Il crollo da Shanghai: e poi?

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LiviaGloria
00giovedì 1 marzo 2007 12:32
economia

Il crollo da Shanghai: e poi?
Maurizio Blondet
28/02/2007
Nel 1929, la grande crisi fu innescata dal fallimento di una piccola, sconosciuta banca austriaca.
Oggi comincia dalla Borsa di Shanghai.
Non importa molto, da qualche parte deve cominciare.
Ancora una volta, la globalizzazione (c'era, di fatto, anche negli anni '20) porta allo stesso esito: un crack che si estende al mondo intero, che i poteri forti speculativi hanno voluto senza confini.
Inutile cercare di capire cosa ha prodotto il rovesciamento: la Borsa di Shanghai era salita del 130 % nell'ultimo anno, un «trionfo» pari a quello di Wall Street nel 1929, in salita fino al fatale settembre nero.
Entrambi i «trionfi» indicano un mercato spinto dalla speculazione pura, la cui correzione è inevitabile.
Gli speculatori, leoni quando le cose vanno bene, sono conigli quando le cose vanno male: la loro coscienza sporca (e i debiti che hanno contratto per speculare) li obbliga a vendere alla minima «voce» di allarme.
Il mercato di Shanghai è salito ancora dell'1,4 % lunedì; martedì è crollato di un abissale 8,9 %.
«Non ci sono fatti concreti che giustificano il crollo», dicono gli operatori locali.
In Occidente si tende ad attribuire lo slittamento ad Alan Greenspan: il grande vecchio ex-capo della Federal Reserve, durante una conferenza ad Hong Kong, aveva alluso alla probabilità che l'economia USA entrasse in recessione prima della fine dell'anno.
Cina ed USA sono legati dalla globalizzazione alla stessa catena: il grande creditore (Pechino) s'è legato a filo doppio al massimo debitore mondiale, Washington.
La rovina dell'uno sarà la rovina dell'altro.
Peggio: gli interessi dei due sono in contrasto.
Gli USA hanno interesse ad una drammatica svalutazione del dollaro, che ridurrebbe di altrettanto il suo debito e renderebbe più costose le merci cinesi ai consumatori USA; la Cina ha bisogno che il dollaro, di cui ha immagazzinato riserve spropositate, non cali troppo per i motivi opposti.
Il maggior mercato delle sue merci è infatti l'America.



Questo contrasto rende improbabile una gestione concertata della crisi.
Le borse sono tutte in calo, a cominciare da quelle asiatiche per finire con le europee.
E il calo continua.
In USA, il Dow Jones ha perso 540 punti nel momento più basso, alla fine della giornata era ancora sotto di 400 punti.
Ma la verità è rivelata dai volumi: 2,3 milioni di dollari di azioni sono salite, contro 2,3 «miliardi» di dollari che sono calate.
Insomma, come nel '29, tutti vendono e pochissimi comprano.
Il 99 % del volume azionario è in calo.
Questo pone in una situazione tragica gli anziani americani vicini alla pensione, la classe d'età più affollata della storia, i «baby boomer» nati dall'esplosione della natalità nel dopoguerra (1945). Tutte le speranze di avere una buona pensione di costoro risiedevano nel rialzo perenne della Borsa: i loro risparmi sono investiti nei fondi pensionistici (gli stessi che ci propongono ora governo Prodi e sindacati) che piazzano in azioni il capitale loro affidato.
Ora i «baby boomer» cominciano a ritirarsi dal lavoro.
Se prima «risparmiavano» (o accantonavano) per la vecchiaia, oggi e nei prossimi anni cominceranno a vendere il loro portafoglio di azioni.
Il problema è: chi le comprerà?
Le giovani generazioni sono meno numerose e meno benestanti (grazie ancora alla globalizzazione, che ha trasferito i posti di lavoro in Cina) dei «baby boomer», hanno meno soldi da «investire» in azioni.
Come ogni merce la cui offerta supera la domanda, le azioni caleranno, e il calo sarà storico, di lunga durata, e reso ineluttabile dalla demografia.
Inutile dire che lo stesso fenomeno investe l'Italia, in crisi demografica avanzata.
Gli anzianotti dormivano su una ricchezza di carta, che ora però devono trasformare in liquido.
Ovviamente, ogni «baby boomer» spera di strappare il maggior valore nominale dalla sua ricchezza di carta: ora che le borse calano, a milioni saranno indotti ad anticipare le vendite, prima che lo facciano gli altri e le loro azioni calino ancora.



