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Commissione Moro, approvata dopo 40 anni la relazione che riscrive la verità sull'omicidio dello statista della DC

Ultimo Aggiornamento: 13/01/2024 18:06
22/03/2018 16:16
 
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Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quasi quarant'anni) del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla Commissione Parlamentare d'Inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima Relazione, approvata il 6 dicembre e depositata per l'approvazione dell'Aula alla Camera, oggi, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di Via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal RIS dei Carabinieri, quell'auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che veramente il Presidente della DC avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita, perché la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma dalle fonti palestinesi del Colonnello Giovannone, un mese prima del sequestro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta.

Gallinari latitante nella palazzina dello IOR
La Relazione spiega ancora che Moro ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Dimostra che in un modo o nell'altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda. A cominciare dall'individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà IOR, la cosiddetta banca vaticana (posseduta attraverso la società Prato Verde SRL e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), prelati e dallo stesso Presidente dello IOR, Paul Marcinkus. Dove aveva sede una società americana che lavorava per la NATO, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell'Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. “Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato”, si legge nel documento, “per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista”. La Relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che Prospero Gallinari (il carceriere di Moro) e le armi usate dalle BR a via Fani sono stati nascosti per alcuni mesi, nell'autunno 1978, nello stesso stabile di Via Massimi 91, in cui si ipotizza essere stato il covo-prigione.

Una narrativa confezionata a tavolino

Ma soprattutto la Commissione ha accertato, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei Servizi Segreti e delle forze dell'ordine seguita alla cosiddetta "direttiva Renzi", che la "narrativa" ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una "versione ufficiale e di Stato" del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga. L'unica verità "dicibile" per chiudere l'epoca del terrorismo. Una verità di comodo messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell'ordine e naturalmente dai brigatisti. Valerio Morucci divenne addirittura consulente del SISDE, come si chiamava allora il Servizio Segreto interno.

Echi di Guerra Fredda: una società americana e il KGB
La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Giuliana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia "del più importante agente del KGB in Italia", come l'ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro "L'Archivio Mitrokhin"), "è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di Viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l'arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato". “Alla luce delle indagini compiute, comunque”, scrive Fioroni, “il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell'eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale”. Ancora:“Al di là dell'accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell'azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell'omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse”. Al riguardo Fioroni parla di "martirio laico" di Moro. Un martirio avvenuto ai tempi della Guerra Fredda.

Il figlio del capitano Corelli
Un capitolo particolare è dedicato alle "protezioni" che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. La primula rossa delle BR, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l'ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l'estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani. “Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano”, ha raccontato il vicepresidente della Commissione Vero Grassi, “Riconobbe Casimirri, già latitante, per strada e corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo”. Negli scorsi giorni proprio il cantante aveva raccontato a Vanity Fair di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni '70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, ricordando come lui, bambino, restava affascinato dai racconti che Luciano ed Ermanzia Casimirri facevano del figlio, già ai tempi provetto sub e pescatore subacqueo, fino al giorno in cui lo stesso Alessio gli mostrò i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario. Responsabile della sala stampa vaticana sotto tre papi (Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI), dunque per circa trent'anni, è stato un ufficiale italiano durante la Seconda Guerra Mondiale, sopravvissuto all'eccidio della Divisione Aqui a Cefalonia, e secondo le parole del suo stesso figlio, alla sua figura si è ispirato il romanzo dello scrittore britannico Louis De Bernières "Il mandolino del capitano Corelli", e l'omonimo film interpretato da Nicholas Cage e Penelope Cruz.

