Infallibilitá del Papa come e quando

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LiviaGloria
00martedì 28 luglio 2009 10:47
www.veritatis-splendor.net/DocumentiVS/MagisteroChiesa.pdf

Il Magistero della Chiesa
Relatore: Prof. Don Mauro Gagliardi
Ordinario di teologia dogmatica presso il Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum” di
Roma
4 marzo 2008 – Cappella del S. Rosario, largo S. Tommaso d’Aquino - Salerno
Introduzione
Prima di tutto diamo uno sguardo al contesto: oggi se ci guardiamo attorno notiamo che c’è una
certa incertezza o genericità sul concetto di magistero della Chiesa anche da parte di noi cattolici.
Un cattolico saprebbe rispondere alla domanda: che cos’è il magistero della Chiesa? Saprebbe darne
una definizione anche non precisa, ma almeno attinente? Tanti cattolici preparati e colti sì, ma il
cosiddetto “cattolico medio” forse no. Dunque a quest’ignoranza sono connessi, come ad ogni
ignoranza, dei rischi. Nel caso dell’ignoranza su cos’è il magistero della Chiesa sono connessi
almeno tre rischi:
1 la possibilità di una sorta di massimalismo magisteriale (tutto ciò che il papa dice ha uguale
valore), e a questo si collega qualche volta una forma di fideismo;
2 il disinteresse o la relativizzazione di ciò che il magistero insegna, siccome non si ha un
concetto chiaro di cosa sia il magistero;
3 la strumentalizzazione: questa non viene fatta solo da tanti teologi (che per professione
sanno benissimo cos’è il magistero e a volte lo strumentalizzano citandone solo alcune parti
e non altre, oppure interpretando il magistero facendogli dire l’esatto contrario) ma
possiamo trovare anche nella prassi dell’insegnamento e nella prassi pastorale una
storpiatura, una forzatura o un concentrarsi su punti di dettaglio, dimenticandone altri.
La parola latina magisterium indica l’azione del magister, e questo nel latino classico valeva non
solo per l’insegnamento ma per qualsiasi forma di arte (maestro della nave, maestro fabbro, maestro
di un’arte o di un mestiere). Nel Medioevo la parola magister comincia ad essere usata in senso più
stretto riferita all’insegnamento: ad esempio Pietro Lombardo è il magister sententiarum, il
“maestro delle sentenze”. Nell’epoca moderna, almeno in ambito cattolico, la parola magisterium
viene ormai applicata in maniera specifica all’ufficio di insegnare nella Chiesa, quello che viene
chiamato il munus docendi, la potestà d’insegnamento dei pastori della Chiesa. E la parola
magisterium, sebbene faccia parte del latino classico, nel magistero della Chiesa entra in maniera
ufficiale di recente: il primo ingresso lo troviamo nella Commissum divinitus di Gregorio XVI,
testo del 1835.
In essa si dice che il magistero è l’autorità d’insegnamento della Chiesa fondata sull’ordinazione
sacramentale. Questo punto è qualificante: il munus docendi è indissolubilmente legato al
sacramento dell’ordine episcopale.
Pochi anni dopo, nel 1863, Pio IX, in un’importantissima lettera inviata al vescovo di Monaco
intitolata Tuas libenter, applica quattro aggettivi alla parola magisterium: infallibile, authenticum,
ordinarium, universale. Queste quattro parole, oggi, nel linguaggio teologico tecnico vengono usate
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in maniera diversa rispetto a come le usava Pio IX nella Tuas libenter, ma ciò che importa è che sia
stato lui ad aver canonizzato l’uso di queste aggettivazioni del termine, che sono aggettivazioni
tecniche.
Infine, altro dato molto importante, nel 1870, la Pastor Aeternus, costituzione dogmatica del
Concilio Vaticano I, usa la parola magisterium addirittura all’interno del capitolo quarto, anche nel
titolo, il capitolo dove c’è la definizione dogmatica dell’infallibilità del Romano Pontefice (De
Romani Pontificis infallibili magisterio). È rilevante il fatto che una parola che ha solo trentacinque
anni di vita per quel che riguarda l’uso che la Chiesa ne fa, dopo così breve tempo venga usata in
una definizione dogmatica e conciliare.
Vediamo ora la base biblica. Il fatto che la Chiesa proponga un insegnamento ufficiale non è
invenzione dei vescovi o di qualche papa, ma è fondato sulla Rivelazione biblica, soprattutto sul
Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento il magister in senso proprio è Gesù Cristo. “Mi
chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono” (Gv 13,13). Dunque Gesù si è
autoproclamato magister. Tuttavia il Nuovo Testamento indica anche che Cristo costituisce degli
Apostoli e li delega ad insegnare nel mondo il suo Vangelo. Due versetti tra i tanti sono i più
importanti rispetto a questo:
“Andate dunque, ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19)
“Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16).
Questo dato essenziale, che Cristo costituisca i Dodici e dica loro di insegnare, incontra però altri
due punti fermi nel Nuovo Testamento:
1. La sottolineatura molto forte nel Nuovo Testamento che esiste una Parola vera e una sana
dottrina, che devono essere custodite e portate agli altri. Nella Lettera agli Efesini San Paolo
dice: “Il Vangelo è la Parola della Verità” e nella Lettera a Timoteo chiama la dottrina
apostolica la “sana dottrina”. Quindi dal Cristo che è la Verità (“Io sono la via, la verità e la
vita” – Gv 14,6) si passa alla verità della dottrina degli Apostoli, la Verità che è la persona
di Cristo viene veicolata attraverso la dottrina degli Apostoli che perciò è “sana dottrina”, è
sana perché è bella nella misura in cui è vera. Questa sana dottrina è custodita nella Chiesa:
ancora la Prima Lettera di San Paolo a Timoteo dice “La Chiesa è la colonna e il sostegno
della Verità”. San Paolo, nel primo capitolo della Lettera a Tito dice che il Vescovo
dev’essere attaccato alla dottrina sicura secondo l’insegnamento trasmesso perché sia in
grado di esortare con la sua sana dottrina; nel secondo capitolo della stessa lettera dice “Tu
insegna ciò che è secondo la sana dottrina”
2. La struttura gerarchica della Chiesa: da Cristo il mandato passa agli Apostoli, dagli Apostoli
il mandato passa ai primi collaboratori che sono i vescovi. Subito dopo la resurrezione di
Gesù, il capitolo secondo degli Atti degli Apostoli parla della “dottrina degli Apostoli”:
dunque la dottrina di Cristo proprio all’inizio degli Atti è diventata “dottrina degli
Apostoli”. Gli Apostoli sono i canali della vera dottrina di Cristo. San Paolo nella Prima
Lettera ai Corinzi dice “Che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Sono dei ministri
attraverso i quali siete venuti alla fede”. La “dottrina degli Apostoli” non significa
“inventata dagli Apostoli”, ma che gli Apostoli sono i ministri della Verità di Cristo, dunque
la loro dottrina è la dottrina del Maestro. Gli Apostoli sono i testimoni oculari del Signore,
la dottrina apostolica contiene la loro testimonianza oculare ed è il fondamento della fede
della Chiesa. Cristo ha insegnato la Verità a tutta quanta la Chiesa e tuttavia il Signore non
fa una comunicazione soprannaturale diretta e immediata a ciascuno dei battezzati, ma si
serve della mediazione dell’intelletto. Prima di tutto il Signore si è servito della mediazione
degli Apostoli, poi per tutte le altre epoche si serve della mediazione dei vescovi. Il Nuovo
Testamento insegna che gli Apostoli costituiscono i vescovi come loro successori nella
guida delle varie Chiese che venivano fondate e li costituiscono con il gesto
dell’imposizione delle mani, e i vescovi hanno proprio il compito di custodire il deposito
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della fede ricevuto dagli Apostoli che li hanno ordinati. Molto significativo l’addio che San
Paolo fa agli anziani della Chiesa di Efeso (At 20): “Badate dunque a voi stessi, badate al
gregge di cui lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi per pascere la Chiesa di Dio, acquistata
da lui col proprio sangue. So infatti che, dopo la mia partenza, entreranno tra voi dei lupi
rapaci, i quali non risparmieranno il gregge; e anche in mezzo a voi si leveranno su degli
uomini a insegnare cose perverse, per trascinarsi dietro i discepoli”. Dunque San Paolo sa
che sorgeranno sempre nella Chiesa coloro che “insegnano cose perverse”, persino tra i
vescovi: nella storia vi sono anche vescovi eretici. Perciò dice ai vescovi di attenersi
strettamente al deposito della fede che egli ha trasmesso loro. Il passaggio del munus
docendi dagli Apostoli ai vescovi avviene con l’imposizione delle mani, che è l’ordinazione
sacramentale. Tuttavia bisogna anche dire che c’è una differenza tra gli Apostoli e i vescovi,
pur nella continuità. I vescovi non succedono agli Apostoli in tutto: gli Apostoli sono i
testimoni oculari di Cristo mentre i vescovi non lo sono; gli Apostoli avevano il carisma
dell’ispirazione biblica, le lettere pastorali che scrivevano gli Apostoli si trovano nella
Bibbia e sono Rivelazione divina. Compito dei vescovi, come successori legittimi degli
Apostoli, è dunque quello di ascoltare il deposito apostolico, custodirlo ed esporlo con
fedeltà.
Qual è dunque, alla luce di tutto, ciò la funzione specifica del magistero? La Dei Verbum del
