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Commissione Moro, approvata dopo 40 anni la relazione che riscrive la verità sull'omicidio dello statista della DC

Ultimo Aggiornamento: 13/01/2024 18:06
13/01/2024 18:06
 
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Caso Aldo Moro - Lo Stato sapeva della sua morte prima dell'avviso delle BR

Lo Stato venne a sapere della morte di Aldo Moro alcune ore prima della telefonata con cui le Brigate Rosse annunciarono la presenza del cadavere in via Caetani. A rivelarlo è stata la trasmissione Report in un lungo servizio condotto dal giornalista Paolo Mondani: durante la trasmissione, Claudio Signorile, allora numero due del Partito Socialista, ha ricordato quanto avvenne la mattina del 9 maggio 1978, il giorno in cui venne ritrovato il corpo del Presidente della DC, quando si trovava nella stanza di Cossiga. “Si accende il cicalino e dal cicalino la voce. Due messaggi. Il primo: la macchina rossa eccetera... Poi il secondo dopo qualche minuto: la nota personalità, linguaggio burocratico del Ministero degli Interni, per personalità si tratta eccetera... A quel punto mi dice (Cossiga ndr) 'mi devo dimettere'. E io dico: 'Fai bene'. E ci abbracciamo”, ha raccontato Signorile. Il giornalista Paolo Mondani ha poi aggiunto:“Voi ricevete tra le 9 e mezza e le dieci che la comunicazione che la nota personalità è morta, cioé che Moro è stato trovato a via Caetani morto. E invece la telefonata del brigatista Morucci al professor Tritto che dice ‘lo troverete a via Caetani’ è delle 12 e un quarto”. Dunque Cossiga, allora Ministro dell'Interno, avrebbe saputo della morte di Moro ore prima del ritrovamento ufficiale. Le BR avvertirono lo Stato che Moro è morto. Ma lo Stato già lo sapeva da ore. Con inquietante tempismo saltò anche la direzione della DC, che avrebbe dovuto riaprire la trattativa per la liberazione di Moro. Una macabra sceneggiata che ancora pesa su questa tragedia. Si aggiunge così un altro tassello al complesso mosaico che è l'assassinio di Aldo Moro, fautore del compromesso storico, quell'alleanza tanto attesa sia dagli Stati Uniti che dall'Unione Sovietica.

La storia di quel tragico 9 maggio del 1978 non può essere ridotta alla sola versione ufficiale (di comodo?): le BR sequestrano Moro in via Fani e lo uccidono; al contrario, per comprendere quella terribile 'notte della Repubblica', occorre passare attraverso mille ricostruzioni giudiziarie, documenti parlamentari, analisi storiche e giornalistiche. In questa storia troppe cose non tornano, troppe domande restano aperte: quanti sono i brigatisti che partecipano all’azione? Quante sono le armi che sparano? Erano presenti altri uomini, non brigatisti? Per gli irriducibili del 'sappiamo tutto' è solo aria fritta. Ma gli atti delle commissioni parlamentari hanno raccontato tutta un'altra storia.

All'interno di questo mare magnum si può affermare con sicurezza che le Brigate Rosse, in una determinata fase, hanno mutato la propria essenza, trasformandosi in 'altro'. La conferma di questo arriva direttamente dalle parole di uno dei protagonisti dell'epoca, l'ex vicepresidente del CSM Giovanni Galloni, democristiano, intervistato nel 2005 nella trasmissione Next su Rai News 24:"Io non posso dimenticare un discorso che ebbi con Moro poche settimane prima del suo rapimento. Discutevamo con Moro delle difficoltà di trovare i covi delle BR e Moro mi disse: 'La mia preoccupazione è questa: che io ho per certo la notizia che i servizi segreti sia americani sia israeliani hanno degli infiltrati all'interno delle BR; però non siamo stati avvertiti di questo, perché se fossimo stati avvertiti, probabilmente i covi li avremmo trovati'". Inoltre proprio in quel periodo, in Italia, la presenza atlantica è conclamata. Tutti i vertici dei servizi segreti erano nelle mani della P2, dai generali Santovito e Grassini a Federico Umberto D'Amato, potente Capo dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno, organizzatore della strage di Bologna, nonché uomo della CIA in Italia. E poi ancora: risuonano forti le parole di Steve Pieczenik, Consigliere di Stato USA chiamato al fianco di Francesco Cossiga per risolvere la condizione di crisi, quando in un'intervista disse:"Ho messo in atto la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro. Così impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e così evitammo che l'Europa e l'Italia fossero destabilizzate".

