www.filosofico.net
LUIS DE MOLINA
A cura di Alessandro Sangalli
Personalità di spicco della scolastica spagnola del Cinquecento, Luis de Molina fu anche uno dei più controversi pensatori della storia del cattolicesimo. Sulla base di precise tesi teologiche e filosofiche, elaborò una sua propria dottrina che puntava alla conciliazione del libero arbitrio con la prescienza divina e la predestinazione. Oltre al lavoro in campo teologico, dedicò molto tempo anche a temi politici e morali, interrogandosi in particolare sulla legittimazione del potere e dell’autorità politica, sulla schiavitù e su questioni economiche.
1. Vita e opere
Luis de Molina nacque a Cuenca, in Spagna, nel settembre del 1535, da una famiglia di nobile lignaggio. Nella sua città natale apprese la lingua latina, apprezzando in modo particolare Cicerone, Vergilio e Nepote. Appena sedicenne, nel 1551, si recò all’Università di Salamanca per studiare Legge e Diritto: interruppe tuttavia gli studi giuridici l’anno successivo, quando fu accolto come novizio nel collegio di Alcalà dalla Compagnia di Gesù. Per circa dieci anni, si dedicò allo studio della filosofia e della teologia vivendo tra Lisbona, Coimbra e Évora, fino a quando venne ordinato sacerdote nel 1561. Tra il 1563 e il 1567, fu Maestro delle Arti a Coimbra, ma a partire dal 1568 gli fu affidata la cattedra di Sagrada Teología all’Università di Évora, dove ottenne sempre ampio successo di pubblico. La peste che nel 1577 colpì la città e la scarsissima affluenza di studenti di quel periodo, permisero a Molina di dedicare del tempo alla stesura dei cinque volumi del De iustitia et iure (opera postuma, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1614).
Nel 1584 si ritirò definitivamente dall’insegnamento e si trasferì a Lisbona, per occuparsi della composizione delle sue opere: in questo periodo, scrisse la notissima Concordia, titolo con cui solitamente si indica lo scritto Liberi arbitrii cum gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione concordia. Questo lavoro, uscito nel 1588, è in realtà solo una parte di un’opera maggiore, intitolata Commentaria in primam divi Thomae partem e pubblicata solo nel 1592 a Cuenca, città dove Molina aveva fatto ritorno dal Portogallo l’anno precedente. Nel 1600, ricevette un incarico come professore al Colegio Imperial di Madrid, città dove morì il 12 ottobre dello stesso anno.
2. La Concordia: grazia e libertà
La stesura della Concordia procurò a Molina violenti attacchi, soprattutto da parte degli ambienti domenicani: l’opera ottenne l’imprimatur del Tribunale dell’Inquisizione portoghese solo dopo alcune correzioni e innumerevoli difficoltà. La pubblicazione di questo scritto diede il via alla cosiddetta polemica de auxiliis, che si infiammò nel 1595, quando il domenicano Domingo Bañez rispose al gesuita Molina con la Apología de los hermanos dominicos: i due teologi si accusarono reciprocamente di eresia; il nostro fu tacciato di pelagianesimo, mentre Bañez fu accusato di aver scritto opere di stampo luterano e calvinista. Solo nel 1607, dopo la morte di entrambi i contendenti, una commissione istituita a Roma dieci anni prima da papa Clemente VIII – la Congregatio de auxiliis – stabilì che nessuno dei due testi era da considerarsi portatore di dottrine eretiche.
Secondo Molina, anche dopo il peccato originale, la natura umana è rimasta immutata: l’uomo, come essere naturale, è assolutamente libero e totalmente indeterminato fra bene e male. Ciò che l’uomo ha perso peccando sono i doni e le virtù sovrannaturali di cui Dio l’aveva dotato, passando così da uno stato di comunione con il trascendente ad uno stato puramente naturale. Quindi, l’uomo può compiere il bene naturale senza bisogno della grazia, ma col solo concorso generale di Dio; per quanto riguarda la salvezza eterna, invece, l’efficacia delle sua azioni dipende ancora dalla grazia divina: nemmeno la fede nella rivelazione, che è il primo passo verso la salvezza, è un atto di pura volontà, ma richiede la vocazione divina della grazia.
