Ad ogniuno la "sua" ribellione

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Heleneadmin
00domenica 13 febbraio 2011 14:25
www.papanews.it/dettaglio_approfondimenti.asp?IdNews=15993

CITTA’ DEL VATICANO - Sulla querelle destata dall’annuncio del prossimo Incontro Interreligioso di Assisi, ricomincia, come da copione, la serie di articolesse di questo o quel personaggio di spicco del progressismo italiano. Strano che Manlio Sodi ed Enzo Bianchi non abbiano ancora pontificato. Strano che Avvenire taccia, senza sventolare il suo nihil est innovandum, che oggi più che mai avremmo condiviso. Curioso il silenzio del valetudinario Cardinal Martini, che dell’ecumenismo fu espertissimo propugnatore e divulgatore.

All’appello indirizzato da alcuni intellettuali cattolici al Santo Padre e pubblicato sul Foglio dello scorso 11 Gennaio, risponde con livore Alberto Melloni, sul Corriere del giorno dopo: Gli zelanti e irrispettosi cattolici che cercano di influenzare il papa.

Melloni tradisce il proprio disappunto perché nell’omologato panorama del Cattolicesimo italiano vi è chi ha osato dissentire, levando rispettosamente la voce ed esprimendo le proprie perplessità ed i propri timori per le conseguenze che potrebbero concretamente derivare da un fraintendimento della presenza del Santo Padre alla riunione di Assisi.

E dire che di solito il dissenso della base, in nome della libertà dei figli di Dio propagandata dai talebani del Vaticano II, dovrebbe esser ben accolto da chi, per formazione e per convinzione, non fa mistero del proprio progressismo democratico. Ma come? Non siete forse voi che dal Concilio in poi andate sbandierando come fatto positivo e necessario ogni rivolta, ogni dissenso, ogni critica, ogni insubordinazione all’autorità della Sacra Gerarchia, in nome della partecipazione dei fedeli al governo della Chiesa? Non siete voi che raccontate che il vostro Concilio era voluto dal popolo, che il popolo non capiva il latino e chiedeva con insistenza al Papa di dargli una liturgia finalmente comprensibile, nella lingua dei carrettieri e dei braccianti? Non siete voi, soloni di una chiesa moderna e democratica, che criticate apertamente il Pontefice, rammaricandovi con padre Ernesto Balducci(1) e Severino Dianich(2) per la mancata nascita di una chiesa popolare, che tragga la sua autorità dal basso? Non siete voi che concedete le vostre chiese e le aule dei Seminari per le conferenze dei teologi che Roma ha allontanato dagli Atenei Pontifici o di cui ha condannato le teorie? Che date spazio ai preti contestatori, ai preti operai, ai preti black block? Non siete voi che disobbedite apertamente al Papa in campo politico, proclamandovi presuntuosamente cattolici adulti, quasi fosse segno di maturità e motivo di vanto dichiararsi apertamente indocili al Magistero? E ancora: non siete voi che avete fermamente avversato il Santo Padre sul Motu Proprio, impartendogli petulanti lezioni di liturgia conciliare ed insinuando che con quel gesto si rendeva reo di leso Concilio? La vostra incoerenza vi sconfessa, e vi rivela per quello che siete.



Eppure non siete nuovi a bacchettare il Papa. Nel 1967, il Circolo Cattolico Maritain di Rimini scrisse a Paolo VI un appello che riportiamo nella sua interezza, richiamando l’attenzione anche sui modi in cui questi laici si rivolgono al Sommo Pontefice:



Il cardinale Spellman ha detto che «gli Stati Uniti stanno combattendo nel Nord Vietnam una guerra santa», e, rivolto alle armate statunitensi ha detto: «Voi non solo state servendo il vostro paese, ma state servendo la causa della giustizia, la causa della civiltà e la causa di Dio. Noi siamo tutti uniti nella preghiera e nel patriottismo in questo sforzo». Noi, cattolici di Rimini, siamo scandalizzati e sgomenti. È questa la Pacem in terris? È questa la nuova “età conciliare”? Siamo tornati alle crociate di infausta memoria e al patriottismo di cattiva lega con la benedizione delle armi e dei gagliardetti? Padre, Lei che così ansiosamente e paternamente non perde occasione per ammonire da “errori” e “deviazioni” e “pericoli” che si possono ravvisare negli scritti o nell’impegno di qualche sconosciuto membro di questo o quell’ordine religioso, e nell’attività di qualche “cenacolo” laico [chiaro il riferimento a Don Mazzi e Don Milani] non vorrà rimanere inerte di fronte a certe grossolane deviazioni, a certe scandalose negazioni della Pace, solo perché fanno capo ad un cardinale di S. R. Chiesa? (3)



La disobbedienza al Magistero e al Papa non è finita dopo il Sessantotto, ma in nome dello spirito del Concilio è proseguita inarrestabile, legittimando la ribellione. Come fecero le Comunità di Base, giunte a proclamare il proprio sostegno al teologo eretico Hans Kung, sospeso dall’insegnamento, e ad invocare



un cambiamento di una chiesa autoritaria e centralistica [...], consentendo così una reale autonomia delle chiese locali al cui interno si affermino libertà evangelica, democrazia, coscienza critica, uguaglianza, carismi, diritti umani. (4)



Come dimenticare la Dichiarazione di Colonia del 1989, cui seguirono “dichiarazioni” di intellettuali e teologi francesi(5) e di sessantadue teologi spagnoli[6], mentre si diffondevano costantemente nuovi appelli per il dialogo nella chiesa e segnali di dissenso da parte di esponenti di numerosissimi ordini religiosi? Tra i farneticamenti del documento di Colonia, si legge:



In tutto il mondo, in molti casi, viene negata a teologi e teologhe qualificati l’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Si tratta di un grave e pericoloso attentato alla libertà di ricerca e di insegnamento, oltre che alla struttura dialogica della conoscenza teologica, che il Concilio Vaticano II ha ribadito in molti testi. Il conferimento dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento viene indebitamente utilizzato come strumento disciplinare. Stiamo assistendo al tentativo, estremamente discutibile dal punto di vista teologico, di rafforzare ed estendere in modo indebito la competenza magisteriale del papa, oltre a quella giurisdizionale. […] L’apertura della chiesa cattolica alla collegialità tra papa e vescovi, che pure è stata una delle acquisizioni fondamentali del Concilio Vaticano II, viene soffocata da un nuovo centralismo romano. L’esercizio dell’autorità, quale trova espressione nelle recenti nomine episcopali, è in contrasto con la fraternità del Vangelo, con le esperienze positive dello sviluppo dei diritti di libertà e con la collegialità dei vescovi. La prassi attuale ostacola il processo ecumenico in punti essenziali. […] Non tutti gli insegnamenti della chiesa sono ugualmente certi e hanno un uguale peso dal punto di vista teologico. Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi della certezza teologica ovvero della “gerarchia delle verità” nella prassi del conferimento e della negazione dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento. Singole questioni etiche e dogmatiche di dettaglio non possono perciò venire contrabbandate arbitrariamente come atte a stabilire l’identità della fede.



I ribelli tedeschi attaccavano Giovanni Paolo II anche sulla morale sessuale, appellandosi - guarda caso - proprio alla Dignitatis humanæ:



[…] Recentemente, rivolgendosi a teologi e a vescovi, il papa ha collegato la dottrina della regolazione delle nascite - senza tener conto del grado di certezza e del diverso peso degli asserti ecclesiastici - con verità di fede fondamentali quali la santità di Dio e la redenzione a opera di Gesù Cristo, così che coloro i quali criticano l’insegnamento papale sulla regolazione delle nascite vengono accusati di “minare i pilastri fondamentali della dottrina cristiana”, anzi con il loro richiamarsi alla dignità della coscienza essi cadrebbero nell’errore di rendere “vana la croce di Cristo”, di “distruggere il mistero di Dio” e di negare la “dignità dell’uomo”. I concetti di “verità fondamentale” e di “rivelazione divina” vengono usati dal papa per sostenere una dottrina del tutto particolare, che non può essere giustificata in base alla Sacra Scrittura, nè in base alle tradizioni della chiesa (cfr. i discorsi del 15 ottobre e del 12 novembre 1988). […] Il Concilio Vaticano II afferma: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Decreto sull’ecumenismo, n. 11).



