La squadra dei Goldfinger accumula munizioni d’oro pronte all’uso

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wheaton80
00venerdì 23 dicembre 2016 23:59

Giugno 2016, aeroporto JFK di New York: un aereo cargo decolla a notte fonda per l’Europa. Nella stiva, sorvegliata a vista, 30 tonnellate di lingotti d’oro massiccio da 400-troy-ounces ciascuno (12,4 chili d’oro puro al 99,8%) allineati in casse di legno sigillate con il marchio a fuoco del mittente: «Federal Reserve Bank of New York». Ma a chi apparteneva il tesoro? Miliardario russo o cinese? O era in realtà un rimpatrio segreto di oro sovrano?  Il «giallo del metallo giallo» comincia proprio da qui. Dietro una spedizione di 30 tonnellate d’oro, altre 1.000 tonnellate sono in lista d’attesa per lasciare l’America. Perché a distanza di sei mesi, e malgrado la cortina di riservatezza, emerge chiaramente che quel trasferimento aereo di 30 tonnellate di lingotti, più che il tassello di un «giallo» è la punta di un iceberg la cui massa sommersa si muove da quasi otto anni al riparo dagli occhi del mercato e sulla spinta di «correnti» più geopolitiche che di ordinaria gestione di attività finanziarie strategiche. Con l’aggiunta di quelle 30 tonnellate di «metallo giallo» ritirate dagli Stati Uniti, un gruppo ristretto di Stati europei ha riportato in patria – e solo negli ultimi 18 mesi – la cifra record di oltre 400 tonnellate d’oro da New York e da Londra, le due capitali finanziarie mondiali che dal 1945 custodiscono più della metà del «tesoro aureo sovrano» di almeno 100 Nazioni. Prove certe non esistono, ma sono in molti a sospettare che dietro lo scudo dell’euro si stia creando uno scudo fatto d’oro. Ma non per tutti.

Un riposizionamento strategico

Sulla base dei piani su cui nessun governo ha fatto grande pubblicità ma la cui esistenza è stata confermata nei rispettivi parlamenti, Germania, Olanda, Belgio e Austria – il blocco delle Nazioni-guida dell’Europa Centrale e della stessa eurozona – si avvia a riportare sotto la propria gestione diretta più del 50% delle riserve auree totali nazionali tra il 2018 e il 2020: anche prendendo in considerazione solo i quattro «big» dell’eurosistema (reimpatri non dettagliati di lingotti sono in corso anche da parte della Francia, della Romania e della Polonia tra i Paesi UE, a cui si può aggiungere la Svizzera, che avrebbe in programma di riportare nei Cantoni fino a 500 tonnellate d’oro custodite tra Londra e New York). In questo puzzle da centinaia di miliardi di euro, va poi inserito un altro tassello non meno rilevante per avere una visione d’insieme del fenomeno: dietro il rimpatrio dell’oro, comincia a delinearsi infatti un più vasto riposizionamento strategico dell’intero stock delle riserve sovrane europee, e non solo di quelle.

A rilevarlo è stato lo stesso World Gold Council, la fonte ufficiale di studi e statistiche per l’intero mercato mondiale dell’oro: nel suo ultimo rapporto mensile (dicembre 2016) le rilevazioni indicano chiaramente che dopo quasi 15 anni in cui l’incidenza dell’oro sul totale delle riserve sovrane nazionali medie (oro, valuta e titoli) è scesa costantemente in quantità (ma cresciuta enormemente in valore grazie all’aumento dei prezzi), il trend degli ultimi 24 mesi evidenzia l’avvio di un ribilanciamento a favore del metallo giallo, nuovamente percepito dai governi come l’asset-rifugio più stabile e sicuro. «Le Nazioni-guida dell’eurozona, come la Germania, la Francia o l’Olanda – dice Koos Jansen, analista di punta di BullionStar, la borsa digitale dei metalli preziosi con sede a Singapore – e quelle che presentano al contrario le maggiori fragilità e criticità economiche, finanziarie e politiche (come l’Italia, il Portogallo e la Grecia) hanno riserve in oro pari in media al 60% di quelle totali. La novità è che chi era sceso sotto il 50%, dopo l’avvento dell’euro sta ritornandoci rapidamente». La nascita dell’eurozona, da quanto sembra, aveva dato un pò a tutti una apparente certezza di sicurezza finanziaria e valutaria, spingendo molti Paesi a lasciare inalterate le scorte di oro all’estero, riducendo però lo stock nazionale. Almeno fino all’amaro risveglio.

