Il lavoro è finito, c’è bisogno di una nuova visione

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wheaton80
00venerdì 31 maggio 2013 01:06
DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com

Se dovessimo scegliere un termine, un unico termine, per definire in modo generale tutti i dibattiti che si svolgono a ogni latitudine attorno al tema lavoro, sceglieremmo “anacronismo”. Proprio in queste settimane iniziano i valzer delle dichiarazioni in merito al rilancio dell’occupazione, in attesa dell’annunciato vertice europeo che dovrebbe organizzare Angela Merkel verso la fine di luglio.

È inevitabile che nella congiuntura attuale di enorme crisi recessiva che stiamo vivendo e che si ripercuote, sebbene con ovvie differenze, da Est a Ovest, all’interno del nostro modello di sviluppo sia l’argomento principale attorno al quale ruotano tutte le (vacue) proposte di questo o quel governo. Ciò che ci si scorda perennemente, però, è un dato di fatto inerente la logica stessa della deriva che ha preso il mondo che conosciamo: il lavoro è finito. O quasi. Lo schema generale che regge tutta l’impalcatura delle varie ipotesi per invertire la rotta dell’inesorabile declino del cosiddetto Occidente è sempre lo stesso: lavoro, produzione, consumo.

Di merci e servizi. La logica interna è che ci sarà sempre bisogno di nuove merci e di nuovi servizi in modo che attraverso il consumo la macchina potrà continuare a marciare. E a crescere. Sappiamo bene, soprattutto i nostri lettori lo sanno e certamente lo hanno interiorizzato se leggono questo giornale e gli studiosi e giornalisti che in un verso o in un altro fanno parte della stessa area, che il criterio unico è sempre quello: crescere. All’infinito. Siccome ciò non è possibile, come dovrebbe essere ovvio per semplici motivi fisici, è evidente che tale strada non possa che condurre al fallimento. Che stiamo puntualmente, infatti, vivendo.

A fronte di questa lapalissiana considerazione, i sedicenti economisti hanno optato e continuano a proporre due comportamenti. Da un lato, semplicemente, non rispondono: non potendo offrire argomenti logici e pertinenti, bollano il tutto come una provocazione e basta, roba da non prendere sul serio, insomma. Dall’altro lato puntano sul fatto che, crescendo la popolazione mondiale, si potranno sempre trovare nuovi mercati per nuove esigenze anche quando, ma questo è implicito sebbene non dichiarato, ciò dovesse significare imporre anche con le armi alle persone di adottare tale modello. Gli esempi recenti e contemporanei non mancano.

Senonché non solo la storia si è premurata di smentirli, sebbene la cosa non gli abbia impedito di continuare imperterriti a tessere le lodi e a pontificare i salmi della propria dottrina, ma anche alcuni fenomeni della loro stessa disciplina, chiamiamola così, si sono, e da anni, incaricati di confermare le tesi opposte. Quelle, cioè, dei cosiddetti pessimisti.

Il fatto che l’economia si sia trasformata strada facendo da elemento materiale a fenomeno immateriale, conferma indirettamente proprio la domanda iniziale: siccome dal punto di vista fisico non è più possibile crescere, per ottenere ancora i grafici positivi, e con punte sempre maggiori, il tutto si è trasformato in una soluzione virtuale, quella finanziaria. Se una volta i dati di crescita dipendevano dal ciclo che abbiamo detto (produzione e consumo a ritmi crescenti), verificato che questo non poteva più avvenire ai ritmi di prima e che anzi il gioco era inesorabilmente destinato a rallentare, a regredire e alla fine a rompersi, gli squali della speculazione hanno virato decisamente verso la finanza.