E poi la stilettata:



L’obbedienza nei confronti del papa, che in tempi recenti viene sempre più spesso dichiarata e pretesa da vescovi e cardinali, ha l’aspetto di un’obbedienza cieca. L’obbedienza ecclesiale a servizio del Vangelo richiede la disponibilità a un’opposizione costruttiva ( cfr. Codex Iuris Canonici, can. 212, § 3). Invitiamo i vescovi a ricordarsi dell’esempio di Paolo, che è rimasto in comunione con Pietro pur “resistendogli in faccia” nella questione della missione tra i pagani (Gal 2,11)



con la minaccia, tutt’altro che laudativa:



Tuttavia i teologi, che stanno al servizio della chiesa, hanno anche il dovere di esercitare pubblicamente la critica se l’autorità ecclesiastica fa un uso sbagliato del suo potere, contraddicendo così le sue finalità, ostacolando il cammino verso l’ecumene, sconfessando le aperture del Concilio.



Si noti che per gli estensori della Dichiarazione, l’«uso sbagliato» del potere da parte della Gerarchia si concretizza solo quando essa ostacola «il cammino verso l’ecumene», o sconfessa «le aperture del Concilio». Ecco di nuovo scoperto l’inganno: l’autorità vale se e solo se è utile alla causa modernista. Diversamente, perde ogni forza. Assistiamo qui ad un capovolgimento del concetto di autorità in cui, ferma restando l’impostazione cattolica tradizionale, se ne sovverte però il fine; l’autorità non è più ordinata alla Fede, ma alla demolizione della “vecchia religione” e all’instaurazione della nuova, profetica religione postconciliare. Si potrebbe dire che l’autorità rimane sempre ordinata alla fede, ma ad una fede diversa. Anche il ruolo del Pontefice Romano e dei Vescovi ha un senso finché difende e custodisce il depositum hæreseos della moderna teologia, e nel momento in cui dovesse insegnare alcunché di estraneo al «cammino verso l’ecumene» o alle «aperture del Concilio», immediatamente decade, proprio come decade in ambito cattolico l’autorità di colui che non custodisce il depositum fidei. Ancora una volta troviamo minata alla radice l’autorità della Chiesa, che è il vincolo della comunione cattolica.

La Congregazione per la Dottrina della Fede promulgherà, a condanna della Dichiarazione e degli altri documenti analoghi, l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emanata il 24 maggio 1990 dal Prefetto-Cardinale Joseph Ratzinger con l’approvazione di Giovanni Paolo II. Le Comunità di Base, per bocca di don Franco Barbero, dissero al Cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli, ma piuttosto di quelli eccessivamente obbedienti. Intervenì ovviamente anche Martini e Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, intimò: «Il magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio»(7). Come vediamo, i nomi sono sempre gli stessi.

Tornando al velenoso articolo di Melloni, vi è uno scritto che a nostro avviso merita di non rimanere confinato nell’oblio del passato: è il famoso Documento “dei sessantatre” teologi italiani del 15 maggio 1989, che reca la firma, tra gli altri esponenti del dissenso, proprio dello stesso Alberto Melloni.(8) Va ricordato che questo documento esprimeva sostegno e appoggio alla Dichiarazione di Colonia, segnalando con preoccupazione «l’impressione che la chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive»(9).

Il Documento dei sessantatre merita di essere rispolverato per alcune proposizioni deliranti - sottroscritte dal Nostro - che però rivelano una certa incoerenza con l’ultimo suo articolo. Premesso che il Concilio Vaticano II costituirebbe una svolta radicale e irreversibile nella comprensione della fede ecclesiale, il documento afferma che il Deposito della Fede custodito dalla Sede Apostolica non avrebbe valore in sè, nè valore assoluto, ma piuttosto lo otterrebbe per la sua connotazione pastorale, la sola che renderebbe possibile l’interpretazione fedele della verità dentro l’esistenza storica della comunità; che la natura gerarchica della Chiesa visibile dovrebbe lasciare il posto a una concezione della chiesa come comunione di chiese; che la funzione magisteriale del primato petrino non escluderebbe la varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità; che la funzione del Magistero Pontificio nella chiesa delle origini non era riducibile alla funzione di guida della comunità e, pertanto, occorrerebbe ripensare tale funzione; che non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione pastorale; che il compito dei teologi non si svolge solo divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione ma, piuttosto, quando raccolgono e propongono le domande nuove [...] o quando percorrono [...] sentieri inesplorati.

Leggere oggi questo sublimato di modernismo dimostra come, più di vent’anni or sono, si stessero gettando le basi per un cambiamento dottrinale non ancora scongiurato, ad iniziare dal ripensamento del Primato Petrino. E non stupisce che i sessantatre teologi, a tutt’oggi ancora insediati negli Atenei e negli Istituti di Scienze Religiose italiani, cerchino di privare il Magistero della sua infallibilità in nome della pastoralità, nel momento stesso in cui vogliono attribuire forza di superdogma al Vaticano II che si era invece dichiarato meramente pastorale.

Questi sedicenti teologi, dopo cinquant’anni di indottrinamento alla rivolta, di appoggio ideologico, mediatico, logistico ed economico ai più esagitati rappresentanti del progressismo barricadero, alzano il ditino ammonitore, e rivestono l’abito austero dell’inquisitore, per stigmatizzare ciò in cui essi per primi si sono dimostrati campioni. E lo fanno a sproposito, perché l’appello di Agnoli, De Mattei, Palmaro ed altri non ha né i toni né i contenuti dei diktat che sono invece usciti dalla penna di questi progressisti.

La ragione di tanto rancore è evidentissima: questo appello rischia di togliere il monopolio del dissenso ai soliti noti, e l’alibi democratico finisce per ritorcersi contro chi lo aveva partorito per servirsene a proprio piacimento, ma sempre e solo a senso unico. E sappiamo bene che è tipico degli artefici della Rivoluzione attribuire al popolo una volontà di cui essi per primi sono abili suggeritori; volontà che pesa come un macigno sui governanti, quando si tratta di trarne vantaggio per la causa, ma che per incanto volge in demagogia o deriva populista non appena si discosta dai propri progetti o addirittura osa invocare un ritorno al passato.

Vi è poi una presunzione monstre, nel ritenersi depositari di una nuova rivelazione che non ammette contraddittorio, e di cui questi teologi si credono esclusivi pontefici. Il loro magistero, che si esplicita né più né meno di quanto non facesse Bonifacio VIII, è per se infallibile e si pone al di fuori di qualsiasi possibilità di discussione. Si può metter in dubbio ogni dogma cattolico, ma nemmeno il Papa può permettersi di discutere sugli intangibili assunti del postconcilio. E difatti, basta che uno sparuto gruppo di intellettuali non allineati, esprima il proprio pensiero, per sollevare le ire dei gran sacerdoti del progressismo, pronti a difendere i propri privilegi, usurpati in cinquant’anni di scientifica occupazione delle gramsciane casematte del potere. Non stupisce se sia stata accolta con tanta sufficienza la proposta papale, all’inizio del Pontificato, di rileggere il Concilio ed il Postconcilio alla luce dell’ermeneutica della continuità, e non dell’ermeneutica della rottura. Una vera eresia: perché la rottura è il postulato rivoluzionario grazie al quale si legittima il passaggio del potere gerarchico a questa gerarchia parallela, la sua autorità indiscussa, la sua infallibilità, la sua potestà magisteriale e disciplinare.

