www.letterepaoline.it/node/90
Dal messia a Cristo
* Approfondimenti
* zona2
Autore articolo:
di Luigi Walt | 25 gennaio 2009
Il termine greco christós, risaputamente, non è altro che una traduzione letterale dell’ebraico mashiach, parola con la quale si indicava inizialmente, nel giudaismo antico, il re che fosse stato “unto”, che avesse cioè ricevuto l’unzione sacra, e più avanti anche il sommo sacerdote. Il termine finirà per indicare poi, nella storia delle religioni, un insieme abbastanza ampio e variegato di figure di mediazione tra il divino e l’umano.
Volendo trovare un elemento comune, nelle diverse speculazioni messianiche fiorite in ambiente giudaico prima di Gesù, potremmo parlare della speranza dell’avvento, in un futuro non sempre precisabile, di un mondo pienamente realizzato, di un mondo contrassegnato dallo shalom, dalla pace perfetta e duratura. Le proposte, allora, divergevano soprattutto sull’identità di colui che avrebbe inaugurato o realizzato lo shalom: si pensava a un intervento diretto di Dio, oppure di un mediatore dotato da Dio di particolari carismi, o di entrambi insieme.
Una forma molto arcaica di messianismo è quella testimoniata dal secondo Libro di Samuele, laddove si parla della promessa di un regno eterno a David da parte del profeta Natan (2Sam 7,11b-17). La profezia di Natan garantiva alla “casa” (la dinastia) di David la benevolenza di Dio e il perdurare del suo regno. Fu con la predicazione del cosiddetto primo Isaia, attorno al 700 a.C., che si cominciò ad attribuire alla presenza davidica sul trono di Gerusalemme un colorito eminentemente messianico, conferendo ad un rampollo della dinastia il futuro compito di stabilire un regno di giustizia e di pace, e amplificando le promesse messianiche da un piano strettamente sociale e politico a un piano che non esiteremmo a definire “cosmico”. La descrizione del regno messianico offerta da Is 11,1-10, sublime esempio di questa dilatazione cosmica, è inclusa all’interno di una doppia menzione, all’inizio e alla fine, della “radice di Jesse” (shoresh Jshàj), dalla quale proviene il “virgulto” sul quale si poserà lo “spirito del Signore” (ruach JHWH), espressione questa che si riferisce all’investitura divina concessa ai profeti (ritroviamo la formula in Nm 11,25; 1Sam 10,6; Mic 3,8; Is 40,13; etc.).
Nel corso del VI secolo questo messianismo regale davidico subisce un primo contraccolpo, soprattutto per mano di Ezechiele, profeta avverso alla casa regnante di Giuda, che per primo attribuisce al re David un ruolo esclusivamente “tipologico”, di figura e anticipazione del vero David, il “messia che deve ancora venire” (Ez 37,24-26; cf. Ez 34,23-24). Ad eccezione del cosiddetto deutero-Isaia (la sezione del corpus isaiano costituita dai capitoli 40-55), in cui persiste un messianismo di tipo regale (pur profondamente mutato nella sostanza, come in Geremia), col crollo della dinastia davidica e con l’inizio dell’epoca persiana (fra il 500 e il 300 a.C. circa) la funzione messianica tende progressivamente a rendersi autonoma da connotazioni meramente politiche.
Al principio del periodo post-esilico, infatti, il governo di Israele risulta presieduto da una sorta di diarchia, composta da due “unti”, Zorobabele e Giosuè: questo fornisce una prima piattaforma storica per le attese, germogliate qualche secolo più avanti, di due messia, uno di discendenza regale e uno di discendenza sacerdotale. In quest’arco di tempo si affacciano sulla scena delle speculazioni messianiche anche altri personaggi: si comincia ad attendere così il ritorno del profeta Elia (Mal 3,23-24), del patriarca Enoc (cui si richiama un buon numero di testi apocrifi), dell’enigmatico Figlio dell’Uomo (del quale narrano il libro biblico di Daniele e l’apocrifo Libro delle Parabole di Enoc), o di Melchisedek (noto soprattutto grazie all’apocrifo Enoc Slavo, alla neotestamentaria Lettera agli Ebrei, ed oggi grazie a un interessantissimo frammento papiraceo di Qumran, 11QMelch, databile al I sec. a.C.).
La ripresa del messianismo, e segnatamente di un messianismo legato a figure celesti e sovrumane, appare quindi in rilancio a partire dal II sec. a.C., nelle mutate condizioni storico-politiche di Israele: il punto più alto è segnato probabilmente dal summenzionato Libro delle Parabole, conservato come canonico dalla Chiesa copta. Si tratta di un’opera di primaria importanza per la comprensione delle origini della teologia cristiana. Richiamandosi al libro “apocalittico” di Daniele (cf. Dn 7,13), questo testo chiarisce il ruolo della figura del Figlio dell’Uomo, preesistente alla creazione e instauratore del Regno di Dio sulla terra: il significato di questo titolo, che Gesù utilizzò per se stesso nell’atto di “rimettere i peccati”, doveva dunque essere ben noto agli ascoltatori del suo tempo.