Sta per instaurarsi lo stesso circolo vizioso del '29, quando tutti vendevano e nessuno comprava?
In ogni caso, si è instaurata una mentalità di massa «difensiva», che è il contrario dello slancio fiducioso che provoca i «trionfi» e i rialzi e le «riprese» economiche.
Del resto l'economia USA è già in recessione.
Il Dipartimento del Commercio ha comunicato che solo a gennaio, gli ordinativi per beni durevoli sono calati del 7,8 %.
Le case sono calate quasi dell'1 %.
Il clima sociale in USA sta cambiando, le migliaia di posti di lavoro perduti verso la Cina, il decennale calo delle paghe in termini reali, ora lo sgonfiarsi della bolla immobiliare, hanno intaccato la dissennata fiducia americana.
Lo dimostrano vari fatti, fra cui questo: nonostante le guerre e l'instabilità crescente in Medio Oriente, il prezzo del petrolio cala.
Alcuni economisti prendono il coraggio di scrivere che il sistema di «mercato sociale» europeo, con le sue previdenze sociali, è forse meglio del liberismo sfrenato all'americana: temono l'esplosione della società e cercano affannosamente i rimedi nel passato che prima disprezzavano.
Ma un New Deal non è probabile.
Gli Stati repubblicani e quelli democratici, coi loro elettorati, sono sempre più radicalizzati nelle rispettive posizioni.
Il clima sociale e politico diventa sempre più aspro.
L'infondata fiducia americana è la conseguenza diretta della sventata crisi degli anni '90.
La borsa salì allora per tre fattori fondamentali e intrecciati: tecnologia, dis-inflazione e demografia.
Il boom di internet e il boom delle telecom crearono domanda aggiuntiva e frenetica per merci fisiche (computer, telefonini, gadget elettronici) e per software e servizi correlati.
Siccome tutto ciò veniva e viene fatto in Asia, i consumatori ebbero il profitto di prezzi calanti, e i capitalisti la pacchia di profitti crescenti, ovviamente Made in Taiwan.
In ogni caso, il boom creò posti di lavoro strapagati ai livelli alti, e i meno fortunati lavoratori dipendenti avevano la «ricchezza» crescente delle loro azioni nei fondi-pensione, e il «valore crescente» delle loro case.
Quando scoppiò la bolla tecnologica, la Federal Reserve di Greenspan scongiurò il collasso iniettando enormi liquidità nel sistema: ciò evitò la bancarotta dei privati e delle imprese (non del tutto: i fallimenti Enron e WorldCom sono stati i più titanici della storia).
A coprire il trucco ci fu la «irrazionale esuberanza» delle Borse.



Ma oggi non ci sono telefonini-miracolo, non tecnologie di consumo da vendere ai gonzi; il lancio di Microsoft Vista non ha suscitato i soliti (stupidi) entusiasmi per il «nuovo»; i prezzi delle case (su cui gli americani hanno acceso ipoteche, per continuare a spendere) sono calati e il calo durerà.
La sola prospettiva «rosea» viene dall'apparato militare industriale, il solo boom prevedibile è quello delle guerre di Bush.
Non si vede il miracolo che ci farà uscire dal crack.
E allora?
Bisogna fare i complimenti agli economisti francesi di Europe 2020, che hanno previsto la recessione globale per aprile: persino loro hanno ecceduto in ottimismo, la recessione comincia a marzo.
Anzi la crisi sistemica globale.
Ossia, secondo Europe 2020, il convergere di molteplici fatti negativi che colpiscono le basi stesse dell'economia globale, e si rafforzano negativamente l'un l'altro.
Questi sono: l'accelerazione dei fallimenti delle società finanziarie speculative (e 2020 ne prevede una al giorno per aprile).
L'aumento spettacolare degli immobili sequestrati perchè i loro proprietari, che li abitano, non possono più pagare i ratei dei mutui: 10 milioni di americani sono gettati sulla strada.
Di conseguenza, crollo dei prezzi immobiliari.
«Guerra» commerciale fra Cina e USA, con l'imposizione di dazi punitivi sulle merci cinesi:
se avverrà, sarà l'innesco del «gelo» degli scambi commerciali globali, esattamente come accadde dopo il 1929.
Vendite e svendite di dollari da parte della Cina e degli asiatici.
Caduta brutale del dollaro su euro, yen e yuan; caduta conseguente della sterlina.
Uno dei fatti previsti, il rovesciamento del «carry trade» (indebitarsi in yen a basso tasso per investire in monete ad alto tasso) sta già verificandosi, accelerato dal rialzo dello yen.
E sullo sfondo, le guerre che Bush sta perdendo, e l'incognita della guerra che vuol fare, contro l'Iran.