Ma siccome non si può ancora mandare a casa il Papa e tutta la Curia Romana, ci si deve infeudare in quella stessa Curia - direttamente o tramite personaggi influenti e di sicura fede modernista - per destabilizzarla dall’interno, proponendo con insistenza quel ripensamento del Primato Petrino, grazie al quale il Papato possa essere de facto spodestato, col solo scopo di sostituirgli un altro magistero, impaziente di imporsi definitivamente già da decenni. Perché costoro sanno benissimo che la struttura gerarchica della Chiesa è perfetta, e che se si vuole veramente instaurare la nuova religione mondiale, è indispensabile farlo utilizzando una sorta di clone gerarchico. Forse pensava a questo Leone XIII quando profetizzò la persecuzione: «Ubi sedes beatissimi Petri et cathedra veritatis ad lumen gentium constituta est, ibi thronum posuerunt abominationis et impietatis suæ, ut desctructo Pastore, et gregem disperdere valeant». I fautori della nuova chiesa vogliono quella cathedra, ben sapendo quale potere ne derivi a chi vi è assiso.

Entriamo nel merito dell’articolo di Melloni. Egli sentenzia: «L’obbedienza soprannaturale dovuta al Papa può essere offesa sia con la esplicita ribellione al suo ministero d’unità sia con quello zelo untuoso e cortigiano che cerca di impossessarsi di qualche brandello del suo magistero per bastonare coloro che la pensano diversamente». Parlando di esplicita ribellione, accenna forse a quella obbedienza che «richiede la disponibilità a un’opposizione costruttiva» di cui parlavano i teologi di Colonia? Perché poi usare un’espressione come zelo untuoso e cortigiano? Crede Melloni che parlare come figli ad un padre sia indice di cortigianeria? Pensa che dovremmo rivolgerci al Pontefice come gli esagitati delle Comunità di Base? Quanto al bastonare coloro che la pensano diversamente, ci sembra che finora certi medoti di rieducazione siano stati adottati da ben altri soggetti ecclesiali, più esperti nella persuasione dei refrattari: discriminazione metodica dei chierici e dei laici in odore di conservatorismo, il mobbing scientifico dei sacerdoti da parte dei Superiori e dei confratelli, l’ostracismo dai media e dagli Atenei dei docenti e degli intellettuali di solida dottrina e, non ultimi, il discredito e la calunnia.

È evidente che si sta concretizzando il timore che - non fosse che proprio in ragione dei modi rispettosi e pacati in cui è formulato l’appello - in Vaticano si finisca col prestare ascolto alle istanze di una parte del mondo cattolico non allineata con i novatori. La mentalità rivoluzionaria concepisce il mondo - e la Chiesa - per categorie, ma dividere a colpi d’accetta i buoni dai cattivi, il bianco dal nero, è semplicistico. E qualcuno inizia a stancarsi di esser bollato come un fanatico o un retrogrado per il solo fatto di non condividere la crisi in cui versa la Chiesa da cinquant’anni. Non dimentichiamo che è proprio del metodo della Rivoluzione identificare il nemico, demonizzandolo e screditandolo, esasperandolo e mettendolo in una posizione di inferiorità. Se il nemico è serio, affidabile, colto, educato; se non lo si può accusare di nazismo o di estremismo, qualcuno gli potrebbe prestar fede, facendo venir meno il controllo sull’opinione pubblica omologata. Non per nulla, Melloni osserva che «questa tentata intimidazione» potrebbe non essere «priva di qualche sponda interna alle congregazioni di curia». E meno male: sarebbe davvero sconsolante se tutta la Curia Romana si fosse lasciata lobotomizzare a colpi di spirito del Concilio e di spirito di Assisi. E già presagisce che i congiurati vogliano «ottenere un inciso del discorso papale, da usare ad nauseam come una sanzione contro coloro che detestano [...] dentro la Chiesa cattolica». Ad nauseam? Con che coraggio si sovverte la realtà, dopo averci rintronato col mantra conciliare in tutte le prediche, da tutte le cattedre, su tutti i periodici e i giornali? Con che coraggio accusa Agnoli e gli altri incontentabili tradizionalisti dei metodi di cui ha dato prova la falange progressista? Non è proprio grazie agli incisi che certi teologi hanno fatto dire al Concilio, a Paolo VI, a Giovanni Paolo II tutto ed il contrario di tutto?

In verità, noi auspichiamo ben più di un inciso, perché non ci pare che il rischio di sincretismo sia poi così trascurabile. Puntualizza giustamente De Mattei: «L’appello è una domanda aperta. Non è un’accusa nei confronti di nessuno. Assisi, tra l’altro, non è un evento dottrinale ma è un esercizio di governo. Nel 1986 ero ad Assisi. Ricordo le chiese cattoliche divenute sede di riti animisti. L’evento fu talmente catastrofico che poi Ratzinger cercò di riparare. Non a caso la sua posizione ecumenica fu fortemente diversa da quella del cardinale Walter Kasper. È questa diversità che speriamo il Papa metta in campo ad Assisi. Perché la prima Assisi, quella del 1986, con tutto l’impatto mediatico che ebbe, fu un disastro»(10).

Non crediamo che l’appello di persone perbene del mondo cattolico italiano sia una «mossa audace e sbagliata»; di certo è meno audace e meno sbagliata di quel Documento dei sessantatre che Melloni ha sottoscritto assieme ad Alberigo, a Bianchi, a Turoldo. Scripta manent.
Heleneadmin
00lunedì 14 febbraio 2011 09:42
www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article...

I punti su cui i contestatori fanno leva per ignorare o ridimensionare l'autorità del Pontefice sono così sintetizzabili:
1. il Concilio Vaticano II costituirebbe una “svolta”, radicale e irreversibile, nella “comprensione della fede ecclesiale”;
2. il Deposito della Fede custodito dalla Sede Apostolica non avrebbe valore in sè, nè valore assoluto, ma piuttosto lo otterrebbe per la sua “connotazione pastorale”, la sola che renderebbe possibile “l'interpretazione fedele della verità dentro l'esistenza storica della comunità”;
3. la Santa Sede si farebbe “condizionare dalla logica mondana”, da una “mentalità di privilegio”, trascurando lo “stile di Cristo”;
4. la natura gerarchica della Chiesa Visibile dovrebbe lasciare il posto a una “concezione della chiesa come comunione di chiese”;
5. la funzione magisteriale del primato petrino non escluderebbe la “varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità”;
6. la funzione del Magistero Pontificio “nella chiesa delle origini” non era “riducibile alla funzione di guida della comunità” e, pertanto, occorre ripensare tale funzione;
7. non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione “pastorale”;
8. la liceità dei pronunciamenti del Magistero in materia di etica sarebbe “certamente necessario approfondire”;
9. il compito dei teologi non si svolge solo “divulgando l'insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione” ma, piuttosto, “quando raccolgono e propongono le domande nuove [...] o quando percorrono [...] sentieri inesplorati”.
Nonostante l'ambiguità di alcune affermazioni, ritengo superfluo commentare queste tesi per la loro evidente pericolosità.
Heleneadmin
00lunedì 14 febbraio 2011 09:45
www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&...