Ciononostante, l’efficacia della grazia dipende anche dalla volontà dell’uomo che riceve l’auxilium divino. La cooperazione umana è necessaria affinché la grazia divina sia efficace. Benché con le buone opere in quanto tali non sia possibile esigere o meritare la grazia, chi in vita con le sue forze fa il possibile riceve in ogni caso l’auxilium di Dio. A tal proposito, Piero Martinetti scrive molto chiaramente che «Dio non accieca e non indurisce i cuori, ma non illumina e non salva se non chi vuole essere illuminato e salvato» (La libertà, cap. I; corsivi miei). L’azione della grazia non è un impulso irresistibile che determina necessariamente il volere umano (come accade, ad esempio, per il giansenismo), ma un’illuminazione, un aiuto, un’attrazione che volge “lo sguardo” della volontà verso il bene, lasciandola nello stesso tempo libera di scegliere se compierlo o meno: detto altrimenti, l’efficacia della grazia divina dipende in ultima analisi dalla libera volontà dell’uomo, che ha il potere di decidere se accogliere o non accogliere l’illuminazione di Dio. Secondo Molina, «si dice libero quell’agente che, pur essendo posti tutti i requisiti dell’agire, può agire o non agire»: egli riconosce, dunque, il fatto che per agire occorrano dei moventi, cosicché la libertà non nasce mai, per così dire, da un punto zero; al contrario, devono esservi le cause che producono l’azione senza tuttavia essere determinanti. In tal maniera, l’uomo mantiene la sua facoltà (agostiniana) di far sì che le cause diventino attive e producano un effetto oppure di far sì che rimangano inattive. Ogni azione pertanto ha sempre i suoi moventi, cosicché non sono mai io a causare le mie azioni (ed è questa una concessione al determinismo di Lutero), ma ciononostante sono libero di lasciare che tale causa agisca, il che significa fare una cosa oppure un’altra. Se ne evince che, in siffatta ottica, il libero arbitrio altro non è se non il sospendere alla radice un meccanismo deterministicamente procedente. Per difendere la Provvidenza, poi, senza perciò seppellire la libertà, Molina ricorre ad uno scaltro quanto brillante espediente: il “concorso simultaneo”, per cui ogni evento scaturisce dalla intima cooperazione di ben due cause. La prima corrisponde all’intervento di Dio (che di tutte le cose è autore), la seconda riguarda invece l’azione di un agente creato: pertanto, da un lato Dio è il principio della causalità e, in questo senso, è autore di tutto ciò che avviene, ma, dall’altro lato, quale sia la causa specifica che si attiva in un dato momento, ciò dipende dall’intervento di una creatura. Dunque, per i fatti fisici l’azione della creatura è sempre data da un corpo naturale che non può agire altrimenti da come agisce: così il fuoco riesce a scaldare la pietra perché vi è la causalità generale garantita da Dio e, in aggiunta, la specifica proprietà di bruciare peculiare del fuoco. Nel caso dei fatti morali, poi, da una parte c’è sempre l’influsso di Dio come causa generale, ma, dall’altra, c’è la libera volontà dell’uomo, che può applicare la causalità divina o lasciarla inoperante. Ad esempio, se siamo indotti per passione a compiere un delitto, da un lato c’è la possibilità di essere causa di tal delitto (e ciò deriva da Dio), dall’altro però come causa seconda io posso decidere se rendere operante tale causalità (e compiere il delitto) o renderla inattiva (astenendomi dal compiere il delitto).
3. Il problema della prescienza e della predestinazione
È stato detto che, per farsi un’idea dei contenuti dell’Accordo tra il libero arbitrio e i doni della grazia, tenendo conto della divina prescienza, della provvidenza, della predestinazione e del castigo, sia sufficiente leggere il titolo dell’opera, il quale ben rivela il nocciolo problematico di tutto il sistema teologico del nostro autore. La difficoltà più grande che Molina dovette affrontare – e qui risiede la grandezza della sua opera – fu proprio quella di riuscire a conciliare la sua teoria della grazia e del libero arbitrio con i dogmi della prescienza e dell’onnipotenza di Dio. Se, infatti, con la sua concezione del rapporto grazia-libertà Molina «non si scosta dal semipelagianesimo scolastico […], l’originalità sua sta invece nel tentativo di accordare questa relativa indipendenza della volontà con l’onniscienza e la volontà assoluta di Dio» (P. Martinetti, La libertà, cap. I).