Dopo la crisi, la corsa al rimpatrio

Dal 2009, anno di avvitamento della recessione e della crisi del debito sovrano in Europa, dei salvataggi bancari e delle bancarotte nazionali (Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro furono salvate dai prestiti di FMI, BCE e Commissione UE, la cosiddetta Troika), è cominciata una vera e propria corsa al rimpatrio dell’oro sovrano: tra Asia ed Europa, la stessa Federal Reserve di New York ha calcolato in oltre 7mila tonnellate la quantità di lingotti riportati a casa in gran segreto sia dai Paesi sulla sponda opposta del Pacifico che su quella dell’Atlantico: nel dettaglio, lo stock di lingotti custoditi nel sottosuolo di Manhattan dalla Federal Reserve è crollato dalle oltre 12.500 tonnellate del 2008 a poco più di 5.200 tonnellate. Dove siano finite precisamente non è noto, anche se tutti sono convinti che gran parte sia stata rimpatriata da Cina, Russia e India, oltre che naturalmente dall’Europa. «Ogni Paese sembra avere buone ragioni per riprendersi l’oro finora affidato ad americani e inglesi – conclude l’esperto del metal exchange di Singapore – ma è chiaro che esiste un comune denominatore: l’incertezza. Nessuno può dire con certezza quale sarà l’andamento dei cambi valutari e dei tassi di interesse, quali saranno gli effetti della Brexit sulle relazioni economiche e finanziarie in Europa a processo di uscita del Regno Unito ultimato, quali relazioni geopolitiche e quali instabilità commerciali emergeranno dall’America di qui ai prossimi quattro anni con Donald Trump al timone degli USA. L’oro, soprattutto in fasi di aspettative in caduta libera come questa, diventa il miglior paracadute finanziario e psicologico per le nazioni».

Nel caso dell’Eurozona, la corsa al rimpatrio dell’oro sovrano si inserisce certamente tra queste problematiche latenti, ma con la solita specificità: la diffidenza strutturale nelle relazioni politiche e finanziarie tra Stati. Anche se l’imponente QE della BCE ha riportato sotto controllo l’andamento dei tassi di interesse e gli spread nazionali, il denaro non ricuce né la fiducia reciproca, né le vecchie ferite mai rimarginate: anzi, a giudicare dal travagliato cammino della Legge italiana di Stabilità, lo scontro tra rigoristi ed espansionisti resta da 8 anni con le stesse formazioni: la Germania, l’Olanda, l’Austria e il Belgio da una parte, l’Italia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo dall’altra. Beh, sapere che la squadra dei «Goldfinger» accumula munizioni d’oro per averle pronte all’uso in caso di emergenza, mentre quella dei «PIIGS» annaspa nei debiti e nel rigore, non è certamente rassicurante per chi già guarda con preoccupazione al dicembre 2017, quando la BCE dovrebbe terminare gli acquisti straordinari di titoli di Stato che hanno permesso all’europeriferia di tenere ai minimi i rendimenti dei propri bond. «Nel caso specifico – spiega l’economista di una grande banca d’affari – se anche l’euro saltasse o si dovesse decidere di “sdoppiarlo” in due valute con diverso valore, poter contare sulla protezione delle riserve in oro può fare la differenza».