Giovanni PaoloII

In alcune comunità, infatti, ci sono confusione e abusi - penso ad esempio alla comunione interconfessionale, non raramente praticata - i quali nuocciono molto al desiderio della vera unità. Un ecumenismo che lasciasse più o meno da parte la questione della verità potrebbe portare a successi solo apparenti. La Dichiarazione Dominus Iesus ha riportato alla memoria dei credenti essenziali verità cristologiche e ecclesiologiche, che appartengono in modo irrinunciabile all'identità cattolica. Io confido che Lei saprà promuovere e guidare il dialogo ecumenico in osservanza ai Suoi compiti sulla base del solido fondamento di questa Dichiarazione.

5. Infine desidero toccare ancora una questione, che è di notevole importanza nella guida spirituale locale. Mi riferisco alla così importante collaborazione di preti e laici nel servizio pastorale. In molte parrocchie e comunità ecclesiali questa collaborazione si è conservata e si è dimostrata fruttuosa. Solo insieme possiamo far fronte alle enormi sfide del presente. Purtroppo, però, risulta da informazioni affidabili che, nonostante i numerosi chiarimenti da parte del magistero, continuano a darsi casi nella liturgia, nella predicazione, nella catechesi e nella guida delle comunità, che non concordano con le disposizioni disciplinari e dottrinali della Chiesa. Anche se questi modi di agire sembrano al momento utili e possono contare su una considerevole plausibilità nella coscienza media, in una più ampia prospettiva essi nuocciono proprio alla Chiesa locale, perché sono in contrapposizione con l'intima essenza della Chiesa. Per questo Le raccomando vivamente di aiutare coloro che sono attivi nella pastorale a comprendere meglio le istruzioni relative ad alcune questioni riguardanti la collaborazione dei laici al servizio sacerdotale e ad applicarle nella pratica. Si tratta qui in ultima istanza della questione dell'identità dei preti e dei laici, che è per la Chiesa di importanza vitale. A questa richiesta unisco anche la speranza che vengano intraprese nuove iniziative nella pastorale vocazionale. Il tanto desiderato rinnovamento della Chiesa non è possibile senza il rinnovamento del sacerdozio e della vita consacrata.
Heleneadmin
00lunedì 14 febbraio 2011 09:50
www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=99

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
Bemerkungen zu einigen "Vorschlatgen" der (Salzburger) Delegiertenversammlung
[Osservazioni su alcune "risoluzioni" dell'Assemblea (di Salisburgo)
dei delegati per il "Dialogo per l'Austria"]
6 aprile 1999
da sito Internet www.kathpress.co.at.

Dopo un attento esame, la Congregazione per la dottrina della fede è giunta alla conclusione che alcune risoluzioni dell'Assemblea dei delegati del "Dialogo per l'Austria", tenuta a Salisburgo, sollevano problemi dottrinali (parte A) o non concordano con la disciplina della chiesa universale (parte B).

A. Problemi dottrinali
Diverse proposte dei gruppi 3,4 e 7 non concordano con i dati dottrinali o sono formulate in modo talmente equivoco da poter essere facilmente interpretate come in contraddizione con la dottrina della chiesa.

Gruppo 3, risoluzione 1
Nella prima risoluzione del gruppo 3, dopo aver dichiarato che il matrimonio cristiano sacramentale è "il nostro modello e il nostro ideale", si dice: "Rispettiamo, accanto al matrimonio sacramentale, anche altre forme di comunità di vita diverse, nelle quali si realizzano l'amore, la responsabilità e la fedeltà..., il fatto che i giovani siano alla ricerca di un modo di vivere la sessualità adatto a loro, non ancora determinato dalle esigenze di un'unione a vita e di una procreazione responsabile a essa collegata" [Regno-doc. 21/1998, 678].
Queste considerazioni minano la dottrina della chiesa, secondo cui solo il matrimonio è il luogo della piena donazione sessuale. I rapporti sessuali prematrimoniali ed extra-matrimoniali sono stati sempre considerati dalla chiesa una mancanza grave contro la castità. La sessualità, "mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l'intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegnano totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna, se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente" (Familiaris consortio, n. 11; cf. Persona humana, nn. 7.11-12; Catechismo della chiesa cattolica, nn. 2348-2350, 2353, 2396).

Gruppo 3, risoluzione 2
Nella risoluzione relativa alla questione della regolazione delle nascite si ricorda anzitutto giustamente la procreazione responsabile quale dovere degli sposi. Poi si afferma: "Spetta ai partner, considerate le direttive ecclesiali nel senso di una responsabile decisione di coscienza, scegliere i metodi di regolazione delle nascite più adatti nella loro situazione concreta" [Regno-doc. 21/1998, 679].
Quest'affermazione non concorda pienamente con la dottrina della chiesa sulla regolazione delle nascite. La contraccezione è un atto intrinsecamente cattivo (intrinsece malum) e non può quindi diventare buono mediante una decisione di coscienza. "Al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei coniugi, la contraccezione impone un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all'altro in totalità: ne deriva non soltanto il positivo rifiuto all'apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell'inferiore verità dell'amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale" (Familiaris consortio, n. 32; cf. Gaudium et spes, n. 51; Humanae vitae, n. 14; Catechismo della chiesa cattolica, nn.2370, 2399).
La suddetta formulazione tradisce inoltre un concetto di coscienza che è stato espressamente rigettato dal papa Giovanni Paolo II (cf. Veritatis splendor, nn. 54-64). Riguardo all'opinione secondo cui si dovrebbe distinguere fra l'ordinamento morale oggettivo e la norma della coscienza individuale. che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male, il santo padre scrive: "Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette "pastorali" contrarie agli insegnamenti del magistero e di giustificare un'ermeneutica "creatrice", secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare. Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l'identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla legge di Dio" (Veritatis splendor, n. 56).

Gruppo 3, risoluzione 3
La risoluzione relativa alla pastorale delle persone omosessuali sottolinea giustamente che anche queste persone vanno trattate con rispetto e tatto, non vanno emarginate e vanno incoraggiate a partecipare alla vita della chiesa. Poi si dice: "Esse hanno, come le persone eterosessuali, lo stesso dovere morale di compiere nella loro vita la volontà di Dio, di accettare la loro peculiarità sessuale e di integrarla responsabilmente nel comportamento umano globale" [Regno-doc.21/1998,679].
Queste affermazioni sono ambigue e possono essere facilmente interpretate in un senso che è in contraddizione con la dottrina della chiesa. Per quanto le persone omosessuali vadano rispettate nella loro dignità di persone e per quanto si debba offrire loro assistenza pastorale, non si può tacere il fatto che le pratiche omosessuali offendono gravemente la castità.
"Appoggiandosi sulla sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni (cf. Gn 19,2-29; Rm 1,24-27; 1 Cor 6,10; 1 Tm 1,10), la tradizione ha sempre dichiarato che "gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati" (Persona humana, n. 8). Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati" (Catechismo della chiesa cattolica, n. 2357; cf. Persona humana, n. 8; Homosexualitatis problema, nn. 3-7; Catechismo della chiesa cattolica, n. 2396). Contrariamente a certe opinioni secondo cui l'omosessualità altro non sarebbe che una semplice variante della natura, bisogna ribadire che "la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l'inclinazione stessa deve essere considerata come oggettivamente disordinata" (Homosexualitatis problema, n. 3; cf. Catechismo della chiesa cattolica, n. 2358).