Maria Antonietta Calabrò
13/12/2017
www.huffingtonpost.it/2017/12/13/commissione-moro-approvata-dopo-40-anni-la-relazione-che-riscrive-la-verita-sullomicidio-dello-statista-della-dc_a_2...
[Modificato da wheaton80 22/03/2018 16:19]
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‘Moro. Il caso non è chiuso’, i soldi per il riscatto erano pronti nella villa di Castel Gandolfo

Tutti ricordano l’appello di San Paolo VI alle Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro. Così come tutti ricordano la struggente preghiera pronunciata da Montini al funerale dello statista democristiano. Prima volta nella storia che un papa presiedeva le esequie di un laico. Funerale celebrato nella Basilica di San Giovanni in Laterano davanti alle più alte cariche dello Stato e della DC, ma senza la bara di Moro per volontà della famiglia, in aperta polemica con coloro che, a loro giudizio, erano stati i veri assassini. Per anni ci si è domandati cosa Montini in concreto avesse fatto, in quei drammatici lunghi giorni del rapimento di Moro, per salvare la vita dello statista democristiano. A restituire quella pagina di storia, nel momento in cui Paolo VI è stato canonizzato da Papa Francesco, è il libro “Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta”, scritto a quattro mani dalla giornalista Maria Antonietta Calabrò e dal politico Giuseppe Fioroni, uscito nel maggio scorso per Lindau. Proprio quest’ultimo, nella scorsa legislatura, è stato Presidente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Dai documenti inediti raccolti durante questo lungo lavoro è nato il volume che rende giustizia alla verità di un caso ancora molto controverso della recente storia d’Italia. “Si è vociferato per anni”, scrivono gli autori, “che Papa Paolo VI aveva tentato in ogni modo di salvare lo statista DC, anche pagando un’ingente somma alle Brigate Rosse. Si è parlato di una cifra pari a 50 miliardi di vecchie lire messa a disposizione dallo IOR. Invece non fu così. Sappiamo come andò solo da qualche mese. Da quando cioé il 4 dicembre 2017 Monsignor Fabio Fabbri, che fino al 1999 è stato il vice ispettore dei cappellani delle carceri italiane, braccio destro dell’uomo che per il Vaticano e il papa gestì le trattative con le Brigate Rosse, cioè il capo dei cappellani delle carceri don Cesare Curioni (deceduto nel 1996), ha testimoniato davanti alla Commissione Moro 2”. Monsignor Fabbri ha raccontato che “i soldi recavano la fascetta di una banca estera, precisamente israeliana, di Tel Aviv. Del resto io conosco bene i caratteri ebraici.

Il denaro era in una sala della residenza di Castel Gandolfo, ricordo sotto una coperta di ciniglia azzurra, e mi furono mostrati direttamente dal Santo Padre, era una bella montagnetta alta almeno mezzo metro. Questa somma, a quanto mi riferì don Curioni, fu ottenuta grazie all’impegno personale di un imprenditore israeliano che si occupava di pelletteria e di scarpe”. Calabrò e Fioroni scrivono che “in base agli accertamenti della Commissione Moro 2, chi mise a disposizione del papa e della Santa Sede la somma del riscatto per ottenere la salvezza di Moro, era un uomo d’affari israeliano di origini francesi Shmuel ‘Sammy’ Flatto-Sharon, che all’epoca del sequestro era membro della Knesset, dove rimase parlamentare fino al 1981. Richiesto di confermare l’identità dell’uomo, dopo i riscontri ottenuti indipendentemente dall’organismo parlamentare, Fabbri lo ha fatto. ‘Visto che mi viene fatto il nome di Flatto-Sharon posso dire che il suo nome mi suona in relazione a questa vicenda. Non ho la minima idea di dove sia finito quel denaro dopo il fallimento della trattativa. Lo vidi comunque due o tre giorni prima della morte dell’onorevole Moro’. Quindi il danaro per pagare il riscatto in cambio della vita di Moro era pronto. Era nella villa pontificia di Castel Gandolfo, a disposizione di Paolo VI, il papa amico di Moro”. Come è noto, però, il tentativo di Montini fallì miseramente. I due autori precisano che “è solo con il lavoro della Commissione che si è giunti, da poco, a fissare i fatti certi. Comprovati anche da altri testimoni. Come per esempio il Generale dell’Arma dei Carabinieri Antonio Federico Cornacchia (il cui nome risultò negli elenchi della P2), Comandante del Nucleo Investigativo di Roma all’epoca del sequestro, quindi il responsabile operativo delle indagini su Moro, che ha descritto anche come fallì il tentativo di Paolo VI”. Calabrò e Fioroni, infatti, scrivono che “dalla sua deposizione del 5 ottobre 2016 emerge che il tentativo andò in fumo la sera del 6 maggio 1978 (alle 19.40) quando, mentre Cornacchia era nella residenza pontificia di Castel Gandolfo, Monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, ricevette una misteriosa telefonata, sbiancò in volto e ‘ci informa che tutto è andato a monte’. Anche Cornacchia afferma di aver visto con i suoi occhi, chiusi da una fascetta con la scritta di una banca, 10 miliardi pronti in un cofanetto. ‘Non li ho contati, ma li ho visti’”.

