Le moderne falsità

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Ghergon
00sabato 5 febbraio 2011 14:59
La Messa è un sacrificio
nel quale Gesù Cristo
si offre a Dio, suo Padre,
come vittima per noi,
mediante il ministero dei sacerdoti.



UNA “NUOVA LITURGIA”


Nella Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia vi
sono incredibili errori di principio dottrinale; quindi, “... a
fructibus eorum cognoscetis eos!..” (Mt. VII, 16-18), e perciò,
“omnis arbor, quae non facit fructum bonum... excidetur...
et in ignem mittetur...” (Mt. VII, 19).

In un articolo, apparso su “L’Avvenire d’Italia”, in data
23 marzo 1968, mons. Annibale Bugnini, scrisse che la
Commissione Conciliare, incaricata di compilare definitivamente
il testo della Costituzione sulla Liturgia del Vaticano
II, ebbe intenzioni chiare di imbrogliare, mediante un
“modo di esprimersi cauto, fluido, talora incerto, in certi
casi, e limò il testo della Costituzione per lasciare, nella fase
di applicazione, le più ampie possibilità e non chiudere
la porta alla azione vivificante dello ‘Spirito’ ” (senza l’attributo
divino: “Santo”!).

Uno scritto, quindi, che la dice lunga!
Ad esempio: l’introduzione dell’altare “versus populum”
venne presentato con parole mascherate, piene di cautela, nell’art. 91 della Instructio: “Oecum. Concilii”:
“È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete...
per potervi facilmente girare intorno... a celebrare rivolti
“versus populum”” (!!).
Da notare subito il modo fraudolento di presentazione. Le
Conferenze Episcopali usano, quasi sempre, il “criterio di
interpretazione arbitrario”, di mutare, cioè, un “licet”, un
“expedit”, un “tribui possit” di una legge liturgica, in un
categorico “debet”, togliendo, così, la liceità di alternativa
contraria, quando, invece, il “licet” lascia il diritto di libera
scelta, riconosciuto in tutti i Codici di diritto.

Ma così si è attuato una vera e propria “aversio a Deo”
per una “conversio ad creaturas”, come è avvenuto con l’introduzione
dell’altare “versus populum”, e cioè, un vero
“avertit faciem Deo”, a quel Dio che è realmente presente,
substantialiter, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nel santo
Tabernacolo che custodisce l’Eucarestia.

Oggi, voltate le terga al Signore, il celebrante si “converte”
(“conversio ad creaturas”) al “popolo di Dio”, il quale,
così, è diventato il protagonista della Liturgia. Lo conferma
persino la “Institutio Generalis Missalis Romani” (art. 14),
ove si legge:

“... cum Missae celebratio (i.e. “esecuzione” di tutte le
cerimonie di rito sacrificale!) natura sua (contro il dogma tridentino!)
indolem communitariam habeat” (!!). Quindi,
“celebrazione comunitaria”!

Non c’è scappatoia.
Qui, il senso ereticale del termine “indolem
communitariam”, attribuito alla “Missae celebratio”,
trova conferma in quello che segue la pròtesi del periodo:
“dialogis inter celebrantem et coetum fidelium... (omissis)...
communionem inter sacerdotem et populum fovent,
et efficiunt...”!

Mentre, prima, la celebrazione “versus Deum” rendeva
ogni celebrante, “il sacerdote”, “in persona Christi”, ora,
con la celebrazione “versus populum”, fa invece concentra
re l’attenzione dei fedeli sulla particolare “facies hominis” di
un qualsiasi “don Giovanni” di una qualsiasi diocesi aggiornata
alle “esigenze dei tempi moderni” ed “ai segni carismatici”
del post-concilio, per una concelebrazione comunitaria
“versus populum”.

E questo non è maligna ipotesi campata in aria!.. Basti
pensare ai moltissimi sacerdoti (oltre 100 mila!..), che hanno
buttato alle ortiche la “sottana” di prete, e agli altri che
hanno assunto il primo “clergyman” e, poi, l’“habitus civilis”,
più livellatore col “popolo di Dio” e, quindi, più “comunitario”,
non sarebbe “temerario” pensare che ci sia una
relazione stretta di “causa” ed “effetto” anche in questo “livellamento”

del sacerdozio ministeriale col “sacerdozio comune”
dei fedeli (in virtù del Battesimo), attuato dal Vaticano
II a mezzo dell’articolo 27 della “Costituzione Liturgica”,
a spregio manifesto della “Mediator Dei” di Pio XII del
tutto ignorata in quella Costituzione!