Gruppo 4, risoluzione 1
Nella risoluzione relativa alla pastorale dei divorziati risposati si osserva, in sintonia con i relativi documenti del magistero, che queste persone non sono escluse dalla comunità ecclesiale e vanno trattate con comprensione e benevolenza. Poi si dice: "Si deve rispettare la responsabile decisione personale di coscienza degli interessati, dopo un'accurata valutazione - comprendente possibilmente un colloquio con un pastore -, di accostarsi alla comunione" [Regno-doc. 21/1998, 679].
È evidente che una tale richiesta non può essere accettata. "Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. La riconciliazione mediante il sacramento della penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell'alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza" (Catechismo della chiesa cattolica, n. 1650; cf. Familiaris consortio, n. 84; Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi detta chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, del 14 settembre 1994). In questa dolorosa questione non si ha a che fare con una faccenda meramente disciplinare che la chiesa potrebbe regolare anche diversamente, ma con una norma che deriva direttamente dall'indissolubilità del matrimonio.
Naturalmente, si dovrà fare ogni sforzo "perché venga compreso bene che non si tratta di nessuna discriminazione, ma soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo che ci ha ridato e nuovamente affidato l'indissolubilità del matrimonio come dono del Creatore" (Lettera ai vescovi della chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, n. 10).

Gruppo 7, risoluzione 3
In questa risoluzione si chiede alla Conferenza episcopale austriaca di perorare con decisione l'introduzione del diaconato femminile permanente.
Su questa questione si devono ricordare le indicazioni contenute nel protocollo di dialogo (relativo all'incontro fra i vescovi austriaci e i funzionari della Congregazione per la dottrina della fede in occasione della visita ad limino del novembre 1998, Red.). Bisogna anche ricordare che il regolamento della chiesa, secondo il quale solo il battezzato di sesso maschile può validamente ricevere l'ordinazione (cf. Catechismo della chiesa cattolica, n. 1576; C/C can. 1024), comporta delle implicazioni di natura dottrinale.


B. Problemi disciplinari

Diverse proposte dell'Assemblea dei delegati vanno oltre l'ordinamento regolato dal diritto canonico: per esempio, la richiesta di "permettere ai divorziati risposati di collaborare nel consiglio pastorale parrocchiale e di fungere da padrini e testimoni" (Gruppo 4, risoluzione 1: Regno-doc. 21/1998, 679); la richiesta di "permettere ai sacerdoti ridotti allo stato laicale l'accesso a tutti i ministeri e a tutte le vocazioni ecclesiali accessibili ai laici" (Gruppo 4, risoluzione 3: Regno-doc. 21/1/1998, 679); la richiesta di "estendere i diritti di collaborazione del consiglio pastorale parrocchiale" (Gruppo 5, risoluzione 2: Regno-doc. 21/1998, 680); la raccomandazione ai vescovi di perorare "l'ammissione al sacerdozio di uomini sposati adatti e adeguatamente formati" (Gruppo 6, risoluzione 2: Regno-doc. 21/1998, 679).
In merito all'ordinazione dei cosiddetti "viri probati", il santo padre ha già indirettamente risposto quando, nel suo discorso ai vescovi austriaci, ha chiesto loro di sottolineare l'identità del ministero sacerdotale e di promuovere una pastorale in cui possano fiorire le vocazioni (cf. nn. 8 e 9; cf. anche Pastores dabo vobis, n. 29).
Le altre richieste non possono essere decise in Austria, trattandosi di temi che riguardano la disciplina della chiesa universale e riservati quindi ai competenti organi della Santa Sede.
Heleneadmin
00lunedì 14 febbraio 2011 10:31
Il risultato che si vuole ottenere
www.we-are-church.org/it/attual/NominaVescovi.htm

La nomina dei Vescovi

di Salvatore Capo


Nei primi secoli del cristianesimo i vescovi erano scelti dalle comunità cristiane e venivano consacrati da vescovi delle città vicine.

Il testo più antico sulla scelta e sulla consacrazione dei vescovi lo troviamo nella Prima Lettera a Timoteo (che probabilmente è stata scritta negli ultimi decenni del I secolo): “Non tralasciare il dono che è in te e che ti è stato dato per rivelazione profetica, con l'imposizione delle mani, dall'assemblea dei presbiteri” (1 Tm 4, 14). Timoteo era stato lasciato da Paolo vescovo ad Efeso probabilmente intorno agli anni 60-62 (cfr. 1 Tm 1, 3). Negli Atti degli Apostoli troviamo un passo che ha una notevole somiglianza con questo. Dopo aver detto, in At 13, 1, che nella Chiesa di Antiochia vi erano profeti e dottori, Luca afferma che lo Spirito Santo disse loro di separare Paolo e Barnaba per l'opera cui li aveva destinati (At 13, 2); e continua: “Dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li lasciarono partire. Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Seleucia e di qui salparono verso Cipro” (At 13, 3-4). Siamo tra il 44, anno della morte di Erode Agrippa, narrata in At 12, 23, e il 48, anno probabile del ritorno di Paolo e Barnaba ad Antiochia, narrato in At 14, 21. Da notare, in questo passo, il fatto che anche l'apostolo Paolo ha avuto imposte le mani da profeti e dottori della comunità guidati dallo Spirito Santo. E da notare soprattutto la somiglianza col passo precedente. Anche qui c'è una rivelazione profetica; anche qui c'è l'imposizione delle mani; anche qui è la comunità cristiana che opera la scelta.
Nella Prima Lettera a Timoteo, come si è visto, sono i presbiteri che impongono le mani sul nuovo vescovo. In effetti, l'istituto del presbiterio esisteva già prima del cosiddetto primo Concilio di Gerusalemme, svoltosi nel 49-50. Ciò si deduce da tre passi degli Atti degli Apostoli (11, 30; 14, 23; 15, 2.4.6). Tale istituto deriva verosimilmente dalla costituzione della sinagoga, dove i presbiteri, gli anziani, guidavano la comunità e amministravano la disciplina. Dopo la partenza dei Dodici da Gerusalemme, i presbiteri si raccolgono attorno a Giacomo come attorno a un primo vescovo.
Le prime comunità cristiane hanno una caratteristica particolare, quella di apparire come comunità carismatiche, in cui ognuno sa di avere ricevuto dallo Spirito Santo un dono spirituale, un dono della grazia, un carisma, che dev'essere usato per edificare un corpo in cui tutte le membra collaborano. Ciò appare evidente in particolare per le comunità paoline (cfr. Rm 12, 3-8; 1 Cor 12, 1-30). Ma anche per le prime comunità della Giudea si può parlare di comunità carismatiche (cfr. At 2, 1-13; 11, 27-28; 15, 32).
Nella Didachè, raccolta di istruzioni e usanze della Chiesa primitiva, scritta negli ultimi decenni del I secolo, cioè contemporaneamente agli ultimi scritti canonici, si può osservare la convivenza tra profeti e dottori da un lato, vescovi e diaconi dall'altro. In 15, 1 si legge: “Eleggetevi episcopi e diaconi degni del Signore, uomini miti, disinteressati, veraci e sicuri; infatti essi svolgono per voi lo stesso ministero dei profeti e dei dottori”. Come appare chiaro, i vescovi e i diaconi vengono eletti, mentre i profeti e i dottori operano in virtù dello Spirito loro donato (cfr. At 11, 27-28; 15, 32; Didachè 11, 7). Successivamente, le manifestazioni pneumatiche e carismatiche andarono scemando e con la fine dell'età apostolica si andò consolidando la struttura ministeriale tripartita (vescovi, presbiteri e diaconi). Ciò avviene probabilmente anche perché Paolo aveva posto tra i carismi anche i doni di governo e di insegnamento (Rm 12, 7; 1 Cor 12, 28).

Sul rito di ordinazione dei vescovi, è la Traditio Apostolica di Ippolito (primi decenni del III secolo) la più antica testimonianza scritta al di fuori dei testi canonici. Da essa apprendiamo che il gesto essenziale dell'ordinazione del vescovo è l'imposizione delle mani. Questa viene fatta in silenzio da altri vescovi presenti, mentre uno di loro recita una preghiera consacratoria.
Nei primi secoli, la nomina del vescovo da parte della comunità cristiana concretizzava e significava lo stretto rapporto tra vescovo e comunità. Quando in Oriente si costituirono le province ecclesiastiche, l'elezione avveniva alla presenza del metropolita, che giudicava la qualità dell'eletto.

