Conservatori Marcel Lefebvre

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LiviaGloria
00mercoledì 9 giugno 2010 17:27
Storia

www.papanews.it/dettaglio_approfondimenti.asp?IdNews=1917


Chi sono e cosa vogliono: la storia dei seguaci scismatici di Marcel Lefebvre

di Gianluca Barile

CITTA’ DEL VATICANO - La Fraternità Sacerdotale San Pio X (Fraternitas Sacerdotalis Sancti Pii X, FSSPX) fu fondata il 1° novembre 1970 a Friburgo dal vescovo Marcel Lefebvre (nella foto) con l'accordo di Monsignor François Charrière, l'allora vescovo della diocesi di Friburgo, con un seminario a Ecône in Svizzera, dove accolse giovani di diverse nazioni. Il movimento, in contrasto con il Concilio Vaticano II, raccoglie oggi tutti coloro che condividono le idee conservatrici e tradizionaliste del vescovo francese: i fedeli di Ecône insistono per conservare la messa in latino e si oppongono all'ecumenismo e al dialogo interreligioso. La FSSPX è una società di vita comune senza voti sull'esempio delle Società delle Missioni Estere. Essa è composta da sacerdoti ma anche da fratelli e da religiose. È diretta da un Superiore Generale, aiutato da due Assistenti e da un Economo generale. L'impronta decisamente conservatrice e soprattutto la crescente opposizione agli orientamenti del Concilio provocarono il ritiro del riconoscimento canonico e l'ordine di chiusura del seminario di Ecône (1975). Dopo il rifiuto da parte di Lefebvre di accettare questa disposizione, intervenne lo stesso papa Paolo VI con lettere personali, ma Lefebvre risposte inasprendo la polemica contro la Curia romana e disattese la proibizione di ordinare nuovi sacerdoti e di aprire nuove case. Nel 1976 Marcel Lefebvre fu sospeso a divinis e la Fraternità Sacerdotale San Pio X entrò così in stato di disubbidienza ma non era ancora scisma. Gli ammonimenti romani e la sospensione a divinis (1976) non hanno impedito alla "Fraternità" di Ecône di trovare seguaci in diversi Paesi. Dal 1987, il Vaticano ha intrapreso tentativi di conciliazione, culminati nel maggio 1988 in un'intesa che implicava comunque per Lefebvre il divieto di consacrare nuovi vescovi. Nel giugno dello stesso anno, la contravvenzione di Lefebvre a questo divieto ha fatto maturare lo scisma, sanzionato formalmente da Giovanni Paolo II con il motu proprio Ecclesia Dei. Il problema non è la validità di queste ordinazioni, ma la sua liceità: si tratta cioè di ordinazioni valide, ma illecite. Con la Ecclesia Dei però Giovanni Paolo II si spinge oltre ed istituisce una Commissione per facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti e fedeli legati a Lefebvre con la Chiesa cattolica nel rispetto delle loro tradizioni liturgiche, ed invita i vescovi ad una più ampia e generosa applicazione dell' "indulto" per l'uso del Messale Romano del 1962, già concesso nel 1984. Ciò produrrà negli anni larghe defezioni di sacerdoti e fedeli della FSSPX verso la comunione con Roma, che si aggiungono alle defezioni dei sacerdoti che hanno lasciato la FSSPX a causa di divergenze teologiche (alcuni dei quali fonderanno l'Istituto Mater Boni Consilii, di orientamento sedevacantista). Alcuni sacerdoti che celebrano la Santa Messa secondo il rito di san Pio V, in comunione con il Santo Padre, fondano la Fraternità Sacerdotale San Pietro secondo quanto previsto dal Motu proprio "Ecclesia Dei". Monsignor Lefebvre e Monsignor de Castro Mayer muoiono nel 1991. I vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X consacrano vescovo Licinio Rangel, superiore della Società Sacerdotale San Giovanni Battista Maria Vianney (che opera prevalentemente a Campos, in Brasile). Dopo la morte di Lefebvre, anche se il movimento da lui iniziato continua ad avere un certo seguito negli ambienti tradizionalisti cattolici, molti suoi seguaci sono rientrati nella Chiesa cattolica. I loro rapporti con Roma sono regolati da un'apposita commissione pontificia denominata Ecclesia Dei, dal titolo della lettera apostolica di Giovanni Paolo II (2 luglio 1988) che l'ha istituita. Monsignor Salvador Lazo y Lazo rassegna nel 1993 le dimissioni da vescovo di San Fernando de La Union, nelle Filippine, e aderisce alle posizioni della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Nell'agosto del 2000, la FSSPX è stata autorizzata, unitamente ad altre comunità che ne seguono l'impostazione e ne condividono il giudizio sulla situazione della Chiesa, ad organizzare un proprio pellegrinaggio al Grande Giubileo di quell'anno. Sotto la loro guida entrarono nelle Basiliche Vaticane, alcune migliaia di persone, provenienti dai cinque continenti. Molto numerosi erano i gruppi asiatici e dell'Est europeo. Diversi preti della FSSPX, hanno anche potuto celebrare battesimi nelle basiliche vaticane. La Società Sacerdotale San Giovanni Battista Maria Vianney nel 2002 rientra nella piena comunione con il Santo Padre e viene a costituire l’amministrazione apostolica personale per i fedeli di tradizione tridentina a Campos. Secondo i dati del 2004, la Fraternità è presente in 59 paesi con 453 sacerdoti, 176 seminaristi, 115 suore e conterebbero - si dice - quasi un milione di fedeli ed un altro di "simpatizzanti". In Italia il centro dei lefebvriani è ad Albano Laziale. I responsabili della Fraternità di San Pio X, Monsignor Bernard Fellay e padre Franz Schmidberger, sono stati ricevuti in Udienza da Benedetto XVI, il 29 agosto 2005, nella Villa Pontificia di Castel Gandolfo. Al termine dell'Udienza, un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede aveva segnalato che essa era avvenuta "in un clima di amore per la Chiesa e di desiderio di arrivare alla perfetta comunione". L' 8 settembre 2006, un gruppo di sacordoti usciti dalla Fraternità San Pio X fondano in Francia, con l'approvazione della Santa Sede, l'Istituto del Buon Pastore. Questa nuova comunità, riconosciuta dallo stesso Papa Benedetto XVI, celebra la Santa Messa e amministra i sacramenti utilizzando esclusivamente i libri liturgici in vigore nel 1962, prima della riforma liturgica. La Fraternità è attualmente guidata da Monsignor Bernard Fellay, 48 anni, svizzero, uno dei quattro vescovi ordinati da mons. Lefebvre nel 1988.
LiviaGloria
00mercoledì 9 giugno 2010 17:30
"ieri"