Concilio Vaticano II dice al capitolo 10 che il magistero della Chiesa ha il compito di interpretare
autenticamente la Parola di Dio. “Autenticamente” nel linguaggio tecnico significa non solo “con
verità”, ma “con autorità” (authenticum si usa nella teologia per indicare l’autorità apostolica).
Inoltre, quando sentiamo l’espressione “Parola di Dio”, ci viene facilmente in mente la Sacra
Scrittura, e certamente la Bibbia è Parola di Dio, ma non dobbiamo dimenticare che il concetto
cattolico di “Parola di Dio” è la Sacra Scrittura e la tradizione orale degli Apostoli: il Concilio di
Trento dice che la Parola di Dio si trova in libris scriptis et sine scripto traditionibus. Prendendo
dunque questo insieme di Scrittura e Tradizione, il magistero ha il compito specifico di interpretare
con autorità la Parola di Dio. La Dei Verbum, capitolo 10, in più precisa che il magistero non è al di
sopra della Parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando solo quanto in essa vi è trasmesso, cioè solo
quanto si trova nella Scrittura e nella Tradizione apostolica. La Dei Verbum sintetizza i compiti del
magistero nella bella formula latina pie audit, sancte custodit, fideliter exponit. Il testo conclude:
“Per questo la Scrittura, la Tradizione e il magistero sono realtà talmente interconnesse da non poter
sussistere l’uno senza l’altro”. Questo è chiarissimo: il magistero senza la Parola di Dio (Scrittura e
Tradizione) non serve assolutamente a nulla, perché il suo scopo è appunto la fedele trasmissione
della Parola di Dio, ma d’altro canto essa senza il magistero non può essere trasmessa (tradita),
perché mancherebbe l’autorità che la custodisce e la interpreta. Il magistero garantisce infatti la
vitalità della trasmissione della Parola di Dio in tutte le epoche.
Questo implica fra i compiti del Magistero un approfondimento continuo della Rivelazione, fatto
non semplicemente con erudizione teologica o con la sapienza umana, ma alla luce dello Spirito
Santo di cui parlava Gesù nel capitolo 16 di Giovanni: “Egli v’insegnerà tutta la Verità”. Questo
non vuol dire che dopo Cristo ci sono altre verità da scoprire, ma vuol dire che quella Verità data da
Cristo noi la comprendiamo sempre più profondamente e in maniera progressiva, e lo Spirito Santo
ci aiuta proprio in questa direzione. La storicità di questo processo di comprensione progressiva
operato dal magistero implica altre due cose che enuncio senza approfondire:
1. La perfettibilità del linguaggio magisteriale e delle formule: il magistero si esprime con
proprietà nell’insegnare la verità, ma il modo di esporre la dottrina può e deve essere
sempre migliorato nella sua formulazione.
2. Il progresso contenutistico del magistero, che cresce, non perché si aggiungano altre
rivelazioni pubbliche, ma perché cresce la comprensione della Rivelazione.
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Quali sono gli effetti dell’esercizio del magistero sulla vita della Chiesa? Naturalmente, grazie
all’esercizio del magistero, la comunità dei fedeli rimane sempre ciò che essa è, permane
immutabilmente nella sua identità, cioè non subisce cambiamenti sostanziali. E’ chiaro che la
Chiesa nei suoi aspetti secondari subisce tanti cambiamenti, ma nell’essenziale rimane sempre
identica a se stessa, e questo non rappresenta affatto una cristallizzazione, un’incapacità di
evoluzione o peggio un’involuzione, ma al contrario, il fatto che la Chiesa pur mutando in aspetti
secondari rimanga in ogni epoca se stessa, dice che la Chiesa rimane giovane in tutte le epoche.
Anche il magistero ha un ruolo importante nella vita della Chiesa, perché illumina le coscienze,
innanzitutto le coscienze dei fedeli, ma poi anche quelle di tutti gli altri uomini di buona volontà, e
soprattutto è utilissimo il lavoro del magistero, soprattutto quando sorgono nuovi scottanti “casi
morali” (in ambito sociale, sessuale, bioetica ecc.), perché nell’evolvere della storia spuntano
sempre nuove problematiche e il magistero della Chiesa vi risponde in maniera autentica e
autorevole, e soprattutto seda le controversie.
Molto importante sottolineare che a volte si rimarca la differenza tra un Islam moderato e un Islam
integralista e molti sostengono che il vero Islam è quello moderato. Purtroppo, questa frase non può
dirla nessuno, perché il vero Islam non c’è, perché la dottrina islamica non prevede un
insegnamento magisteriale o un’autorità interpretativa del Corano che valga per gli altri musulmani.
Perciò tutte le interpretazioni, da quella più spirituale a quella più integralista, hanno uguale valore.
Lo stesso problema si presenta nel protestantesimo (il libero esame della Sacra Scrittura).
Naturalmente questo comporta una frammentazione enorme: quot capita, tot sententiae. Mentre la
Chiesa Cattolica in duemila anni si è mantenuta unita, i Protestanti in meno di cinquecento anni di
vita, si sono divisi in più di tremila denominazioni.
Il magistero è un compito di carità, non di costrizione: correggere chi sbaglia è una delle opere di
misericordia spirituale, e il magistero, oltre all’aspetto positivo di approfondimento e di custodia, ha
anche quello di correzione che mantiene la Chiesa unita.
LiviaGloria
00martedì 28 luglio 2009 10:49
Le forme di esercizio del magistero nella Chiesa Cattolica *
Con l’ordinazione sacramentale, i vescovi della Chiesa cattolica ricevono la pienezza del ministero
sacerdotale, che la teologia articola in munus docendi, regendi et sanctificandi (potere/ministero di
insegnare, di governare e di santificare). Il magistero nella Chiesa cattolica è l’espressione
dell’esercizio da parte del collegio episcopale – il quale sussiste sempre cum Petro ed sub Petro –
dell’autorità di insegnamento dottrinale in materia della fede e dei costumi rivelati, nonché di
quanto è intimamente connesso alla rivelazione.
In concreto, il magistero viene esercitato in modi distinti e quindi anche con una gradazione
nell’impegno dell’autorità magisteriale. È nostro compito qui offrire una descrizione molto sintetica
di queste distinte forme di esercizio del magistero ecclesiale.
Due modalità fondamentali di magistero, un solo soggetto magisteriale
Una prima distinzione utile è quella tra un esercizio «solenne o straordinario» del magistero e
l’esercizio «non solenne o ordinario». Mediante la prima espressione, si fa riferimento a decisioni e
dottrine particolarmente importanti, insegnate in forma definitiva; mentre con la seconda, si allude
all’esercizio continuativo del munus docendi, senza che gli insegnamenti proposti implichino di per
sé l’infallibilità e la definitività.
Per procedere con ordine, dobbiamo ricordare innanzitutto che nella Chiesa cattolica vi è un solo
soggetto di magistero, vale a dire il collegio dei vescovi in unione e sotto il successore di Pietro (cf.
LG 22). Quest’unico soggetto può agire tuttavia in due modi distinti: o con una decisione
manifestamente collegiale, oppure nella persona del capo del collegio episcopale, il Papa, che nel
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pronunciarsi a livello magisteriale racchiude in sé anche l’intero collegio dei vescovi. In ogni caso,
dunque, è sempre l’unico soggetto ad insegnare nella Chiesa, ma secondo una duplice modalità.
Questa annotazione consente ora più agevolmente di ordinare le distinte forme di magistero
all’interno della distinzione già proposta tra magistero «straordinario/solenne» e «ordinario/non
solenne».
Le distinte forme di magistero
Nel magistero straordinario rientrano quegli insegnamenti che vengono proposti dall’autorità
ecclesiastica come infallibili e quindi definitivi. Nel caso essi siano pronunciati dal solo capo del
collegio, si tratta degli insegnamenti ex cathedra del Pontefice romano, ai quali il concilio Vaticano
I riconosce l’infallibilità (cf. DS 3074). Nel caso in cui un insegnamento definitivo sia offerto
dall’intero collegio, vi sono due tipi di insegnamento infallibile: quello proposto attraverso una
definizione dogmatica di un concilio ecumenico; e quello che è contenuto nel cosiddetto «magistero
ordinario universale», sul quale torneremo.
Se volgiamo ora lo sguardo al magistero ordinario, vedremo che in questa categoria rientrano le
seguenti forme di esercizio del munus docendi: per quanto riguarda il Papa, si tratta qui del suo
magistero ordinario, espresso in vari modi e con distinte gradazioni, ma tuttavia non proposto
infallibilmente (non ex cathedra)1. Circa i vescovi, rientra nel loro magistero ordinario – che essi
possono esercitare solo in comunione gerarchica col capo del collegio – sia un insegnamento
promulgato in concilio ecumenico, ma non definito dogmaticamente, sia tutti gli insegnamenti che i
vescovi impartiscono come singoli nelle proprie diocesi, o attraverso varie forme aggregative, nel
loro quotidiano esercizio di magistero pastorale.
Sarà utile a questo punto ricapitolare il tutto con un semplice schema:
1.Magistero «straordinario/solenne»
a. Definizioni dogmatiche del Papa ex cathedra
b. Definizioni dogmatiche di concili ecumenici
c. Magistero ordinario universale
2. Magistero «ordinario/non solenne»