Ma a partire dal IV secolo in Oriente cominciarono a intervenire sulla nomina dei vescovi gli imperatori di Costantinopoli, che cercarono di imporre persone a loro gradite.
In Occidente tale intervento e ingerenza dell'autorità civile iniziò più tardi, con l'impero carolingio. Carlo Magno cominciò a nominare lui stesso i vescovi, giustificando tale prassi con lo scopo di dare ai cristiani pastori ineccepibili. Egli si servì dei vescovi da lui nominati anche come ispettori nelle contee e li chiamò a partecipare alle assemblee generali dell'impero. E con numerosi provvedimenti si intromise anche in questioni attinenti la formazione del clero, la vita liturgica e addirittura la teologia (nel Credo cantato ad Aquisgrana fece aggiungere nell'809 il Filioque, che diverrà uno dei principali motivi di conflitto tra Roma e Costantinopoli quando intorno al 1013 sarà aggiunto al Credo della Chiesa romana).

Nel periodo feudale, che ebbe inizio con la morte di Carlo Magno (814) e interessò tutto l'Occidente, i vescovi divennero anche feudatari e ad essi vennero concessi dei territori e delle immunità da parte di sovrani e signori, che ovviamente cercarono di assicurarsi il controllo sulla loro nomina. A partire dal IX secolo i vescovi nominati ricevevano, con una cerimonia feudale di investitura, un bastone pastorale (nell'XI secolo fu aggiunto l'anello e nel XII la mitra) e dovevano prestare un giuramento di fedeltà al sovrano. Al popolo restava solo di applaudire, e al clero di procedere alla consacrazione di chi era stato fatto vescovo dal principe.
Con lo smembramento dell'impero carolingio (888), nacquero i regni di Germania, Francia, Borgogna e Italia. Ottone I, divenuto re di Germania nel 936, si trovò ad affrontare il problema costituito dai grandi feudatari, che minacciavano il suo potere e non erano facilmente controllabili, essendo i loro feudi divenuti ereditari. Egli pensò di risolvere il problema rafforzando il feudalesimo ecclesiastico a scapito di quello laico, non solo affidando ai vescovi, che dovevano essere celibi e quindi senza eredi, il governo dei feudi, ma anche concedendo loro i cosiddetti “regalia”, cioè diritti regali, come il coniare monete e il riscuotere tasse. A qualcuno concesse anche il governo civile delle città. I vescovi divennero così veri e propri funzionari statali, fedelissimi al sovrano, che aveva loro concesso i benefici. Alcuni, approfittando della generale decadenza della vita cristiana del tempo e dell'interesse dei sovrani, semplicemente si comprarono la nomina, e furono detti simoniaci (da Simon Mago, che secondo At 8, 18-19 pretese di acquistare con denaro i doni dello Spirito Santo).

Di fronte a tale stato di cose e poiché, agli occhi della Chiesa, gli stati esercitavano un diritto che non avevano ottenuto, molti cominciarono a reagire e nacque un diffuso movimento di protesta, di cui si fecero interpreti i papi Leone IX, Niccolò II, Alessandro II e soprattutto Gregorio VII. Quest'ultimo nel 1078 emanò il divieto delle investiture da parte di laici, entrando in conflitto con l'impero. Da parte imperiale si osservava che, essendo i vescovi amministratori delle ricchezze avute in concessione dal sovrano, la loro nomina spettava al sovrano. La lotta per le investiture si concluse col concordato di Worms (1122), stipulato tra Callisto II ed Enrico V, e ispirato all'idea di Ivo di Chartres della doppia investitura: alla Chiesa spettava quella spirituale della cura delle anime con la consegna del bastone e dell'anello; al sovrano spettava quella temporale con la concessione dei beni feudali e delle “regalie”. Secondo tale concordato, la nomina dei vescovi doveva avvenire per elezione del clero e approvazione del popolo, rimanendo dunque vivo il principio che il vescovo dovesse essere eletto con l'intervento della comunità cristiana, sia del clero che del popolo. Di fatto, secondo le successive Decretali dei pontefici (lettere aventi la funzione di risolvere una questione), l'elezione venne assegnata al capitolo cattedrale (l'insieme del clero della cattedrale), con successiva approvazione del resto del clero.
Ma il concordato di Worms non chiuse affatto il problema dei rapporti tra Chiesa e stati. Già esso stabiliva che in Germania le elezioni dei vescovi dovevano svolgersi alla presenza del re, che sarebbe intervenuto in caso di discordia, e l'investitura temporale doveva precedere la consacrazione. Di fatto, cioè, i re in Germania avevano sin dal 1122 un mezzo legale e riconosciuto per dirigere le elezioni dei vescovi. Negli altri paesi, invece, non era prevista la presenza del sovrano all'elezione e l'investitura temporale doveva seguire la consacrazione.

A partire dal XIII secolo, i papi cominciarono a riservare a sé la nomina dei vescovi. E tale prassi divenne comune e costante nel XIV secolo. La nomina avveniva attraverso una procedura segreta, come avviene tuttora.
Uno dei motivi di tale prassi va ricercato nella situazione che si era creata nei rapporti tra papato e sovrani francesi. Filippo IV il Bello, per fronteggiare le sue spese belliche, aveva imposto nuove tasse al clero senza l'approvazione del papa. Bonifacio VIII nel 1296 emanò una bolla che affermava la necessità del consenso papale per ogni nuova tassa sul clero. E nel 1302, con la bolla Unam Sanctam, dichiarava che al papa è conferito ogni potere, sia spirituale che temporale. Filippo IV vide in tale bolla un programma di sopraffazione papale ed ecclesiastica sul piano politico, decise di inasprire la lotta contro il papato e fu scomunicato. Seguirono le note vicende della prigionia di Bonifacio VIII ad Anagni, dell'elezione di un papa francese e della “cattività avignonese”, con sette papi francesi, durata dal 1309 al 1377. Fu in questo periodo che si accentuò ulteriormente la centralizzazione del governo della Chiesa.

Dopo il ritorno del papato a Roma, Carlo VI convocò a Parigi nel 1398 un Concilio dei vescovi francesi, in cui nacque il cosiddetto “gallicanesimo”, che si proponeva di limitare la giurisdizione della Santa Sede sulla Chiesa francese. I vescovi francesi affermavano che la Chiesa di Francia doveva riacquistare le sue antiche libertà contro le esazioni papali. E dopo la presa di posizione dei Concili di Costanza (1415) e soprattutto di Basilea (1438) a favore del conciliarismo, cioè della superiorità dei concilii sul papa, Carlo VII convocò a Bourges nel 1438 il clero francese, che nella famosa Pragmatica sanctio sostenne la posizione conciliarista.

Con il concordato del 1516 tra Leone X e Francesco I il papa ottenne che venisse abrogata la Pragmatica sanctio del 1438. Ma dovette concedere al sovrano la potestà di nominare i vescovi. Viene detto testualmente nel concordato, a giustificazione di tale concessione, che il re provvederà alla nomina dei vescovi “per nos”, cioè per il papa, cioè per una sorta di concessione che la Chiesa fa allo stato.
Con il regno di Luigi XIV (1638-1715) le posizioni gallicane, mai sopite in Francia, prevalsero ancora all'interno della Chiesa francese, e furono esposte nella Declaratio cleri gallicani del 1682, condannata nel 1690 da Alessandro VIII.
Il concordato del 1801 tra Pio VII e Napoleone I cercò di comporre il dissidio tra religione e stato creato dalla rivoluzione. Il papa riconobbe le alienazioni delle proprietà ecclesiastiche a favore dello stato durante la rivoluzione e Bonaparte riaffermò il diritto sancito dal concordato del 1516 di nominare i vescovi e legarli a sé col giuramento. Si formò un clero nominato e salariato dallo stato, ma la Chiesa in cambio riebbe la sua esistenza giuridica e potè penetrare in Francia in modo più efficace che per il passato. Il concordato del 1801 rimase in vigore fino al 1905, quando fu denunziato dalla Francia.