La visione di Molina sembra infatti contrastare con il dogma cristiano secondo il quale Dio, dall’alto della sua onniscienza, possiede una conoscenza assolutamente perfetta ed infallibile delle future azioni umane. Infatti, delle due, l’una: o godo del libero arbitrio, e allora Dio non sa cosa farò domani, in quanto le mie scelte dipendono solamente da me; o Dio conosce tutto ab aeterno, e quindi il sentirmi libero è solo una mia illusione, essendo già ogni cosa preordinata e predeterminata. Tuttavia, secondo il nostro autore, è possibile attribuire a Dio una previsione sicura dei contingenti futuri senza intaccare la libertà umana: esiste infatti in Dio, accanto alla scienza di intelligenza (con la quale egli conosce tutte le possibilità incluse nella sua potenza) e alla scienza di visione (con la quale conosce le sue libere creazioni), una forma di sapere che sta in mezzo a questi due, una scienza media tramite la quale egli conosce cosa faranno gli esseri liberi, senza che questo annulli la loro libertà di fare o di non fare. Una sorta di comprensione profonda (Martinetti la definisce «divinazione misteriosa») delle nature create, grazie alla quale Dio vede chiaramente, pur non basandosi su alcuna connessione necessaria tra antecedenti e conseguenti causali, cosa faranno gli uomini liberi nell’infinita varietà delle circostanze possibili. Per quanto possa sembrare un concetto di difficile comprensione, Molina, in un passo della Concordia, si esprime in modo così esplicito da non lasciare spazio a conflitti interpretativi: «servato integro iure libertatis arbitrii creati, Deus certissime cognoscit futura contingentia». Mutatis mutandis, è un po’ come se, conoscendo a fondo il carattere e la personalità di un nostro caro amico, fossimo in grado di prevedere con certezza le sue azioni di fronte ad ogni situazione possibile: naturalmente, questo tipo di prescienza non necessita le azioni del nostro amico, che rimane assolutamente libero e indeterminato.
È evidente come, con l’introduzione della scientia media, Molina abbia totalmente escluso l’azione necessitante della prescienza divina(nota personale:la prescienza rimane,almeno come ho inteso io lo scritto) e sia in qualche modo riuscito a salvare la cooperazione grazia-libertà. Nel suo sistema, tuttavia, rimangono oscillazioni ed ambiguità non indifferenti. Perché Dio concede la grazia agli uomini pur sapendo che essa non è sufficiente a far guadagnare loro la salvezza?(nota personale:per il libero arbitrio e perché l uomo ha bisogno di piu "cibo variegato" per nutrirsi.) Se, in sostanza, la grazia non funziona senza la buona volontà dell’uomo, si deve concludere che l’uomo “completa” un’azione che Dio da solo non può compiere?(nota personale:Dio puo compiere da solo qualsiasi cosa....quando non lo fa é per rispettare,appunto,il grande dono della nostra scelta,volontá...cioé libero arbitrio) E ancora, possiamo in questa prospettiva parlare di un Dio dotato di un’assoluta onnipotenza?(nota personale:sí,Dio rimane onnipotente...il fatto che a noi sembri che non la usi é sempre perché dobbiamo mettere la nostra volontá,collaborazione.La giustizia di Dio é insondabile...e non é come quella umana dove il potente usa tutte le armi anche ingiuste per portarci ad un obbiettivo.E qui che Dio mostra la sua immensa pazienza,amore e misericordia...trattenendo la sua potenza aspettando che noi umani decidiamo in libero arbitrio.) Non possiamo che rifugiarci ancora una volta nelle conclusioni di Martinetti, che a proposito del nostro autore scrive: «la tendenza fondamentale della sua dottrina è semipelagiana; ma le preoccupazioni dogmatiche lo traggono a cercare una conciliazione forzata con l’agostinismo. In realtà egli non riesce che ad insistere ora sull’uno ora sull’altro dei termini da conciliare: sì che, nonostante le sue evidenti simpatie per la causa della libertà umana, l’uno dei due termini è sempre in realtà, con alterna vicenda, sacrificato all’altro» (La libertà, cap. I)