a. Insegnamenti del Papa non proposti in maniera definitiva
b. Insegnamenti dei concili ecumenici non proposti in maniera definitiva
c. Insegnamenti ordinari dei vescovi
Nello schema proposto si noterà un’inconsistenza, che finora abbiamo lasciato volutamente passare:
nella serie di insegnamenti «straordinari/solenni» figura anche il «magistero ordinario universale»,
il quale di certo non è straordinario, perché si chiama ordinario; e nemmeno è solenne, perché non
viene di norma solennizzato in alcun modo (ad es. con una definizione dogmatica solenne). Cos’è il
magistero ordinario universale? In questa categoria rientra ogni insegnamento costante di tutti i
vescovi in comunione gerarchica col Papa, senza tuttavia che sia mai intervenuta una proclamazione
solenne. Si tratta di insegnamenti, si potrebbe dire, attinenti a verità che la chiesa sempre e
dovunque ha proposto a credere, anche se essi non sono mai stati formalmente definiti come dogmi.
Nonostante ciò, si ritiene che queste dottrine vengano proposte infallibilmente da parte del
magistero della Chiesa (cf. DS 2879; LG 25). Per questo, il magistero ordinario universale rientra
nel gruppo delle forme di esercizio straordinarie, ovvero di quelle che fissano la dottrina in maniera
incontrovertibile. Di qui, la nostra proposta: più che utilizzare le dizioni –seppur classiche e che
perciò abbiamo mantenuto sin qui – di «magistero straordinario/solenne», e di «magistero
1 Da questi insegnamenti ordinari del Papa vanno accuratamente distinti i suoi scritti personali, che non rientrano
nell’esercizio del suo magistero. Per alcune riflessioni essenziali su questo punto, si può vedere: M. Gagliardi, «Il
magistero può esprimersi in versi? Poesie del Papa ed epistemologia teologica», Vita Pastorale 4 (2003), pp. 80-83.
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ordinario/non solenne», sarebbe preferibile distinguere in «magistero infallibile» e «magistero non
infallibile». Questo accorgimento eliminerebbe ogni possibilità di confusione. È chiaro anche che
simile categorizzazione non dovrebbe divenire occasione di strumentalizzazioni.
Piste di approfondimento
Attiriamo ora l’attenzione su alcuni punti particolari, non essendo qui possibile un approfondimento
adeguato delle varie forme di esercizio del munus docendi.
1. Per quanto riguarda il magistero infallibile ex cathedra del Sommo Pontefice, rientrano in questa
categoria solo alcuni insegnamenti del Papa, che di norma non ricorre a questa forma
particolarmente impegnativa della sua autorità magisteriale. Il concilio Vaticano I ha definito come
dogma di fede che il Papa, quando insegna in questo modo, gode «di quella infallibilità di cui il
divino Redentore ha voluto che fosse dotata la sua chiesa» (DS 3074). Perché vi sia effettivamente
una definizione ex cathedra, sono necessarie alcune condizioni, ovvero: a) che il Papa parli a tutta la
Chiesa, in qualità di pastore e dottore supremo di tutti i fedeli, con lo scopo di confermarli nella
fede; b) che il Papa voglia impegnare tutta la sua autorità magisteriale; c) che manifesti, con un atto
chiaro ed evidente, la sua volontà di insegnare la dottrina in modo definitivo; d) che la dottrina
insegnata riguardi la materia di fede e di costumi. L’assenza anche di uno solo di questi requisiti
impedisce di ritenere ex cathedra un dato insegnamento pontificio.
2. Riguardo al magistero infallibile espresso in definizioni dogmatiche di concili ecumenici, bisogna
annotare che, anche in questo caso, non solo deve essere manifesto il carattere di insegnamento
definitivo, ma bisogna anche rilevare il carattere di ecumenicità del concilio stesso, affinché la
definizione dottrinale sia valida. Qual è il criterio di ecumenicità di un concilio? La normativa
vigente (cf. LG 22), prevede che i concili sono ecumenici quando vengono convocati, presieduti e
confermati dal Sommo Pontefice. Tuttavia nella storia della Chiesa antica incontriamo numerose
definizioni dogmatiche prodotte in concili non convocati né presieduti dal Papa. Pertanto, il criterio
ultimo di discernimento della ecumenicità di un concilio risiede nel fatto che esso sia stato almeno
confermato o accettato da un romano Pontefice. La stessa LG 22 afferma: «Concilium
Oecumenicum numquam datur, quod a Successore Petri non sit ut tale confirmatum vel saltem
receptum». Solo tale riconoscimento, infatti, manifesta la comunione gerarchica dei vescovi
presenti ad un concilio con il capo del collegio, comunione senza la quale nessun insegnamento
episcopale può essere ritenuto valido e tantomeno infallibile.
3. Un caso più difficile è costituito dal magistero ordinario universale. Questo magistero è infallibile
quando vi sia una convergenza esplicita su una dottrina che il collegio episcopale ritiene definitiva.
Nella lettera Tuas libenter (21 dicembre 1863), Pio IX insegnava che l’atto di fede divina non deve
essere limitato da parte del credente solo a quanto è stato esplicitamente definito dal Papa o dai
concili ecumenici, ma deve essere effettuato «anche a quelle cose che per mezzo del magistero
ordinario di tutta la Chiesa diffusa sulla terra, sono trasmesse come divinamente rivelate e quindi,
per universale e costante consenso, sono considerate dai teologi cattolici come appartenenti alla
fede» (DS 2879). Anche il concilio Vaticano II (cf. LG 25) ha fatto riferimento a questa forma di
magistero. Un esempio recente di richiamo a questo tipo di magistero lo incontriamo nella Lettera
apostolica Ordinatio sacerdotalis (22 maggio 1994) di Giovanni Paolo II, in cui il Papa affermava
che «la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini» è «conservata
dalla costante e universale tradizione della Chiesa» e dichiarava perciò che «la Chiesa non ha in
alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve
essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (EV/14, nn. 1347-1348)2. Il punto
difficile sta nel reperire effettivamente il consenso del collegio episcopale e dei teologi su una
2 Una successiva «Risposta» della Congregazione per la Dottrina della Fede (28 ottobre 1995: EV/14, n. 3271; si veda
anche l’annesso commento: nn. 3274-3282) ha chiarito che questo insegnamento di Giovanni Paolo II rientra
esattamente nella categoria del «magistero ordinario universale», per cui qui il Papa non ha fatto altro che prendere atto
di ciò che da sempre fa parte della fede della Chiesa e lo ha riproposto con la sua autorità magisteriale ai nostri giorni.
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dottrina di magistero ordinario universale. Per questo, riteniamo che di fatto solo il Papa sia nella
posizione ed abbia l’autorità per poter effettivamente rilevare e dichiarare l’esistenza di simile
convergenza magisteriale, convergenza operata dallo Spirito di verità, il quale non permette che la
totalità dei fedeli (universitas fidelium) possa sbagliarsi nel credere (cf. LG 12).
4. Infine, circa le varie forme di magistero non infallibile: di certo questi insegnamenti non vengono
proposti come definitivi e sono pertanto perfezionabili. Tuttavia, bisogna partire dal presupposto
(praesumptio) che di norma anche il magistero ordinario o non infallibile non sbagli nel guidare i
fedeli alla conoscenza della verità. Sarebbe errato ritenere che l’azione ispiratrice dello Spirito
Santo si verifichi solo in occasione di insegnamenti infallibili: ciò farebbe di tutte le altre forme di
esercizio magisteriale un’iniziativa puramente umana. D’altro canto, l’indispensabile distinzione tra
un magistero infallibile e uno non infallibile non dovrebbe essere strumentalizzata per fungere da
fondamento per il dissenso teologico nei confronti dei pronunciamenti non infallibili dei pastori
della Chiesa, insegnamenti che, d’altro canto, rappresentano la parte materialmente più ampia della
dottrina ecclesiale. Il teologo può dare un notevole contributo alla vita ecclesiale anche facendo
notare i margini di miglioramento di aspetti particolari del magistero autentico dei pastori, tuttavia
tale collaborazione deve essere vissuta sempre in spirito ecclesiale e non in un dilacerante spirito di
contestazione e di rivalsa3.
Conclusione
La differenziazione degli interventi magisteriali è indice della ricchezza e pluriformità che lo Spirito
di Cristo suscita in tutti gli ambiti della Chiesa. D’altra parte, indica anche che la Chiesa cattolica,
finché vive in questa terra, ne condivide anche la condizione di storicità pellegrinante. Infine,
l’esistenza di diverse forme di esercizio del magistero, nonché la tendenza da parte dei pastori a
utilizzare di rado le sue forme infallibili, denuncia come infondate le accuse di chi ritiene il
magistero della Chiesa un negativo esempio di autoritarismo. Esso è, al contrario, esercizio di una
vera autorità donata da Cristo a coloro che hanno la responsabilità di «ascoltare piamente, custodire
fedelmente ed esporre santamente» (DV 10) il deposito della fede, per favorire la salvezza dei
credenti e di tutti gli uomini di buona volontà.
* Tratto dal numero di marzo-aprile 2007 di “Sacerdos”
Heleneadmin
00martedì 15 febbraio 2011 19:25
www.opusmariae.it/