www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/intrptxt/documents/rc_pc_intrptxt_doc_19960824_vescovo-lefebvre...




PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI

NOTA ESPLICATIVA



V. Sulla scomunica per scisma in cui incorrono gli aderenti al movimento del Vescovo Marcel Lefebvre

(Communicationes, 29 [1997] 239–243)

Dopo le notizie diffuse recentemente da alcuni media questo Pontificio Consiglio ha ritenuto opportuno rendere di pubblico dominio una Nota esplicativa dallo stesso inviata alla Congregazione per i Vescovi.

Città del Vaticano, 24 agosto 1996

Eminenza Reverendissima,

Con lettera del 26 luglio c.a., Prot. N. XXX, l’Eminenza Vostra Reverendissima inviava a questo Pontificio Consiglio una lettera di S. E. Mons. Norbert Brunner, Vescovo di Sion nella Svizzera, nella quale il Presule – attese alcune confuse informazioni di stampa – chiedeva l’interpretazione autorevole del Motu Proprio « Ecclesia Dei » e del Decreto successivo di codesta Congregazione concernenti la scomunica comminata nel confronti del Vescovo Marcel Lefebvre, dei quattro Vescovi da lui ordinati e del Vescovo emerito Antonio de Castro. Nel contempo, l’Eminenza Vostra domandava il parere di questo Dicastero circa i termini della risposta da dare al su menzionato Presule.

In merito, mi pregio significarle che il problema prospettato dall’Ordinario di Sion non sembra esigere una interpretazione autentica né del Motu Proprio « Ecclesia Dei » del 2 luglio 1988, né del Decreto di codesta Congregazione per i Vescovi del 1 luglio 1988, né dei canoni relativi del CIC: 1364, § 1 e 1382.