Francesco Antonio Grana
14 novembre 2018
www.ilfattoquotidiano.it/2018/11/14/moro-il-caso-non-e-chiuso-i-soldi-per-il-riscatto-erano-pronti-nella-villa-di-castel-gandolfo/...
08/12/2018 04:14
 
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Shmuel Flatto-Sharon muore a 88 anni



Shmuel Flatto-Sharon è morto venerdì all'età di 88 anni allo Sheba Medical Center a Tel Hashomer, assistito da sua moglie e dai suoi figli nei suoi ultimi momenti di vita. Flatto-Sharon fu membro della Knesset tra il 1977 e il 1981. Sarà sepolto venerdì alle 14:00 al cimitero di Savyon.

Adva Melamed Levi
7 dicembre 2018

Traduzione: Wheaton80
www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-5421484,00.html

Nota Wheaton80: Poco dopo l'uscita del libro su Aldo Moro muore un importante protagonista della vicenda
[Modificato da wheaton80 08/12/2018 04:18]
11/05/2022 22:00
 
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A 44 anni dall'omicidio di Aldo Moro - E ora scoprono la CIA

La CIA è stata coinvolta nel rapimento e nell’uccisione di Aldo Moro. Lo scopre oggi ‘The Post Internazionale’ (TPI per i suoi aficionados), che offre al mondo il suo grande scoop, così titolando tra gli squilli della fanfara:“Esclusivo TPI. Ecco le ultime rivelazioni che provano il coinvolgimento di ‘Ndrangheta e CIA nel caso Moro”. Le chiamano ‘ultime’, i prossimi vincitori del Pulitzer. Peccato che, invece, le ultime siano vecchie di quasi 15 anni. E di seguito vi spieghiamo come e perché. Il primo a parlare, e poi a scrivere, in modo concreto di un pesante coinvolgimento della CIA è Ferdinando Imposimato, il magistrato che ha dedicato la sua vita a combattere sequestri, Anonima sarda, Banda della Magliana, poi terroristi, brigatisti, senza farsi mancare, ciliegina sulla torta, i depistatori. Ha indagato sull’attentato al Papa e sul sequestro Moro, per citare solo due casi eclatanti. Fu alla Voce che nel 2007 Imposimato parlò per la prima volta delle sue nuove scoperte relative al giallo Moro. “Sono sulle tracce di un criminologo americano, uno psichiatra che ha lavorato per la CIA e che venne inviato da Henry Kissinger per dirigere, in modo segreto, il comitato di crisi che fiancheggiava il Ministro degli Interni Francesco Cossiga”. E fece anche il nome di quell’agente coperto, Steve Pieczenick. Il quale, appunto, era sbarcato a Roma per far parte di quel comitato composto, guarda caso, praticamente tutto da piduisti, 11 membri su 12. “Intendo incontrarlo”, continuò Imposimato. “Penso che lo vedrò insieme ad un giornalista francese, Emmanuel Amara, che lavora anche lui sulla stessa pista”. E così fu. Pieczenick si rivelò un fiume in piena: raccontò per filo e per segno i dettagli della sua missione e il ruolo svolto in seno a quel comitato di crisi. Da perfetto depistatore, da un lato, e contemporaneamente da organizzatore della trappola, per cui alla fine lo statista DC non sarebbe mai uscito vivo da quel rapimento: perché Moro “Doveva Morire”.