La discrezione di Francoforte

Come giudicare, insomma, la corsa ai rimpatri dei lingotti europei e il boom di prenotazioni sui «cargo della speranza» in viaggio dall’America? Qui non si tratta più di giudicare i comportamenti di un manipolo di speculatori senza scrupoli, ma di accettare passivamente la buona fede di comportamenti che, per quanto legittimi, approfondiscono il solco, le asimmetrie e la diffidenza tra cittadini e istituzioni nazionali e sovranazionali. Una riflessione e un esempio che potrebbero partire proprio dal ruolo-guida della BCE, visto che la stessa Eurotower volle inserire a fine anni ‘90 una quota significativa di lingotti d’oro sovrani (il 30% della quota di riserve nazionali conferite dai Paesi membri) a garanzia della solidità di Eurotower. Pochi ricordano infatti che a garanzia del bilancio della BCE (ma non dell’euro) i soci dell’euroclub hanno versato nel complesso 767 tonnellate d’oro sovrano, una montagna di lingotti su cui l’Europa sembra avere però una gestione e una visione quasi bipolare: se da un lato è riconosciuto dalla stessa Banca Centrale come un asset-chiave per la sicurezza del suo bilancio, dal lato della sua gestione e custodia non sembra attribuirgli di fatto tale ruolo. La grande trasparenza con cui diffonde dati, informazioni e dettagli su ogni atto della vigilanza (compresi quelli di carattere legale) e soprattutto la precisione con cui elenca ogni mese tutte le varie operazioni monetarie straordinarie con cui ha salvato finora le sorti dell’Eurozona, la BCE non parla mai volentieri del modo in cui conserva e gestisce l’oro dei cittadini europei.

L’unica cosa certa è che a Francoforte non solo non è depositato neanche un lingotto delle 504 tonnellate d’oro che la BCE ha dichiarato di possedere a fine 2015, e che meno della metà di questo tesoro - bene rifugio, indicatore di fiducia e riserva di valore per eccellenza - è ai confini dell’Eurosistema, cioè a Roma (Banca d’Italia) e Lisbona (Banca del Portogallo). Al contrario, più del 50% dei lingotti BCE, secondo le stime degli analisti di BullionStar, è “curiosamente” affidato alla custodia (e in parte si dice alla gestione) di due banche centrali che con l’Eurozona e con l’euro non hanno nulla a che fare, la FED di New York da un lato e la Bank of England a Londra dall’altro. Anche tralasciando il fatto (peraltro non positivo) che la BCE non conduce neppure un audit, o anche la più semplice verifica contabile fisica sull’oro custodito in America e Regno Unito, resta sul tavolo l’ennesimo paradosso: come si spiega tanto allarme sulle ripercussioni e sui rischi del distacco britannico dall’Europa, se è poi la stessa BCE a fare da “garante” alla solidità e la sicurezza prospettica della piazza finanziaria londinese, lasciandogli in custodia o gestione quasi un terzo delle proprie riserve auree? Il «giallo del metallo giallo» continua.

La fuga dei lingotti italiani
E scendendo verso Sud, si arriva fino all’Italia, che con 2.400 tonnellate d’oro, pari a un valore di 105 miliardi di euro (più o meno 5 volte la manovra contenuta nella Legge di Stabilità per il 2017), si colloca nella quarta posizione della graduatoria mondiale delle riserve auree nazionali e nella prima per fedeltà al metallo giallo. Ma pochi sanno che l’enorme patrimonio in lingotti d’oro (degli italiani) che il Governo conferì a Bankitalia con la privatizzazione del 2014, è rimasto solo per metà nei confini italiani: oltre 1.000 tonnellate sono infatti volate in America in custodia della FED di New York: gli altri due depositi importanti sono a Londra e persino in Svizzera, presso la BRI e la Banca Centrale Cantonale. Alle riserve in lingotti dichiarate formalmente da Bankitalia come proprie si aggiungono poi altre 150 tonnellate di oro custodite per conto della BCE. Con un apprezzabile sforzo di trasparenza (certamente superiore alla media di quanto fatto dagli istituti centrali di altri Paesi europei), Bankitalia ha infatti pubblicato nel 2014 un documento di 3 pagine (“Le riserve auree della Banca d’Italia”) che ha fornito per la prima volta informazioni-chiave per dare una visione di massima del proprio patrimonio in oro sovrano. Tra le novità, due restano ancora rilevanti: la prima riguarda l’oro della BCE, la seconda, come detto, la mappa del tesoro e l’assenza di strategia sui rimpatri.

