L’Italia consegnata a Goldman Sachs

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LiviaGloria
00domenica 23 luglio 2006 15:10
L’Italia consegnata a Goldman Sachs, I francesi resistono a Goldman Sachs

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Due interessanti articoli dal sito di effedieffe.


L’Italia consegnata a Goldman Sachs
Maurizio Blondet
03/01/2006

Il nuovo governatore di Bankitalia Mario Draghi

ROMA - Mario Draghi a Bankitalia, proveniente dalla Goldman Sachs.
Mario Monti uscente dalla Commissione, è stato assunto alla Goldman Sachs.
Romano Prodi, futuro presidente del Consiglio, nella sua vita è entrato infinite volte a servizio della Goldman Sachs: era lì che trovava lavoro quando usciva dal settore pubblico italiano.
Non sarà un conflitto d'interessi? Un tantino? Poco poco?
Ma non si può eccepire. E' vietato.
Nel quadro che ha creato Il Corriere dei Montezemolo e del resto del salotto buono, una nuova Mani Pulite (stavolta contro le sinistre arroccate attorno alle COOP), queste nomine e assunzioni ci dicono che non sarà più permesso formulare domande politicamente poco corrette, criticare le scelte degli Illuminatissimi Fratelli.
E' la consegna dell'Italia ai poteri forti e alla banca d'affari americana.

Chissà che miele secerne la Goldman Sachs per attrarre così importanti maggiordomi dei poteri forti, o che linfa secerne l'Italia, per suscitare le cupidigie della Goldman Sachs: non abbiamo già dato, in privatizzazioni?
Gioielli industriali dell'IRI, pagati mille volte dai contribuenti italiani, non sono già stati svenduti tutti per un boccone di pane?
Non ha già regalato Ciampi la Nuovo Pignone, leader mondiale, alla sua concorrente americana?
E le banche d'affari americane, Goldman Sachs, Merril Lunch e Morgan Stanley, non hanno già incamerato allora - quando la prima Mani Pulite rese impossibile la difesa di quei gioielli, fu per questo che Craxi fu distrutto - 3 mila miliardi in grasse commissioni, per la loro esperienza nelle privatizzazioni?
Chissà.
Sembra ieri quel 2 giugno 1992, quando il «Britannia», panfilo di sua maestà britannica, arrivò di fronte a Civitavecchia con tutti i banchieri della City a bordo (Warburg e Barclay, Coopers Lybrand, Barino, eccetera) a intimare le condizioni della finanza anglo sullo smantellamento delle partecipazioni statali.
Una torta da 100 mila miliardi, come scrisse Massimo Gaggi, giornalista de Il Corriere che era a bordo.

Ci andò anche Mario Draghi, d'ora in poi intoccabile e non criticabile governatore di Bankitalia. Allora era direttore del Tesoro.
E dovette giustificarsene in audizione parlamentare: «dopo aver svolto l'introduzione me ne andai, e la nave partì senza di me…in questo modo evitai ogni possibile sospetto di commistione».
Il Britannia infatti prese il largo.
In acque internazionali, su suolo britannico, gli italiani invitati ascoltarono le condizioni.
Fatto è che Draghi, nell'introduzione, aveva lodato le privatizzazioni così: «uno strumento per limitare l'interferenza politica…un obbiettivo lodevole»: lo stesso programma de Il Corriere oggi. Allora, il tecnocrate dettava la linea politica.
Bastava: poi scese.
Restarono, fra gli altri, Rainer Masera (un altro intoccabile), Giovanni Bazoli (Ambroveneto), Beniamino Andreatta: che sarebbe diventato di lì a poco ministro.
Nel governo Amato, al Bilancio; nel governo Ciampi agli Esteri, nel governo Prodi alla Difesa.
Un coccolone ha impedito al Beniamino tecnocratico di ricoprire altri ministeri, di perfezionare i danni.
Gli altri, purtroppo, sono vegeti e pronti.
A consegnare l'Italia a Goldman Sachs.

