messianismo

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LiviaGloria
00domenica 15 febbraio 2009 17:32
LiviaGloria
00domenica 15 febbraio 2009 21:35
www.letterepaoline.it/node/90


Dal messia a Cristo

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Autore articolo:
di Luigi Walt | 25 gennaio 2009

Il termine greco christós, risaputamente, non è altro che una traduzione letterale dell’ebraico mashiach, parola con la quale si indicava inizialmente, nel giudaismo antico, il re che fosse stato “unto”, che avesse cioè ricevuto l’unzione sacra, e più avanti anche il sommo sacerdote. Il termine finirà per indicare poi, nella storia delle religioni, un insieme abbastanza ampio e variegato di figure di mediazione tra il divino e l’umano.

Volendo trovare un elemento comune, nelle diverse speculazioni messianiche fiorite in ambiente giudaico prima di Gesù, potremmo parlare della speranza dell’avvento, in un futuro non sempre precisabile, di un mondo pienamente realizzato, di un mondo contrassegnato dallo shalom, dalla pace perfetta e duratura. Le proposte, allora, divergevano soprattutto sull’identità di colui che avrebbe inaugurato o realizzato lo shalom: si pensava a un intervento diretto di Dio, oppure di un mediatore dotato da Dio di particolari carismi, o di entrambi insieme.

Una forma molto arcaica di messianismo è quella testimoniata dal secondo Libro di Samuele, laddove si parla della promessa di un regno eterno a David da parte del profeta Natan (2Sam 7,11b-17). La profezia di Natan garantiva alla “casa” (la dinastia) di David la benevolenza di Dio e il perdurare del suo regno. Fu con la predicazione del cosiddetto primo Isaia, attorno al 700 a.C., che si cominciò ad attribuire alla presenza davidica sul trono di Gerusalemme un colorito eminentemente messianico, conferendo ad un rampollo della dinastia il futuro compito di stabilire un regno di giustizia e di pace, e amplificando le promesse messianiche da un piano strettamente sociale e politico a un piano che non esiteremmo a definire “cosmico”. La descrizione del regno messianico offerta da Is 11,1-10, sublime esempio di questa dilatazione cosmica, è inclusa all’interno di una doppia menzione, all’inizio e alla fine, della “radice di Jesse” (shoresh Jshàj), dalla quale proviene il “virgulto” sul quale si poserà lo “spirito del Signore” (ruach JHWH), espressione questa che si riferisce all’investitura divina concessa ai profeti (ritroviamo la formula in Nm 11,25; 1Sam 10,6; Mic 3,8; Is 40,13; etc.).

Nel corso del VI secolo questo messianismo regale davidico subisce un primo contraccolpo, soprattutto per mano di Ezechiele, profeta avverso alla casa regnante di Giuda, che per primo attribuisce al re David un ruolo esclusivamente “tipologico”, di figura e anticipazione del vero David, il “messia che deve ancora venire” (Ez 37,24-26; cf. Ez 34,23-24). Ad eccezione del cosiddetto deutero-Isaia (la sezione del corpus isaiano costituita dai capitoli 40-55), in cui persiste un messianismo di tipo regale (pur profondamente mutato nella sostanza, come in Geremia), col crollo della dinastia davidica e con l’inizio dell’epoca persiana (fra il 500 e il 300 a.C. circa) la funzione messianica tende progressivamente a rendersi autonoma da connotazioni meramente politiche.

Al principio del periodo post-esilico, infatti, il governo di Israele risulta presieduto da una sorta di diarchia, composta da due “unti”, Zorobabele e Giosuè: questo fornisce una prima piattaforma storica per le attese, germogliate qualche secolo più avanti, di due messia, uno di discendenza regale e uno di discendenza sacerdotale. In quest’arco di tempo si affacciano sulla scena delle speculazioni messianiche anche altri personaggi: si comincia ad attendere così il ritorno del profeta Elia (Mal 3,23-24), del patriarca Enoc (cui si richiama un buon numero di testi apocrifi), dell’enigmatico Figlio dell’Uomo (del quale narrano il libro biblico di Daniele e l’apocrifo Libro delle Parabole di Enoc), o di Melchisedek (noto soprattutto grazie all’apocrifo Enoc Slavo, alla neotestamentaria Lettera agli Ebrei, ed oggi grazie a un interessantissimo frammento papiraceo di Qumran, 11QMelch, databile al I sec. a.C.).

La ripresa del messianismo, e segnatamente di un messianismo legato a figure celesti e sovrumane, appare quindi in rilancio a partire dal II sec. a.C., nelle mutate condizioni storico-politiche di Israele: il punto più alto è segnato probabilmente dal summenzionato Libro delle Parabole, conservato come canonico dalla Chiesa copta. Si tratta di un’opera di primaria importanza per la comprensione delle origini della teologia cristiana. Richiamandosi al libro “apocalittico” di Daniele (cf. Dn 7,13), questo testo chiarisce il ruolo della figura del Figlio dell’Uomo, preesistente alla creazione e instauratore del Regno di Dio sulla terra: il significato di questo titolo, che Gesù utilizzò per se stesso nell’atto di “rimettere i peccati”, doveva dunque essere ben noto agli ascoltatori del suo tempo.

