Bush e Vladimir PutinIl primo luglio Vladimir Putin incontrerà George Bush, che l’ha invitato a passare un week-end in campagna.
Ma non nel ranch texano di Jr., bensì nel più fantastico e ricco resort di Kennenbunkport, Maine, dove si ritira Bush padre e la sua famiglia.
In questa «atmosfera informale», dove Putin sarà invitato (si può immaginare con quanto entusiasmo) a partecipare a partite di pesca, papà Bush probabilmente pensa di addolcire l’ospite e controllare da vicino il figlio.
La partita è troppo importante, e le questioni aperte troppo gravi.
Putin ha avanzato l’idea di «una nuova architettura finanziaria» con numerose divise al posto del dollaro.
Impedisce ogni soluzione nel Kossovo, senza il consenso della Serbia.
Su Iraq, Afghanistan e Medio Oriente, si sa come la pensa.
Putin ha paragonato l’America di Bush alla Germania nazista.
Stufo di essere attaccato per deficit democratico, ha ricordato che la storia dell’URSS non è poi così deplorevole, visto che l’Unione Sovietica non ha mai lanciato un’atomica su una popolazione civile.
Sui missili antimissile che Bush vuol piazzare in Polonia, ha messo in difficoltà la Casa Bianca con l’offerta a sorpresa del mega-radar sovietico di Gabala, in Azerbaijan, alternativo al radar di comando dei missili polacchi in Cekia.
Quanto alla speranza che Putin si associasse alla mano pesante euro-americana contro Teheran, si è presto dissipata.
Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri, ha incontrato Ahmadinejad il 19 giugno e l’ha assicurato che «La Russia non considera l’Iran affatto una minaccia» e continuerà a cooperare nei vari campi, fra cui la costruzione della centrale nucleare di Bushehr.
Un osso duro.
Ma soprattutto - e ciò preoccupa papà Bush – l’amministrazione USA deve riconoscere che Putin ha «una posizione dominante nell’area petrolifera» oggetto di tutte le avidità e degli sforzi bellici di Washington: il Caspio.



Secondo un’acida analisi della Jamestown Foundation (1), fra pochi mesi Putin tornerà a Teheran per una nuova tornata di trattative su una questione spinosa: la divisione del Caspio e delle sue coste tra Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakhstan, Russia ed Iran.
La caduta dell’URSS (di cui i tre Stati minori facevano parte) ha cambiato molto per Teheran, e non nel senso migliore: prima, condivideva il Caspio con Mosca, oggi con quattro Stati di cui tre nuovi. Ridefinire le acque territoriali di ciascuno - cosa essenziale, per cominciare lo sfruttamento in grande - s’è rivelato un compito difficile.
Un negoziato avvenuto nel 2002 è fallito.
Ora se ne riapre un altro.
Ma, secondo la Jamestown, «l’attuale situazione fa molto comodo a Putin, dal momento che il prolungarsi della disputa mantiene la Russia in posizione dominante. Senza un accordo sulle frontiere marittime, non si può costruire alcun oleodotto trans-Caspio, sicchè il gas del Turkmenistan e il greggio del Kazakhstan può essere convogliato solo negli oloedotti russi, verso Nord».
Secondo l’analisi della Jamestown, «Putin è più irremovibile nel mantenere una posizione dominante sul Caspio che sui missili» in Polonia.
Dalla sua, ha il recente «accordo trilaterale petrolifero» che ha firmato con Turkmenistan e il Kazakhstan.
Ma l’America petrolifera dietro a Bush padre ritiene di avere buone carte in mano.
Per esempio, a settembre scorso, a Kennenbunkport è stato invitato Nursultan Nazarbayev, il presidente kazako, il quale in quell’atmosfera di lusso e di acque pescose avrebbe confermato «di non essere entusiasta di mettere tutte le sue uova petrolifere nel paniere di Mosca».
Quanto al Turkmenistan, sta ancora trattando a muso duro con Mosca.
Insomma, a Kennebunkport si giocherà una partita grande, per gli interessi americani.
Non sapremo mai come.
Forse con la seduzione, abbandonando le accuse e calunnie mediatiche che, lungi da intimorire Putin, lo hanno indurito?
O ci saranno chiare minacce a tu per tu, lì tra le acque del Maine?
In ogni caso, Putin farà meglio a portarsi un assaggiatore, e contatori Geiger per misurare la radiattività-ambiente.