Mentre nella “Mediator Dei” si legge:

«... la Messa “dialogata” (oggi detta “comunitaria”)...
non può sostituirsi alla
Messa solenne, la quale, anche se è celebrata
alla presenza dei soli ministri, gode
di una sua particolare dignità, per la maestà
dei riti...».

e poi aggiunge:

«Si deve osservare che sono fuori della verità
(e, quindi, non solo indisciplinati e disobbedienti!)
e del cammino della retta ragione
(ma il Vaticano II non se n’è accorto?..)
coloro i quali... tratti da false opinioni,
“attribuiscono a tutte queste circostanze”
tale valore da non dubitare di asserire
che, omettendole, l’azione sacra (ossia
l’assistere al rito della Messa solenne, l’azione
sacra non può raggiungere lo scopo
prefissosi...)».

Di contro, invece, la Costituzione Conciliare Liturgica,
nell’art. 2 dice:

«... ogni volta che i riti comportano, secondo
la particolare natura di ciascuno,
una celebrazione comunitaria, caratterizzata
dalla presenza e dalla partecipazione
attiva dei fedeli... si inculchi che “questa”
è da preferirsi, per quanto è possibile, alla
celebrazione individuale e privata...».

Quest’articolo 27, equivoco, reticente, comunque non dice
espressamente che la Messa comunitaria deve essere preferita
alla Messa solenne, per non mettersi in contraddizione con
la “Mediator Dei” di Pio XII che dice espressamente: “La
Messa dialogata non può sostituirsi alla Messa solenne”.
Ora, questo esempio ci fa ricordare quanto disse mons. Bugnini,
in quel suo articolo del 23 marzo 1968, per illustrare il
“Canone Romano”, e cioè che:

1° - la “Costituzione Liturgica... non è un testo dogmatico”;

2° - che è “(invece) un documento operativo”. E difatti
fu un’operazione chirurgica radicale che ha “sventrato”, senza
tanti riguardi, tutta la Liturgia, ricchissima, della Tradizione,
salvando proprio nulla di nulla, ma buttando tutto in pattumiera!

3° - e che “chiunque può vedere (nella Costituzione Liturgica)...
la struttura di una costruzione gigantesca... che
tuttavia rimette agli organismi post-conciliari di determi
nare i particolari, e, in qualche caso, di interpretare autorevolmente
quello che, in termini generici, viene indicato
ma non detto autorevolmente”...

Come si vede, fu tolto ai Generali (i.e. Vescovi) il comando,
l’autorità di stabilire la tattica e la strategia del combattimento,
per cui la disfatta non poteva che essere sicura!

Ma, imperterrito, Mons. Bugnini continuava:
«Lo stesso modo di esprimersi fu scelto
volutamente dalla Commissione Conciliare...
che limò il testo della Costituzione...
per lasciare, nella fase di esecuzione... le
più ampie possibilità... e non chiudere la
porta... all’azione vivificante... dello Spirito!
» (senza aggiungere “Santo”!).

In concreto: l’introduzione dell’altare “versus populum”
fu subito l’applicazione più appariscente dell’uso e
abuso della idea “comunitaria” e del termine stesso “comunitario”
che sa di “moneta falsa”! L’articolo 27 della
Costituzione Liturgica, quindi, è diametralmente all’opposto
della “Mediator Dei”, “scomoda, proprio sui punti
chiave”!
Per questo, mons. Bugnini usò quella formula che ci
ha ammannito nel suo articolo del 23 marzo 1968.
E così il
Vaticano II poté rovesciare la gerarchia dei valori, attribuendo
alla “Messa dialogata” un posto di preferenza alla
“Messa solenne”, in barba alla “Mediator Dei” di Pio XII
che aveva invece stabilito che
«... non può sostituirsi alla Messa solenne,
anche se questa fosse celebrata alla presenza
dei soli Ministri...».
Perciò, si può concludere che il Vaticano II ha “barato”
per sovvertire, da cima a fondo, la liturgia ultra-millenaria
della Chiesa romana! Una prova schiacciante la si potrebbe
vedere anche addentro il sofisma (il “paralogismo” della
“scolastica”) che si cela tra le righe dell’articolo 1°:
«Il Sacro Concilio si propone di far crescere,
ogni giorno di più, la vita cristiana
dei fedeli».
Ma poi si propone di
«meglio adattare... alle esigenze del nostro
tempo, quelle istituzioni che sono soggette
a mutamenti...».
Domandiamoci, allora: in che cosa consistono, in concreto,
quelle “esigenze del nostro tempo” nel pensiero del Concilio?..
quali sono, in concreto, quelle situazioni soggette a
mutamenti?.. e “in che senso”, e in “quale misura” e con
“quali criteri” ci sono soggette?
Qui, tutto è mistero e tenebre!.. Poi, l’articolo 1° continua:
«si propone di favorire ciò che può contribuire
alla unione di tutti i credenti in Cristo...
».
Anche qui si può chiedere: ma che cosa può contribuire all’unione
di tutti i credenti in Cristo?”, e a quale prezzo?..
Silenzio assoluto!..
Continuando, l’art. 1° (si propone) di rinvigorire... ciò che
giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. In concreto: che
cosa è che giova?.. e in che modo e a quali condizioni legittime?..
Infine, conclude:

