storia e cristianesimo

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LiviaGloria
00mercoledì 11 febbraio 2009 10:36
www.corsodireligione.it/religioni/storiachiesa/storia_chi...


Introduzione

Mi preoccuperò in questi incontri di mostrare il filo conduttore di un movimento di pensiero e di vita che dura da duemila anni e che, anche dal puro punto di vista storico, rappresenta qualcosa di assolutamente inedito.
Non esiste un altro movimento di vita e di pensiero che sia passato attraverso le circostanze più diverse, mantenendo sostanzialmente inalterata, anzi approfondendo, la propria identità, e sviluppando una capacità di adattamento alle varie circostanze che non può che stupire.

Basterebbe paragonare i duemila anni della storia della Chiesa ad avvenimenti o movimenti di più vasta portata. Pensiamo all’Impero Romano, per non parlare delle recenti ideologie totalitarie (e dei movimenti socio - politici che sono nati da loro) che,nel breve volgere di 70/80 anni, hanno segnalato ben presto incapacità di comprendere la realtà tutta, così da finire abbastanza ingloriosamente.
E' questione di estrema importanza per il nostro presente conoscere la storia, perché una personalità, un gruppo, il popolo cristiano che non conosca adeguatamente la propria tradizione, è come se non avesse consistenza culturale e quindi responsabilità.
Privare una personalità del senso della sua storia è un modo per incominciare a renderlo schiavo.

In particolare, io credo che sulla storia della Chiesa, sulla storia del popolo cristiano (che è fattore fondamentale per la comprensione della realtà culturale e sociale del nostro paese), si sia andata sollevando, almeno negli ultimi due secoli, una vera e propria ondata di criminalizzazione.
Ci sono fenomeni di incomprensione e di ideologizzazione della nostra storia cristiana che sono semplicemente vergognosi. Su dieci cristiani nove, quando sentono la parola "Medio Evo", provano fastidio, come si trattasse di uno scheletro nell'armadio di famiglia. Non parliamo di espressioni come "inquisizione, crociate, Galileo Galilei, Sillabo". Attraverso l'ideologia dominante (che era sostanzialmente un'ideologia di carattere laicistico nel secolo scorso, e poi proseguita nelle varie forme di laicismo fascista o marxista), c'è stato un tentativo di sradicare dalla nostra coscienza di cristiani tutto il portato, il dato, il movimento della nostra tradizione. Ma una personalità che non ha il senso della sua tradizione non ha capacità di presenza significativa, incisiva.

Non a caso, s. Agostino diceva che il presente, il tempo,è una distensione della personalità tra un passato, che deve essere assimilato personalmente, e un futuro che deve essere progettato. Se un uomo non ha coscienza del suo passato è ridotto alla pura istintività, alla pura reazione. È un uomo, un popolo che reagisce.
Il nostro popolo cristiano, (là dove si può ancora configurare con una sua realtà sociale), è un popolo che reagisce, qualche volta sanamente; ma fa fatica ad avere una sua cultura; a tirare fuori dall’esperienza della sua fede criteri di conoscenza della realtà, di giudizio sulla realtà. Significativa la lotta fatta alla storia, e in particolare alla storia della Chiesa, nelle strutture scolastiche; fino agli ultimi provvedimenti che ristringerebbero lo studio della storia sostanzialmente al così detto Novecento: una personalità va in crisi, se non acquisisce la coscienza della sua tradizione..

Vediamo allora che cosa ha voluto veramente la Chiesa, cosa hanno voluto i cristiani stando nel mondo.
Non hanno certo voluto dominarlo; non hanno certo preteso di detenere la soluzione di tutti i problemi culturali, sociali e politici. Non hanno avuto come preoccupazione il successo. Perciò l’accusa: "non avete scelto bene tra i contendenti politici e avete scelto chi perdeva” è assolutamente inconsistente come obbiezione o come accusa.
La Chiesa non ha la preoccupazione di stare con chi vince.
La Chiesa, lo vedremo, ha una preoccupazione molto radicale e molto essenziale: quella di mantenere viva la presenza di Cristo e di comunicare questa presenza. Come hanno detto i Padri sinodali, quando hanno riflettuto insieme a Giovanni Paolo II sui vent’anni del Concilio, la Chiesa è una comunione per la missione. Certamente "una comunione per la missione” che tiene conto di vivere nell’VIII secolo (quando i Franchi si azzuffano contro i Longobardi), di vivere nel XVI secolo (quando avviene una trasformazione epocale della cultura umana, almeno in occidente), di vivere sotto i grandi sistemi totalitari che cercano di sostituirsi a Dio.