L'infallibilità del magistero del papa
"Come si può pretendere che degli uomini possano imporre ad altri quello che devono pensare?" (*)

di don Pietro Cantoni



Avete il novo e 'l vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Par. 5, 76-78)

Un fatto di cronaca, la comparsa in un breve arco di tempo di una serie di "manifesti" di protesta ad opera di teologi di tutto il mondo, ha riportato l'attenzione dei cristiani su una componente importante della vita della Chiesa: il magistero. I commenti non hanno sempre colto il nocciolo del problema; se ne è parlato spesso in chiave sociologica, come della lotta fra "dirigenti" e "teorici". I "teorici" preoccupati della verità e dei problemi che suscita la sua ricerca, i "dirigenti" dell'efficienza di un organismo sociale che ha bisogno di compattezza e di sicurezza. Oppure in chiave psicologica: la tensione fra chi ha un morboso bisogno di sicurezza, che solo un'autorità esterna gli può dare e chi invece non si spaventa davanti ai rischi di una piena assunzione della propria responsabilità personale. In realtà il problema è innanzitutto teologico: la posta in gioco è la natura stessa della fede che sta a fondamento della Chiesa ed è solo a partire dalla fede che può essere correttamente impostato. Non si tratta tanto allora di problemi di tensione sociale o di lotta tra sensibilità diverse (anche se c'è certamente anche questo) ma di capire che rapporto c'è tra fede e "magistero".

1. Il clima

Capire una realtà dipende anche dal modo con cui la si guarda, dai sentimenti che suscita in noi, quasi senza accorgercene, il solo fatto di occuparcene. L'uomo non è solo intelligenza, ma anche volontà, affetto e sentimenti. C'è tutta una sfera del nostro io che è pesantemente influenzata dall'ambiente, dal "clima" culturale e che, a sua volta, influenza l'esercizio della nostra intelligenza. Ora è indubbio che una parola come "magistero", che non vuol dire altro che autorità dottrinale, suscita in noi, in quanto immersi in un determinato clima culturale, una eco emotiva sfavorevole. La parola autorità evoca oggi l'idea di limite, di ostacolo alla libertà. Non che si voglia, per lo più, negare questa realtà. Solo che essa, più che accettata e amata come una componente della realtà umana, è piuttosto tollerata, come qualche cosa di cui non si può realmente fare a meno, ma di cui si farebbe a meno volentieri. Essendo la libertà spesso concepita come un puro "poter fare quello che si vuole", come "assenza di limite" e - in questa luce - come un valore assoluto, ecco che l'autorità diventa un valore negativo.

Le cose però cambiano se noi cerchiamo di criticare questa "filosofia circostante", se cerchiamo di sottoporre questi valori al vaglio dei criteri che per un credente dovrebbero essere determinanti. Il primo passo è mettere a nudo i presupposti del "si dice", "si crede", "si pensa", contemporanei, per sottoporli impietosamente al vaglio della fede. Togliere i pre - giudizi dall'ombra compiacente dell'ovvio televisivo e giornalistico, per portarli al centro del tavolo e metterli sotto il riflettore della ragione e della fede. Qui si può scorgere la verità profonda di tre passi della Scrittura:

"Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8, 31-32);

"E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna." (1 Gv 2, 27);

"L'uomo spirituale (...) giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno" (1 Cor 2, 15).

La fede dispone ad un continuo atteggiamento critico ed autenticamente anticonformista nei confronti del "mondo". Ora, la visione delle cose che scaturisce dalla fede ci dà tutto un altro quadro rispetto a quello della "filosofia circostante". L'uomo è uscito dalle mani di Dio. Non si è fatto da sé. Dio lo ha pensato e lo ha voluto. La "verità" dell'uomo consiste dunque nella conformità al progetto che ha presieduto alla sua creazione. Il peccato è scaturito proprio dalla pretesa di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male: "Sarete come dei, conoscitori del bene e del male" (Gn 3, 5). Il bene e il male cioè non lo desumerete più dalle cose e dalla parola di Dio, ma lo deciderete in piena autonomia, "come dei" appunto. E' nella natura dell'uomo (e costituisce la sua "dignità") di essere intelligente e quindi libero, di essere per questo capace di scelte che scaturiscono non da imposizioni esteriori, ma dal profondo del suo io, da quel santuario nascosto che è il suo spirito e la sua coscienza. Ma se l'uomo compie delle scelte non in obbedienza alla verità delle cose (e quindi alla verità di se stesso) - che non dipende da lui, perché non è lui che ha fatto le cose e neppure se stesso - allora fatalmente si snatura, si allontana, dalla sua verità, cioè dal suo essere intelligente e libero e cade nelle tenebre dell'ignoranza e della schiavitù. "Chi fa il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8, 34). Se invece l'uomo compie delle scelte in conformità alla verità delle cose e alla parola di Dio che ne è lo specchio e la sorgente, realizza ciò che deve essere e compie e perfeziona il suo essere libero: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi."! Il fatto di agire in conformità a dei dati, di conformare la propria coscienza ad una legge non è contro la libertà, ma il cammino del suo inveramento e perfezionamento. La coscienza non è legislatrice autonoma, ma piuttosto araldo della legge di Dio e la libertà non è innanzitutto libertà da ma libertà per, per il vero e per il bene oggettivi che non sono un frutto del capriccio dell'uomo ma dell'intelligenza creatrice di Dio e, in definitiva, sono Dio stesso.

2. Credere

La fede è il fondamento della vita del cristiano: "Il giusto vivrà per la sua fede" (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38)1 e la fede è, per ciò stesso, il fondamento della Chiesa. Classica è l'espressione di san Tommaso: "Ecclesia instituta per fidem et fidei sacramenta - La Chiesa è stata fondata per mezzo della fede e dei sacramenti della fede" (Sum. theol. III, q. 64, a. 2, ad 3.). Tutto quello che si fa e si dice e si vive nella Chiesa è fondato sulla fede, si giustifica per la fede e vive della fede. Quando si perde di vista questo dato abbastanza ovvio, si riduce la Chiesa a una realtà umana, ad una struttura burocratica affannosamente protesa a giustificare la propria esistenza agli occhi del mondo.

A questo punto sorge spontanea una domanda: che cos'è la fede? Il concilio Vaticano II ce ne dà una bella definizione: "A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede, con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che rivela"[Vaticano I] e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui" (2). Vediamo subito che la fede è una obbedienza. E' così che ce la descrive san Paolo: "Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato per ottenere l'obbedienza della fede (uJpakoh; pivstew") da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome" (Rm 1, 5; cfr. 16, 26); "Distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo." (2 Cor 10, 5).