L’estrema irritazione americana è testimoniata da un’altra analisi della Jamestown, che ha preso di mira con sospetto il recente accordo ENI-Gazprom per la costruzione del gasdotto «South-stream».
Che partirà da Beregovaya sul Mar Nero (lo stesso punto d’inizio della tubatura BlueStream, che gli americani fanno passare per la Georgia fino alla Turchia, dove potrà rifornire Israele) per raggiungere la Bulgaria e di qui l’Italia, sia attraverso la Grecia oppure attraverso Ungheria, Romania e Slovenia, da cui potrebbe inviare una ramificazione a rifornire l’Austria.
Il peggio è che il progettato gasdotto, di 900 chilometri, passerebbe in profondità sul fondo del Mar Nero, sottraendo royalty alla amata Georgia «democratica».
«Sembra un progetto motivato politicamente», deplora arcigna la Jamestown, «allo scopo di intensificare la competizione fra i Paesi europei per una quantità data di gas russo. Esso aumenta significativamente la possibilità russa di giocare i Paesi consumatori, e i vari campioni energetici nazionali in Europa, l’uno contro l’altro».
Giocare i Paesi europei l’uno contro l’altro è stato un gioco americano (Polonia e Gran Bretagna insegnano).
Ora, Washington teme di essere superata in quello stesso gioco?
Più probabilmente, capisce che con un tale gasdotto, vari Paesi europei si uniscono alla Russia con una struttura stabile, che rende necessari rapporti politici stabili e paritari.
Infatti si indigna Jamestown: «Gazprom ed ENI finanzieranno, possiederanno e faranno funzionare il gasdotto congiuntamente, su una base paritaria. I Paesi su cui correrà il gasdotto si vedranno offrire quote di minoranza nell’opera. Accordi di transito (royalty) sono esclusi esplicitamente. Mosca parla di ‘responsabilizzare’ questi Paesi».
Facile capire la rabbia: il rapporto preferito dalle Sorelle anglo-americane, da superiore ad inferiore, diventa qui un rapporto «paritario» e di interessi convergenti.
E poi, il costo è eccessivo, si indignano gli americani.
E citano con dispetto l’ENI, «secondo cui il costo sarà in linea con quello necessario a creare una catena di trasporto di GPL»: il gas di petrolio liquido, che gli americani prediligono benchè macchinoso e costoso (speciali navi-serbatoio a pressione, impianti di rigassificazione) perché fa del gas un prodotto commercialmente analogo al greggio, vendibile «spot», con quotazioni minuto per minuto, e non in base ad accordi pluriennali fra produttori e consumatori e prezzi fissi.



Né è sfuggito ai sospettosi occhi petroliferi USA che «ENI ha acquistato in aprile le compagnie (russe) Arctic Gaz e Urengoil che producono gas siberiano, ultimi resti della distrutta Yukos venduti all’asta dalla Russia»: e la Yukos e i suoi resti sono, per la finanza anglo-americana, «cosa nostra».
Non basta.
«In cambio, ENI ha aperto a Gazprom l’accesso diretto ai sistemi di distribuzione e ai consumatori finali in Italia».
Una partnership in piena regola.
Inoltre, «Il gasdotto passante sotto il Mar Nero ha lo scopo di aggirare Ucraina e Turchia, ciò che rafforza la mano della Russia nei negoziati con questi Paesi di transito», il che significa che alla lunga Mosca legherà a sé questi due Paesi «democratici», ossia satelliti USA.
L’Ucraina già sta supplicando Mosca di non ridurre, ma aumentare, i volumi di transito nei suoi vecchi oleodotti sovietici.
No, così non va, dicono gli americani.
«Invece di investire come deve nella estrazione, Gazprom investe nella costruzione o acquisto di strutture in Europa. Mosca sembra progettare capacità di trasporto più grandi di quelle che può soddisfare col gas della produzione russa, che è stagnante. Gazprom costruisce pipelines in eccesso come elemento delle sue strategie di esportazione. Tali tubature sovrabbondanti, a cui si riferisce eufemisticamente come ‘flessibilità’, consentiranno alla Russia di cambiare la direzione di grandi volumi all’export, favorendo l’una o l’altra nazione o campione nazionale, secondo un sistema governato centralisticamente da Mosca. Il Cremlino cerca di diventare il gestore politico delle forniture energetiche all’Europa, sotto condizioni di quantità strette o anche deficitarie a medio termine».
Che è - a ben pensarci - proprio ciò che fa il cartello petrolifero anglo-americano, che ha provocato i rincari del greggio (grazie alle guerre «contro il terrorismo globale»), e prevede «condizioni strette e deficitarie» nel prossimo futuro, con enormi profitti per il cartello stesso.
Ma quei rincari hanno dato a Putin i mezzi per fare altrettanto, e captare alquanti profitti.