Anche in Austria si affermò, sotto il governo di Giuseppe II (1765-1790), un sistema di controllo e di tutela dello Stato sulla Chiesa, che prese il nome di “giuseppinismo”. Giuseppe II impose il placet regio per la pubblicazione delle ordinanze papali, stabilì seminari di stato per l'educazione obbligatoria del clero, intervenne nelle norme relative al culto e attribuì allo stato la nomina dei vescovi.
In Italia, dopo la Riforma, le nomine dei vescovi continuarono a essere riservate al papa, mentre in altri paesi si tornò al diritto delle Decretali, e la nomina veniva fatta dai capitoli delle chiese cattedrali.
Spagna e Portogallo sfruttarono invece più di altri paesi il sistema che concedeva la nomina dei vescovi per un diritto di “patronato”, cioè perché erigevano nuove sedi vescovili, la prima nelle Indie occidentali, il secondo nelle Indie orientali. Alla Spagna il patronato per le Indie fu concesso dai papi dopo il 1492, anno della scoperta del Nuovo Mondo. Tale sistema rimase in vigore fino al XIX secolo.

Il Codice di diritto canonico promulgato da Benedetto XV nel 1917 rafforzò la dipendenza dei vescovi da Roma, stabilendo che essi reggono la Chiesa sotto l'autorità del papa.
Il nuovo Codice di Diritto Canonico, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983, afferma che il romano pontefice nomina liberamente i vescovi (canone 329). Sono richiesti per essere nominati vescovi almeno trenta anni di età e cinque anni di sacerdozio. La nomina del papa è preceduta da una procedura segreta espletata dalla Sacra Congregazione per i vescovi, comprendente una consultazione operata da un legato pontificio. In base al concordato oggi vigente tra la Santa Sede e lo stato italiano, prima di nominare un vescovo la Santa Sede deve comunicarne il nome al governo italiano.

Sulla base di quanto fin qui detto, la possibilità di una diversa procedura per la nomina dei vescovi appare già giustificata da un ritorno alla tradizione dei primi secoli. E questa tradizione sembra avere un fondamento solido nei passi biblici citati degli Atti degli Apostoli e della Prima Lettera a Timoteo, oltre che nella Didachè.

Ma le vicende storiche che si è cercato di riassumere fanno nascere un'altra osservazione. Se la nomina dei vescovi da parte del papa si è affermata solo a partire dal XIII secolo e se per diversi secoli la Chiesa cattolica ha accettato che vi fossero sistemi diversi di nomina in alcuni stati (Francia, Austria, Spagna, Portogallo), allora la motivazione teologica della nomina da parte del papa non sembra sufficientemente forte e fondata. Essa sembra, invece, per dirla a chiare lettere e con quel coraggio evangelico richiesto anche da Giovanni Paolo II, primariamente una motivazione storico-politica.

A giustificazione della proposta qui avanzata vi sono, invece, anche motivi teologici ed ecclesiologici, che si cercherà ora di illustrare.
Il fatto che a partire dal XIII secolo il papato abbia riservato a sé la nomina dei vescovi (pur con le diversità che abbiamo visto per la Francia, la Spagna e il Portogallo nei secoli XVI-XIX) può essere considerato come una conseguenza della riforma gregoriana dell'XI secolo. Quest'ultima ha considerato il primato di giurisdizione del papa come immediatamente ricevuto da Dio e lo ha scollegato dalla sua ordinazione episcopale sacramentale come vescovo di Roma. Ma è la consacrazione a vescovo che configura un uomo a immagine di Gesù pastore, a immagine di Cristo “pastore e vescovo delle nostre vite” (1 Pt 2, 25), perché l'unico episcopato di Cristo si rende presente nel corpo dei vescovi. E secondo gli Atti sono abilitati a reggere la Chiesa quelli che lo Spirito Santo costituisce vescovi (At 20, 28). Questa impostazione è stata ripresa solo a partire dal Concilio Vaticano II. Dalla Lumen Gentium (nn. 21-23) e dalla successiva costituzione di Paolo VI del 1975 Romano pontifici eligendo (n. 88), si evince che condizione per diventare papa è quella di essere consacrato vescovo di Roma. Il potere del papa, dunque, è l'estensione a tutta la Chiesa di un'autorità che è di origine sacramentale. Pertanto, se è l'ordinazione episcopale la fonte del potere giurisdizionale, non si può ritenere tale potere come la fonte della giurisdizione più ridotta dei vescovi. La funzione del vescovo di Roma, cioè, non sembra includere il diritto di nominare vescovi. Tra l'altro, per inciso, nella famosa “Nota explicativa praevia” alla Lumen Gentium non viene detto che spetta esclusivamente al papa nominare i vescovi. Ciò sembra anche confermato dal cambio di valutazione, verificatosi nel XX secolo all'interno della Chiesa cattolica, su quale sia l'elemento centrale del sacramento dell'ordine. Mentre il Concilio di Firenze nel 1439 (decreto per gli Armeni) sostenne addirittura che tale elemento centrale era la consegna delle insegne (bastone, anello, mitra, evangeliario), la costituzione Sacramentum Ordinis di Pio XII nel 1947 stabilì che l'elemento essenziale dell'ordinazione è l'imposizione delle mani.
Tutta questa impostazione costituisce una base teologica per una riforma della nomina dei vescovi, o meglio per un ritorno o riavvicinamento alla prassi delle origini.

Un'altra base teologica può essere data dall'osservazione che la nomina dei vescovi può fondarsi solo sulla designazione da parte dello Spirito (At 20, 28). E la discesa dello Spirito Santo su un'assemblea è attestata in At 10, 44-45 e 19, 6-7. L'attuale carattere centralizzato e segreto della procedura non rende molto evidente la designazione da parte dello Spirito.
E ancora vi è da osservare che il fondamento dell'autorità nella Chiesa è costituito dallo Spirito Santo, che viene dato a tutti (At 2, 17; 10, 44-45; 1 Cor 12, 3; 2 Cor 13, 13) e che non solo ai capi, ma a tutti quanti hanno doni e carismi è stata conferita autorità (Rm 12, 3-8; 1 Cor 12, 4-28).