Vediamo anche subito che è un'obbedienza di tipo particolare: essa non coinvolge soltanto il nostro agire esterno. E' tutto l'uomo che si deve abbandonare a Dio: non solo nel suo agire e nel suo volere, ma anche nel suo pensare. Credere comporta un "pensarla" in tutto e per tutto come Gesù (3).

3. La "logica" dell'Incarnazione

L'obbedienza, poiché di obbedienza si tratta, è una obbedienza a Dio, non all'uomo. Che c'entra dunque un magistero di uomini?

Per rispondere adeguatamente a questa domanda dobbiamo innanzitutto meditare ancora un passo di san Paolo. Non si può essere "giustificati (cioè essere resi giusti)" senza credere. Credere è fondamentale, ma "Come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati?" (Rm 10, 14-15). Notiamo attentamente la sequenza: la fede dipende dall'annuncio, e questo si capisce benissimo. Nessuno può credere a qualcosa o a qualcuno che non ha mai visto né conosciuto. Tuttavia vediamo anche che non una persona qualsiasi può essere l'annunciatore delle cose della fede, ma solo qualcuno che sia inviato, cioè autorizzato, abilitato. La necessità del mediatore non è soltanto di ordine pratico, ma di ordine più profondo, "ontologico". Potremmo tuttavia chiederci: ma Dio non avrebbe potuto scegliere un'altra modalità per portare gli uomini alla fede? Per esempio rivelandosi a ciascuno di essi direttamente, o abilitando di volta in volta colui che occasionalmente parla ad un altro delle cose di fede... Certamente che sarebbe stato possibile. Ma di fatto non è stato così. La fede viene dall'udito ha ripetuto sempre la tradizione cristiana, basandosi su questo passo della Scrittura, e ciò significa che ci deve essere sempre un annuncio esterno, visibile e sensibile (anche se, naturalmente, non può mancare anche una ispirazione interiore...). E inoltre ci deve essere una missio: Per parlare con autorità delle cose di Dio bisogna essere autorizzati. E scrutando il modo che Dio ha scelto per salvarci, dobbiamo dire che tutto è straordinariamente coerente e profondamente sapiente e corrisponde ad un disegno unitario bellissimo.

Come Dio si è comunicato a noi? Fra i tanti modi possibili ne ha scelto liberamente uno. E' chiaro che lo possiamo conoscere solo perché Dio ce l'ha detto, perché dipende interamente dalla sua libertà (4). Questo modo, fra l'altro, ci è rivelato con particolare chiarezza nell'inno che fa da prologo al Vangelo secondo Giovanni: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il verbo era Dio. [...] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1, 1. 14). Dio ha scelto la via dell'Incarnazione e rivela all'uomo di volerlo salvare così, rivelando al contempo la sua vita intima che è vita di relazioni sussistenti (Padre - Figlio, Spirito del Padre e del Figlio), che comporta una trinità di persone... E' comprensibile che tutto l'agire di Dio sia poi coerente con questa scelta, che sia tutto comandato dalla "logica dell'incarnazione", che è la logica di Dio che si fa "carne", e salva l'uomo attraverso questa "carne".

Non dobbiamo ingannarci sul significato di questa parola "carne". Essa non sta sempre a indicare esattamente quello che noi intendiamo oggi con il vocabolo corrispondente. L'ebraico basár (rc;B;) indica piuttosto tutto l'uomo in quanto però debole ed effimero, in quanto sottoposto alla morte e a tutti i limiti che le sono connessi (5) Non mi sembra inutile osservare che, con tutta probabilità, Gesù ha utilizzato lo stesso vocabolo quando ha istituito l'Eucaristia: "Questo è il mio corpo offerto per voi..." (6).

Non soltanto la mia carne, ma la mia intera persona, in quanto, per la sua umanità, è soggetta ai limiti del dolore e della morte... Così Dio, in Gesù, si presenta all'uomo "nella carne". Ha fame, ha sete, si addormenta in fondo alla barca. Prova compassione e tristezza e scoppia anche a piangere. Vive tutti gli aspetti dell'umanità in modo pieno: sa stare con gli uomini, al punto che è fatto spesso oggetto di invito alle feste e ai banchetti... Vive tutte le componenti dell'umanità concreta, tranne il peccato. Non solo si presenta così, ma salva così. In modo umano, nella "carne" e per mezzo della carne. Credo che non sia neppure superfluo fare un'altra osservazione: componente indispensabile di questa scelta è anche il fatto che la persona di Gesù (e quindi la persona del Verbo, che fa tutt'uno con Dio) abbia una Madre: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna" (Gal 4, 4). La nascita di Gesù poi, essendo avvenuta miracolosamente senza intervento di seme maschile, fa sì che tutta la "carne" di Gesù venga dalla Vergine. Ecco allora profilarsi un legame misterioso ma solidissimo fra Maria e la "carne" di Gesù, fra Maria e la logica dell'Incarnazione. Maria viene così ad essere come la custode discreta della "carne" dell'Incarnazione in tutto il suo sviluppo nella storia.
Heleneadmin
00martedì 15 febbraio 2011 19:29
Dio procede con logica!

Ecco allora che Gesù compie i miracoli attraverso dei segni, a volte delle cose (come quando impasta della terra con la saliva...). Ecco che ci lascia la sua presenza sacramentale (cioè attraverso segni misteriosi) mediante i gesti dell'ultima cena, il pane e il vino, l'imposizione delle mani, l'acqua del battesimo, ecc. In un'opera a lungo attribuita a san Tommaso d'Aquino (in perfetta conformità d'altronde con il suo pensiero) troviamo questa bellissima espressione: la Chiesa e i sacramenti sono come delle reliquie dell'Incarnazione di Cristo. (7)

In quel grande movimento di rinascita di interesse e di teologia attorno alla Chiesa che si è sviluppato nell'ottocento in Germania (Johann Adam Möhler, Matthias Joseph Scheeben) e a Roma (Giovan Battista Franzelin, Clemens Schrader, Giovanni Perrone, Carlo Passaglia) troviamo un'altra espressione molto significativa: la Chiesa è come "la continuazione dell'Incarnazione nella storia"! (8)

Come trasmettere una dottrina e una vita nel bel mezzo della storia degli uomini? Dio ha scelto di far tutto humano modo, in modo umano. Dunque facendo sì che questo avvenisse nel contesto di una particolare comunità di uomini. Una comunità da lui creata ad hoc , da lui animata e da lui assistita: la Chiesa (= la convocazione).

4. La mediazione nella Chiesa

Questa Chiesa ovviamente, anche se ha una struttura sociale, non è una società come le altre. Non è neppure solo società. San Paolo la descrive come il corpo di Cristo. E questa è certamente la formula più comprensiva e più significativa per designarla. E' un corpo, quindi non è un coacervo informe, ma ha una struttura. Una struttura che non è "democratica"! Almeno nel significato istituzionale e soprattutto "ideologico" della parola. Qui la fede, ancora una volta, ci insegna a non essere succubi degli idoli del tempo. Una forma di governo - e, a maggior ragione, una ideologia politica - per quanto possa essere ritenuta dagli uomini del proprio tempo come la migliore in assoluto, non è un assoluto. Sta di fatto che non è la struttura della Chiesa. Il che, si badi bene, non significa affatto che la Chiesa debba essere, per ciò stesso, anti-democratica! Semplicemente la sua struttura di governo non è riconducibile a quello delle moderne democrazie rappresentative. E questo per la natura stessa della cosa. Le verità della fede non sono dei ritrovati dell'uomo, che l'uomo fa e di cui logicamente dispone e decide a piacimento. Sono dei doni che vengono dall'alto. Ecco, questa è la parola decisiva: dall'alto. Tutto nella Chiesa è dall'alto. La Chiesa è corpo di Cristo. La Chiesa è popolo di Dio. Ciò che è della Chiesa, ciò che formalmente la costituisce, non può essere deciso dal basso, come è nella logica della democrazia.

"Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" (Gv 15, 16). Gesù non è "eletto" dagli Apostoli, e neppure gli Apostoli sono eletti dal più vasto gruppo dei discepoli o dalle "folle" che seguivano (non sempre molto stabilmente...) Gesù ma è lui che li sceglie. E, fra gli Apostoli, sceglie Pietro.

Così è successo agli inizi della Chiesa, così deve continuare a succedere. Questa è la sua struttura. Molte cose possono e debbono essere cambiate, perché la Chiesa è una realtà vivente che si adatta al mutare delle circostanze e delle esigenze, ma la sua struttura non può cambiare, altrimenti la Chiesa cesserebbe di essere quello che è, cesserebbe semplicemente di esistere. Cesserebbe di essere tutta un dono gratuito di Dio che opera humano modo in mezzo agli uomini. Ma sappiamo che le "porte" (cioè la potenza) dell'Inferno non prevarranno su di lei (9).