Il Presule infatti fonda la Sua richiesta su esigenze d’indole pastorale, per porre fine ad erronee interpretazioni, ma non offre alcun elemento che prospetti l’esistenza o la probabilità fondata di un autentico « dubium iuris » nella normativa dei predetti documenti, condizione indispensabile per una « interpretazione autentica ».

Ciononostante, per venire incontro alla richiesta di codesto Dicastero, si offrono nell’unita Nota, alcune considerazione e suggerimenti con la speranza che possano essere di utilità per la risposta chiarificatrice che codesta Congregazione intende dare al Vescovo di Sion.

Se invece, la confusione di cui parla li Presule nella Sua lettera fosse rilevante dal punto di vista pastorale, anche perché estesa ad altre diocesi e nazioni dove opera il movimento lefebvriano, si potrebbe ipotizzare una dichiarazione generale della Santa Sede, da preparare in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede (cf. Nota, n.5).

Profitto della circostanza per confermarmi con sensi di profonda venerazione

dell’Eminenza Vostra Reverendissima

dev.mo

Julián Herranz,
Arcivescovo tit. di Vertara
Presidente

Marino Maccarelli
Sotto–segretario

* * *

NOTA

1. Dal Motu proprio « Ecclesia Dei » del 2 luglio 1988 e dal Decreto « Dominus Marcellus Lefebvre » della Congregazione per i Vescovi, del 1 luglio 1988, appare innanzitutto che lo scisma di Monsignor Lefebvre è stato dichiarato in relazione immediata con le ordinazioni episcopali compiute il 30 giugno 1988 senza mandato pontificio (cf. CIC, can. 1382). Tuttavia appare anche chiaramente dal predetti documenti che tale gravissimo atto di disobbedienza ha costituito la consumazione di una progressiva situazione globale d’indole scismatica.

2. In effetti, il n. 4 del Motu proprio spiega quale sia stata la « radice dottrinale di questo atto scismatico » e il n. 5 c) ammonisce che una « adesione formale allo scisma » (dovendosi intendere per tale « il movimento dell’Arcivescovo Lefebvre ») comporterebbe la scomunica stabilita dal diritto universale della Chiesa (CIC, can. 1364, § 1). Anche il decreto della Congregazione per i Vescovi fa esplicito riferimento alla « natura scismatica » delle predette ordinazioni episcopali e ricorda la gravissima pena di scomunica che comporterebbe l’adesione « allo scisma di Monsignor Lefebvre ».

3. Purtroppo, l’atto scismatico che ha originato il Motu proprio ed il Decreto non ha fatto altro che portare a termine, in un modo particolarmente visibile ed inequivoco – con un gravissimo atto formale di disobbedienza al Romano Pontefice – un processo di allontanamento dalla communio hierarchica. Finché non vi siano cambiamenti che conducano al ristabilimento di questa necessaria communio, tutto il movimento lefebvriano è da ritenersi scismatico, esistendo al riguardo una formale dichiarazione della Suprema Autorità.

4. Non si può fornire alcun giudizio sulle argomentazione della discussa tesi del Murray perché non è nota, e i due articoli che ne accennano appaiono confusi. Comunque non può essere ragionevolmente messa in dubbio la validità delle scomuniche dei Vescovi dichiarata nel Motu proprio e nel Decreto. In particolare non sembra che si possa trovare, quanto all’imputabilità della pena, qualche circostanza esimente o attenuante (Cf. CIC, cann. 1323–1324). Quanto allo stato di necessità in cui Mons. Lefebvre pensasse di trovarsi, va tenuto presente che tale stato deve verificarsi oggettivamente, e che non si dà mai una necessità di ordinare Vescovi contro la volontà del Romano Pontefice, Capo del Collegio dei Vescovi. Ciò infatti significherebbe la possibilità di « servire » la Chiesa mediante un attentato contro la sua unità in materia connessa con i fondamenti stessi di questa unità.

