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25 Ottobre 2005
Gli enti ecclesiastici e l’esenzione dall’Ici*
L’imposta comunale sugli immobili, il decreto 163 del 2005 e il dibattito sull’interpretazione della Corte di Cassazione
Al tema dell’esenzione dall’ICI per alcuni degli immobili degli enti ecclesiastici è stata riservata in questo mese di ottobre un’attenzione politica e mediatica di certo sproporzionata rispetto alla norma (l’art. 6 del D.L. 163/2005) che ha dato origine al dibattito, spesso caratterizzato da una notevole e sorprendente disinformazione.
Da più parti, infatti, si sono levate proteste per la presunta nuova e generalizzata esenzione per gli immobili degli enti ecclesiastici; molti hanno espresso preoccupazioni derivanti dalle supposte perdite di gettito per le casse dei comuni italiani. In qualche caso sono state avanzate difese, basate però non sull’oggettività delle norme in questione, quanto piuttosto sulla meritorietà degli enti, ai quali - è stato sostenuto - ben si può concedere l’esenzione dal momento che svolgono attività utili alla collettività, spesso a vantaggio della parte più bisognosa della popolazione. Tali argomentazioni, che possono senz’altro essere condivise, hanno però il limite di essere completamente avulse dal tema in questione che riguarda un’esenzione in vigore da ben dodici anni.
Queste considerazioni ci inducono a trattare l’argomento anche se il decreto legge 163 è ormai decaduto (infatti, dopo l’approvazione della legge di conversione da parte del Senato, il provvedimento non è stato presentato alla Camera dei Deputati per l’analoga procedura).
La prima, necessaria, puntualizzare riguarda la natura dell’articolo 6 del decreto 163. Si trattava di una norma di interpretazione autentica, definizione tecnica che serve per indicare un intervento legislativo che ha lo scopo di precisare l’esatto contenuto di una previsione normativa già esistente; una norma di tal genere può modificare disposizioni già esistenti, né tanto meno introdurne di nuove.
Nel caso specifico il legislatore intendeva chiarire la portata di una delle norme di esenzione previste dall’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992 - quello istitutivo dell’ICI - affermando che tale norma "si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur se svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto" (D.L. 163/2005, art. 6).
Cercheremo di esaminare il merito della vicenda facendo innanzitutto riferimento al quadro normativo preesistente, chiariremo poi l’origine dell’intervento interpretativo e valuteremo infine le conseguenze della decadenza del provvedimento.
1 - Cosa prevedeva la legge sull’ICI
L’ICI, che è stata istituita dal decreto legislativo n. 504 del 1992, dalla sua origine prevede una serie di ipotesi esenzione: l’articolo 7, per l’appunto rubricato "esenzioni", identifica tutti gli immobili per i quali l’imposta non è dovuta.
Sono esenti, ad esempio: gli immobili in cui si svolgono le attività istituzionali dello Stato e quelli degli altri enti pubblici come le sedi dei comuni, delle province, delle regioni, le unità sanitarie locali, gli ospedali, le scuole pubbliche e, in generale tutti gli edifici dove l’ente pubblico eroga servizi; tutti i fabbricati della categoria catastale E; i fabbricati con destinazione ad usi culturali di cui all’art. 5-bis del D.P.R. 601/73; i fabbricati appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali; i fabbricati inagibili a condizione che siano recuperati e destinati alle attività assistenziali in favore dei portatori di handicap; i terreni agricoli montani, eccetera.
Alcune tra le ipotesi di esenzione, riguardano in modo particolare gli immobili degli enti ecclesiastici, come quella relativa agli edifici di culto e loro pertinenze (cf c. 1, lett. d) e quella, oggetto dell’interpretazione autentica recata dall’art. 6 del D.L. 163 che agevola gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali e «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a) della L. 20.5.1985, n. 222 [sono le "attività di religione o di culto": "quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana"]» (art. 7, c. 1, lett. i).