Nel settembre '93, alla privatizzazione della Comit fu incaricata di presiedere la Lehman Brothers; a quella del Credit, la Goldman Sachs.
In verità Franco Nobili, il precedente capo dell'IRI, aveva dato quest'ultimo incarico alla Merrill Lynch; ma a quel punto Nobili era in prigione in attesa di giudizio per Mani Pulite (solo il tempo necessario: poi sarà prosciolto con formula piena), e comandava Prodi.
Fu Prodi a dare l'incarico alla Goldman Sachs, «della quale era stato consulente fino a pochi giorni prima». (1)
La Merrill Lynch, nel giorni in cui aveva l'incarico, aveva offerto alla Deutsche Bank il pacchetto di Credito Italiano in proprietà all'IRI per 6 mila lire ad azione.
La Goldman Sachs fissò il valore del Credit a 2.075 lire per azione, meno della quotazione in Borsa, che era sulle 2.230 lire.
Insomma vendette per 2.700 miliardi qualcosa che ne valeva almeno 8 mila.
Persino l'Espresso si chiese: «è dunque un regalo quello che l'IRI sta facendo al mercato? Dal punto di vista patrimoniale è così».

Prodi ne ha fatti, di regali.
L'Italgel, 900 miliardi di fatturato, venduta per 437 alla Nestlé.
La Cirio-Bertolli-De Rica (CBD), 110 miliardi di fatturato, valutata sui 1.350 miliardi, venduta a una finanziaria lucana mai sentita, la FISVI di tale Francesco Lamiranda, «appoggiato dalla sinistra democristiana della Campania» secondo Il Corriere.
Era la sua unica credenziale, perché Lamiranda soldi non ne aveva.
Offrì dapprima 130 miliardi, poi 310.
Avrebbe pagato, chiarì, vendendo i pezzi dell'azienda che si offriva di comprare.
Ma restò l'unico acquirente.
Un'asta ci voleva: non fu fatta.
Bisognava vendere a questo Lamiranda.
Pietro Larizza, allora capo della UIL, descrisse l'operazione così: «la FISVI acquista senza avere ancora i soldi per pagare; per formare il capitale necessario, vende una parte di ciò che ha comprato; per quel che rimane cerca ancora soci finanziatori per completare l'acquisto».
Antonio Bassolino (un merito gli va riconosciuto) denunciò alla Procura di Napoli quell'affare: «c'è il pericolo che privatizzazioni fatte in questo modo espongano pezzi del nostro apparato produttivo alle mire speculative e affaristiche».
Era peggio di così.
Un perito di nome Renato Castaldo scoprì che dietro lo sconosciuto Lamiranda c'era l'Unilever, la multinazionale olandese.
«E' documentato che la Unilever», scriveva, ha «inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l'IRI…predisponendo anche le clausole da inserire nel contratto» fra Prodi (IRI) e Lamiranda.
L'Unilever?
Prodi è stato consulente dell'Unilever dal '90 al '93, come consulente di vaglia, a decidere le acquisizioni.

Ecco dov'è il miele che Goldman Sachs cerca.
Ecco dov'è la linfa che trovano i grand commis nella Goldman Sachs.
L'ape cerca i fiori, i fiori si volgono all'ape.
E' una storia d'amore.
Non amano noi, però.
Ci vogliono spogliare.

Maurizio Blondet

Note
1) Massimo Pini, «I giorni dell'IRI, storie e misfatti da Beneduce a Prodi», Mondatori, 2000, pagina 238. Gran parte delle informazioni di questo articolo vengono dal libro di Pini.

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I francesi resistono a Goldman Sachs
Maurizio Blondet
03/01/2006


Nel 2005 la banca d'affari Goldmans Sachs - la stessa che si è assicurata il dominio in Italia con Draghi governatore, e presto se lo assicurerebbe con Prodi premier - è stata la prima nel mondo come «consulente» in fusioni e acquisizioni (m&a).
Ha presieduto a ben 354 accordi di fusione tra aziende, o ad «assalti» ostili di un'azienda contro un'altra, di solito concorrente: è suo il 30 % di questo mercato.
Il valore di questi accordi è stato di 848 miliardi di dollari.
Seguono in questa specifica classifica Morgan Stanley (353 fusioni, 720 miliardi di dollari) JPMorgan-Chase, Merrill Lynch, Citigroup: tutte corazzate finanziarie americane.
Solo il sesto e ottavo posto vedono due entità in qualche modo europee (ammesso e non concesso che il capitale finanziario abbia un colore nazionale), UBS e Deutsche Bank.
Nel complesso, le fusioni-acquisizioni nel mondo sono cresciute del 40% in valore: e sul valore (2.900 miliardi di dollari) Goldman Sachs e le altre si sono ritagliate grasse commissioni: le loro casseforti traboccano di profitti, forse sui 300 miliardi di dollari.