E così infatti si intitolò il grande libro scritto a quattro mani da Imposimato e Sandro Provvisionato, nel quale campeggia la figura di Pieczenick. E nel quale viene perfettamente descritto il ruolo svolto dalla CIA nella “non liberazione di Moro”. Il libro è del 2008 e praticamente in contemporanea esce anche quello firmato da Amara, “Abbiamo ucciso Aldo Moro”. Sorgeva, allora (ripetiamo, nel 2008, quindi esattamente 14 anni fa) la domanda: come mai nessun magistrato, nessuna procura ha mai pensato bene di riaprire il caso e di interrogare il teste numero uno, pronto a spiegare i misteri ancora aperti, ossia Pieczenick? E se caso mai è stato interrogato, perché di quei fantomatici verbali non s’è mai saputo niente? E come mai niente, niente di niente, è seguito sotto il profilo giudiziario? Misteri che pesano come giganteschi macigni sulla storia italiana. Ancora. Come mai l’ultima Commissione Parlamentare d’Inchiesta, inaugurata sette anni fa e presieduta dal DC Giuseppe Fioroni, non ha cavato neanche un ragno dal buco? Perché neanche quella Commissione ha ritenuto opportuno interrogare il teste nonché protagonista del caso, sempre Pieczenick? Ultimo interrogativo: come mai adesso TPI esce fuori come la vispa Teresa e scopre l’acqua calda? Leggiamo cosa scrive, a proposito dell’agente-psichiatra, TPI. “Tra i membri del comitato istituito dal Ministero dell’Interno dopo il sequestro per rintracciare e liberare Moro, c’era anche un super esperto: uno psichiatra americano di origini polacco-francesi, inviato a Roma dagli USA (su richiesta del Ministro Francesco Cossiga) che ha dichiarato di aver lavorato per uccidere il presidente della DC e mai ufficialmente ripartito. La Procura di Roma lo ha interrogato, ma non lo ha mai perseguito”. E così conclude il suo scoop:“E’ da questo più complesso quadro che, grazie a fatti nuovi, testimonianze di magistrati e collaboratori, documenti inediti, oltre al ruolo delle BR, nel sequestro Moro, emerge sempre più insistente anche il coinvolgimento di ‘ndrangheta e CIA”. Meglio tardi che mai. Ma 14 anni, francamente, ci sembrano un pò troppi…

Cristiano Mais
09 maggio 2022
www.lavocedellevoci.it/2022/05/09/aldo-moro-dopo-15-anni-scoprono-lo-zampino-de...
13/01/2024 18:06
 
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Caso Aldo Moro - Lo Stato sapeva della sua morte prima dell'avviso delle BR