Se la Chiesa è un corpo, non tutti i suoi membri hanno le stesse funzioni. C'è chi guida e chi è guidato. Questo non significa un rapporto meccanico, per cui c'è chi è tutto attivo e chi è tutto passivo. Corpo dice organicità, cioè struttura, differenziazione e vita. Tutto deve essere attivo in un corpo, ma in modo differenziato.

5. Il magistero

Fra le varie funzioni c'è quella magisteriale. Ad essa non compete in modo esclusivo il compito di trasmettere la fede. La fede è trasmessa da tutta la Chiesa con una molteplicità di gesti pressoché impossibile da analizzare compiutamente e distintamente. Parole, segni, cose, ambiente… Anche la madre che guida la mano del suo piccolo che si fa per la prima volta il segno di croce è trasmettitrice della fede, espressione della più alta maternità della Chiesa. All'interno di questa trasmissione il magistero ha un compito specifico, quello di vegliare autorevolmente su di essa, di discernere ciò che è conforme e ciò che non è conforme alla dottrina ricevuta dagli apostoli, di giudicare di volta in volta come questa dottrina deve essere tradotta nella vita.

Per questo giudizio occorre una facoltà proporzionata. Nella materia in oggetto entrano in gioco due elementi:

a) Dei principi soprannaturali;

b) delle realtà contingenti e quindi molteplici e mutevoli.

Ora, come è possibile, con forze puramente naturali, giudicare della conformità fra i principi soprannaturali e le realtà del mondo e della vita? Ci vuole una funzione di insegnamento con una base non naturale ma soprannaturale, che, nella presente economia non può essere che sacramentale. Bisogna che la "carne" sia vivificata dallo Spirito di Gesù e che sia anche visibilmente, storicamente, collegata con Gesù. Ci vogliono dei maestri che insegnino non sul fondamento del loro ingegno o della loro applicazione allo studio, ma sul fondamento di un mandato ricevuto. Degli araldi del Vangelo che siano anche dei missi per insegnare con autorità. Non che ingegno e studio siano da escludersi, o che non siano richiesti secondo il modo umano di procedere, ma non sono affatto essenziali in questo ordine di cose. Quanto al fondo della questione, qui, sono del tutto secondari.

Quando un teologo, in virtù della sua scienza teologica, pretende di dare giudizi autonomi in questa materia o di sganciarsi dalla guida superiore del magistero, allora si produce fatalmente una secolarizzazione della fede. La fede viene uccisa o, il che è lo stesso, trasformata in "gnosticismo" (10), in ideologia. La scienza teologica perde così il suo carattere sacro e soprannaturale, la sua "unzione".

A questo proposito si danno (e si sono dati) due atteggiamenti possibili:

a) Risolvere il problema dei rapporti fra la fede e le contingenze della vita e della storia alla luce della pura scienza teologica sganciata da qualsiasi magistero sacro. In questo modo la natura prende il sopravvento sulla fede. Si arriva così al naturalismo e alla secolarizzazione.

b) Rifiutarsi, puramente e semplicemente, di affrontare questi problemi, favorendo una spaccatura netta fra Chiesa e mondo. E' l'atteggiamento del fissismo e della sclerosi.

Entrambi questi atteggiamenti, lo vediamo bene, anche se in modi diversi e, all'apparenza, contraddittorî, conducono a consumare quella separazione fra Vangelo e vita che è il peccato capitale della nostra epoca (11).

L'unica possibilità di sfuggire a questa falsa alternativa è riconoscere il ruolo decisivo di un magistero vivente. Questa parola "vivente" è decisiva per caratterizzare senza equivoci ciò di cui vogliamo parlare. A volte infatti si parla di magistero riferendosi ai suoi documenti del passato. Ma il magistero formalmente non è costituito da documenti. Questo è un magistero morto. Il magistero del passato, assieme a tante altre cose, costituisce un elemento molto importante nella trasmissione della fede: la Tradizione. Tuttavia anche la Tradizione sarebbe qualche cosa di morto, di insufficiente a trasmettermi la fede in modo efficace se non fosse accompagnato dal magistero di persone viventi che, hic et nunc, presiede alla trasmissione di quello che devo credere, spiegando, giudicando e discernendo... Da questo punto di vista certo tradizionalismo non si differenzia dal protestantesimo. Il protestantesimo riconosce la sufficienza di un libro: la Bibbia, per regolarsi nelle cose di fede. Il tradizionalismo aggiunge a questo libro altri libri (come per es. il "Denzinger", la raccolta classica dei pronunciamenti più importanti del magistero di tutti i tempi), ma sempre libri sono. Gesù però non ha detto: andate e scrivete, ma andate e predicate. Il modo naturale della trasmissione nella Chiesa è quello personale. Tutto nella Chiesa è fondato sulle persone. Una gestione burocratica del potere e anche della funzione di insegnamento non le è affatto connaturale. Così il magistero non è innanzitutto magistero del passato, e neppure del futuro (molti contestano la Chiesa di oggi in nome della Chiesa di domani...), ma magistero del presente. E' questa "carne" che oggi vediamo e palpiamo che ci tocca e ci trasmette la salvezza. "Ecco, io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo" (Mt 28, 20). "Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [...], quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi" (1 Gv 1, 1-3).

Tuttavia non è che questo magistero non debba avere rapporti con il passato, anzi, questo legame gli è strutturale. Non si tratta infatti di un magistero inventivo, come quello di un professore di università che fa le sue ricerche e poi ne trasmette i risultati agli studenti. Ciò che questo magistero deve insegnare è dono, che riceve dall'alto (in verticale) proprio attraverso la consegna (orizzontale) dei suoi predecessori. E' quindi un magistero strutturalmente tradizionale. Questo implica una unità morale col suo passato. Il maestro di oggi fa tutt'uno moralmente col maestro di ieri. Passano le persone, ma il discorso continua come se fosse la stessa persona a parlare. Cambiano i papi, ma è sempre Pietro che parla. E' Pietro che parla per bocca di Pio, di Paolo, di Giovanni Paolo. In definitiva è Cristo, attraverso questa secolare linea ininterrotta, che parla. Questo è il senso niente affatto retorico di un luogo comune dei documenti pontifici: "Come diceva il mio predecessore N.N. di venerata memoria...", e il senso non soltanto "scientifico" delle note a pie' di pagina che rimandano, con apparente pedanteria, ai documenti precedenti.

E' la continuità dell'Incarnazione: "Ecco, io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo".

Finora abbiamo parlato genericamente di "magistero". E' venuto il momento di dare un volto a questo nome astratto. Chi sono i depositari concreti di questa vitale funzione di insegnamento? Ascoltiamo una voce che viene da molto lontano: san Clemente, vescovo di Roma, che, verso il 95-98 scrive una lettera, di tono omiletico, ai Corinti. Ricordiamo che, per es., il vangelo di san Giovanni è stato scritto nei primi anni del secondo secolo, quindi certamente dopo questo antichissimo scritto.

"Gli apostoli predicavano il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente dalla volontà di Dio. [...] Predicavano per le campagne e le città e costituivano le loro primizie, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. E questo non era nuovo [...]. I nostri apostoli conoscevano da parte del signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l'avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. " (12)

Il mandato di Cristo non poteva spegnersi con la morte degli apostoli: "Ecco, io sono con voi fino alla fine del tempo". Ecco allora che gli Apostoli impongono le mani a dei successori, i vescovi. Ed è bene che fossero molti i successori degli Apostoli, perché la Chiesa doveva diffondersi in tutto il mondo. Tuttavia, poiché la dottrina doveva rimanere rigorosamente una, era necessario un principio di unità. Nel collegio degli Apostoli Gesù aveva scelto Pietro, e il suo ministero doveva continuare nei papi di Roma. Lì doveva risiedere il fondamento della Chiesa, un fondamento che, partecipando della solidità della pietra che è Cristo, doveva garantire fino alla fine dei secoli stabilità e unità. Fra molti infatti possono sorgere delle differenze e dei conflitti. Chi ha ragione allora? A chi fare riferimento se sorgono differenze di dottrina o scismi? Il criterio è visibile e alla portata di tutti: il papa di Roma. Anche il magistero dei vescovi è vincolante quando è "in comunione col Papa", e solo a questa condizione.