Esaltate dai media finanziari, le fusioni-acquisizioni sono un sintomo patologico del capitalismo terminale (e «terminator»).
Aziende strapiene di denaro che non sanno più come investire, lo «investono» per mangiarsi aziende concorrenti magari più snelle e migliori, ma più piccole e temporaneamente indebitate: insomma puntano a diventare monopoli.
Così la Procter & Gamble ha ingoiato la Gillette (per 58 miliardi di dollari), la Conoco la Burlington Resources (35 miliardi), la Telefonica spagnola la concorrente O2 (32 miliardi), la Pernod ha acquisito la Domecq.
Queste operazioni non ampliano né rendono più efficiente il cosiddetto «libero mercato».
Al contrario, lo riducono e lo distruggono.
Spiace dirlo, ma è ciò che aveva previsto Marx.
Un'andata di acquisizioni rivela anche un altro sintomo odioso: sono gli eccessi di profitto che danno alle aziende i mezzi per inglobare le concorrenti.
Lo dice il fatto che le m&a del 2005 sono state fatte usando liquidità per il 71 % del valore, ossia denaro in eccesso nella casse delle aziende assaltatrici.
Ancora una volta detesto usare un frasario marxista, ma bisogna dirlo: è denaro rubato ai lavoratori.
Negli ultimi anni, i profitti del capitale sono cresciuti enormemente, mentre le retribuzioni sono scese in tutto il mondo occidentale in termini reali, di fatto trasferendo i posti di lavoro nei paesi a bassissimi salari, come Cina e India.

Il lavoro non è stato retribuito abbastanza, mentre il capitale si è retribuito troppo.
Ma è anche vero che molte m&a sono state fatte col debito.
Alleanza occasionali o istituzionali di finanzieri d'assalto («private equity groups») raccolgono fondi in tutti i modi, e assaltano un'impresa, spesso con una visione speculativa a breve: l'impresa acquisita viene smembrata nei suoi settori e rivenduta a pezzi, e queste vendite pagano i debiti contratti dai compratori.
Questo tipo di operazioni, o meglio saccheggi, sono resi possibili dai tassi d'interesse bassissimi (il «capitale» dei piccoli risparmiatori infatti non è ben retribuito: colpiti nei salari, siamo colpiti anche nei risparmi, che dobbiamo prestare per niente).
E per il 2006, commenta Richard Campbell-Breeden, dirigente della Goldman Sachs, «gli sponsor dei private equity groups resteranno la forza trainante in Europa, poiché dispongono - se i mercati del credito restano benigni - di oltre 60 miliardi di euro non ancora impegnati».
Il credito «benigno» significa facilità di prendere denaro a prestito quasi gratis, come oggi.
Il resto addita il programma della Goldman Sachs per l'Europa: altre fusioni, altri assalti, al solo scopo di incassare commissioni.

Infatti non sempre le fusioni-acquisizioni sono successi, anche dal punto di vista finanziario. L'ultima ondata di m&a avvenne al termine della bolla speculativa sulle «dot.com», aziende dei settori telecom-internet, che spesso non avevano dentro nulla oltre il loro nome, acquisite a prezzi astronomicamente inflazionati: il peso dell'indebitamento acceso per l'acquisto ha rovinato parecchi acquirenti.
Ma Goldman Sachs e compagne incoraggiano (istigano) alle fusioni, perché loro - comunque poi vada l'affare - ci guadagnano sempre.
E' così che guadagnano: di rado partecipano al rischio, in genere si fanno pagare per la «consulenza» (bancaria, legale, di emissione prestiti) cifre colossali a percentuale sui fatturati.
Ecco cosa vuol fare la Goldman in Italia; ed ecco perché ha bisogno dello sguardo benevolo dei suoi ex dipendenti, Draghi e Prodi, oltrechè di Mario Monti, suo attuale dipendente e fino a ieri commissario alla concorrenza.

Perché in Francia, per esempio, le grandi manovre di saccheggio hanno trovato un ostacolo nello Stato.
In luglio, il governo francese ha difeso con tutte le forze il Gruppo Danone su cui la PepsiCo stava preparando a balzare con un'acquisizione ostile.
Un mese dopo, la Francia ha stilato e pubblicato una lista di settori economici che programmaticamente proteggerà da assalti provenienti dall'estero: dalla biotecnologia alla sicurezza e difesa, fino ai casinò.
Questa è buona politica sovrana.
Prodi e Draghi, siamo sicuri, non seguiranno l'esempio.

Maurizio Blondet

Note
1) James Politi, «Investment banks cash in m&a activity rises 40%», Financial Times, 30 dicembre 2005.
2) James Politi e Lina Saigol, «Big deals return ad investors sharpen up», Financial Times, 30 dicembre 2005.

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