Lo Stato venne a sapere della morte di Aldo Moro alcune ore prima della telefonata con cui le Brigate Rosse annunciarono la presenza del cadavere in via Caetani. A rivelarlo è stata la trasmissione Report in un lungo servizio condotto dal giornalista Paolo Mondani: durante la trasmissione, Claudio Signorile, allora numero due del Partito Socialista, ha ricordato quanto avvenne la mattina del 9 maggio 1978, il giorno in cui venne ritrovato il corpo del Presidente della DC, quando si trovava nella stanza di Cossiga. “Si accende il cicalino e dal cicalino la voce. Due messaggi. Il primo: la macchina rossa eccetera... Poi il secondo dopo qualche minuto: la nota personalità, linguaggio burocratico del Ministero degli Interni, per personalità si tratta eccetera... A quel punto mi dice (Cossiga ndr) 'mi devo dimettere'. E io dico: 'Fai bene'. E ci abbracciamo”, ha raccontato Signorile. Il giornalista Paolo Mondani ha poi aggiunto:“Voi ricevete tra le 9 e mezza e le dieci che la comunicazione che la nota personalità è morta, cioé che Moro è stato trovato a via Caetani morto. E invece la telefonata del brigatista Morucci al professor Tritto che dice ‘lo troverete a via Caetani’ è delle 12 e un quarto”. Dunque Cossiga, allora Ministro dell'Interno, avrebbe saputo della morte di Moro ore prima del ritrovamento ufficiale. Le BR avvertirono lo Stato che Moro è morto. Ma lo Stato già lo sapeva da ore. Con inquietante tempismo saltò anche la direzione della DC, che avrebbe dovuto riaprire la trattativa per la liberazione di Moro. Una macabra sceneggiata che ancora pesa su questa tragedia. Si aggiunge così un altro tassello al complesso mosaico che è l'assassinio di Aldo Moro, fautore del compromesso storico, quell'alleanza tanto attesa sia dagli Stati Uniti che dall'Unione Sovietica.

La storia di quel tragico 9 maggio del 1978 non può essere ridotta alla sola versione ufficiale (di comodo?): le BR sequestrano Moro in via Fani e lo uccidono; al contrario, per comprendere quella terribile 'notte della Repubblica', occorre passare attraverso mille ricostruzioni giudiziarie, documenti parlamentari, analisi storiche e giornalistiche. In questa storia troppe cose non tornano, troppe domande restano aperte: quanti sono i brigatisti che partecipano all’azione? Quante sono le armi che sparano? Erano presenti altri uomini, non brigatisti? Per gli irriducibili del 'sappiamo tutto' è solo aria fritta. Ma gli atti delle commissioni parlamentari hanno raccontato tutta un'altra storia.

All'interno di questo mare magnum si può affermare con sicurezza che le Brigate Rosse, in una determinata fase, hanno mutato la propria essenza, trasformandosi in 'altro'. La conferma di questo arriva direttamente dalle parole di uno dei protagonisti dell'epoca, l'ex vicepresidente del CSM Giovanni Galloni, democristiano, intervistato nel 2005 nella trasmissione Next su Rai News 24:"Io non posso dimenticare un discorso che ebbi con Moro poche settimane prima del suo rapimento. Discutevamo con Moro delle difficoltà di trovare i covi delle BR e Moro mi disse: 'La mia preoccupazione è questa: che io ho per certo la notizia che i servizi segreti sia americani sia israeliani hanno degli infiltrati all'interno delle BR; però non siamo stati avvertiti di questo, perché se fossimo stati avvertiti, probabilmente i covi li avremmo trovati'". Inoltre proprio in quel periodo, in Italia, la presenza atlantica è conclamata. Tutti i vertici dei servizi segreti erano nelle mani della P2, dai generali Santovito e Grassini a Federico Umberto D'Amato, potente Capo dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno, organizzatore della strage di Bologna, nonché uomo della CIA in Italia. E poi ancora: risuonano forti le parole di Steve Pieczenik, Consigliere di Stato USA chiamato al fianco di Francesco Cossiga per risolvere la condizione di crisi, quando in un'intervista disse:"Ho messo in atto la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro. Così impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e così evitammo che l'Europa e l'Italia fossero destabilizzate".