La pesantezza e le difficoltà della materia, cioè l’industria, sono state lasciate andando decisamente verso i bit, verso la “matematica”. La natura ha posto i limiti, e allora si è scelto l’innaturale. Il virtuale. Ciò, inevitabilmente, ha avuto le ripercussioni che tutti conosciamo, invece, nell’economia reale. Del resto, se una società per azioni cresce in Borsa nel momento in cui l’azienda che ne è alla base comunica di aver risparmiato milioni di euro riducendo la propria forza lavoro e mandando a casa qualche migliaio di dipendenti, non è che servano ulteriori conferme o spiegazioni.

In questo macro quadro, dunque, torniamo all’anacronismo del parlare di “lavoro”. Beninteso, le varie parti in campo, nel momento in cui non “leggono”, o non vogliono leggere, la realtà, altro non possono fare che continuare ad affrontare l’argomento con i medesimi criteri di sempre. Che non sono più validi. Per dirla alla de Benoist, “vanno avanti guardando nello specchietto retrovisore”. La destinazione, pertanto, è facile da prevedere.

Ora, è chiaro che di una certa materialità ci sarà sempre bisogno. È certo che in qualche misura ci sarà sempre bisogno di persone che producono qualcosa di materiale, e che dunque il ritorno a una certa soglia di occupazione debba tornare. Che si tratti del lavoro come lo abbiamo concepito negli ultimi decenni oppure delle attività che facevano parte di un mondo certamente più sostenibile come era prima della rivoluzione industriale, la gente qualcosa tornerà a fare. Ma che ci si batta imperterriti per far tornare a produrre ai ritmi di una volta delle industrie che lavorano in ambiti merceologici di cui il mondo è ormai saturo, è operazione che porta dritti al fallimento e alla delusione.

Non va dimenticato, all’interno di un discorso generale sul “lavoro”, che permangono in ogni caso sotto traccia, ma con incidenza crescente e non eludibile, i temi della crescita demografica e quelli dell’impoverimento delle risorse del pianeta nel quale viviamo. Come si vede, torniamo sempre alla materia, alla natura, a elementi misurabili e quantificabili. Reali e non virtuali: la popolazione mondiale non può continuare a crescere all’infinito e non possiamo continuare a depredare la terra così come abbiamo fatto sino a ora e a inquinarla con questi ritmi. Bazzecole, per i guru dell’economia e della crescita.

Falsi allarmi, per chi punta unicamente sul ritorno al lavoro per come era negli anni anticrisi. La realtà, ancora una volta, si premunirà di rimettere le cose a posto, nel senso che renderà evidente ancora una volta come in questo mondo fisico nel quale viviamo sia indispensabile tornare a fare i conti con la materia, e non con l’immateriale, per trovare una strada di convivenza tra gli uomini e tra questi e il luogo nel quale vivono.

Discorso differente è quello relativo ai servizi, alla crescita non materiale. Pensiamo a tutto il settore culturale. Invece di produrre oggetti, creare cultura. Conoscenza. Arte. E renderla disponibile a tutti. Lì il campo si può espandere moltissimo. E in pieno rispetto dei limiti fisici della terra.

Posto che la produzione industriale debba necessariamente arrestarsi, se non addirittura regredire a ritmi e quantità più sostenibili, è negli altri ambiti che si può crescere. E creare occupazione. Lavorare fisicamente meno, dunque. Tutti, magari, ma solo per metà giornata. E il resto del tempo si possa passarlo a “consumare” cultura e arte. Si finisce di lavorare alle 13, e non per produrre nuove merci, magari per migliorare il funzionamento di quelle esistenti. Non per costruire nuovi palazzi, magari per restaurare quelli da ripristinare. E il pomeriggio si va ad ascoltare un concerto, una conferenza. O a vedere una esposizione. A 1 euro a biglietto.

Una ipotesi, quest’ultima, che lasciamo volutamente abbozzata in modo superficiale. Ma che ha un criterio ben preciso: quello della sostenibilità. E una direzione parimenti auspicabile: quella della piena occupazione. Oltre, si sarà notato, una missione superiore ancora più piacevole: un mondo con meno merci, ma con più beni. Non esiste altra strada perseguibile. Il resto sono chimere che hanno già dimostrato la loro fallacia.