Oggi, grazie ai documenti pubblicati da Julian Assange su Wikileaks, sappiamo che Steve Pieczenik è sostanzialmente atterrato a Roma il 3 aprile del 1978, ha partecipato alle riunioni del Comitato per la Gestione della Crisi del Rapimento Moro ed è ripartito due giorni dopo l'uccisione dello statista. Ecco, anche Cossiga ha ammesso nel 1980 davanti alla Commissione che gli Stati Uniti avevano garantito una qualificata collaborazione, ma ha tenuto nascosto il nome dell'americano, che è rimasto segreto per 19 lunghi anni. Ma quella di Pieczenik non è l'unica presenza americana in quei giorni a Roma: c'è il mistero di un volo del 15 marzo del 1978, il giorno prima del rapimento in via Fani, che partì da Tripoli e atterrò a Roma. A bordo vi erano tre agenti segreti, due libici, mentre il terzo era Wilson, un ex agente CIA, noto per aver realizzato a metà degli anni '70 fino a metà degli anni '80 le operazioni coperte della CIA. Wilson rimase un solo giorno a Roma e ripartì il 16 marzo dopo il rapimento. Gli attori sono stati molti e in via Fani è stata la tragedia.

Il covo non perquisito
Secondo il Memoriale Morucci (che secondo la Commissione Moro è una totale messa in scena), l'allora Presidente della DC è stato tenuto prigioniero nel covo di via Montalcini, 8 per tutti i 5 giorni. Ma una delle fonti di Report, un ufficiale di polizia giudiziaria, ha raccontato qualcosa di nuovo:"I brigatisti in fuga da via Fani raccontano di aver abbandonato tutte le loro tre auto in via Licino Calvo. La Fiat 132 e le 128, una blu e l'altra bianca. Ma non è così, le 128 vengono trovate dalla polizia nei giorni successivi al rapimento". Perché allora questa bugia su Licinio Calvo? "Secondo me perché occorreva nascondere il covo”, ha risposto il Procuratore Capo di Lagonegro Gianfranco Donadio. “E questo vero covo la Commissione comincia a cercarlo in uno scenario ben delimitato, via Massimi, che è una via estremamente prossima a via Licinio Calvo, raggiungibile in pochi secondi in automobile, una via dalla quale ci si poteva allontanare per abbandonare una alla volta le macchine, diminuendo il rischio di essere intercettati dalle forze di polizia". Le due palazzine di via Massimi, 91 (dove si ritiene vi sia stata la prima prigione di Moro) sono dello IOR, l'Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano. Le realizzò negli anni Sessanta, il costruttore Luigi Mennini, padre di quel don Antonio Mennini che fece il postino delle lettere affidategli dello stesso Moro in prigionia.

“A via Massimi, 91”, riprende la fonte riservata di Report, "ci si arriva per gradi. Prima di tutto, poco dopo il rapimento, c'è una fonte che parla con la Guardia di Finanza. Fonte gestita in modo assolutamente anomalo, perché è stata sempre tenuta riservata. Il confidente parla con il capo del C5, l'Intelligence della Guardia di Finanza, una struttura che al tempo era denominata il Centro Occulto, e la prima cosa che dice è: 'cercatelo in un raggio di due chilometri da via Fani, in zona Balduina, Boccea, Trionfale, Cassia. E indica che il condominio dove Moro è detenuto ha un ascensore che parte direttamente dai garage. Traccia precisa che portò a fare subito il censimento di tutti gli edifici con questa caratteristica. Peccato che furono tutti perquisiti tranne via Massimi, 91". La fonte che aveva parlato con l'Intelligence della Guardia di Finanza aveva riferito "che la 128 blu era stata parcheggiata in un garage accanto al covo dove stava Moro e che il rapito sarebbe stato presto trasferito in un altro luogo. Alla fine la fonte si lamenta persino delle perquisizioni che non erano state fatte a tappeto nella zona che aveva indicato". Infine "riempie tre verbali di una pagina ognuno e non viene più sentita. Sparisce letteralmente dai radar e senza una ragione".