L’ellenizzazione forzata della Palestina, le misure restrittive di Antioco IV Epifane nei confronti dei costumi e del culto giudaici, l’“abominio della desolazione” (la profanazione del Tempio nel 167 a.C.), e successivamente l’accentramento dei poteri in epoca asmonea (141-63 a.C.), condurranno alcuni ambienti all’elaborazione di una speranza riguardante l’avvento di un’era qualitativamente diversa dalla presente: «Non sarebbe mai stato un uomo, secondo alcuni ambienti giudaici, a poter raddrizzare le sorti di un’umanità che aveva fatto o stava facendo l’esperienza del fango e del nulla. In alcune menti baluginò l’idea che la sola salvezza per gli uomini ci sarebbe stata solo se Dio stesso fosse disceso sulla terra ad abitare con gli uomini», scrive Paolo Sacchi (Retribuzione e giudizio fra ebraismo e cristianesimo, in “Rivista di Storia e di Letteratura religiosa” IX [1973], 3, pp. 407-420: p. 413).

Sia il Libro dei Giubilei (III-II sec. a.C.), una sorta di rilettura delle vicende di Genesi ed Esodo, in cui l’unico possibile messia è Dio (e la Legge è valida «fin quando Io discenderò e dimorerò con loro»: Iub. 1,26), sia Daniele o il Libro delle Parabole di Enoc, fanno eco a una «speranza e una fiducia che hanno la loro radice al di là di ogni speranza e di ogni fiducia».

Nell’ambito dei vangeli canonici, l’atteggiamento complessivo di Gesù nei confronti delle concezioni messianiche tradizionali risulta abbastanza ambivalente, e si accompagna ad una serie di azioni e di parole che ne rendono estremamente complessa la decifrazione. In tal modo, all’equazione esplicita di Gesù-Messia (ad es. in Giovanni: 1,41; 4,25) fanno da pendant le numerose riserve espresse personalmente da Gesù, riguardo agli aspetti più trionfalistici del messianismo “politico”: si pensi soltanto all’implicita contestazione della discendenza davidica (la citazione del salmo 110 in Mc 12,35-37; Mt 22,41-46; Lc 20,41-44: come Cristo sia al contempo figlio e Signore di David).

Ciò nonostante, tra i titoli maiestatici attribuiti a Gesù, quello di messia-Cristo risulta comunque il più immediato, ed è assai verosimile ch’egli stesso abbia inteso la propria missione in termini messianico-profetici. Sarà l’annuncio degli apostoli, a partire da Pietro (Mt 16,16), ad attestarne compiutamente la “messianicità”, fino all’identificazione piana di titolo (Cristo) e persona (Gesù). Così, con assoluta sicurezza, Gesù è chiamato da Paolo Christós, messia. Nelle lettere dell’Apostolo troviamo indifferentemente “Cristo”, “Cristo Gesù”, o il più comune “Gesù Cristo”.

Il filosofo Giorgio Agamben, in un suo recente (e discutibile) commento alla Lettera ai Romani (Il tempo che resta, Torino 2000), ha giustificato la propria scelta di rendere sempre il greco christós tramite l’italiano “messia” (in luogo di “Cristo”), per sopperire a quello che definisce un «oblio del significato originale». Egli sostiene che sia «assurdo parlare, come fanno i teologi moderni, di una “coscienza messianica” di Gesù e degli apostoli, se poi si ipotizza che questi intendessero christós come un nome proprio. La cristologia in Paolo – ammesso che si possa parlare in Paolo di una cristologia – coincide integralmente con la dottrina del messia» (p. 22).

Pertanto, spiega Agamben, pensare al sintagma Christós Iēsoús o Iēsoús Christós come ad una sorta di nome proprio non poggerebbe su alcuna base filologica, essendo un’introduzione delle edizioni moderne «la distinzione fra Christós (con la maiuscola) e christós come appellativo» (p. 23). L’argomentazione di Agamben, in realtà, non risulta del tutto innocente, né si presta a un’immediata giustificazione filologica: il fatto che Iēsoús Christós, nei più antichi manoscritti, sia stato scritto mediante abbreviazioni, al pari di altri nomina sacra (come theós, kýrios, pneûma, etc.), sta infatti a testimoniare una profonda compenetrazione, teologicamente consapevole, dei due termini. Ma non in direzione di un’ipostatizzazione astratta della funzione–messia, come pretenderebbe Agamben, bensì di una sua chiara “personalizzazione”.

Quindi, se Gesù Cristo non venne mai inteso da Paolo come nome proprio, è altrettanto improbabile che la parola “messia” indicasse nelle sue intenzioni una semplice designazione ufficiale, o un freddo “dispositivo” d’intelligibilità storica, una funzione quasi priva di volto, quale troviamo nel corso delle riflessioni del filosofo citato (che dipendono, in questo e in altro, da Jacob Taubes). Oltretutto, considerando anche solo le sette lettere paoline giudicate unanimemente autentiche dalla critica (ossia Rom, 1-2Cor, Gal, Fil, 1Ts e Fm), christós non è mai usato come predicato (“Gesù, il cristo”) né assume l’articolo determinativo (“Gesù il Cristo”) o viene fatto seguire da un nome al genitivo (“il cristo di Dio”).

Qualche anno fa, in un volume allegato al periodico “30giorni”, Lorenzo Bianchi si era lamentato del vezzo, sempre più diffuso, di sostituire “Gesù Cristo” con l’espressione astratta “il Cristo”, soprattutto nei testi liturgici. Lo faceva a ragion veduta, perché il “messianismo”, nella sua variante cristiana, si distingue proprio per il suo carattere “personalizzante”, per il suo fare della persona di Gesù (onde “Cristo” diviene davvero una sorta di nome proprio), il centro semantico della storia, il télos toū nómou (il compimento della legge, più che la sua fine), nella pienezza stessa del tempo (Gal 4,4).