6. Il problema dell'infallibilità

Questo insegnamento è impartito humano modo. Nell'opera di Melchior Cano, uno dei teologi più importanti della Controriforma, troviamo questo "assioma": "Come Dio non manca nelle cose necessarie, così non abbonda in quelle superflue". (13) Certamente l'insegnamento autentico è garantito da Dio, ma ciò non significa che lo sia sempre nello stesso modo e che qua o là i limiti dell'uomo non possano segnarne il suo esercizio.

Qui però bisogna distinguere accuratamente due problemi.

a) L'assistenza dello Spirito Santo che garantisce la conformità fra quello che la Chiesa insegna oggi e quello che ha insegnato Gesù. "Chi ascolta voi ascolta me" (Lc 10, 16).

b) La certezza che questo singolo insegnamento della Chiesa sia conforme a quello che ha insegnato Gesù.

Sono due problemi distinti.

Non era assolutamente necessario che ogni e singolo insegnamento dei vescovi e anche del Papa fosse garantito infallibilmente. C'è spazio per la debolezza dell'uomo, e quindi per l'errore. Uno spazio però tale che non impedisca che la "carne" sia portatrice della presenza di Dio. "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo". Non c'è spazio neppure per eclissi temporanee: "tutti i giorni".

Sappiamo che lo Spirito che Gesù ha lasciato alla sua Chiesa in modo permanente è "Spirito di verità" (14).

Ci sono dei casi in cui abbiamo una certezza assoluta. Quando il pronunciamento del magistero si presenta sotto la forma di un giudizio definitivo. Si tratta allora di una "definizione". Se ci fosse errore, tutta la Chiesa cadrebbe in errore. La "carne" non sarebbe più la carne di Gesù.

D'altra parte, come succede per l'insegnamento umano, non tutto il magistero della Chiesa è impartito con la stessa autorità. Ci sono insegnamenti definitivi e insegnamenti provvisori, o impartiti con minore sicurezza ed impegno. Se tutto fosse certo al 100% non sarebbe più "carne". Ma Dio vuole salvarci proprio attraverso l'infermità umana.

Come faccio allora se non posso essere sempre sicuro? Devo avere fiducia, la fiducia teologale che, al di là di qualche sdrucciolata accidentale il cammino della Chiesa porta infallibilmente alla meta. D'altra parte, se ci pensiamo bene, anche la vita quotidiana in società, senza fiducia sarebbe impossibile. Vado dal medico, vado dall'avvocato e faccio quello che mi dicono di fare, anche se non ci capisco un gran ché, perché mi fido di loro. Se dovessi verificare sempre tutto e sottoporre tutto al vaglio della mia esperienza e della mia scienza la vita diventerebbe per me un peso insopportabile. Anche la vita "profana" sarebbe qualcosa di assolutamente superiore alle mie forze. Qui ci troviamo in un campo ben più elevato: "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano." (1 Cor 2, 9). Qui abbiamo dunque una garanzia ben più grande.

Il problema vero davanti al magistero, quello più pratico, non è se è o non è infallibile. Ma se la persona che mi parla è o non è inviata da Gesù e quindi da lui assistita. "Chi ascolta voi ascolta me". Non è che tutte le volte debbo verificare puntigliosamente se quanto mi è detto è infallibile o meno (e non è sempre facile stabilirlo neppure per gli specialisti) ma se chi mi parla è inviato da Gesù, se mi parla con autorità e, eventualmente, se è proprio in comunione con il Papa.

Non esiste neppure un confine troppo netto e assolutamente rigoroso fra infallibile e non infallibile. A volte è molto difficile dire con certezza se un determinato insegnamento lo è o non lo è. Un insegnamento, e un insegnamento tradizionale, è una realtà vitale, complessa, ricca di sfumature. Ci possono essere dei casi in cui ci si avvicina molto ad una certezza assoluta. Non tutto nell'esercizio del Magistero è giudizio definitivo, cioè è "definizione". Il modo ordinario in cui si dà è piuttosto quello dell'insegnamento. E un insegnamento è fatto di molti giudizi. Di tante affermazioni variamente articolate. Tanto più articolate quanto l'insegnamento è ampio, concerne anche realtà contingenti o si dispiega nel tempo. Più il carattere dell'intervento è puntuale più è preciso. Un giudizio è un intervento puntuale che cerca, per sua natura, precisione dogmatica e rigore giuridico. Evidentemente le modalità del giudizio (della "definizione") e dell'insegnamento vanno lette diversamente. E' tutta la differenza che c'è fra il magistero "ordinario" e quello "straordinario".

E' un grave errore, condannato dalla Chiesa, ridurre l'infallibilità al magistero straordinario. Sarebbe anche qualcosa di ridicolo: negli ultimi cento anni, per es., abbiamo, con assoluta certezza, un solo atto del magistero straordinario. Si tratta della famosa definizione del dogma dell'Assunzione di Maria SS. in cielo, contenuta nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus del 1° novembre 1950. Se così fosse non avrebbe poi tutti i torti Brian Tierney ad ironizzare sulla teologia neoscolastica dell'infallibilità con il suo noto "assioma": "Ogni pronunciamento infallibile è certamente vero, ma nessun pronunciamento è certamente infallibile..." (15). Ma questo errore è sicuramente meno grave di quell'altro che riduce il motivo dell'assenso al magistero alla sua infallibilità. Quando i due errori si sommano, ed è stato uno slittamento massicciamente presente nella teologia contemporanea, si arriva a togliere al magistero ogni reale incidenza nella vita di fede della Chiesa e nella teologia. Se il magistero si riduce a darmi delle garanzie saltuarie, a singhiozzo (con ritmi di cento anni...), allora non si vede proprio che rapporto possa avere con quella fede di cui "il giusto vive" e di cui deve vivere quotidianamente. La critica antiinfallibilistica recente (Küng, Tierney, Hasler) è venuta come a portare a compimento un processo, a dare il colpo di grazia ad una costruzione che, poggiando su quei due colossali equivoci, era già ampiamente fatiscente.

Anche se non possiamo attribuire ad ogni e singolo pronunciamento del magistero ordinario la stessa infallibilità di una definizione (questo d'altra parte vanificherebbe la stessa differenza fra straordinario e ordinario), tuttavia appare ovvio che, quando un insegnamento è di tutta la Chiesa non possiamo pensare che, "globalmente preso" non contenga la verità di Gesù. Così come quando un insegnamento - uno stesso insegnamento - si protrae a lungo nella Chiesa, viene ribadito e confermato spesso, senza interruzioni, nel corso del tempo, non si può più pensare che non rifletta la Rivelazione divina, senza ipso facto smettere di considerare l'insegnamento autentico, quello degli "inviati", come la regola del proprio credere, per sostituirvi il proprio pensiero personale. Pensare una cosa del genere sarebbe vanificare tutta l'economia della trasmissione della rivelazione voluta da Dio: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo". Un caso del genere è certamente quello dell'Humanae vitae. Si è discusso, e si discute accanitamente, attorno alla sua infallibilità. Se non si vuole restare indebitamente attaccati alle parole e cadere in una pura discussione di parole, il problema non è poi così difficile: se nell'affermare che l'Humanae vitae non è in sé infallibile, si vuol sottolineare che non si tratta di magistero straordinario, lo si può agevolmente concedere, ma se si vuole affermare che l'insegnamento in essa contenuto, in quanto riflesso di un magistero di tutta la Chiesa costante ed ininterrotto nei secoli, può essere discusso, allora ciò è aberrante e conduce a conseguenze disastrose, non solo per la questione della contraccezione in sé, ma per tutta la vita di fede della Chiesa.

In definitiva chi pretende di giudicare il magistero e preferisce la propria opinione al suo insegnamento, attribuisce a sé stesso quella infallibilità che nega la magistero. E' vero che nella Chiesa tutti "abbiamo lo Spirito Santo". Ma non nello stesso modo. C'è chi lo ha per credere ed eventualmente per indagare le profondità della fede e chi lo ha per insegnare. L'uomo può sbagliare, ma non sbaglia chi si affida allo Spirito di verità diffidando delle sue forze. Fra un insegnamento non assolutamente garantito contro l'errore e la mia opinione contraria che cose devo scegliere? Entrambi sono "fallibili". Non lo sono però nello stesso modo, perché non godono della stessa garanzia. Un insegnamento del magistero, anche se in sé fallibile, è sempre un insegnamento soprannaturalmente assistito proprio in quanto insegnamento. Se opto per la mia opinione è perché mi fido di più del mio ingegno e penso, in virtù di non si sa quel promessa, che io di fatto non mi possa sbagliare.
Heleneadmin
00martedì 15 febbraio 2011 19:31
Non c'è dunque spazio per la riflessione personale ed eventualmente per un dissenso da quello che insegna il magistero? Non c'è alternativa fra adesione totale ed incondizionata e libero pensiero?