Oggi, grazie ai documenti pubblicati da Julian Assange su Wikileaks, sappiamo che Steve Pieczenik è sostanzialmente atterrato a Roma il 3 aprile del 1978, ha partecipato alle riunioni del Comitato per la Gestione della Crisi del Rapimento Moro ed è ripartito due giorni dopo l'uccisione dello statista. Ecco, anche Cossiga ha ammesso nel 1980 davanti alla Commissione che gli Stati Uniti avevano garantito una qualificata collaborazione, ma ha tenuto nascosto il nome dell'americano, che è rimasto segreto per 19 lunghi anni. Ma quella di Pieczenik non è l'unica presenza americana in quei giorni a Roma: c'è il mistero di un volo del 15 marzo del 1978, il giorno prima del rapimento in via Fani, che partì da Tripoli e atterrò a Roma. A bordo vi erano tre agenti segreti, due libici, mentre il terzo era Wilson, un ex agente CIA, noto per aver realizzato a metà degli anni '70 fino a metà degli anni '80 le operazioni coperte della CIA. Wilson rimase un solo giorno a Roma e ripartì il 16 marzo dopo il rapimento. Gli attori sono stati molti e in via Fani è stata la tragedia.

Il covo non perquisito
Secondo il Memoriale Morucci (che secondo la Commissione Moro è una totale messa in scena), l'allora Presidente della DC è stato tenuto prigioniero nel covo di via Montalcini, 8 per tutti i 5 giorni. Ma una delle fonti di Report, un ufficiale di polizia giudiziaria, ha raccontato qualcosa di nuovo:"I brigatisti in fuga da via Fani raccontano di aver abbandonato tutte le loro tre auto in via Licino Calvo. La Fiat 132 e le 128, una blu e l'altra bianca. Ma non è così, le 128 vengono trovate dalla polizia nei giorni successivi al rapimento". Perché allora questa bugia su Licinio Calvo? "Secondo me perché occorreva nascondere il covo”, ha risposto il Procuratore Capo di Lagonegro Gianfranco Donadio. “E questo vero covo la Commissione comincia a cercarlo in uno scenario ben delimitato, via Massimi, che è una via estremamente prossima a via Licinio Calvo, raggiungibile in pochi secondi in automobile, una via dalla quale ci si poteva allontanare per abbandonare una alla volta le macchine, diminuendo il rischio di essere intercettati dalle forze di polizia". Le due palazzine di via Massimi, 91 (dove si ritiene vi sia stata la prima prigione di Moro) sono dello IOR, l'Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano. Le realizzò negli anni Sessanta, il costruttore Luigi Mennini, padre di quel don Antonio Mennini che fece il postino delle lettere affidategli dello stesso Moro in prigionia.

“A via Massimi, 91”, riprende la fonte riservata di Report, "ci si arriva per gradi. Prima di tutto, poco dopo il rapimento, c'è una fonte che parla con la Guardia di Finanza. Fonte gestita in modo assolutamente anomalo, perché è stata sempre tenuta riservata. Il confidente parla con il capo del C5, l'Intelligence della Guardia di Finanza, una struttura che al tempo era denominata il Centro Occulto, e la prima cosa che dice è: 'cercatelo in un raggio di due chilometri da via Fani, in zona Balduina, Boccea, Trionfale, Cassia. E indica che il condominio dove Moro è detenuto ha un ascensore che parte direttamente dai garage. Traccia precisa che portò a fare subito il censimento di tutti gli edifici con questa caratteristica. Peccato che furono tutti perquisiti tranne via Massimi, 91". La fonte che aveva parlato con l'Intelligence della Guardia di Finanza aveva riferito "che la 128 blu era stata parcheggiata in un garage accanto al covo dove stava Moro e che il rapito sarebbe stato presto trasferito in un altro luogo. Alla fine la fonte si lamenta persino delle perquisizioni che non erano state fatte a tappeto nella zona che aveva indicato". Infine "riempie tre verbali di una pagina ognuno e non viene più sentita. Sparisce letteralmente dai radar e senza una ragione".