Questa "comunione per la missione" assume volti diversi, pone in atteggiamenti diversi. Ma la preoccupazione della Chiesa è estremamente chiara. Dai primi decenni fino ad ora, è una realtà di comunione, una realtà di popolo non che si chiude in sé per combattere i nemici, ma che tende ad uscire da sé per comunicare agli uomini la realtà che non ha creato con la sua intelligenza. Lo dice, intorno all’anno 160, uno dei documenti più belli che si possono leggere su questa prima comunità cristiana presente nel mondo: la "Lettera a Diogneto".

I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano in città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è la scoperta del pensiero di qualche genio umano né aderiscono a correnti filosofiche. Vivendo in città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l' esempio di una vita sociale mirabile, o meglio paradossale.

La comunità cristiana è qualche cosa di strano, qualche cosa di nuovo. Uno dei primi grandi Padri della Chiesa, riflettendo sulla novità cristiana, sul cristianesimo,sull’avvenimento di Cristo, dirà una frase che è rimasta poi un punto di riferimento sostanziale. Ireneo di Lione all’inizio del IV° secolo, scrive: "Gesù Cristo non si è definito consuetudine, ma novità”. Perciò il Cristianesimo è entrato nel mondo con la consapevolezza di essere un fatto irriducibile, completamente diverso dai fatti, dai valori, dai punti di riferimento, dalle dinamiche di carattere culturale, sociale e politico.

La novutà

Il contesto :
"Mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo Crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1,22).
Dunque il contesto umano e sociale, in cui il cristianesimo è sorto prevedeva due forme culturali (e intendo per "cultura" la concezione che l’uomo ha di sé, il modo con cui vive, i princìpi fondamentali che segue).

I greci che chiedono la verità, che cercano ragioni. Il mondo greco-romano sostanzialmente è fondato sull’idea che la ragione può scoprire totalmente la verità, la verità dell’essere, la verità delle cose. E su questa verità può costruire una società in cui l'uomo possa esprimersi. I greci si fidano della ragione, del logos, della loro capacità di analizzare, di penetrare la realtà e quindi di costruire su queste idee il bene. Sul vero si costruisce il bene.

I giudei vogliono miracoli. I giudei, soprattutto i giudei al tempo di Gesù Cristo, hanno costruito sul fondamento dell’idea di giustizia: secondo loro la ragione umana, certamente illuminata dall’intervento di Dio, può conoscere ciò che è giusto e può sostanzialmente costruire una vita e una società giusta. Per i Giudei del tempo di Gesù, i miracoli non sono tanto le meraviglie che soltanto Dio può compiere, ma la rivoluzione - diremmo noi - ossia il tentativo di costruire sulla terra una giustizia che esprima fino in fondo la dignità e la capacità dell’uomo.

Gli uni arroccati sull’idea di ragione, gli altri arroccati sull’idea di giustizia. E in qualche modo contrapposti e violentemente contrapposti. Tuttavia l’idea di verità e l’idea di giustizia non realizzano il nuovo sulla terra. La ragione greca tenta continuamente di arrivare a questa benedetta verità: ma questa benedetta verità è sempre oltre. I giudei si sono moralisticamente sforzati di praticare questa giustizia, ma questa giustizia è sempre sostanzialmente impraticabile. È quindi prevalso, nel mondo sia greco-romano che giudaico, un certo pessimismo:
la ragione cerca la verità, ma non la trova; l’uomo vuole la giustizia, ma non la realizza.
Allora si pensa che qualcuno possa venire miracolisticamente a realizzarle.

Su questa impotenza e sfiducia si è steso il dominio del potere, il potere greco-romano, la politica come unica realtà che obbiettivamente vale, la sicurezza della vita: non più allora generata dalla ragione o dalla giustizia, ma concessa da una struttura politica, considerata come assoluta.
L'imperium di Roma, espressione della sua capacità legislativa e organizzativa, almeno garantisce la vita. Al tempo di Gesù Cristo e dei primi cristiani pullulano religioni, forme magiche superstiziose, ecc. insieme ai tentativi politici di cui si trova traccia anche nei Vangeli. Ma certamente l'unica cosa che dà sicurezza è che Roma è forte. E sotto la forza di Roma possono sopravvivere le religioni, le concezioni più diverse di vita. Basta che si adori l'Imperium di Roma. Si fa fatica a capire perché si vive, ma almeno qualcuno ci dà da mangiare, ci fa divertire e difende la nostra vita dai barbari.