Innanzitutto bisogna dire che la subordinazione ad una autorità non implica affatto la rinuncia all'uso di ragione. Tutt'altro. E' la ragione stessa che trova assolutamente ragionevole il riconoscimento dell'autorità e ne formula i motivi, ed è lei ancora a comprendere che non tutto quello che l'autorità propone ha lo stesso valore e che "discussione" non è la stessa cosa che "contestazione" e "dissenso".

Chi poi rivendica un totale indipendenza di giudizio il più delle volte non si rende conto - o non vuole ammettere - di essere dipendente da tante autorità, diverse da quelle che non vuole accettare, ma non per questo più sicure e ragionevolmente fondate. Anzi, proprio nella misura in cui questa subordinazione non è percepita e riconosciuta, si tratta di qualcosa che contraddice alla natura profonda dell'essere libero. La subordinazione libera e consapevole all'autorità della fede e alle autorità umane che essa comporta non contraddice alla mia libertà, mentre la mortifica per esempio la subordinazione inconsapevole o subdola alla pseudo autorità dei mass-media o del "si dice", "si pensa" tipici del mondo della "chiacchiera", così ben descritto da Heidegger (16). Spesso, quando si contesta il magistero si crede di avere affermato senz'altro la propria libertà. Vale la pena invece di meditare queste sagge parole di un illustre logico contemporaneo: "Un filosofo americano di spicco ha detto una volta che la nostra epoca è l'epoca dell'analisi [nel senso aristotelico di logica formale]. Io direi che viviamo proprio, in uguale misura, nell'epoca dell'autorità. Molti uomini lo sentono e vogliono liberarsi dall'autorità, dicono di essere anti-autoritari. Se però si osservano proprio i più radicali avversari dell'autorità, allora si trova quasi sempre che essi stessi obbediscono ad una autorità, certamente diversa da quella che combattono, ma pur sempre una autorità. Che lo si voglia o noi noi viviamo nell'epoca dell'autorità" (17).

Heleneadmin
00martedì 15 febbraio 2011 19:33
www.opusmariae.it/

Quando il magistero è infallibile?

di don Pietro Cantoni

La domanda enuncia un problema. La soluzione di un problema, più che dal calcolo che si mette in opera per risolverlo dipende dalla sua corretta impostazione. A volte la semplice impostazione corretta è già una soluzione, perché il resto viene da sé: intelligenti pauca…

Il problema del magistero della Chiesa riguarda la fede, per la precisione la determinazione della fede che abbiamo ricevuto nel battesimo.

È fondamentale innanzitutto capire che la fede non ha per oggetto delle proposizioni, fossero pure dei dogmi. Con la fede l'uomo si affida tutto quanto (intelligenza, volontà, sentimenti, ecc.) ad una Persona (cfr. Conc. Ec. Vaticano II, Dei verbum, 5), non evidentemente a dei concetti, a delle parole o – men che meno – a dei pezzi di carta scritta. Dice san Tommaso d'Aquino: " Actus […] credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem " (Sum. Theol. II-II, q. 1, a. 2, ad 2). Il che vuol dire che ciò che conta è che col mio atto di fede io "intenzioni" la realtà giusta.

Perché Dio ci dona la fede per giungere a lui e non invece una scienza? Perché Dio è misterioso, certamente, ma non basta. Dio pone nel nostro cuore la fiducia in lui, perché in una vera fiducia è già contenuto in germe un atto di amore che si deve sviluppare in quell'amore che – solo – mi può far entrare nel mistero di Dio. Quando io credo a qualcuno non ho l'evidenza di quello che mi dice (per lo meno non una evidenza sufficiente), ma ho l'evidenza che val la pena affidarmi a lui. Lo stimo. Quando quello che mi dice o mi trasmette è qualcosa di limitato, la mia stima può essere limitata. Questo succede quando vado dal medico o dall'avvocato o anche allo storico quando si fida delle sue fonti. Quando invece quello che mi viene comunicato è essenziale, riguarda la mia vita nella sua totalità, ciò implica una fiducia non limitata, ma totale. Tale è la fiducia che dobbiamo avere in Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo.

Dio non lo vediamo, né lo possiamo vedere in questa vita. Neppure Gesù lo vediamo. Vediamo però quello che lui ci ha lasciato: i suoi sacramenti e la sua Chiesa, che è come il Sacramento primordiale da cui tutto ciò che è sacramentale emana. Cristo e la Chiesa sono come una sola " persona mystica" (Sum. Theol. III, q. 48, a. 2, ad 1). Cioè un unico misterioso soggetto, un'unica arcana personalità. A Paolo che perseguita la sua Chiesa Gesù dice: "perché mi perseguiti?". Quella fiducia che dobbiamo avere in Gesù, la dobbiamo quindi avere per la Chiesa e in particolare per quella funzione che nella Chiesa è il suo insegnamento, il suo "magistero". Dice Gesù ai suoi apostoli: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me" (Lc 10,16). Ora, proviamo ad immaginarci questa scena: un professore tiene lezione e uno studente lo interrompe ad ogni pié sospinto per sapere qual è il grado di certezza di ogni singola proposizione del suo insegnamento… In questo modo non si va molto lontano: soprattutto non si impara. Per imparare la cosa essenziale è che si stabilisca un rapporto di fiducia con l'insegnante. Ma l'insegnante può sbagliare! Certamente, ma quell'insegnante che è Gesù no e neppure quindi quell'insegnante che costituisce con lui "una mystica persona". Si obietterà subito: ma di Gesù possiamo essere sempre sicuri, mentre sappiamo che il magistero umano può sbagliare! Ecco il punto.

No, globalmente parlando non può sbagliare. Che cosa vuol dire "globalmente"? Che la Chiesa nel suo insieme (in senso sincronico) e nella continuità del suo insegnamento (in senso diacronico) non può mai sbagliare. Altrimenti non sarebbe "una mystica persona". Ma rimane sempre che in quel singolo caso… Certo il caso del limbo non è unico. Possiamo pensare che sono esistite e certamente esistono ancora persone convinte che il peccato originale è stato commesso da Adamo addentando la mela che gli era stata porta da Eva… La Bibbia non parla neppure di mele e sappiamo che il racconto va letto con altri criteri. Ma chi ha pensato o pensa in quel modo non può forse credere in Gesù? Meglio di chi magari ha una teologia più raffinata, ma una fede (una fiducia) più traballante? Se esaminiamo la dottrina del limbo vediamo che la Chiesa è intervenuta con uno scopo ben preciso: inculcare la necessità del Battesimo… Cioè sorreggere e preservare la fede che passa attraverso il sacramento e l'indispensabile mediazione della Chiesa.

Il problema allora non è essere in possesso di una ricetta rigorosa e sempre rigorosamente sicura che mi permette di classificare le proposizioni in certe o non certe (dimenticando – tra parentesi – che la certezza si dà in molti modi e che i gradi di certezza sono tanti e che tra certo ed incerto ci sono mille sfumature…), ma conservare la fiducia nel Signore Gesù. Una fiducia non puramente sentimentale, ma intellettualmente nutrita. Ci sono due tipi di fede: uno – "caldo" – quello che contiene in germe la stima per la persona a cui ci si affida e quindi l'amore, l'altro – "freddo" – fatto di un puro calcolo. Tale può essere per esempio il tipo di fiducia di uno storico nelle sue fonti rigorosamente e freddamente sottoposte a critica. Tale è la fede dei demóni: " Tu credi che c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! " (Gc 2,19). Il criterio di discernimento allora per sapere – si tratta comunque di una cosa utile – se un documento è infallibile o no, o qual è il suo valore dogmatico, la sua "nota teologica", non è solo un puro calcolo, o una pura tecnica teologico-accademica, ma l'esercizio personale della fede e dell'amore che "terminano" non a dei documenti ma alla viva persona dell'unico Maestro. Dubiti che la proibizione degli anticoncezionali sia un insegnamento definitivo? Ebbene entra nella Tua coscienza e pensa (non solo "calcola", 'Amor che ne la mente mi ragiona' Purg. II,112) l'importanza della posta in gioco e confronta la Tua certezza personale e la certezza che Ti propone la Chiesa. Percorri i motivi della Tua certezza, vagliali e alla luce di questo confronto, tenendo l'occhio fisso su Gesù e sulla sua "mystica persona" decidi. Sulla Tua decisione non potrà andar sopra nessuno. Se in essa Tu perseveri persino Dio nel suo definitivo giudizio la rispetterà. Te ne andrai in Paradiso o all'Inferno per quella Tua decisione e non per una estrinseca decisione di Dio.
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