L’ellenizzazione forzata della Palestina, le misure restrittive di Antioco IV Epifane nei confronti dei costumi e del culto giudaici, l’“abominio della desolazione” (la profanazione del Tempio nel 167 a.C.), e successivamente l’accentramento dei poteri in epoca asmonea (141-63 a.C.), condurranno alcuni ambienti all’elaborazione di una speranza riguardante l’avvento di un’era qualitativamente diversa dalla presente: «Non sarebbe mai stato un uomo, secondo alcuni ambienti giudaici, a poter raddrizzare le sorti di un’umanità che aveva fatto o stava facendo l’esperienza del fango e del nulla. In alcune menti baluginò l’idea che la sola salvezza per gli uomini ci sarebbe stata solo se Dio stesso fosse disceso sulla terra ad abitare con gli uomini», scrive Paolo Sacchi (Retribuzione e giudizio fra ebraismo e cristianesimo, in “Rivista di Storia e di Letteratura religiosa” IX [1973], 3, pp. 407-420: p. 413).
Sia il Libro dei Giubilei (III-II sec. a.C.), una sorta di rilettura delle vicende di Genesi ed Esodo, in cui l’unico possibile messia è Dio (e la Legge è valida «fin quando Io discenderò e dimorerò con loro»: Iub. 1,26), sia Daniele o il Libro delle Parabole di Enoc, fanno eco a una «speranza e una fiducia che hanno la loro radice al di là di ogni speranza e di ogni fiducia».
Nell’ambito dei vangeli canonici, l’atteggiamento complessivo di Gesù nei confronti delle concezioni messianiche tradizionali risulta abbastanza ambivalente, e si accompagna ad una serie di azioni e di parole che ne rendono estremamente complessa la decifrazione. In tal modo, all’equazione esplicita di Gesù-Messia (ad es. in Giovanni: 1,41; 4,25) fanno da pendant le numerose riserve espresse personalmente da Gesù, riguardo agli aspetti più trionfalistici del messianismo “politico”: si pensi soltanto all’implicita contestazione della discendenza davidica (la citazione del salmo 110 in Mc 12,35-37; Mt 22,41-46; Lc 20,41-44: come Cristo sia al contempo figlio e Signore di David).
Ciò nonostante, tra i titoli maiestatici attribuiti a Gesù, quello di messia-Cristo risulta comunque il più immediato, ed è assai verosimile ch’egli stesso abbia inteso la propria missione in termini messianico-profetici. Sarà l’annuncio degli apostoli, a partire da Pietro (Mt 16,16), ad attestarne compiutamente la “messianicità”, fino all’identificazione piana di titolo (Cristo) e persona (Gesù). Così, con assoluta sicurezza, Gesù è chiamato da Paolo Christós, messia. Nelle lettere dell’Apostolo troviamo indifferentemente “Cristo”, “Cristo Gesù”, o il più comune “Gesù Cristo”.
Il filosofo Giorgio Agamben, in un suo recente (e discutibile) commento alla Lettera ai Romani (Il tempo che resta, Torino 2000), ha giustificato la propria scelta di rendere sempre il greco christós tramite l’italiano “messia” (in luogo di “Cristo”), per sopperire a quello che definisce un «oblio del significato originale». Egli sostiene che sia «assurdo parlare, come fanno i teologi moderni, di una “coscienza messianica” di Gesù e degli apostoli, se poi si ipotizza che questi intendessero christós come un nome proprio. La cristologia in Paolo – ammesso che si possa parlare in Paolo di una cristologia – coincide integralmente con la dottrina del messia» (p. 22).
Pertanto, spiega Agamben, pensare al sintagma Christós Iēsoús o Iēsoús Christós come ad una sorta di nome proprio non poggerebbe su alcuna base filologica, essendo un’introduzione delle edizioni moderne «la distinzione fra Christós (con la maiuscola) e christós come appellativo» (p. 23). L’argomentazione di Agamben, in realtà, non risulta del tutto innocente, né si presta a un’immediata giustificazione filologica: il fatto che Iēsoús Christós, nei più antichi manoscritti, sia stato scritto mediante abbreviazioni, al pari di altri nomina sacra (come theós, kýrios, pneûma, etc.), sta infatti a testimoniare una profonda compenetrazione, teologicamente consapevole, dei due termini. Ma non in direzione di un’ipostatizzazione astratta della funzione–messia, come pretenderebbe Agamben, bensì di una sua chiara “personalizzazione”.