L’Imperatore (anche per il popolino più minuto e più disgraziato che vive nelle grandi città, le megalopoli del Medio Oriente) è quello che assicura "panem et circenses", farina con una certa regolarità e i giochi nel circo. È un mondo unificato dal potere: spera nella ragione e nella giustizia, ma è unificato dal potere dello Stato, che in tanto è forte perché vive di alcune sostanziali divisioni che non mette mai in discussione: occorre un’enorme numero di schiavi, perché i liberi possano vivere adeguatamente; occorre una contrapposizione di razze e di culture e, perché si imponga l’Imperium di Roma. Il cristiano Paolo dirà l’opposto: "Non c'è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"(Gal 3,28).

La salvezza è in un Avvenimento storico: Gesù di Nazareth.
La novità che reca il cristiano non consiste in un’idea diversa di verità o di giustizia,ma che la salvezza dell’uomo da parte di Dio sussiste in un Avvenimento storico: Gesù di Nazareth, nato in circostanze di tempo e spazio preciso (cfr. Lc 3,1: "L'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare,."), morto sotto il procuratore Ponzio Pilato, confessato come risorto dai suoi discepoli. Che la salvezza dell’uomo fosse un uomo storicamente esistito, questo è "scandalo per i Giudei" e "stoltezza per i pagani" greci (cfr. 1 Cor 1,23).

Come poteva l' ebreo accettare che la salvezza (cioè la rivelazione definitiva della verità da parte di Dio e la chiamata dell’uomo a partecipare della stessa vita divina) fosse legata al Nazareno (i cui estremi anagrafici sono ancor oggi reperibili in quel che è rimasto dell'archivio sacerdotale del Tempio di Gerusalemme), ad uno che non ha voluto neppure unirsi a rivoluzionari zeloti e che è finito in croce? Per il greco, attratto dall’idea e dell’Essere, la storia ripugnava, perché reca con sé provvisorietà e corruzione; per darle parvenza di dignità, la storia veniva concepita con un andamento ciclico, dove tutto scorre e l’accaduto sempre ritorna.
Quando Paolo, ai rappresentanti della più grande cultura del suo tempo, sull’Acropoli di Atene, dirà che Colui che i greci hanno adorato senza conoscere è Gesù Cristo, morto e risorto, verrà ridicolizzato: "Ti ascolteremo un'altra volta!" (At. 17,22).
E nel 112, quando Plinio riferirà sui cristiani all’imperatore Traiano scrivendo di "questo Cristo, che alcuni vogliono risorto", si sentirà rispondere all’incirca: "Non preoccuparti, sono dei pazzi".

La salvezza permane: è presente nell’unità dei cristiani.
La ulteriore pretesa cristiana sta in questo: Cristo Salvatore rimane nella storia ed è incontrabile nella comunità dei suoi discepoli; essa diviene il modo, il luogo in cui Cristo risorto, mediante il suo Spirito, si rende presente e sperimentabile anche alle generazioni future, quelle cioè che non l’hanno visto con i loro occhi e non l’hanno toccato con le loro mani (cfr. 1 Gv 1, 1-3). Cristo l'aveva promesso: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" ( Mt 28,20). Precisando che è l’unità visibile dei discepoli il segno della sua presenza: "Dove due o tre si riuniscono nel mio Nome, lì sarò Io" (cfr Gv 13,35; Gv17,21).

La novità salvifica è la Chiesa, quella realtà in cui permane Cristo e alla quale gli uomini possono partecipare. Dicendo che " il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv.1,14), i cristiani affermano che in un gruppo di uomini si prolunga nella storia l'Avvenimento di Cristo Salvatore, offerto così a tutti gli uomini perché reso loro contemporaneo. Come documenta Gustavo Bardy ("La conversione al cristianesimo nei primi tre secoli"),
la Chiesa non si è posta innanzitutto come depositaria di una dottrina o come maestra di una morale, ma come segno e strumento di salvezza per tutti, perché i testimoni confessano Cristo vivo e presente in mezzo a loro.

Il Concilio Vaticano II parlerà della Chiesa come "sacramento" di Cristo, come realtà attuale dove "in mysterio" è già presente il Regno.

All'unità dei cristiani si aderisce in libertà.
Nella cultura e nel costume greco-romano non era data libertà: se uno era nato barbaro, schiavo o libero, tale rimaneva per sempre. Al contrario, un fattore inedito della novità cristiana è proprio la libertà di aderirvi: la comunità cristiana nasce soltanto dall'incontro dell'iniziativa dello Spirito di Cristo risorto con la scelta di chi accetta di riconoscere Cristo come Salvatore e di aggregarsi all comunità nella quale Egli continua a vivere e ad agire (cfr. At 2,48).