La sintesi legata all’attualità è dunque semplice: chiunque, oggi, intenda affrontare le problematiche relative al lavoro, che si tratti di politici, di intellettuali, di sindacalisti o di industriali, ha due soli modi per operare: affrontare il tema alla luce dei punti cardine che abbiamo accennato oppure tacere. Tutte le altre saranno parole inutili, purtroppo, per tutte le persone che sono senza lavoro e che ne reclamano uno.

28.05.2013
lospecchiodelpensiero.wordpress.com/2013/05/30/il-lavoro-e-finito-ce-bisogno-di-una-nuova-...
wheaton80
00venerdì 31 maggio 2013 01:09
Bob Black - L'abolizione del lavoro

www.ecn.org/nautilus/PDF/bob%20black.pdf
wheaton80
00mercoledì 16 dicembre 2015 13:19
Finlandia pronta a mettere fine al lavoro

HELSINKI (WSI) – I paesi scandinavi sono conosciuti in tutto il mondo per un sistema di welfare funzionante che protegge chi si trova senza un impiego senza al contempo gravare eccessivamente sul debito pubblico. Nessuno avrebbe mai pensato, però, che un governo – per giunta di centro destra – potesse arrivare a tanto. Il progetto di legge annunciato dal nuovo Primo Ministro Juha Sipila, in carica da fine maggio, è un esempio più unico che raro in Europa. Mai prima d’ora un governo aveva presentato un piano per un reddito minimo così alto e di così ampia portata. Un reddito universale di fino a 1.000 euro per tutti i cittadini, a prescindere dalla loro età o situazione sociale, renderebbe il lavoro una “scelta di vita”. Sarebbe infatti sufficiente a condurre una vita modesta, ma dedita completamente al tempo libero e agli interessi personali, oltre ai doveri di famiglia e burocratici. Nonostante le ultime difficoltà economiche, Helsinki ha un PIL pro capite superiore a quello della Germania o della Francia. Il rapporto tra debito e PIL è del 59,3%. Nove anni prima era del 41,7%. Il Paese si può considerare uno di quelli ricchi e virtuosi dell’area euro. Il programma sarebbe possibile grazie al fatto che in Finlandia tutti pagano le tasse e grazie anche al taglio deciso del numero di funzionari pubblici incaricati dei programmi sociali. L’idea è quella di utilizzare buona parte delle risorse destinate al sistema previdenziale e di welfare e sostituirle con un reddito minimo universale. Il progetto, un’utopia dagli effetti perversi per i critici, è sostenuto da gran parte dei partiti politici. Alcuni evocano una retribuzione base più bassa, intorno ai 500 euro, ma c’è chi come i liberali che desidererebbe arrivare a 850-1.000 euro. All’inizio il reddito di cittadinanza sarebbe introdotto nelle regioni che hanno i tassi di disoccupazione più alti. In caso di successo, l’iniziativa sarebbe esportata altrove. La percentuale dei senza lavoro su scala nazionale, nonostante un’economia solida, è elevata, al 9%. Con la misura il governo spera di ridurre i disagi sociali, guadagnando una certa popolarità in patria ma anche all’estero.



28 settembre 2015
Fonte: www.tradingeconomics.com/finland/government-debt-to-gdp

www.wallstreetitalia.com/finlandia-pronta-a-sperimentare-la-fine-del...
wheaton80
00mercoledì 30 dicembre 2015 20:53
Reddito minimo: non solo Finlandia, da altro paese UE 900 euro a tutti