A questo proposito, è interessante notare la linearità della banca nelle strategie sulle proprie riserve auree, soprattutto in confronto agli zig zag di molti partner europei: Palazzo Koch, che ha oltre il 68% delle proprie riserve strategiche rappresentate dall’oro, non solo è tra le pochissime banche centrali che non ne hanno venduto un grammo anche quando ne hanno avuta la possibilità in base agli accordi internazionali (2014 e 2015), ma non figura neppure tra le istituzioni intenzionate a medio termine a cederne una parte o a rimpatriarne quote più o meno significative come scelto da altre banche centrali europee. Detto questo, è ora di affrontare altre due questioni: quanti voli carichi d’oro sono stati tracciati da BullionStar verso l’Europa, per quali capitali e quali Paesi sono più attivi nel ponte aereo transatlantico? E che cosa dichiarano i governi a tale proposito? Ma soprattutto: c’è forse un disegno preciso che spinge tante Nazioni a rimpatriare centinaia di tonnellate d’oro? E infine: la fortuna dell’oro è la “sfortuna” del mondo, oppure nel futuro del metallo giallo è in incubazione un ruolo-guida nella rivoluzione finanziaria del denaro virtuale e delle Blockchain? Insomma, siamo alla vigilia di un nuovo Gold Standard 2.0?

Alessandro Plateroti
21 dicembre 2016
www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-12-20/dietro-scudo-dell-euro-spunta-quello-dell-oro---230014.shtml?uuid=ADLIrUHC&utm_source=dlvr.it&utm_medium...
wheaton80
00martedì 2 aprile 2019 11:43
Banche, il ritorno del «gold standard»: l’oro nei bilanci diventa moneta

Che cosa sta succedendo sulle riserve auree mondiali? Sul mercato dell’oro c'è un clima da guerra fredda: per la prima volta in 50 anni, le banche centrali hanno comprato l’anno scorso oltre 640 tonnellate di lingotti d’oro, quasi il doppio rispetto al 2017 e il livello più elevato dal 1971, quando il Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon chiuse l’era del Gold Standard. Il fatto interessante è che le banche centrali europee, insieme a quelle asiatiche, sono state le più aggressive negli acquisti: paura di crisi dell’euro e di guerre valutarie? In realtà, e questo vale soprattutto in Europa, dietro le grandi manovre sulle riserve auree non c’è solo il tradizionale scudo protettivo contro i grandi rischi: c’è anche il richiamo dell’opportunità. Un richiamo di cui pochi sembrano ancora a conoscenza, malgrado l’appuntamento sia ormai questione di poche settimane: quelle che mancano al 29 marzo del 2019. Il giorno del giudizio per la Brexit sarà anche quello dell’avvento per il mercato dell’oro. Non è chiaro se per scelta o per caso, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, la «Banca delle banche centrali», per il suo ruolo-chiave nel sistema finanziario mondiale, ha fissato infatti per il 29 marzo un appuntamento con la storia: la resurrezione del Gold Standard nel mondo bancario. Per quasi 60 anni, il gold standard ha regolato la convertibilità tra oro e dollaro, agganciandone il valore di mercato: nel 1971 fu il Presidente americano Richard Nixon, spaventato dalle pressioni ribassiste che rischiavano di affondare il dollaro in piena guerra fredda, a tagliare il cordone con l’oro decretando la fine del gold standard. Ora qualcosa comincia a muoversi in direzione opposta.