La filosofia greca - anche quella dei grandi Aristotele, Platone, degli Stoici – aveva teorizzato la libertà per lo più come virtù privata e individuale, che aiuta il singolo a liberarsi dalla materialità del corpo e a generare amicizia; non come fattore di aggregazione sociale. Principio di aggregazione sociale sono certi fatti statici di partenza: la razza, la condizione sociale, la cultura (Diocleziano renderà stabile la condizione socio-economica nella quale uno nasce).
A fronte di questi meccanismi fissi, l’appartenenza al popolo cristiano è unicamente problema di libertà: come Cristo non si è imposto, ma proposto (" se vuoi, seguimi"), così la Chiesa non forzerà nessuno alla conversione. Il Vangelo è vissuto e annunziato - da uomo a uomo, da cuore a cuore - come dialogo fra l'assoluta libertà di Dio che chiama in causa la libertà dell'uomo e la sua responsabilità.

La particolarità convive con l’universalità.
Il Concilio Vaticano II valorizzerà la definizione di Chiesa già data da s. Cipriano: "popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo" (Lumen gentium, 4). Fin dal suo venire al mondo a Pentecoste, "l'arabo, il parto, il siro, in suo sermon l'udì" (A. Manzoni "Pentecoste").
Paolo aveva scritto ai Galati: "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati salvati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"( Gal 3,26-28).
La radice dell'unità del popolo cristiano è soltanto la presenza di Cristo, riconosciuta,amata e seguita. Per appartenervi non c'è altra precondizione della libertà di aderirvi. Ciò costituisce un avvenimento realmente rivoluzionario, di incalcolabile portata.

Fin dai suoi primi passi nella storia, il cristianesimo è un fenomeno sociale dove –proprio in forza di quell’unità potente che viene donata dallo Spirito e viene prima delle differenze – le differenze rimangono, ma esse non costituiscono fattore di opposizione frontale, bensì la varietà di una comune ricchezza. Particolarità e universalità sono due dimensioni intimamente connesse. La Chiesa è una sola, ma in essa – come membri di un sol corpo – barbari e greci, schiavi e liberi,uomini e donne, si nutrono dell’unico Pane Eucaristico, che rende i molti una cosa sola (cfr. 1 Cor 10,17); e praticano una reale fraternità, "secondo il bisogno di ciascuno" (At 2,45; cfr. At 4,24s; 2 Cor 8s; Lettera di Paolo a Filemone). La Chiesa nata nel Cenacolo è unica, ma emerge nei posti più particolari, in comunità dilagate a macchia d’olio, nel giro di poche generazioni, in tutto il mondo allora conosciuto (ecuméne): al termine della Lettera ai Romani, Paolo scriverà: "Salutate Prisca e Aquila.; ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili;salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa” (cfr. Rm 16, 3-5).
Tale comunità – insieme unica e particolare – fin dai primi decenni avverte come fondamentale il riferimento ad una guida visibile (quella invisibile è lo Spirito Santo), la guida della Chiesa di Roma, il successore di Pietro: a lui si riferiscono anche i vescovi, successori degli altri Apostoli, come a "colui che presiede l'universale carità della Chiesa" (s. Ignazio di Antiochia). Al Papa – un pescatore di Galilea o magari liberto o schiavo (quindi allora ritenuto cosa insignificante) – prestano obbedienza di fede anche dei patrizi romani, tra i quali senz’altro già nei primi 50 anni si contano dei cristiani.

Noi, oggi non riusciamo a renderci conto quale novità rappresenti, nel centro della politica e della cultura di allora, la presenza dei "cristiani" (i "santi", i "redenti", i "salvati"). A metà del secondo secolo il vescovo di Cartagine, Cipriano, scriverà: La Chiesa estende i suoi rami in tutta la terra con esuberante fecondità e si espande su vaste regioni. Uno solo però è il principio, una sola la sorgente e una sola la madre feconda e ricca di figli. Nasciamo nel suo grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo animati dal suo Spirito. Chi abbandona la Chiesa non raggiungerà mai Cristo, divenendo un forestiero, un profano, un nemico. Non può avere Dio come padre chi non ha la Chiesa come madre.


Condivido questo scritto che dovrebbe essere tenuto presente non solo dalle persone fuori della chiesa,ma anche da quelle entro essa.
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