A Kennenbunkport c’è per Putin ben altro che la seduzione e la fastosa ospitalità delle partite di pesca.
Il gioco sarà duro, durissimo.
E’ possibile tutto.
A voler essere pessimisti, anche un attentato di Osama bin Laden contro l’ENI, o di Al Qaeda contro l’Italia. (2)

Maurizio Blondet




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Note
1) Pavel K. Baev, «Putin takes the Caspian road to Kennenbunkport», Eurasia Daily Monitor, Jamestown Foundation, 25 giugno 2007. La Jamestown è una «fondazione» creata nel 1984 per accogliere Arkadi Shevchenko, il più alto politico sovietico che abbia mai «scelto la libertà» (era vise-segretario generale all’ONU quando passò agli USA). Da allora, come vanta il suo sito, «ha direttamente contribuito ad espandere la democrazia nei Paesi dell’ex blocco comunista»: insomma un braccio della sovversione e dello spionaggio americano. Tra i suoi board member Zbigniew Brzezinski, e Marcia Carlucci (moglie di Frank Carlucci, già ministro sotto Reagan ed ex vicedirettore della CIA, oggi socio della Carlyle con Bush padre).
2) Non si sa mai. Il 25 giugno, all’hotel Al Mansur di Baghdad, in piena zona controllata dagli USA, un «attentatore suicida» ha seminato strage in una riunione della più grande importanza politica: capi tribali sunniti di Al-Anbar (centro della guerriglia anti-americana) si stavano incontrando con capi sciiti del sud per cercare un accordo che portasse alla fine dello spargimento di sangue inter-etnico. Muhammad Al-Saberi, il diplomatico iracheno che aveva reso possibile l’incontro grazie ai suoi contatti con i capi tribali operati da Siria e Giordania, è stato reciso sul cui prodest: «Siccome la riunione doveva essere un passo avanti verso l’unità nazionale fra le kabile irachene, gli USA, attraverso agenti terroristi, hanno liquidato la cosa. Washington sa bene che se in Iraq si giunge alla stabilità e alla sicurezza, le sue truppe non hanno più pretesti per prolungare la loro permanenza». www.jamestown.org/board.php




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Finalmente un ente italiano ricomincia a dar fastidio alle sorelle americane, non so più i tempi di Mattei, ma questa politica energetica può essere anche un omaggio nei suoi confronti.
Siamo tutti d'accordo sul fatto che la Russia rappresenta il futuro energetico per l'Europa? O c'è qualcuno che ancora crede nel sogno americano, e si sente minacciato da Teran eheh? Magari già ne avete discusso, mi sono perso i post di qualche mese...
giopaol
00giovedì 9 agosto 2007 19:45
Non c'è niente da fare chi è invischiato nello scontro vede le cose a metà.

Ma non vi chiedete tu e Blondet come mai Putin ha incontrato il paparino e non boy George?

Che ruolo istituzionale ha una persona che è stata già eletta 2 volte alla casa bianca per la costituzione degli Usa?
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