L’oro come denaro contante
Il Sole 24 Ore ha scoperto che tra le complesse ma ben note riforme degli standard per il credito e la finanza dal piano «Basilea 3», si nasconde un’alchimia contabile in grado di trasformare l'oro in moneta nei bilanci dei grandi gruppi bancari. Dal 29 marzo, per decisione della BRI, l’oro in portafoglio alle banche commerciali e d’affari diventa «Cash Equivalent», un asset equivalente al denaro contante e quindi «risk free». Di fatto, è la prima «rimonetizzazione dell'oro» dai tempi dell’accordo di Bretton Woods: i tecnici la chiamano «Gold Remonetization», processo inverso a quello della «demonetizzazione» dell’oro decisa da Nixon.

Stesso status dei bond sovrani
L'operazione della BRI, secondo quanto ricostruito dal Sole24Ore, porta la firma della FED, della BCE, della Bundesbank, della Banca d'Inghilterra e della Banca di Francia, il G-5 delle grandi potenze monetarie globali. Nel 2016, quando furono definite le nuove regole del sistema bancario inserite nel pacchetto «Basilea 3», il Comitato dei Banchieri Centrali ha inserito una norma di portata epocale che nessuno ha mai però discusso apertamente in pubblico. In pratica, l'oro in lingotti “fisici” (quindi non sotto la forma “sintetica” come i certificati) torna ad essere considerato dai regolatori come l'equivalente del dollaro e dell'euro in termini di sicurezza patrimoniale, eliminando così l'obbligo di ponderarne il rischio ai fini dell'assorbimento di capitale, come avviene con ogni altro asset finanziario, esclusi (per ora) i titoli di Stato dell'Eurozona. La svolta non è di poco conto, per il mercato dell'oro e per il ruolo stesso delle riserve auree nazionali. Il risultato è rilevante: con le nuove regole di Basilea 3, viene assegnato all'oro lo stesso status oggi riconosciuto ai Bond sovrani nei bilanci delle banche. Una domanda sorge dunque spontanea: la promozione dell'oro è forse la premessa per applicare un coefficiente di ponderazione del rischio ai Titoli di Stato posseduti dalle banche? Dalla crisi del debito, l'obiettivo dei regolatori è stato infatti duplice: imporre al sistema bancario di detenere un patrimonio adeguato a coprire l'entità dei rischi. Nel mirino ci sono soprattutto i titoli di Stato, che in base alle regole attuali possono essere detenuti dalle banche senza alcun impatto sul loro patrimonio. La questione riguarda principalmente Paesi a basso rating come l'Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, osservati speciali dopo la crisi del debito nel 2011. Le banche di questi Paesi, sia per aumentare la redditività (carry trade) sia per agevolare l'emissione di debito pubblico nelle aste, hanno il più alto ammontare di titoli di Stato nell'eurozona.