Che deve fare ciascuno di noi?
Impossibile dirlo, perché ogni situazione è unica, e gli eventi sono ancora in movimento.
Certo è che è meglio non avere debiti, o chiuderli: tenersi lontano dalle Borse; avere 20-30 mila euro in cassetta di sicurezza.
Chi può, compri oro in piccoli pezzi: è calato anche quello, con il crollo di Shanghai, e già questo dice molto.
Ma l'oro non è un investimento speculativo, è il rifugio estremo.

Maurizio Blondet





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LiviaGloria
00giovedì 1 marzo 2007 12:47
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01 marzo 2007
Qualcosa sta cambiando nelle alte sfere


È difficile dire con certezza cosa si sia abbattuto nella giornata di ieri sui mercati asiatici, talmente disastroso da mandare in fumo 700 miliardi di dollari di capitalizzazione delle società quotate sulle principali borse mondiali. Il dato indiscutibile è che segnali di questo tipo precedono sempre degli stravolgimenti globali, come se fossero delle scosse di assestamento verso un terremoto che cambia i punti di riferimento dell'economia mondiale.
Se da una parte gli Stati Uniti e l'Europa stessa mostrano tutta la loro vulnerabilità e debolezza, le economie emergenti non accusano di molto il colpo, evitando da una parte lo scatenarsi dell'effetto domino, e dall'altro confermandosi dei fieri antagonisti delle potenze economiche di sempre. Sono la Russia, la Cina, l'India e la Turchia, le rivelazioni, che hanno energia ed una economia reale molto più consistente di quella occidentale, fatta di servizi e valori immateriali, di concessioni e di presidio militare presso le fonti di energia degli altri Stati.

Gli Stati Uniti sono effettivamente un'economia in recessione, trascinata dal crollo degli ordini industriali e degli immobili, dal forte deficit commerciale e dal debito pubblico che è stato esasperato proprio dalla guerra, che aveva lo scopo di continuare a far girare l'economia Statunitense. Le dichiarazioni di Greenspan sulla probabile recessione sono molto chiare, tanto da farci sospettare che dietro tutta questa franchezza, vi sia l'evidenza innegabile del disastro economico o un colpo di stato dei Banchieri. Il dollaro ha subito un'altra forte svalutazione che viene sempre più presa sul serio dalle Banche Centrali degli altri Stati: a distanza di un anno dall'annuncio della mancata pubblicazione dei dati della massa M3, c'è stata una diversificazione delle riserve che ha portato alla dismissione di 1/3 dei valori denominati in dollari.
Per quanto riguarda le Borse Asiatiche, dobbiamo tener presente che sono un mercato patologicamente instabile, che esce da lunghi anni di speculazione e di assenza di controlli, per attirare capitali dall'estero. La prassi che dura da tempo ormai è quella del "carry trade" dei grandi fondi di investimento, che comprano in blocco delle grandi quantità di azioni, indebitandosi presso economie con tassi di interessi bassi, per poi rivendere ove i rendimenti sono più alti: queste operazioni possono avvenire anche nel medesimo giorno, e possono da sole spostare gli indici di borsa o valutari. Lo spettro della recessione o forse la notizia dei controlli e del divieto del ricorso all'indebitamento per acquistare azioni, ha spinto i fondi a ritirare la liquidità, cioè a realizzare l'investimento fatto, per mettere al sicuro i soldi e investirli in beni rifugio, come titoli di debito pubblico, oro e commodities. Questo tuttavia toglie ossigeno alle società, che con un effetto domino perdono i propri investitori. E' questo il maggiore colpo inferto, che si riflette anche i questi giorni successivi al crack con continui ribassi delle borse, e se questo trend non verrà recuperato, allora vorrà dire che questi soldi veramente sono stati bruciati e non torneranno più nelle borse occidentali, sfiduciate dagli investitori.