Come è facile notare la disposizione prevede l’esenzione per gli immobili in relazione ai quali si verificano contemporaneamente due requisiti: devono essere utilizzati dagli enti non commerciali e devono essere destinati a quelle attività che la legge indica. A condizione che siano destinati alle attività indicate dalla legge l’esenzione spetta a perciò ad un’ampia platea di soggetti, non importa se pubblici o privati, laici o religiosi, cattolici o di altre confessioni. L’agevolazione riguarda l’intero mondo del cosiddetto non profit,: alle fondazioni come ai comitati, alle organizzazioni di volontariato come alle organizzazioni non governative, associazioni nelle varie forme e tipologie: di promozione sociale, sportive dilettantistiche, familiari, sindacali, culturali, ricreative; spetta inoltre anche a tutti gli enti pubblici territoriali e a quegli enti pubblici che rientrano fiscalmente nel concetto di ente non commerciale.
2. Perché è stata emanata la norma di interpretazione autentica
Nella primavera dello scorso anno, la Cassazione ha emanato quattro sentenze (tutte però relative alla stessa vertenza, riguardanti quattro anni d’imposta, quelli dal 1993 al 1996) nelle quali dà un’interpretazione restrittiva e non logicamente motivata dell’esenzione (cf Sentenza 4573, 4642, 4644 e 4645, tutte del marzo 2004).
Il caso, che vale la pena di ripercorrere con un minimo di analiticità, riguarda gli immobili nei quali un istituto religioso svolge delle attività che ritiene incluse tra quelle esenti ai fini ICI; si tratta di un pensionato (attività ricettiva) e una casa di cura (attività sanitaria). L’istituto applica l’esenzione e non versa l’imposta, ma il comune però nega l’agevolazione ritenendo che, a motivo della commercialità delle attività esercitate, l’istituto religioso sia carente del requisito soggettivo richiesto (ovvero essere un ente non commerciale); reclama perciò il versamento dell’imposta per tutti gli anni compresi tra il 1993 e il 1998. L’istituto ricorre ai giudici tributari eccependo che l’ente ecclesiastico è sempre qualificabile, dal punto di vista fiscale, come un ente non commerciale.
Tale qualifica, infatti, a differenza di quanto avviene per la generalità degli enti non commerciali, non può mai essere contestata dall’Amministrazione finanziaria come dimostra l’articolo 111-bis del D.P.R. 917/1986 (ora art. 149) in cui è stabilito che le disposizioni disciplinano la perdita di qualifica di ente non commerciale (a partire dalla prevalenza delle attività commerciali su quelle istituzionali e proseguendo con una serie di indicatori presuntivi) «non si applicano agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili». La Commissione Tributaria Provinciale, però, ignora la norma invocata e stabilisce che, a motivo del giro d’affari realizzato nell’ambito delle attività in questione, quelle commerciali si configurino per l’istituto religioso come attività prevalenti; ne fa conseguire l’impossibilità di classificare l’istituto religioso tra gli enti non commerciali. Contro la decisione di prima istanza l’ente ecclesiastico ricorre in secondo grado dove - singolarmente - la sentenza di primo grado viene riformata per due delle annualità in questione e confermata per le altre quattro (non è un esempio di certezza del diritto!). Per i giudici regionali che hanno confermato le sentenze favorevoli al comune, la circostanza che l’esercizio di attività commerciali costituisse per l’istituto religioso oggetto non di attività non occasionale conduce a ritenere che l’istituto non possa essere collocato tra gli enti non commerciali e, di conseguenza che non possa «essere compreso tra quelli che beneficiano dell’esenzione di cui si discute». Il contenzioso prosegue (anche se solo relativamente alle sole sentenze confermate, perché quelle riformate non vengono impugnate dal comune e diventano definitive) fino a giungere alle Sentenze della Cassazione sopra citate. Circa l’obiezione che ha motivato il rigetto del ricorso nei primi due gradi di giudizio (l’istituto religioso non è un ente non commerciale), la Cassazione arriva a conclusioni totalmente favorevoli al ricorrente. I giudici infatti, riconoscendo che l’Istituto religioso «è un ente ecclesiastico che fa parte dell’organizzazione della Chiesa Cattolica» ne fanno derivare che «rientra certamente» nell’ambito della definizione di ente non commerciale; infatti, motivano, «proprio perché ente ecclesiastico non ha, in particolare come fine esclusivo - e si deve ritenere neppure prevalente - l’esercizio del commercio». La Sentenza precisa che ai fini dell’esenzione in questione, occorre che si verifichino contemporaneamente entrambe le condizioni richieste dalla norma «quella soggettiva dell’appartenenza dell’immobile ad uno dei soggetti di cui all’art. 87, c. 1, lett. c) del TUIR, e quella oggettiva della destinazione esclusiva dell’immobile allo svolgimento di una delle attività - ritenute dal legislatore meritevoli di un trattamento fiscale di favore - elencate nella lettera i) dell’articolo 7». Secondo la Corte, la riconosciuta sussistenza del requisito soggettivo «non è sufficiente per fondare il diritto all’esenzione» dal momento che «non sussiste invece il requisito oggettivo, anch’esso indispensabile, della destinazione esclusiva dell’immobile ad una delle attività prese in considerazione dalla legge ai fini dell’esenzione».