Questo carattere “personalizzante” e “cristocentrico” si evince anche dalla consuetudine presto invalsa, nell’ambito dei vari gruppi protocristiani, di rintracciare i segni del Messia nelle Scritture: un esempio di questa acuta “semantizzazione” tipologica, che da parte ebraica non poté non apparire come unilaterale e totalizzante, è costituito dalla lettura dell’oracolo di Gen 3,15 come prima profezia messianica, addirittura come proto-vangelo. Il passo si colloca al cuore di quel capitolo terzo del Genesi che narra del peccato di Adamo, e della maledizione del Signore nei confronti del serpente tentatore, solo più tardi identificato dalla tradizione biblica col satana (vd. Sap 2,24):

Ed io porrò una inimicizia tra te e la donna
e tra il tuo seme e il seme di lei:
esso ti schiaccerà la testa
e tu lo assalirai al tallone.

È la versione greca dei LXX (III sec. a.C.) ad autorizzare una comprensione del brano in senso esplicitamente messianico, grazie all’inserimento di un pronome maschile alla terza persona singolare (autós: “egli ti schiaccerà la testa”) che “personalizza” appunto il seme (neutro, in greco) della donna. Il Nuovo Testamento, soprattutto l’Apocalisse giovannea, identificherà poi questo seme con il Messia, Gesù Cristo, figlio di Maria-nuova Eva, donde la diffusa raffigurazione della Madre di Gesù che schiaccia il capo al serpente, dovuta anche ad una lezione della Vulgata ignota al testo ebraico e ai LXX (ipsa conteret caput tuum). Il capitolo 12 dell’Apocalisse di Giovanni descrive così la lotta cosmica ingaggiata dal «grande dragone, il serpente antico, quello che è chiamato diavolo e satana, colui che inganna tutta la terra» (Ap 12,9) contro la donna, al momento dell’incarnazione, e contro il «resto della discendenza della donna», ossia i cristiani, «coloro che osservano i comandamenti di Dio e posseggono la testimonianza di Gesù» (Ap 12,17).

Già i Targumim (le versioni aramaiche dei principali scritti biblici, con ampie parafrasi, destinate all’uso sinagogale) attestavano l’interpretazione messianica del versetto genesiaco, per quanto in una direzione decisamente più sfumata: «Ed io porrò un’inimicizia fra te e la donna, fra il seme dei tuoi figli e il seme dei suoi figli. E avverrà che quando i figli della donna obbediranno ai comandamenti della Legge, essi si accorgeranno di te e ti colpiranno sulla testa. Ma quando essi trascureranno i comandamenti della Legge, tu li vedrai e li morderai al tallone. Tuttavia, per loro, vi sarà un rimedio, mentre per te non vi sarà alcun rimedio, e questo perché essi otterranno pace alla fine, nei giorni del Re-Messia» (Targum Jo. a Gen 3,15).

Tutta l’ampia polifonia dei temi messianici ai quali abbiamo più sopra accennato, viene dunque sapientemente orchestrata dal cristianesimo nascente, pur con sensibili variazioni, intorno alla persona di Gesù e alla sua predicazione del Regno di Dio. Questa “personalizzazione acuta”, appunto, rende ragione del titolo che abbiamo scelto per questo breve intervento, “dal messia a Cristo” (e non “Dal messia al Cristo”, come il bel volume che lo storico Giorgio Jossa ha dedicato a questo argomento). I cristiani, in poche parole, sanno chi è il messia, sanno chi è che il mondo attendeva e attende. Sanno che questo chi si trova al centro della storia e del cosmo: non è un’astratta funzione (il Cristo), ma una persona viva e concreta, Gesù Cristo.
LiviaGloria
00lunedì 16 febbraio 2009 10:40
www.cesnur.org/2001/mi_frank.htm


30 Giorni, anno XIX, n. 3, marzo 2001, pp. 78-81
Jacob Frank e il messianismo polacco

Di lui e della sua setta si è parlato nei giorni della sparizione della salma di Cuccia. Massimo Introvigne racconta la storia di Frank: "In fondo 1a sua vicenda non ha tratti molto originali, è una delle tante manifestazioni ricorrenti del messianismo ebraico. Se c'è un punto originale, è stato proprio l'accoglienza che i1 frankismo ha trovato all'interno della Chiesa cattolica".
Intervista
di Gianni Valente

Il nome di Jacob Frank lo ha tirato fuori qualcuno in margine al trafugamento della salma di Enrico Cuccia, il leggendario padre-padrone di Mediobanca che una cricca di estorsori un po' burloni aveva sottratto al riposo nel piccolo cimitero di Meina.

La bara, il cui trafugamento era stato denunciato il 17 marzo, è stata ritrovata di sabato, due settimane dopo, nascosta in un fienile, dopo che era stato arrestato Giampaolo Pesce, detto "il Papa", un operaio di fonderia che faceva da telefonista della banda. Nel frattempo, durante i giorni del macabro sequestro, erano fiorite congetture intriganti ma difficilmente verificabili che alludevano ai rapporti che Enrico Cuccia avrebbe avuto in vita con i frankisti, un'oscura setta fondata dal cabalista settecentesco Jacob Frank, ben introdotta negli ambienti dell'alta finanza.

Conclusosi prosaicamente il giallo sulle spoglie di Cuccia, è rimasto un pizzico di curiosità sul fondatore e sui misteri della setta evocata, i cui membri - come accennava un trafiletto comparso in quei giorni sul quotidiano la Repubblica - "si sentono superiori e in un certo senso appartengono già al regno di Dio".

30 Giorni ha chiesto lumi al professor Massimo Introvigne, direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur), conosciuto come uno dei maggiori esperti internazionali di movimenti occulti e nuovi movimenti religiosi.

Professore, chi era Jacob Frank?