Chi subirà dunque il probabile shoc delle borse sono quelle occidentali che non hanno energia e hanno fatto girare l'economia con la virtualizzazione del denaro, fino ad arrivare al punto che la moneta non ha più un valore reale, ha bisogno degli investimenti in termini di fonti di energia provenienti dall'estero.
Per tale motivo la Russia è entrata in maniera prepotente nelle grandi società europee, sui mercati dell'energia ed è tornata alla ribalta sulla scena politica. Il caso di EADS è esemplare, perché se da un lato si decide la ristrutturazione della società con il licenziamento di oltre 10.000 dipendenti, dall'altro si propone l'ingresso dei capitali e degli investimenti della Russia e del Qatar, che stanno unendo le loro forze per creare una Opec del Gas: è l'energia che fa fluire anche i capitali nell'economia. Mentre quella dell'Iran è stata una proposta che non ha avuto un seguito a causa della pessima gestione diplomatica dei Mullah sia con l'Onu che con la Russia, Il Qatar e la Russia sono seriamente intenzionati a creare una vera alleanza tra paesi esportatori di gas, discutendone in occasione della prossima conferenza del Doha, affiancando poi una strategia di rafforzamento politico all'interno dell'ONU e del WTO.
Allo stesso modo i capitali russi stanno arrivando in Italia, grazie al patto di reciprocità stretto con il governo italiano che prevede l'ingresso diretto all'interno del mercato del gas, andando in un primo momento a sottrarre importazioni all'Eni, con il potenziamento della tubazione mediante il gasdotto Tag. Contatti con Mosca ci sono anche per la Hera e l'Edison, per la Aem che ha preso contatti tramite la Plurigas, per la Asm e le municipalizzate consorziate dalla Confservizi International, e infine per la Sorgenia e la Gas Plus. Restano protagonisti Eni ed Enel, che, formando con la Esn russa il consorzio Ernergogaz, stanno per ottenere una partecipazione rilevante per lo sfruttamento dei giacimenti dell'ArtikGaz della Yukos, in quanto Gazprom non parteciperà all'asta di acquisto, cedendo il passo per avere probabilmente in cambio la cessione della Snam Retegas. La stessa Telecomitalia aveva avuto tra i principali offerenti una compagnia russa, Sistema, che intendeva acquisire parte delle azioni che Tronchetti Provera detiene in Olimpia. È chiaro che, se questi sono i presupposti, Mosca detiene oggi una forte influenza sulla politica italiana, molto più di quanto non la abbia Washington, che ovviamente vuole difendere la sua posizione indiscussa mediante l'ampliamento della Base di Vicenza.
L'Italia è evidentemente terra di scontro, così come lo sono i Balcani, che, grazie all'intervento della Russia, stanno rivendicando, trascinati dalla Serbia, un certo ruolo di protagonismo nella gestione degli affari interni e delle controversie internazionali, come lo dimostra la sentenza di assoluzione dell'Aja e il pugno forte con il Kosovo.
Rivolgendo poi l'attenzione ai paesi dell'Est Europa, del Medioriente e dell'Asia centrale il ruolo di catalizzatore e di accentratore diplomatico è svolto proprio dalla Russia, che non scende a patti con le sette finanziate dalle lobbies del Petrolio.
Il petrodollaro tra dunque fallendo, è questione di mesi probabilmente, e il cambiamento della sfera di potere non potrà che portare a gravi conflitti invisibili o sanguinosi, ma pur sempre distruttivi per l'economia e per gli Stati.

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