A questo punto la Sentenza, argomentando sul requisito oggettivo che non era stato preso in esame nei precedenti giudizi, inserisce un lungo inciso ove riassume alcune disposizioni della legge n. 222 del 1985, "Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia". In particolare, viene ricordato che ai sensi dell’articolo 15 gli enti ecclesiastici "se civilmente riconosciuti, possono, nel rispetto delle leggi dello Stato, svolgere liberamente attività diverse da quelle di religione o di culto"; che l’articolo 16 della L. 222 divide in due categorie le attività di tali enti: le prime, definite "attività di religione o di culto", identificate in "quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana" (lett. a) si tratta di attività che l’ente ecclesiastico deve necessariamente svolgere, in quanto essenziali alla sua stessa natura.
Le "attività diverse da quelle di religione o di culto" sono invece attività che gli enti ecclesiastici possono svolgere, in aggiunta alle prime: "quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro" (lett. b). La Corte inoltre ricorda che mentre le attività di religione o di culto sono indicate nell’elencazione della lettera i) dell’articolo 7 della legge sull’ICI attraverso il richiamo all’articolo 16, lettera a) della legge 222 del 1985, non altrettanto può dirsi delle attività diverse da quelle di religione o di culto che gli enti ecclesiastici sono comunque legittimati a svolgere. Ma, chiarisce correttamente la Sentenza, "questo non esclude necessariamente che possano godere anch’esse del medesimo regime di favore: molte di esse (quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura), rientrano già - in via diretta e non tramite il richiamo alla legge sugli enti ecclesiastici - nella previsione della lettera i)". Ciò che invece secondo la Suprema Corte nel caso in discussione preclude il diritto all’esenzione è "lo svolgimento all’interno degli immobili da sottoporre a tassazione di attività commerciali" e ciò "indipendentemente dalla loro entità sia in valori assoluti che in termini relativi". L’Istituto religioso, sentenzia la Corte, svolgeva "attività oggettivamente commerciali come la gestione di pensionati con il pagamento di rette. Si trattava perciò di attività, che proprio perché oggettivamente commerciali, non erano soltanto ricettive o sanitarie e come tali esentate dall’ICI (perché ricomprese nella previsione della lettera i) dell’articolo 7)". Ne consegue, ad avviso della Cassazione, che "gli immobili destinati a queste attività oggettivamente commerciali non rientrano, invece, nell’ambito dell’esenzione dall’ICI, e per essi l’Istituto è tenuto al pagamento dell’imposta". La conclusione di carattere generale è pertanto che "anche gli enti soggettivamente non commerciali (e perciò anche quelli ecclesiastici) sono soggetti all’imposizione ICI per gli immobili destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali". Dagli ultimi passaggi citati si può notare come la Corte cada in contraddizione, là dove nella prima parte della Sentenza sottolinea la necessità (e la sufficienza), ai fini del diritto all’esenzione, della contemporanea presenza del requisito soggettivo (ente non commerciale) e di quello oggettivo (esclusivo utilizzo per una o più delle attività elencata dalla norma agevolativa), in seguito, invece, introduce un ulteriore condizione: l’attività svolta nell’immobile deve essere anche non commerciale dal punto di vista fiscale. Ma l’assenza del carattere commerciale dell’attività non è richiesta dalla norma; circostanza, questa, implicitamente ammessa dalla stessa Corte come emerge dal passo della Sentenza in cui si afferma che le attività svolte dall’Istituto religioso, in quanto "oggettivamente commerciali, non erano soltanto ricettive o sanitarie". In altri termini, la Sentenza non contesta che le attività svolte non rientrino tra quelle ricettive o sanitarie, piuttosto lamenta che non sono "soltanto" ricettive o sanitarie, e quindi sono "anche" commerciali.