E questo fenomeno è particolarmente sentito in Italia, dove il sistema bancario possiede 400 miliardi di BTP sui 2.400 miliardi di debito pubblico. Che cosa succederebbe allora, se venisse applicata a ponderazione per il rischio sui BTP come vuole il Comitato di Basilea? Le conseguenze dipendono dal livello di ponderazione del rischio applicato sui BTP: se fosse alto, alcune banche potrebbero essere costrette a sostituire i titoli con altri asset finanziari, oro compreso, oppure a procedere ad aumenti di capitale. In un momento in cui il mercato è restio ad acquistare azioni bancarie, il rischio di ripercussioni sulla stabilità del sistema bancario potrebbe essere alto. Basta guardare i Credit Default Swap (l'assicurazione dal rischio di default) sulle banche italiane: secondo i dati di Bloomberg, i CDS a 5 anni di alcune tra le maggiori banche italiane hanno avuto un'impennata dalla primavera del 2018, anche triplicando in alcuni casi il valore. E' in questo contesto che la data del 29 marzo si avvicina rapidamente. I Paesi che hanno rimpatriato l'oro dall'estero riconquistandone il controllo e la gestione si sentono già al riparo dal rischio di trovarsi dopo il 29 marzo a corto d'oro fisico da mettere a disposizione delle proprie banche in caso volessero sostituirlo ai bond sovrani. Nell'arsenale del sistema, c'è un montagna d'oro da 33mila tonnellate metriche d'oro che vale 1.400 miliardi di dollari al cambio attuale. E che rappresenta il 20% di tutto l'oro estratto nel mondo in quasi 3mila anni. Come al solito, i Paesi più lungimiranti e prudenti, o forse i meglio informati sulla svolta di fine marzo, sono stati la Germania, l'Olanda, l'Austria, la Francia, la Svizzera e il Belgio, ma anche la Polonia, la Romania e l'Ungheria hanno ripreso il controllo delle riserve auree aumentandone anche la consistenza. Cina, Russia, India e Turchia sono state invece le Nazioni che hanno comprato oro negli ultimi due anni più di chiunque altro, con Mosca che ha addirittura liquidato l'intero portafoglio in titoli di Stato americani per sostituirli con il metallo prezioso. Ma il problema non è questo: è sul prezzo dell’oro che i conti non tornano. Nel 2018, ben 641 tonnellate di lingotti d'oro sono stati acquistati dalle autorità monetarie di ogni continente, ma soprattutto in Europa: è il livello più alto dal 1971. La manovra non ha precedenti e va inquadrata nel fenomeno dei rimpatri di lingotti di Stato affidati in custodia. 

Settemila tonnellate di riserve auree sono state ritirate dalle banche centrali dai forzieri della Federal Reserve di New York, mentre 400 tonnellate sono uscite in gran segreto dalla Banca d'Inghilterra. Negli ultimi anni, ma soprattutto nel 2018, un balzo del prezzo dell’oro sarebbe stato nell’ordine delle cose. Al contrario, l’oro ha chiuso l’anno scorso con un ribasso complessivo del 7% e un rendimento finanziario negativo. Come si spiega? Mentre le banche centrali rastrellavano dietro le quinte lingotti d’oro “vero”, allo stesso spingevano e coordinavano l’offerta di centinaia di tonnellate di “oro sintetico” sui listini di Londra e New York, dove avviene il 90% delle contrattazioni sui metalli preziosi: l’eccesso d’offerta di derivati sull’oro serviva ovviamente per buttarne giù il prezzo, costringendo gli investitori a liquidare le posizioni per limitare le forti perdite accumulate sui futures. Così, più il prezzo dei futures scendeva più gli investitori vendevano “oro sintetico”, innescando spirali ribassiste sfruttate dalle banche centrali per comprare oro fisico a prezzi sempre più bassi. Con buona pace di chi guarda all’oro come a un rifugio sicuro. Cina, India, Russia e Turchia hanno praticamente raddoppiato le riserve auree negli ultimi cinque anni con questo sistema. Mosca, per comprare oro, ha persino venduto l’ultimo 20% di titoli di Stato americani che aveva nelle riserve valutarie. Quanto è compatibile una situazione del genere con i doveri di correttezza e trasparenza di una banca centrale? Di sicuro, il sistema creato dai «Goldfinger» anglo-americani sembra davvero fatto apposta per gli abusi. Chissà che accadrà dopo il 29 marzo...