Nei documenti della commissione Moro 2 c'è traccia di un altro covo dove sarebbe stato detenuto Moro nei 55 giorni:"Si tratta di via Sant'Elena, 8, al ghetto ebraico, dove abitava Laura Dinola, una donna molto vicina alle Brigate Rosse e contemporaneamente al Mossad. La segnalazione venne dal SISMI e una fonte della Commissione Moro 2 confermò la cosa, e cioé che a via Sant'Elena, 8, nella casa della Dinola, era stato nascosto Moro". Agli atti della Commissione Moro troviamo traccia di un ulteriore rifugio segreto: via della Chiesa Nuova, 8. In quella località vi "erano stabili nella disponibilità della Guardia di Finanza, poi passati ad Apimondia, la società internazionale degli apicoltori, governata in quegli anni da due soggetti di estrema destra". "Questa indicazione è frutto della confidenza che il Capo della Polizia Parisi fece a Peppino De Luzis, consulente della Commissione Parlamentare Stragi", ha concluso la fonte di Report. "Sicuramente c'è stato un covo in prossimità di via Caetani”, ha dichiarato successivamente Ilaria Moroni, Direttrice dell'Archivio Flamigni, promotrice e curatrice della Rete degli Archivi Per Non Dimenticare, “perché come poi abbiamo visto appunto dalle perizie sul cadavere e anche dalla ricostruzione relativa all'omicidio, Aldo Moro non può essere stato ucciso nel garage di via Montalcini e poi portato in via Caetani, perché ce lo negano le perizie". Infatti nel covo di via Montalcini, 8 lo spazio era assolutamente angusto, mentre il corpo di Moro verrà trovato in ottimo stato e persino abbronzato. Aveva camminato e all'aperto e non sarebbe stato ucciso nel garage di via Montalcini, come dicono i brigatisti, perché il portellone dell'R4 non si sarebbe potuto aprire per motivi di spazio. Secondo le indagini svolte dalla commissione parlamentare d'inchiesta, Moro restò per poco tempo in via Massimi, 91 e poi potrebbe essere stato trasferito a Villa Odescalchi, a Palo Laziale, poco lontano da Roma. Villa che nel 1980 verrà venduta e trasformata in un hotel. Il 21 marzo del '78 il Ministro Cossiga allertò gli incursori della marina militare, ma poco prima dell'assalto alla villa li smobilitò senza fornire spiegazioni plausibili. E da qui il prigioniero sarebbe stato trasferito altrove.

La Rosa dei Venti
Un altro mistero legato a quella Roma del 1978 è collegato all'ex ufficiale del ROS dei Carabinieri Mario Mori (all'epoca Capitano), noto per essere stato sotto processo e infine assolto nell'ambito del processo Trattativa Stato - Mafia, per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina e la mancata cattura di Bernardo Provenzano. È il 1972 quando Mori entra nei servizi, grazie all’intercessione del Colonnello Federico Marzollo, molto vicino a Vito Miceli, direttore del SID fino al 1974, iscritto alla P2, poi coinvolto nell’inchiesta sul Golpe Borghese e sulla Rosa dei Venti, un'organizzazione paramilitare parallela a Gladio della quale facevano parte uomini dei servizi e neo-fascisti. Mori venne successivamente allontanato nel 1975 dallo stesso servizio segreto, con il divieto di assumere incarichi a Roma. In base alla documentazione vagliata dalla Corte d’Assise di Palermo, l’allontanamento dal SID e dalla capitale sarebbe legato all’inchiesta sul Golpe Borghese. L’informazione è contenuta in alcuni documenti, classificati come top secret, che compongono il fascicolo personale dello stesso Mori, custodito oggi negli archivi dell’AISE, l’Agenzia Informazioni per la Sicurezza Esterna. Documenti che vennero depositati agli atti dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia dai pubblici ministeri Antonino Di Matteo (oggi sostituto procuratore nazionale antimafia) e Roberto Tartaglia dopo che li trovarono negli schedari dei servizi. Di Matteo è stato sentito da Report nel 2021 e le sue dichiarazioni sono state inserite all’interno della puntata di ieri. Il magistrato ha detto che Mori fu coinvolto "nelle investigazioni della Procura di Padova nell'indagine cosiddetta 'Rosa dei Venti' a proposito di un'ipotesi di suoi contatti con esponenti di spicco di Ordine Nuovo in Veneto" e che "quel suo allontanamento da Roma era collegato proprio al fatto che dalle indagini padovane, poi confluite nelle indagini sul 'Golpe Borghese', Mori era stato in qualche modo coinvolto". Eppure, aveva raccontato il magistrato, "tornò al reparto operativo di Roma, proprio alla sezione anticrimine il 17 marzo, quindi il giorno successivo al rapimento dell'Onorevole Aldo Moro". Accadde infatti che l’Arma decise di inviarlo a Roma nonostante il divieto del SID, nominandolo a capo della sezione antiterrorismo del reparto operativo.