In Italia se ne parla da tempo e in molte città europee comincia a farsi strada, portando con sé polemiche e discussioni molto accese. Parliamo del reddito minimo che dopo la Finlandia, con la proposta di un reddito minimo per tutti a 800 euro netti al mese e la Svizzera che ha indetto un referendum il prossimo anno per un reddito base da 2500 dollari a testa, che ora vede protagonista un altro esperimento: quello dell’Olanda. Tali esperimenti, è bene dirlo, non rappresentano affatto una novità. Anzi è proprio il contrario. Tra i maggiori sostenitori, Thomas Paine, tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, che disse che tutti hanno il diritto di condividere un contesto di prosperità generale. Paine riteneva che lo Stato avrebbe dovuto versare a favore di ogni cittadino un bonus, probabilmente al compimento del 21esimo anno di età. In questo modo, a suo avviso, sarebbero state ridotte in modo considerevole le “distinzioni oltraggiose”, a suo dire, tra i ricchi e i poveri. Ad Utrecht, cittadina dei Paesi bassi, con oltre 300mila abitanti, e altri 19 piccoli comuni il reddito minimo potrebbe diventare presto realtà. L’idea è inizialmente quella di erogare assegni da 660 sterline al mese, circa 900 euro. Ma non chiamatelo “basic income” tuonano i proponenti, visto che potrebbe portare l’opinione pubblica ad interpretarlo come un “contributo a pioggia” che infoltisce la schiera dei nullafacenti. Il progetto di Utrecht è di lanciare un esperimento che, all’inizio, sarà applicato a piccoli gruppi; a seconda dei risultati, si deciderà se estendere il piano a tutti. Si schierano due filoni opposti: da una parte i sostenitori, secondo cui il contributo permette a coloro che sono in cerca di un lavoro di poter valutare le varie possibilità professionali e così avere una maggiore soddisfazione che significa maggiore produttività per le aziende. Senza dimenticare lo snellimento nella macchina burocratica visto che, non dovendo verificare la sussistenza dei requisiti, gli assegni sarebbero erogati senza dover attendere troppo tempo o varie lungaggini.

D’altra parte i detrattori, che puntano il dito contro l’idea del reddito minimo, che potrebbe significare un assegno in bianco, garantito dallo Stato, che rischierebbe di alimentare chi voglia di lavorare non ne ha. Gli effetti dell’esperimento olandese saranno valutati dall’economista Loek Groot dell’Università di Utrecht. E fuori dall’Europa? Il più grande sperimento del genere fu condotto in Nord America, precisamente in Canada a Dauphin, nella provincia di Manitoba, negli anni ’70. Per 4 anni gli abitanti più poveri ricevettero un assegno mensile. Gli effetti di quell’esperimento, chiamano “mincome”, sono stati spiegati da Evelyn Forget, esperta in scienze sociali, secondo cui sembra che in quel periodo gli effetti della povertà iniziarono a scomparire. Chi ricevette il reddito minimo a Dauphin non fu meno motivato a lavorare rispetto a prima. In Canada la proposta del reddito minimo vide in primo piano sostenitori come Milton Friedman, economista statunitense e leader del partito conservatore canadese, e altri da Robert Stanfield a Hugh Segal. E oggi il partito liberale canadese si è posto un nuovo impegno, ossia creare un reddito minimo annuo già nel 2016. Nella convention di Montreal del 2014, quando era appena terzo in Parlamento, il partito approvò la considdetta Policy Resolution 100, promettendo di creare un “Basic Annual Income” per risolvere i vari problemi di welfare e garantire una rete di sicurezza sociale a tutti. Ora, il nuovo governo a maggioranza liberale del premier Justin Trudeau ha l’occasione di trasformare quella promessa in realtà. Un esperimento in tal senso è appoggiato da Joe Ceci, ex consigliere comunale di Calgary e ora ministro delle finanze di Alberta, provincia nel Nord Occidentale del Canada. Ceci avrebbe il sostegno dei sindaci delle sue più grandi città, Calgary e Edmonton, che si sono offerti di ospitare progetti pilota.

Alessandra Caparello
29 dicembre 2015
www.wallstreetitalia.com/reddito-minimo-non-solo-finlandia-altro-paese-ue-propone-900-euro-...
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