Alessandro Plateroti
25 febbraio 2019
www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2019-02-24/banche-ritorno-gold-standard-l-oro-bilanci-diventa-moneta-091055.shtml?refr...
wheaton80
00mercoledì 19 giugno 2019 19:38
Le banche centrali danno via alla corsa all’oro: ecco cosa sta succedendo

L’oro è in volo da tempo, e le sue quotazioni, sia a livello stock che sotto il profilo dei titoli ad esso associati, non conoscono freno nella loro corsa al rialzo. Nelle scorse settimane avevamo parlato di una vera e propria “febbre dell’oro” in riferimento al fatto che a innescare l’aumento dei prezzi del nobile metallo non era solo la sua funzione di bene rifugio, comunque intensa in un frangente caratterizzato da tensioni commerciali e geopolitiche, ma anche la valorizzazione del suo ruolo di prodotto di investimento in relazione ai titoli i cui rendimenti sono stati ridotti dal ritorno al “QE globale”. E il fatto che i fondi ETF, i quali mantengono un portafoglio pressoché fisso affidandolo alle ciclicità del mercato scommettendo sulla bassa rischiosità degli assetti, avessero iniziato a negoziare oro in misura crescente dà un’idea delle attese sui futuri rendimenti dell’oro, attesi continuamente in ascesa. Ma alla “corso all’oro” non hanno partecipato solo i fondi privati. Anche numerose banche centrali stanno immagazzinando consistenti quantità del metallo nobile, contribuendo a un rincaro dei prezzi che il 14 giugno ha visto il raggiungimento di una quotazione record da 14 mesi, con l’oro assestato a 1.359 dollari l’oncia. Come sottolinea La Stampa, “le banche centrali nei primi tre mesi dell’anno hanno effettuato acquisti netti di oro per 145,5 tonnellate, il 68% in più dell’anno prima, per una spesa di circa 6 miliardi di dollari. È il volume più alto, per quanto riguarda il primo trimestre, registrato dal 2013 in avanti, quando gli acquisti netti furono di 179,2 tonnellate. Protagonista è stata la Russia, che ha aggiunto alle sue riserve 55,3 tonnellate, mentre dall’altro lato continua a vendere titoli di Stato americani. Forti gli acquisti anche da parte della Cina (33 tonnellate nel primo trimestre), che dopo una pausa di due anni da dicembre ha ricominciato a comprare il prezioso metallo.

E poi India, Kazakistan, Qatar, Colombia a guidare la pattuglia delle banche centrali sul mercato”. Russia e Cina mirano a rafforzarsi in campo aurifero per proseguire sulla strada della diversificazione dei loro asset e gradualmente de-dollarizzare i loro portafogli d’investimento, mentre al contempo altri Paesi puntano ad accumulare oro come controparte per momenti economici difficili, come asset strategico per inserirsi nei mercati finanziari globali o semplicemente per incentivare quello che è ritenuto un circolo virtuoso di aumento dei prezzi e del rendimento implicito del possesso di oro. Nei prossimi mesi, secondo una ciclica legge di alternanza, la natura di bene d’investimento dell’oro potrebbe nuovamente essere sorpassata dalla funzione di bene rifugio. La crisi USA-Iran, il braccio di ferro commerciale tra Washington e Pechino, l’instabilità delle valute dei Paesi emergenti concorrono a lasciar presagire un nuovo boom dei beni rifugio. E per l’oro la soglia da tenere d’occhio è quella dei 1.400 dollari l’oncia, oltre cui si apre un territorio inesplorato di possibili boom del prezzo. Non a caso il trader Paul Tudor Jones ha affermato che superati i 1.400 dollari l’oncia l’oro potrà arrivare velocemente fino ai 1.700. E molto dipenderà da quanto le banche centrali decideranno di puntare sull’oro in una fase in cui la corsa all’acquisizione di una massa crescente di risorse del nobile metallo è sempre più intensa.

Andrea Muratore
18 giugno 2019
it.insideover.com/economia/banchecentralicorsaoro.htmlfbclid=IwAR2FQ0oTa2tHa5s3R0CtTY1r49K2Hr2kUjwhT8bzEhGdn1SW-b...
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