MASSIMO INTROVIGNE: Era un "messia" dell'ebraismo polacco del Settecento. Ma non è un personaggio che esce dal nulla. Di fenomeni di questo tipo, più o meno clamorosi, ne sono spuntati tanti, negli ultimi due millenni di storia ebraica. Era nato nel 1726 nel villaggio polacco di Korolowka. Suo padre era un seguace di Sabbatai Zevi, un cabalista di Smirne che costituisce il precedente più immediato di Frank, ed è sicuramente una figura di maggior rilievo. Sabbatai, nella seconda metà del Seicento, aveva infiammato tutta la diaspora ebraica, proclamando di essere il messia atteso e annunciando il ritorno degli israeliti a Gerusalemme, e la liberazione degli ebrei dall'oppressione. Poi, nel 1666, posto dal sultano ottomano davanti all'alternativa tra la condanna a morte e l'apostasia, aveva apostatato, facendosi musulmano. I suoi seguaci più vicini, per superare lo shock, elaborarono una dottrina per cui questa apostasia confermava la qualità messianica di Sabbatai: essa era un'apostasia necessaria, perché il messia doveva salvare il mondo attraverso l'errore, gettandosi a capofitto dentro l'impurità da redimere. Così centinaia dei suoi seguaci lo imitarono, convertendosi in massa all'islam, restando però interiormente ebrei. Questa idea dell'apostasia necessaria, dell'assunzione proforma delle abitudini religiose sociologicamente prevalenti è un elemento che si ritroverà anche nella vicenda di Frank...

Ce ne racconti i passaggi essenziali.

INTROVIGNE: Anche Jacob Frank, nel 1753, durante un suo soggiorno a Salonicco,che era un centro di sabbataiani, si proclama a sua volta messia e reincarnazione di Sabbatai Zevi. Ritornato in Polonia, riesce a far breccia negli ambienti ebraici già contagiati dal sabbataismo, con la sua gnosi aberrante che proclama la "purificazione attraverso il peccato". L'ebraismo ufficiale getta l'anatema su di lui e i suoi seguaci. Ma loro, presentandosi come perseguitati dagli ebrei, trovano paradossalmente protezione da parte di vescovi e prelati della gerarchia cattolica, facendo leva sul loro tradizionale antigiudaismo. Molto spesso questi messia, rifiutati e condannati dall'ebraismo, hanno cercato e trovato protezione in ambienti cattolici o islamici. Insisto: la vicenda di Frank, in fondo, non ha tratti molto originali, è una delle tante manifestazioni ricorrenti del messianismo ebraico. Se c'è un punto originale, è stata proprio l'accoglienza che ha trovato all'interno della Chiesa cattolica. Ma anche in questo Frank aveva illustri precedenti.

Nel caso di Frank, quali sono i suoi punti di contatto con la Chiesa?

INTROVIGNE: Per fuggire all'anatema dei rabbini, Frank ripara nell'Impero ottomano, dove, sempre nell'ottica dell'apostasia necessaria, si converte all'islam. Durante l'esilio compone gli scritti che ispireranno il suo movimento. Di essi è consultabile solo il primo, intitolato Libro delle parole del Signore, di cui una copia è conservata presso l'Università di Cracovia. Dopo due anni Frank torna in Polonia, e fa balenare ai vescovi polacchi la possibilità di una conversione sua e dei suoi trentamila seguaci al cattolicesimo. Effettivamente, nell'estate del 1759, migliaia di frankisti si fanno battezzare nella cattedrale di Leopoli, non prima di aver accusato la comunità ebraica di omicidi rituali e sacrifici umani, per compiacere l'antigiudaismo di un certo clero polacco. A novembre si fa battezzare lo stesso Frank. A fargli da padrino è Augusto III in persona, il re di Polonia.

Come si spiega questa apertura di credito così avventata da parte della Chiesa e dei regnanti polacchi?

INTROVIGNE: Molto spesso, riguardo a personaggi simili a Frank, ambienti della Chiesa cattolica si sono illusi di far giocare questi messia per la conversione di massa del popolo ebraico al cristianesimo. In tanti hanno coltivato l'ambizione di passare alla storia come gli artefici dell'entrata in massa del popolo eletto dentro la Chiesa cattolica. Con una prospettiva escatologica, visto che la conversione degli ebrei è sempre stata considerata uno dei segni premonitori della fine dei tempi. David Reubeni, un pretendente cinquecentesco al ruolo di messia ebraico, fu accolto addirittura a Roma da papa Clemente VII.

Quando Frank si fa battezzare, che forme assume la sua adesione alla religione cattolica?

INTROVIGNE: Tutto si può riassumere nel comando che lo stesso Frank rivolge ai suoi adepti: "Nostro signore e re Sabbatai Zevi dovette passare per la fede degli ismaeliti... Ma io, Jacob, il perfetto, devo passare per la fede nazarena, perché Gesù di Nazareth era la scorza del frutto, la sua venuta fu permessa per aprire la strada al vero messia. Noi dobbiamo accettare pro forma questa religione nazarena, e osservarla meticolosamente per apparire cristiani migliori dei cristiani stessi". Si tratta di recitare una parte, ricalcando con zelo metodico atteggiamenti e pratiche cristiane. Intanto, approfittando del suo rapporto diretto col re, Frank si azzarda a chiedere il permesso di costituire coi suoi adepti un esercito e l'assegnazione di un territorio per la fondazione di uno Stato ebraico. La manovra insospettisce l'Inquisizione, e allora Frank viene esiliato a Czestochowa. Anche lì comincia a fomentare tra i suoi adepti un culto verso la propria figlia Eva, palesemente ricalcato sul locale culto alla Madonna nera. Czestochowa diventa meta di pellegrinaggio dei frankisti, che però vi si recano a venerare Eva Frank, e non Maria! Anche Jacob si sottomette al culto di Eva. Dice ai suoi seguaci: " È lei il vero messia! ".