Quanti brigatisti in via Fani?
In via Fani morirono tutti i componenti della scorta di Moro: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. In base alla versione del memoriale di Valerio Morucci e Adriana Faranda, i brigatisti entrati in azione erano quattro: Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, lo stesso Morucci e Prospero Gallinari. Solo i quattro avrebbero sparato, sempre secondo Morucci, ed erano collocati davanti al bar Olivetti, quindi da sinistra rispetto al corteo delle auto. Tuttavia secondo il giudice milanese Guido Salvini (responsabile dell'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969), che ha prodotto per la commissione di inchiesta una ricostruzione aggiornata con metodi di indagini moderni sulla dinamica dei fatti di Via Fani, le cose non sono andate come Morucci le ha descritte:"I fatti fondamentali sono che in via Fani c'erano più persone e più persone hanno sparato rispetto a quelle che oggi vengono riconosciute", ha detto. Una testimone, Cristina, aveva raccontato che "distante dagli altri c'era qualcuno appoggiato dietro una macchina in sosta, un'utilitaria, di cui aveva visto bene la canna dell'arma del mitra sparare al di là degli altri ed è probabilmente quello che ha ucciso Iozzino". Questo soggetto non identificato "si dilegua per per conto suo". Non solo:"La testimone ha raccontato anche che gli avieri indicati come quattro da Morucci sono in realtà quantomeno sei e questa testimonianza è in pieno accordo con quella di altri testimoni". Evidenti altre irregolarità sulla scena del rapimento in via Fani: a cominciare dal fatto che le armi dei brigatisti non sono mai state completamente tracciate. Le perizie balistiche sui proiettili non sono mai state aggiornate, e non è mai stata indagata a fondo la presenza di altri tiratori. Inoltre, non è stata approfondita neppure la dichiarazione del boss Filippo Barreca, il quale ha riferito di aver sentito da un altro boss, Rocco Musolino (appartenente ai vertici della 'Ndrangheta, storicamente in contatto con servizi segreti e massoneria deviata), che quel giorno era stato salvato un componente della scorta di Moro di nome Rocco Gentiluomo, originario di Santo Stefano. Al suo posto era stato inviato l'agente Zizzi, poi assassinato.

Paolo Mondani intervista Filippo Barreca
Altre anomalie, emerse durante le audizioni delle commissioni parlamentari, inclusero il fatto che le auto blu di Moro e della sua scorta non vennero blindate, nonostante Moro lo avesse richiesto più volte. Inoltre dalle indagini del giudice Ferdinando Imposimato emerse che venne dato l'ordine di conservare le mitragliatrici nel bagagliaio degli uomini della scorta. Inoltre, si scoprì la presenza di un uomo di Gladio, il Colonnello Guglielmi, nelle ore della mattina, che si giustificò dicendo di essere lì per un appuntamento previsto per l'ora di pranzo, anche se erano solo le nove del mattino. Le anomalie e le ombre presenti nel Caso Moro sono ancora molte. Ma tutte hanno un minimo comun denominatore, una verità che parte da molto lontano e che affonda le sue radici negli accordi di Yalta, in Crimea, del febbraio del 1945, quando Russia, Stati Uniti e Inghilterra si divisero il mondo.

Luca Grossi
08 gennaio 2024
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