L’art. 6 del D.L. 163 precisava, appunto, che ai fini dell’esenzione le attività indicate dalla legge dell’ICI sono agevolate indipendentemente dall’eventuale carattere di commercialità con cui le stesse vengono svolte.
3. Quali sono le conseguenze della decadenza del decreto legge
Dal momento che questa era (e rimane) disciplinata dall’articolo 7, c. 1, lett. i) della legge sull’ICI la decadenza del decreto legge 163 non comporta il venir meno dell’esenzione.
La situazione torna quindi ad essere quella preesistente: la Corte di Cassazione fornisce, in quattro sentenze (ma, come abbiamo evidenziato, riguardanti tutte lo stesso caso) un’interpretazione restrittiva e non logicamente motivata di una norma il cui tenore letterale è estremamente chiaro: l’esenzione spetta se l’immobile è utilizzato da un ente non commerciale e se è destinato totalmente ad una o più delle 8 attività indicate dalla legge; l’ulteriore condizione dell’assenza del carattere commerciale dell’attività non è richiesta dalla norma, né può esservi aggiunta in via interpretativa.
D’altra parte l’illogicità di tale lettura appare evidente se consideriamo che qualora venisse assunta come chiave interpretativa della norma agevolativa comporterebbe in pratica l’inutilità di una buona parte delle esenzioni previste dalla legge. Si pensi, ad esempio alle attività sanitarie, didattiche e ricettive: dal momento che tali attività non possono essere svolte se non come attività commerciali la loro inclusione tra quelle oggetto di esenzione sarebbe praticamente senza alcun significato. Infatti, l’unica possibilità che tali attività possano essere esercitate in forma non commerciale è l’ipotesi di esercizio gratuito e non convenzionato (esempio ambulatorio per soggetti emarginati, scuola di alfabetizzazione per extracomunitari, rifugio per persone senza fissa dimora). Se, però, questa fosse l’interpretazione corretta la loro menzione nell’elenco delle attività esenti sarebbe del tutto superflua in quanto, svolte in forma gratuita sarebbero già esenti in quanto incluse tra quelle assistenziali che la norma già prevede.
Quel che evidentemente non viene tenuto in debito conto è che l’ICI non è un’imposta sul reddito, ambito nel quale la commercialità dell’attività riveste imprescindibile rilevanza, ma un’imposta patrimoniale che colpisce gli immobili e che prevede una serie di esenzioni ai cui fini rilevano di volta in volta elementi diversi, ma mai la qualifica commerciale o non commerciale delle attività svolte negli immobili. D’altra parte, nell’ipotesi dell’esenzione prevista dalla lettera i), la ratio della norma è quella di agevolare una serie di attività alle quali il legislatore attribuisce una particolare valenza sociale, a condizione che esse siano svolte da enti non commerciali, limitazione che garantisce l’assenza del lucro soggettivo, dal momento che la caratteristica comune e imprescindibile degli enti non commerciali e la non distribuzione di utili o avanzi di gestione.
Inoltre, giova ricordare che se si può sicuramente affermare che una sentenza di Cassazione costituisce un precedente senz’altro autorevole, va anche ribadito che essa non ha validità "normativa" in altri giudizi. Infine non va escluso che la stessa Cassazione potrebbe sempre modificare il proprio orientamento su futuri casi analoghi che dovessero essere sottoposti al suo giudizio.
Testo tratto da "il consulente NON PROFIT"
di Patrizia Clementi