Questa tecnica di camuffamento è solo un escamotage opportunista, per non scatenare sospetti e eventuali persecuzioni?

INTROVIGNE: Non solo. Essa ha a che vedere anche con le radici profonde del messianismo frankista, che affondano nella gnosi cabalistica ebraica. Tutto il filone del messianismo ebraico è attraversato da questa vena esoterica, secondo cui il mondo terrestre non è creato dal "Dio vivo e buono", ma da una potenza del male, che ha imprigionato le scintille divine (nitzotzot) nella prigione maligna della materia (kelipot). La missione del messia è liberare le scintille divine dalla materia. Per farlo, deve discendere nel regno impuro delle kelipot, per distruggerle. Questa discesa è tanto più efficace quanto più si addentra nell'impurità. Essa si realizza attraverso gli "atti strani", azioni proibite che gli adepti del movimento, gli illuminati, possono e devono compiere senza tema di rimanere contaminati. Questi atti strani vanno dalle perversioni sessuali, alle infrazioni più scandalose della Legge, fino all'apostasia, che introduce i membri del movimento all'interno delle comunità dei non iniziati, dove si annida più rappresa e tenace la materia malvagia...

In questo rovesciamento, anche la partecipazione esteriore a pratiche cristiane diventa un "atto strano"...

INTROVIGNE: I seguaci del suo movimento non aderiscono alle pratiche cristiane per chiedere la salvezza: loro si sentono superiori, già salvati, già appartenenti al regno divino. Se si accostano pro forma ai sacramenti, li considerano non un bene necessario alla salvezza, ma un male necessario per penetrare di più in mezzo ai membri della Chiesa senza insospettirli, per poi emanciparli dalla materia ed elevarli alla vera conoscenza. Arthur Mandel, autore della ricerca più corposa sulla figura di Jacob Frank, oggi certo da completare con studi più recenti (Le Messie militant, Editrice Arché, 1989), scrive che i seguaci del falso messia non riuscivano a farsi una ragione della sua conversione al cattolicesimo. "Allora Frank spiegò ai suoi seguaci: ‘Il battesimo è un male necessario, il punto più basso della discesa nell'abisso, dopo il quale avrebbe avuto inizio l'ascesa [...]’. Il battesimo sarebbe stato l'inizio della fine della Chiesa e della società ed essi, i frankisti, erano scelti per realizzare la distruzione dall'interno ‘come soldati che prendono d'assalto una città passando per le fogne’: Ora erano richieste segretezza assoluta e disciplina rigidissima, insieme a un meticoloso conformismo agli ordini e alle pratiche della Chiesa per non destare sospetti. Mentre osservavano esteriormente i precetti della Chiesa, non dovevano mai perdere di vista il loro vero fine o dimenticare che erano legati gli uni agli altri".

Colpiscono, nella vicenda di Frank, anche le sue buone entrature nei circoli del potere...

INTROVIGNE: Nell'ultima fase della sua permanenza a Czestochowa, Frank viene imprigionato. Quando, con la spartizione della Polonia, i russi arrivano in città, manda a Mosca una delegazione per trattare la sua conversione all'Ortodossia, ma non ottiene risultati. Così si trasferisce a Brno, in Moravia, sotto l'Impero asburgico, ospite dei suoi parenti, i Dobruska. E poi a Offenbach, in Germania, ospite del duca di Isemburg. Per un certo periodo frequenta la corte di Maria Antonietta e Giuseppe Il, a Vienna. Quando muore, nel 1791, il suo è un funerale di Stato grandioso. Nel 1813 sarà ancora lo zar Alessandro I Romanov a recarsi in visita da Eva Frank. Ma il falso messia polacco ha anche altri rapporti interessanti...

Ce li accenni.

INTROVIGNE: È la prima figura messianica ebraica, che io sappia, a entrare in contatto col mondo massonico, visto che prima di lui la massoneria, almeno nella sua forma moderna, non c'era ancora. Negli anni di Brunn e poi a Offenbach, Frank secondo alcuni viene iniziato e comunque è in contatto assiduo con le logge. Negli ambienti del messianismo ebraico la cabala si è conservata nella sua forma più pura, e questo è un richiamo d'attrazione irresistibile per la corrente cosiddetta "calda" della massoneria tedesca.

Cosa succede, dopo la scomparsa di Frank?

INTROVIGNE: Il frankismo sopravvive. Con una forte propensione a infiltrarsi misticamente in tutti i sussulti rivoluzionari che seguiranno. Il prototipo del frankista pronto a saltare sul carro di tutte le rivoluzioni è Moses Dobruska, cugino e erede di Frank. Ebreo, poi cattolico, poi massone, poi giacobino, col nome di Junius Brutus Frey. Si recherà nel 1792 nella Francia rivoluzionaria, dove sarà ghigliottinato nel 1794, insieme a Danton. Poi, ci furono molti frankisti anche tra gli ispiratori di molte rivolte polacche...

Quelle più rilevanti furono le insurrezioni antizariste del 1830 e del 1863...