5. Come dichiara il Motu proprio n. 5 c), la scomunica latae sententiae per scisma riguarda coloro che « aderiscono formalmente » a detto movimento scismatico. Anche se la questione sull’esatta portata della nozione « adesione formale allo scisma » andrebbe posta alla competente Congregazione per la Dottrina detta fede, sembra a questo Pontificio Consiglio che tale adesione debba implicare due elementi complementari:

a) uno di natura interna, consistente nel condividere liberamente e coscientemente la sostanza dello scisma, ossia nell’optare in tal modo per i seguaci di Lefebvre che si metta tale opzione al di sopra dell’obbedienza al Papa (alla radice di questo atteggiamento vi saranno abitualmente posizioni contrarie al Magistero della Chiesa);

b) un altro d’indole esterna, consistente nell’esteriorizzazione di quell’opzione, il cui segno più manifesto sarà la partecipazione esclusiva agli atti « ecclesiali » lefebvriani, senza prendere parte agli atti della Chiesa Cattolica (si tratta comunque di un segno non univoco, poiché c’è la possibilità che qualche fedele prenda parte alle funzioni liturgiche dei seguaci di Lefebvre senza condividere però il loro spirito scismatico).

6. Nel caso dei diaconi e dei sacerdoti lefebvriani sembra indubbio che la loro attività ministeriale nell’ambito del movimento scismatico è un segno più che evidente del fatto che si danno i due requisiti di cui sopra (n. 5) e che vi è quindi una adesione formale.

7. Nel caso invece degli altri fedeli è ovvio che non è sufficiente, perché si possa parlare di adesione formale al movimento, una partecipazione occasionale ad atti liturgici od attività del movimento lefebvriano, fatta senza far proprio l’atteggiamento di disunione dottrinale e disciplinare di tale movimento. Nella pratica pastorale può risultare più difficile giudicare la loro situazione. Occorre tener conto sopratutto dell’intenzione della persona, e della traduzione in atti di tale disposizione interiore. Le varie situazioni vanno perciò giudicate caso per caso, nelle sedi competenti di foro esterno e foro interno.

8. Comunque sarà sempre necessario distinguere la questione morale sull’esistenza o meno del peccato di scisma dalla questione giuridico–penale sull’esistenza del delitto di scisma e la sua conseguente sanzione. A quest’ultimo vanno applicate le disposizioni del Libro VI del CIC (anche i cann. 1323–1324).

9. Non sembra consigliabile formalizzare di più (ma bisognerebbe interpellare in merito il Dicastero competente: cf. Cost. Ap. « Pastor Bonus », art. 52) i requisiti per il delitto di scisma. Si rischierebbe forse di creare più problemi mediante un irrigidimento normativo di tipo penale, che non colga bene tutti i casi: lasciando fuori casi di scisma sostanziale, o contemplando comportamenti esterni che non sono sempre soggettivamente scismatici.

10. Sempre dal punto di vista pastorale sembrerebbe anche opportuno raccomandare ulteriormente ai sacri Pastori tutte le norme del Motu proprio « Ecclesia Dei » con le quali la sollecitudine del Vicario di Cristo stimolava al dialogo e a porre i mezzi soprannaturali ed umani necessari per facilitare il ritorno dei lefebvriani alla piena comunione ecclesiale.

Città del Vaticano, 24 agosto 1996
LiviaGloria
00mercoledì 9 giugno 2010 17:42
LiviaGloria
00mercoledì 9 giugno 2010 17:51
LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI QUATTRO VESCOVI CONSACRATI DALL’ARCIVESCOVO LEFEBVRE, 12.03.2009


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LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI QUATTRO VESCOVI CONSACRATI DALL’ARCIVESCOVO LEFEBVRE, 12.03.2009

Riportiamo di seguito, nell’originale in lingua italiana e in lingua tedesca, e nelle traduzioni in lingua francese, inglese, spagnola e portoghese, il testo della Lettera di Sua Santità Benedetto XVI ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre:

TESTO IN LINGUA ITALIANA

Cari Confratelli nel ministero episcopale!

La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata.
Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo.

Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento.

Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.

Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa.

Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico.

Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente.

Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie.

Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.

Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.

Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni.

Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità.

A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione.

La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale.

Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa.

Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.

Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi.

Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere.

Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa.

Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.

Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009.

Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva.

La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu … conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15).

Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.

Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo.

Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio.

Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.

Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.

Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione?

Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze?

Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme.

Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente.

Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?

Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura?

A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.

Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15.
Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!"

Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così.

Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.

Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo

Vostro nel Signore

BENEDICTUS PP. XVI

Dal Vaticano, 10 Marzo 2009

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

Lettera del Papa ai vescovi sulla remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani: le traduzioni
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