Nei documenti della commissione Moro 2 c'è traccia di un altro covo dove sarebbe stato detenuto Moro nei 55 giorni:"Si tratta di via Sant'Elena, 8, al ghetto ebraico, dove abitava Laura Dinola, una donna molto vicina alle Brigate Rosse e contemporaneamente al Mossad. La segnalazione venne dal SISMI e una fonte della Commissione Moro 2 confermò la cosa, e cioé che a via Sant'Elena, 8, nella casa della Dinola, era stato nascosto Moro". Agli atti della Commissione Moro troviamo traccia di un ulteriore rifugio segreto: via della Chiesa Nuova, 8. In quella località vi "erano stabili nella disponibilità della Guardia di Finanza, poi passati ad Apimondia, la società internazionale degli apicoltori, governata in quegli anni da due soggetti di estrema destra". "Questa indicazione è frutto della confidenza che il Capo della Polizia Parisi fece a Peppino De Luzis, consulente della Commissione Parlamentare Stragi", ha concluso la fonte di Report. "Sicuramente c'è stato un covo in prossimità di via Caetani”, ha dichiarato successivamente Ilaria Moroni, Direttrice dell'Archivio Flamigni, promotrice e curatrice della Rete degli Archivi Per Non Dimenticare, “perché come poi abbiamo visto appunto dalle perizie sul cadavere e anche dalla ricostruzione relativa all'omicidio, Aldo Moro non può essere stato ucciso nel garage di via Montalcini e poi portato in via Caetani, perché ce lo negano le perizie". Infatti nel covo di via Montalcini, 8 lo spazio era assolutamente angusto, mentre il corpo di Moro verrà trovato in ottimo stato e persino abbronzato. Aveva camminato e all'aperto e non sarebbe stato ucciso nel garage di via Montalcini, come dicono i brigatisti, perché il portellone dell'R4 non si sarebbe potuto aprire per motivi di spazio. Secondo le indagini svolte dalla commissione parlamentare d'inchiesta, Moro restò per poco tempo in via Massimi, 91 e poi potrebbe essere stato trasferito a Villa Odescalchi, a Palo Laziale, poco lontano da Roma. Villa che nel 1980 verrà venduta e trasformata in un hotel. Il 21 marzo del '78 il Ministro Cossiga allertò gli incursori della marina militare, ma poco prima dell'assalto alla villa li smobilitò senza fornire spiegazioni plausibili. E da qui il prigioniero sarebbe stato trasferito altrove.

La Rosa dei Venti
Un altro mistero legato a quella Roma del 1978 è collegato all'ex ufficiale del ROS dei Carabinieri Mario Mori (all'epoca Capitano), noto per essere stato sotto processo e infine assolto nell'ambito del processo Trattativa Stato - Mafia, per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina e la mancata cattura di Bernardo Provenzano. È il 1972 quando Mori entra nei servizi, grazie all’intercessione del Colonnello Federico Marzollo, molto vicino a Vito Miceli, direttore del SID fino al 1974, iscritto alla P2, poi coinvolto nell’inchiesta sul Golpe Borghese e sulla Rosa dei Venti, un'organizzazione paramilitare parallela a Gladio della quale facevano parte uomini dei servizi e neo-fascisti. Mori venne successivamente allontanato nel 1975 dallo stesso servizio segreto, con il divieto di assumere incarichi a Roma. In base alla documentazione vagliata dalla Corte d’Assise di Palermo, l’allontanamento dal SID e dalla capitale sarebbe legato all’inchiesta sul Golpe Borghese. L’informazione è contenuta in alcuni documenti, classificati come top secret, che compongono il fascicolo personale dello stesso Mori, custodito oggi negli archivi dell’AISE, l’Agenzia Informazioni per la Sicurezza Esterna. Documenti che vennero depositati agli atti dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia dai pubblici ministeri Antonino Di Matteo (oggi sostituto procuratore nazionale antimafia) e Roberto Tartaglia dopo che li trovarono negli schedari dei servizi. Di Matteo è stato sentito da Report nel 2021 e le sue dichiarazioni sono state inserite all’interno della puntata di ieri. Il magistrato ha detto che Mori fu coinvolto "nelle investigazioni della Procura di Padova nell'indagine cosiddetta 'Rosa dei Venti' a proposito di un'ipotesi di suoi contatti con esponenti di spicco di Ordine Nuovo in Veneto" e che "quel suo allontanamento da Roma era collegato proprio al fatto che dalle indagini padovane, poi confluite nelle indagini sul 'Golpe Borghese', Mori era stato in qualche modo coinvolto". Eppure, aveva raccontato il magistrato, "tornò al reparto operativo di Roma, proprio alla sezione anticrimine il 17 marzo, quindi il giorno successivo al rapimento dell'Onorevole Aldo Moro". Accadde infatti che l’Arma decise di inviarlo a Roma nonostante il divieto del SID, nominandolo a capo della sezione antiterrorismo del reparto operativo.