INTROVIGNE: Nel volume Il pensiero di Karol Wojtyla il professor Rocco Buttiglione accenna anche all'influenza del frankismo ("che identifica la Vergine di Jasna Gora con la Sekinah, la parte femminile di Dio perduta nel mondo") sulle grandi figure del romanticismo nazionalista polacco, come Adam Mickiewicz, Zygmunt Krasinski e Juljusz Slowacki, colui che in una sua poesia aveva preannunziato l'avvento di un papa slavo ("Attenti, un papa slavo viene/ un fratello del popolo"). Ma direi che anche qui sarebbe esagerato ridurre tutto alla figura di Frank. Sul messianismo romantico polacco hanno un'influenza più o meno diretta le diverse correnti che si rifanno alla cabala ebraica, sia quella messianica che quella hassidica, e che nel Settecento avevano ancora tra loro contatti molto stretti. Su tutta la nazione polacca ha avuto un'influenza notevole lo hassidismo, che era considerato più accettabile anche dall'ebraismo ortodosso, vista la sua impronta moralistica che lo preservava dagli scandali sessuali. Al contrario di ciò che avviene nella corrente antinomica messianica, in cui rientra anche il frankismo, e dove l'apparire del messia più recente segna sempre un'ulteriore dispensazione dalle leggi morali, e l'affermazione del principio dell'interiorità si coniuga con l'abbattimento di ogni restrizione legale dell'esistenza. Per cui in questi ambienti si praticano frequentemente incesti, riti orgiastici e altre forme di perversione sessuale.

Riguardo al messianismo romantico polacco, c'è da dire che si tratta di un fenomeno complesso, in cui concorrono diversi fattori...

Quali?

INTROVIGNE: Si parte da una componente sociologica. Le difficoltà e le sofferenze della nazione polacca, spesso oppressa dai potenti vicini, producono una fuga in sogni messianici, che attribuiscono alla sofferenza polacca un valore redentivo universale. Questi sogni prendono alimento dal crogiolo di culture e correnti presenti in loco, e che spesso si incrociano e si innestano l'una sull'altra: la corrente esoterico-cabalistica; la radice apocalittica, influenzata anche dalle "sette" russe, respinte dalla Chiesa ortodossa per il loro millenarismo estremo e che trovavano rifugio in Polonia; e un certo misticismo cattolico, che pone il messianismo polacco al servizio di Roma. Magari riprendendo quelle idee di riforma spirituale che fin dal Cinquecento, dai tempi di Pico della Mirandola, hanno sempre segnato i cristiani affascinati dalla Cabala. Così, ritroviamo anche nel messianismo romantico polacco l'idea dell'imminente nascita di una Chiesa nuova, spirituale, compiuta, che sorgerà dalla Chiesa storica, quella concreta, pellegrina sulla terra, imperfetta, carnale. "Come la farfalla nasce dalla crisalide", suggerisce un'immagine cara ad Adam Mickiewicz.

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LiviaGloria
00lunedì 16 febbraio 2009 10:47
www.cesnur.org/2007/mi_ebrei.htm



Gli “ebrei comunisti”: fantasma antisemita e/o problema storiografico?
di Massimo Introvigne

Una versione leggermente modificata di questo testo è stata pubblicata come “Giudeo-bolscevismo? Una balla” su il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 7, n. 2, 12 gennaio 2008, p. 5.