Ma a sostegno della proposta qui avanzata vi sono anche osservazioni di carattere ecclesiologico.
L'ecclesiologia del Concilio Vaticano II ha affermato l'esistenza di un collegio episcopale, di cui si entra a far parte in forza della consacrazione, e di cui è membro anche il papa (Lumen Gentium n. 22). Questa collegialità di principio, però, sembra contrastare con il permanere sul piano giuridico del fatto che i vescovi sono scelti e nominati dal papa e possono essere rimossi e trasferiti in qualsiasi momento con un atto insindacabile del papa. Non sembra, cioè, che l'attuale sistema di nomina rifletta la collegialità come proprietà essenziale del ministero episcopale.
Inoltre, esiste un nesso profondo tra ministero episcopale e Chiesa come mistero di comunione. L'ecclesiologia di comunione trova il suo fondamento in numerosi luoghi biblici: “Rimanete in me ed io in voi” (Gv 15, 4); “Siano tutti una cosa sola” (Gv 17, 21); “Tutti i credenti stavano insieme e avevano tutto in comune” (At 2, 44); “La comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi” (2 Cor 13, 13); “Noi siamo in comunione gli uni con gli altri” (1 Gv 1, 7). La comunione tra i credenti non può avere solo un aspetto mistico e invisibile; ma indica una prassi relazionale, interpersonale, storica e visibile. C'è una splendida espressione di san Cipriano (200-258 d.C.) che sintetizza la comunione tra il vescovo e la sua Chiesa: “Il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel vescovo” (Epistola 69, 8). La relazione finale della II Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi del 1985 afferma che “l'ecclesiologia di comunione è l'idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio”. Mentre nell'Instrumentum laboris della X assemblea del Sinodo dei vescovi, diffuso a giugno di quest'anno, si legge al n. 62: “La comunione corrisponde all'essere della Chiesa, ricorda la destinazione di tutti i carismi all'agape, alla comunione nell'unità, nello stesso disegno di salvezza, nello stesso progetto ecclesiale”. E al n. 64: “Il ministero episcopale si inquadra in questa ecclesiologia di comunione e di missione che genera un agire in comunione, una spiritualità e uno stile di comunione. […] Nel vescovo converge la Chiesa particolare, la comunità del popolo di Dio, con i presbiteri, i diaconi, le persone consacrate, i laici”. Se nel vescovo convergono il clero e i laici e se tutti i carismi sono destinati a uno stesso progetto ecclesiale, l'intervento del clero e dei laici nella nomina del vescovo sembra naturale.
Un'ulteriore osservazione viene dal fatto che la nomina di tutti i superiori religiosi, a tutti i livelli, non viene fatta dal capo del livello superiore, ma avviene attraverso un'elezione da parte dei loro confratelli. È normale e funziona da secoli che siano gli stessi religiosi a discernere colui che, tra loro, è più adatto a dirigere la congregazione.

La proposta sulla nomina dei vescovi che avanzo, che è poi molto simile a quella di diversi teologi cattolici, è la seguente. Quando si rende vacante un seggio episcopale, un legato nominato dal papa (può anche essere un vescovo) convoca e presiede un collegio elettorale, costituito da: tutti i sacerdoti della diocesi, anche quelli che non sono parroci; tutti i diaconi della diocesi; tutti i componenti laici del consiglio pastorale diocesano; un rappresentante laico di ogni consiglio pastorale parrocchiale.
Questo collegio si riunisce per un'intera giornata dedicata alla preghiera, alla riflessione e all'invocazione dello Spirito Santo. Alla fine della giornata si procede all'elezione a scrutinio segreto e viene eletto chi ha riportato almeno i due terzi dei voti. Nel caso in cui nessuno riporti i due terzi dei voti, si procede usando la stessa procedura in vigore per l'elezione del papa. Può essere eletto vescovo di una diocesi qualunque sacerdote, anche di un'altra diocesi, che abbia almeno trenta anni di età e cinque anni di sacerdozio.
È chiaro che l'elezione non deve prevedere precedenti formali candidature. E ciò per evitare che qualche candidato poi non eletto si senta “bocciato”. In realtà, sembra questo uno dei motivi che induce la Curia romana a mantenere l'attuale sistema di segretezza. Ma tale motivo viene a cadere nel momento in cui, non essendoci candidati, non possono esserci neanche “bocciati”.
Un altro motivo che viene addotto da qualcuno per mantenere l'attuale sistema è la presenza di possibili divisioni nelle diocesi e nel clero locale. Ma si tratta di un motivo che appare insufficiente, perché le diversità di opinioni e valutazioni, come possono esistere localmente all'interno della diocesi, così possono esistere (e negarlo sarebbe come nascondersi dietro un dito) all'interno della Curia romana.
Riguardo ai trasferimenti di un vescovo da una diocesi a un'altra, essi sarebbero sempre possibili, purché un vescovo eletto in una diocesi possa rimanervi un certo numero di anni.
Sono certo che un tale sistema di nomina riavvicinerebbe il vescovo ai fedeli della diocesi, stabilirebbe un rapporto migliore della gerarchia con i laici, e contribuirebbe a mostrare meglio a tutti la Chiesa come popolo di Dio.

Salvatore Capo


La cosa per cui rimango meravigliata in questi tempi è come varie "fazioni"(mi si passi il termine solo per dare un idea astratta)della chiesa,siano esse piu progressiste o piu conservatrici,tendeno ad avere un unico "meccanismo" di logica,cioè voler riportare la chiesa "indietro" con il discorso "nella chiesa antica" o nelle prime comunità" o "nei concili precedenti".
Trovo interessante che comunque anche quelli che vengono definiti "progressisti",guardano ad un passato e anche quelli conservatori guardano ad un passato,ogniuno nel suo periodo di tempo che gli pare piu "vero" per principi o "verità",tendono a "rifiutare" la chiesa come un uncum di passato e presente dove ogni epoca ha avuto i doni dello Spirito per quello che doveva essere,ed a ogni tempo ha avuto i problemi dati dal fatto che è Santa e peccatrice.
E tutte e due le parti si rifanno al CVII come solo Pastorale,ma non è esattamente così,per poi pretendere cambiamenti
Heleneadmin
00lunedì 14 febbraio 2011 12:17
Gesù ha detto: "Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri" (Giovanni 13:35).
Heleneadmin
00lunedì 14 febbraio 2011 12:38
www.amicidomenicani.it/leggi_sacerdote.php?id=1366

1. impugnare la verità conosciuta è uno dei peccati contro lo Spirito Santo.
Si dicono contro lo Spirito Santo quei peccati che manifestano sistematica opposizione a qualunque influsso della grazia.
Sono particolarmente gravi perché comportano disprezzo e rifiuto di tutti gli aiuti che Dio offre al fine di condurre una persona a salvezza.
Vengono detti contro lo Spirito Santo perché è attribuita allo Spirito Santo l’opera della conversione e della santificazione.

2. Secondo san Tommaso i peccati contro lo Spirito Santo sono tanti quanti sono i modi di disprezzare l’aiuto di Dio per trattenere l’uomo dal peccato (Somma teologica, II-II, 14, 2).
Gli aiuti per trattenere dal peccato provengono da tre fonti: dal giudizio di Dio, dai suoi doni e dal parte del peccato stesso.
Si rifiuta l’aiuto che viene dal timore del giudizio quando si dispera della salvezza oppure si presume di salvarsi senza merito.
Si rifiuta l’aiuto che viene dai suoi doni quando si impugna la verità conosciuta e si prova invidia della grazia altrui.
Si rifiuta l’aiuto che viene dalla considerazione del peccato quando si permane nell’ostinazione nel peccato e in esso si vuole rimanere anche nel momento della morte (impenitenza finale).

3. Tu mi hai chiesto una parola in particolare sull’impugnazione della verità conosciuta.
Questo peccato si oppone direttamente alla fede, perché si rifiuta di aderire a Dio pur avendone segni certi e avendone anche il convincimento interiore.
Per San Tommaso l’impugnazione della verità conosciuta consiste “nell’impugnare (combattere) le verità di fede conosciute, per peccare con maggiore licenza” (Somma teologica, II-II, 14, 2).
Peccato di impugnazione della verità conosciuta potrebbe essere stato il peccato di Erode, il quale fu edotto dai Magi sulla nascita di Gesù come della nascita di un Re dalle origini celesti e fu confermato in questo anche dai sommi sacerdoti e dagli scribi.
Oppure potrebbe essere stato il peccato di qualche eresiarca.
Ma quando si tratta di applicare questo peccato ad una persona in particolare è meglio restare cauti, perché i segreti dei cuori li conosce solo Dio.

4. Questo peccato, come gli altri contro lo Spirito Santo, vengono detti imperdonabili non perché Dio non li voglia o non li possa perdonare, ma perché l’uomo si chiude del tutto a ogni aiuto che Dio gli offre per la salvezza.
Questa è anche l’interpretazione del Catechismo della Chiesa Cattolica: “La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna” (CCC 1864).

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo
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