Quindi, se Gesù Cristo non venne mai inteso da Paolo come nome proprio, è altrettanto improbabile che la parola “messia” indicasse nelle sue intenzioni una semplice designazione ufficiale, o un freddo “dispositivo” d’intelligibilità storica, una funzione quasi priva di volto, quale troviamo nel corso delle riflessioni del filosofo citato (che dipendono, in questo e in altro, da Jacob Taubes). Oltretutto, considerando anche solo le sette lettere paoline giudicate unanimemente autentiche dalla critica (ossia Rom, 1-2Cor, Gal, Fil, 1Ts e Fm), christós non è mai usato come predicato (“Gesù, il cristo”) né assume l’articolo determinativo (“Gesù il Cristo”) o viene fatto seguire da un nome al genitivo (“il cristo di Dio”).
Qualche anno fa, in un volume allegato al periodico “30giorni”, Lorenzo Bianchi si era lamentato del vezzo, sempre più diffuso, di sostituire “Gesù Cristo” con l’espressione astratta “il Cristo”, soprattutto nei testi liturgici. Lo faceva a ragion veduta, perché il “messianismo”, nella sua variante cristiana, si distingue proprio per il suo carattere “personalizzante”, per il suo fare della persona di Gesù (onde “Cristo” diviene davvero una sorta di nome proprio), il centro semantico della storia, il télos toū nómou (il compimento della legge, più che la sua fine), nella pienezza stessa del tempo (Gal 4,4).
Questo carattere “personalizzante” e “cristocentrico” si evince anche dalla consuetudine presto invalsa, nell’ambito dei vari gruppi protocristiani, di rintracciare i segni del Messia nelle Scritture: un esempio di questa acuta “semantizzazione” tipologica, che da parte ebraica non poté non apparire come unilaterale e totalizzante, è costituito dalla lettura dell’oracolo di Gen 3,15 come prima profezia messianica, addirittura come proto-vangelo. Il passo si colloca al cuore di quel capitolo terzo del Genesi che narra del peccato di Adamo, e della maledizione del Signore nei confronti del serpente tentatore, solo più tardi identificato dalla tradizione biblica col satana (vd. Sap 2,24):
Ed io porrò una inimicizia tra te e la donna
e tra il tuo seme e il seme di lei:
esso ti schiaccerà la testa
e tu lo assalirai al tallone.
È la versione greca dei LXX (III sec. a.C.) ad autorizzare una comprensione del brano in senso esplicitamente messianico, grazie all’inserimento di un pronome maschile alla terza persona singolare (autós: “egli ti schiaccerà la testa”) che “personalizza” appunto il seme (neutro, in greco) della donna. Il Nuovo Testamento, soprattutto l’Apocalisse giovannea, identificherà poi questo seme con il Messia, Gesù Cristo, figlio di Maria-nuova Eva, donde la diffusa raffigurazione della Madre di Gesù che schiaccia il capo al serpente, dovuta anche ad una lezione della Vulgata ignota al testo ebraico e ai LXX (ipsa conteret caput tuum). Il capitolo 12 dell’Apocalisse di Giovanni descrive così la lotta cosmica ingaggiata dal «grande dragone, il serpente antico, quello che è chiamato diavolo e satana, colui che inganna tutta la terra» (Ap 12,9) contro la donna, al momento dell’incarnazione, e contro il «resto della discendenza della donna», ossia i cristiani, «coloro che osservano i comandamenti di Dio e posseggono la testimonianza di Gesù» (Ap 12,17).
Già i Targumim (le versioni aramaiche dei principali scritti biblici, con ampie parafrasi, destinate all’uso sinagogale) attestavano l’interpretazione messianica del versetto genesiaco, per quanto in una direzione decisamente più sfumata: «Ed io porrò un’inimicizia fra te e la donna, fra il seme dei tuoi figli e il seme dei suoi figli. E avverrà che quando i figli della donna obbediranno ai comandamenti della Legge, essi si accorgeranno di te e ti colpiranno sulla testa. Ma quando essi trascureranno i comandamenti della Legge, tu li vedrai e li morderai al tallone. Tuttavia, per loro, vi sarà un rimedio, mentre per te non vi sarà alcun rimedio, e questo perché essi otterranno pace alla fine, nei giorni del Re-Messia» (Targum Jo. a Gen 3,15).
Tutta l’ampia polifonia dei temi messianici ai quali abbiamo più sopra accennato, viene dunque sapientemente orchestrata dal cristianesimo nascente, pur con sensibili variazioni, intorno alla persona di Gesù e alla sua predicazione del Regno di Dio. Questa “personalizzazione acuta”, appunto, rende ragione del titolo che abbiamo scelto per questo breve intervento, “dal messia a Cristo” (e non “Dal messia al Cristo”, come il bel volume che lo storico Giorgio Jossa ha dedicato a questo argomento). I cristiani, in poche parole, sanno chi è il messia, sanno chi è che il mondo attendeva e attende. Sanno che questo chi si trova al centro della storia e del cosmo: non è un’astratta funzione (il Cristo), ma una persona viva e concreta, Gesù Cristo.