In occasione delle elezioni politiche polacche del 21 ottobre 2007 la battaglia ideologica fra il Partito della Legge e della Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) del primo ministro Jarosław Kaczyński (fratello gemello del presidente della Repubblica di Polonia, Lech Kaczyński) – uscito sconfitto, seppure di misura, dalla consultazione – e i suoi oppositori è stata particolarmente aspra. Il PiS è stato accusato di antisemitismo, e ha a sua volta accusato gli oppositori, che criticavano la sua politica di lustracija, “pulizia”, intesa a fare emergere i nomi di coloro che in passato avevano collaborato con i servizi segreti della Polonia comunista, di far parte di un complotto anti-nazionale di “ebrei e comunisti”.
A una prima lettura, qualunque tesi che considera l’ebraismo e il comunismo come parte di uno stesso complotto – contro il cristianesimo, l’Europa o lo spirito nazionale della Polonia o di altri Paesi – appare semplicemente come un fantasma antisemita. È infatti evidente che il comunismo ha spesso perseguitato gli ebrei e la loro religione. La grande maggioranza delle sinagoghe in Russia e nei Paesi satelliti sono state distrutte o trasformate in magazzini o musei. Il “complotto dei medici” (1948-1953) – sostanzialmente inventato dalla propaganda staliniana, che accusava un gruppo di dottori di avere tentato di uccidere i principali dirigenti del regime – si tradusse in una recrudescenza di antisemitismo (dal momento che molti dei medici accusati erano ebrei) in tutta l’Unione Sovietica. La falsa “accusa del sangue” – cioè la calunnia secondo cui gli ebrei sgozzerebbero ritualmente fanciulli non ebrei per mescolare il loro sangue alle azzime di Pasqua –, oltre che nel mondo islamico, fu presa sul serio dalle autorità dopo la Seconda guerra mondiale quasi esclusivamente in Unione Sovietica (per esempio in Uzbekistan: a Margilan nel 1961 e a Tashkent nel 1962). Lo schieramento del regime sovietico, e del comunismo internazionale, a fianco dei palestinesi e dei Paesi arabi nella lotta contro Israele portò a una serie di discriminazioni e campagne antisemite non solo in Unione Sovietica ma anche nei Paesi satelliti: nella stessa Polonia negli anni 1967-1968 centinaia di ebrei furono epurati dai quadri dirigenti del Partito Comunista. Chiunque conosca sia l’ostilità a Israele del mondo comunista, sia come questa ostilità si trasformi facilmente – anche se a volte per gradi, così che l’esito appare evidente solo alla fine del processo – in antisemitismo, non potrà che sorridere, certo amaramente, di fronte a espressioni come “giudeo-comunismo”, che appartengono a una semplice operazione di propaganda che ignora le realtà e la complessità della storia.
Tuttavia la campagna elettorale polacca del 2007 ha fatto nascere anche un serio dibattito, almeno in Polonia, fra gli specialisti accademici del comunismo, alcuni dei quali sono ebrei. Il fatto che gli antisemiti sollevino la “questione comunista” in un modo non solo propagandistico ma storicamente assurdo vieta che la domanda sui rapporti fra un certo numero di ebrei e il comunismo sia posta? Oppure il fatto che gli storici seri si auto-censurino con un “divieto di fare domande” sul tema, per paura di essere confusi con gli antisemiti, non finisce con il fare il gioco degli antisemiti stessi? La discussione, per la verità, non è nuova e – a prescindere da numerose pubblicazioni in lingua polacca – è stata avviata in Occidente già con il volume del 1991 di Jaff Schatz The Generation. The Rise and Fall of the Jewish Communists of Poland (University of California Press, Berkeley - Los Angeles - Londra 1991), mentre in Russia lo stesso problema è stato posto ripetutamente da Aleksandr Solzhenitsyn. In occasione delle elezioni del 2007 Stanislaw Krajewski, professore di filosofia all’Università di Varsavia molto noto anche nel mondo cattolico per la sua partecipazione a iniziative di dialogo ebraico-cristiano, è tornato sulla questione, con un bilancio delle discussioni più recenti pubblicato sulla rivista statunitense Covenant. Global Jewish Magazine (vol. I, n. 3, ottobre 2007: “Jews, Communists, and Jewish Communists, in Poland, Europe, and Beyond”). Krajewski, tra l’altro, si dichiara interessato al dibattito anche per una ragione personale: è pronipote di Adolf Warski (1868-1937), che fu co-fondatore del Partito Comunista Polacco prima di cadere egli stesso vittima della “Grande Purga” staliniana. Nella controversia è intervenuta – studiando le fonti letterarie, e con un punto di vista parzialmente diverso (che sottolinea maggiormente la componente messianica nell’accostamento di certi intellettuali ebrei polacchi all’utopia rivoluzionaria marxista) – anche Laura Quercioli Mincer, in un interessante articolo pubblicato sul numero 1 (2007, pp. 35-61) dell’European Journal of Jewish Studies: “Ubi Lenin, Ibi Jerusalem: Illusions and Defeats of Jewish Communists in Polish-Jewish, Post-World War II Literature”.
Krajewski non pensa che l’argomento dei rapporti fra alcuni ebrei e il comunismo (espressione più precisa rispetto a quella che implica una relazione fra ebraismo e comunismo) debba essere evitato per timore degli antisemiti. Alcuni dati statistici richiedono in effetti una riflessione. Il filosofo polacco ricorda per esempio come uno dei primi “sovietologi” svedesi, non particolarmente noto come antisemita, Alfred Jensen (1859-1921), calcolasse nel 1920 che il 75% dei dirigenti bolscevichi russi fosse ebreo, anche se si deve considerare che questo dato precede l’epurazione di molti dirigenti ebrei dopo l’espulsione dell’ebreo Lev Trotsky (1879-1940) dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel 1927. E in Polonia Krajewski ricorda che “dopo la Seconda guerra mondiale la maggioranza delle organizzazioni ebraiche erano filocomuniste”. Tutto questo, ancora, prescinde dalle origini ebraiche di Karl Marx (1818-1883): se suo nonno era un rabbino, suo padre si era convertito al protestantesimo luterano. Karl era stato battezzato, e dai suoi scritti traspaiono semmai evidenti pregiudizi antisemiti. La questione potrebbe essere approfondita – ma non è l’interesse principale di Krajewski – con riferimento alla parabola dell’Haskalah, la versione ebraica dell’Illuminismo, che porta molti ebrei, talora (ma non sempre) transitando appunto per una conversione al protestantesimo liberale, a passare da una visione del mondo religiosa tradizionale a un liberalismo laicista, quindi da questo al socialismo, un’ideologia che è maggioritaria anche tra i fondatori e i primi dirigenti del movimento sionista.