Quanti brigatisti in via Fani?
In via Fani morirono tutti i componenti della scorta di Moro: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. In base alla versione del memoriale di Valerio Morucci e Adriana Faranda, i brigatisti entrati in azione erano quattro: Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, lo stesso Morucci e Prospero Gallinari. Solo i quattro avrebbero sparato, sempre secondo Morucci, ed erano collocati davanti al bar Olivetti, quindi da sinistra rispetto al corteo delle auto. Tuttavia secondo il giudice milanese Guido Salvini (responsabile dell'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969), che ha prodotto per la commissione di inchiesta una ricostruzione aggiornata con metodi di indagini moderni sulla dinamica dei fatti di Via Fani, le cose non sono andate come Morucci le ha descritte:"I fatti fondamentali sono che in via Fani c'erano più persone e più persone hanno sparato rispetto a quelle che oggi vengono riconosciute", ha detto. Una testimone, Cristina, aveva raccontato che "distante dagli altri c'era qualcuno appoggiato dietro una macchina in sosta, un'utilitaria, di cui aveva visto bene la canna dell'arma del mitra sparare al di là degli altri ed è probabilmente quello che ha ucciso Iozzino". Questo soggetto non identificato "si dilegua per per conto suo". Non solo:"La testimone ha raccontato anche che gli avieri indicati come quattro da Morucci sono in realtà quantomeno sei e questa testimonianza è in pieno accordo con quella di altri testimoni". Evidenti altre irregolarità sulla scena del rapimento in via Fani: a cominciare dal fatto che le armi dei brigatisti non sono mai state completamente tracciate. Le perizie balistiche sui proiettili non sono mai state aggiornate, e non è mai stata indagata a fondo la presenza di altri tiratori. Inoltre, non è stata approfondita neppure la dichiarazione del boss Filippo Barreca, il quale ha riferito di aver sentito da un altro boss, Rocco Musolino (appartenente ai vertici della 'Ndrangheta, storicamente in contatto con servizi segreti e massoneria deviata), che quel giorno era stato salvato un componente della scorta di Moro di nome Rocco Gentiluomo, originario di Santo Stefano. Al suo posto era stato inviato l'agente Zizzi, poi assassinato.

Paolo Mondani intervista Filippo Barreca
Altre anomalie, emerse durante le audizioni delle commissioni parlamentari, inclusero il fatto che le auto blu di Moro e della sua scorta non vennero blindate, nonostante Moro lo avesse richiesto più volte. Inoltre dalle indagini del giudice Ferdinando Imposimato emerse che venne dato l'ordine di conservare le mitragliatrici nel bagagliaio degli uomini della scorta. Inoltre, si scoprì la presenza di un uomo di Gladio, il Colonnello Guglielmi, nelle ore della mattina, che si giustificò dicendo di essere lì per un appuntamento previsto per l'ora di pranzo, anche se erano solo le nove del mattino. Le anomalie e le ombre presenti nel Caso Moro sono ancora molte. Ma tutte hanno un minimo comun denominatore, una verità che parte da molto lontano e che affonda le sue radici negli accordi di Yalta, in Crimea, del febbraio del 1945, quando Russia, Stati Uniti e Inghilterra si divisero il mondo.

Luca Grossi
08 gennaio 2024
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