Krajewski è più interessato alla storia del comunismo polacco, dove coesistono importanti dirigenti ebrei (come il suo bisnonno Warski) e antisemiti come Władysław Gomułka (1905-1982), animatore della campagna antiebraica del 1967-1968 ma che già nel 1948 scriveva lettere a Josif Stalin (1878-1953) invocando purghe contro i membri ebrei del Partito. Una prima conclusione di sedici anni di dibattiti – fra il libro di Schatz e le elezioni del 2007 – è che gli ebrei che diventavano comunisti lo facevano al termine di un percorso personale e familiare di progressiva perdita dell’identità ebraica. L’ebraismo – la più piccola delle religioni monoteistiche storiche (tredici milioni di persone contro un miliardo e mezzo di cristiani o di musulmani) – teme sempre di sparire per “assimilazione”: molti abbandonano la loro religione e non si considerano più ebrei, specie dopo avere sposato un coniuge non ebreo. Nel 1928 il famoso rabbino polacco Jehoshua Ozjasz Thon (1870-1936) metteva in guardia contro l’“assimilazione rossa”: gli ebrei, diventando comunisti, finivano per assumere totalmente un’identità comunista non solo rimuovendo l’identità ebraica ma talora (come Marx) vergognandosene e combattendola.
Ma la domanda rimane: perché un numero importante di ebrei, proporzionalmente maggiore rispetto ad altre comunità, aderì al comunismo? E anzitutto: ci sono cifre che lo confermano o tutti sono vittima di uno stereotipo antisemita? Secondo Krajewski gli studi più recenti e attendibili sulla Polonia mostrano che la percentuale di adesione di ebrei al Partito Comunista corrisponde, grosso modo, a quella degli ebrei sulla popolazione polacca in genere, ed è più bassa di quest’ultima prima della Seconda guerra mondiale, quando in Polonia vivevano ancora – prima di essere sterminati nell’Olocausto – grandi masse di ebrei rurali ultra-ortodossi e hassidici, ben poco inclini a farsi affascinare dal comunismo. Quello che ha colpito la popolazione polacca è l’alta percentuale di ebrei (prima delle campagne anti-israeliane che iniziano nel 1956) fra i dirigenti comunisti e nei servizi segreti e di sicurezza interna. Ma anche in questi ultimi colpisce la cifra dei dirigenti, non quella dei semplici agenti. Nel periodo 1944-1956 fra gli agenti dei servizi di sicurezza polacchi gli ebrei sono l’1,7%, ma la cifra sale al 13,4% fra gli ufficiali e a quasi il 30% fra gli ufficiali superiori.
Ne consegue che, mentre è falso che in Polonia il comunismo abbia attirato gli ebrei più dei membri di altre etnie e religioni (anche perché alla percentuale di ebrei agenti dei servizi fa da contrappunto una percentuale ancor più alta di ebrei vittime degli stessi servizi), è vero che il comunismo ha arruolato un numero sproporzionato di intellettuali di origine ebraica, molti dei quali particolarmente qualificati e preparati, così che – prima delle purghe antisioniste e antisemite degli anni 1950-1960 – nel Partito hanno potuto fare carriera. Ancora una volta – e Krajewski potrebbe forse andare più a fondo sul punto – tutto questo rimanda a una riflessione sulle classi colte e sugli intellettuali ebrei fra il XVIII e il XX secolo, e sulla lenta deriva dall’assimilazione attraverso l’adesione all’Illuminismo fino all’“assimilazione rossa”: una deriva in cui per entrare, talora anche dalla porta principale, in ogni nuovo stato di cose che caratterizza l’Europa gli ebrei devono pagare un biglietto d’ingresso che consiste nel rinunciare alla loro religione e alla loro identità.
L’importanza di questa tematica difficilmente può essere sopravvalutata. L’errore più comune che porta a tollerare l’antisemitismo consiste nel costruire un modello “a taglia unica” de “gli ebrei”, mentre la parola “ebrei” designa gruppi umani con storie molto diverse fra loro. Oggi fra un ebreo ultra-ortodosso di Gerusalemme (o di New York), con il suo modo di vestire che a molti sembra anacronistico e la sua morale rigorista, e un’attivista ebrea della California che frequenta una sinagoga riformata e sfila per il matrimonio tra le lesbiche c’è davvero poco in comune. Ma anche nel 1930 c’era poco in comune fra gli hassidim dei villaggi polacchi in attesa di essere sterminati dall’Olocausto e gli intellettuali di famiglia ebrea (ma atei) dei caffè di Varsavia che si entusiasmavano per il marxismo.
E tuttavia la domanda resta: perché molti intellettuali ebrei scelsero il comunismo? Perché non il liberalismo, o altre ideologie diverse da quella marxista? Sul punto la discussione non è conclusa. Alcuni dei partecipanti al recente dibattito polacco ritengono che gli intellettuali ebrei che diventarono comunisti, figli nella maggior parte dei casi di genitori passati dal razionalismo all’ateismo, in qualche modo tornassero alla religione, secolarizzando il messianismo ebraico nel messianismo marxista. Non è solo una analisi dell’atteggiamento di Marx, tanto nota e antica quanto controversa. Lo stesso Schatz, il cui libro del 1991 come si è accennato è alle origini di tutto questo dibattito, paragona gli ebrei polacchi diventati dirigenti comunisti ai loro antenati che seguirono il falso messia Sabbatai Zevi (1626-1676). Altri – e Krajewski fra questi – fanno notare che il messianismo comunista contiene forse “ingredienti ebraici” ma che appare assai più persuasiva la sua ricostruzione come secolarizzazione (certo, con un equivoco drammatico e perverso) di idee tipiche del cristianesimo.
La vera domanda non è : “Perché i comunisti sono ebrei?” (una questione mal posta, e storicamente falsa) ma: “Perché molti (intellettuali) ebrei diventarono comunisti?”. La risposta, secondo Krajewski, non ha tanto a che fare con la religione ma con un senso di marginalità e di “non appartenenza” alla società maggioritaria, un sentimento di cui la religione non è l’unica componente (e di cui l’economia è una componente trascurabile: non si tratta di marginalità economica, ma culturale e spirituale). In questo senso, per il filosofo polacco è interessante notare che in Israele oggi esiste un piccolo Partito Comunista i cui dirigenti sono in maggioranza arabi. Anche nel loro caso non è l’islam, ma il senso di “non appartenere” davvero alla società israeliana che spiega la loro adesione al comunismo.
E tuttavia la questione rimane aperta. Krajewski, il cui bisnonno comunista è stato accusato di atrocità, pensa che una “purificazione della memoria” e il riconoscimento del comunismo come “problema morale” siano necessari anche per la comunità ebraica, che “le assurdità antisemite non debbano fermare la ricerca sui rapporti fra ebrei e comunismo”, e che “coloro che denunciano come razzista ogni statistica sul numero di ebrei nelle istituzioni comuniste” abbiano torto. “Discutere questi problemi non dev’essere lasciato agli antisemiti”. Come ogni menzogna, l’antisemitismo vive nel buio e ogni ricerca che fa luce sulla storia, anche sui suoi aspetti più dolorosi, è in realtà il modo migliore per combatterlo.
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