«(Il Sacro Concilio) ritiene, quindi, di doversi
interessare in modo speciale... anche
della ‘riforma’ e dello incremento della
Liturgia»... (!!).
Ma nell’art. 21 il Concilio avvertirà che, con la riforma liturgica,
la Chiesa butta a gambe all’aria tutte le riforme, tutti
i riti della Liturgia pre-conciliare, perché il “fine” è il seguente:
«... per assicurare maggiormente al popolo
l’abbondante tesoro di grazie che la Sacra
Liturgia racchiude»!
Una vera beffa... liturgica! La Santa Chiesa Cattolica Romana
è servita e buttata in quei “turbamenti” che il cocchiere
del Concilio, Paolo VI, nel suo discorso del 15 luglio
1970, attribuirà espressamente proprio ad esso. Difatti, in quel
suo discorso, il soggetto era proprio “il Concilio che suscitò
turbamenti!..”.




Heleneadmin
00domenica 6 febbraio 2011 13:08
La fonte?
Ghergon
00domenica 6 febbraio 2011 14:45
L’ALTARE A FORMA DI “MENSA”

La “Mediator Dei” di Pio XII l’aveva già condannata!
“Is rector aberret itinere, qui priscam altri velit “mensae”
formam restituere” (= È fuori strada chi vuole restituire
all’altare l’antica forma di “mensa”!).
Fu un’altra frode, quindi! Difatti, l’altare “versus populum”
fu introdotto dal card. Lercaro, proprio con una
“frode”, come lo si può provare dalla sua circolare del 30
giugno 1965, n° 3061, dalla Città del Vaticano ai Vescovi. Difatti,
l’altare prese subito la forma di “mensa”, in luogo della
forma di ara sacrificale, quale ne fu, invece, per oltre una
millenaria tradizione!


Quella nuova forma la si potrebbe anche dire “ereticale”,
dopo che il Concilio Tridentino, nella sua XXII Sessione, col
canone I, aveva colpito con l’anatèma chiunque volesse sostenere
che la Messa non è altro che una “cena”:

«Si quis dixerit, in Missa non offerri Deo
verum et proprium Sacrificium, aut quod
“offerri” non sit aliud quam nobis Christum
ad manducandum dare, anathema
sit!».

Dopo quattro secoli dal Tridentino, perciò, fu un gesto
scandaloso quello del Vaticano II! Certo, la Costituzione Liturgica
non osò dire, espressis verbis, l’eresia della “Messacena”,
né disse apertamente che l’altare dovesse prendere
l’antica forma di mensa e di essere rivolto al popolo, ma nessuno
si fece vivo quando il card. Lercaro, abusivamente, nella
sua Circolare scrisse:

«con il 7 marzo (1965) c’è stato un generale
movimento per celebrare “versus populum”
»...
e aggiunse questa sua spiegazione “arbitraria”:
«... Si è constatato, infatti, che questa forma
(altare “versus populum”) è la più
conveniente (?!) dal punto di vista pastorale
»!..

È chiaro, quindi, che il Vaticano II ignorò, nella Costituzione
Liturgica, il problema dell’altare “versus populum”,
accettando la scelta... pastorale del card. Lercaro e della
sua “equipe” rivoluzionaria!..

Ma l’autore di quella “trovata”, forse, ne sentì anche rimorso, se poi sentì il bisogno di scrivere:
«Teniamo, comunque, a sottolineare, come
la celebrazione di tutta la Messa “versus
populum”... non è assolutamente indispensabile...
per una “Pastorale” efficace.

Tutta la Liturgia della Parola... nella quale si
realizza, in modo più ampio, la partecipazione
attiva dei fedeli, per mezzo del “dialogo”
(?!) e del “canto”, ha già il suo svolgimento...
reso, oggi, più intelligibile anche dall’uso
della lingua parlata dal popolo... verso
l’Assemblea... È certamente auspicabile che,
anche la Liturgia Eucaristica... sia celebrata
“versus populum”»!

Il Vaticano II, quindi, aveva lasciato “carta bianca” in
mano al card. Lercaro, come lo aveva fatto con mons. Bugnini!
E lo fece in termini sbrigativi, come appare dall’art.
128 della Costituzione Liturgica:

«... Si rivedano quanto prima... i Canoni e
le disposizioni ecclesiastiche, riguardanti
il complesso delle cose (?) esterne, attinenti
al culto sacro e specialmente quanto riguarda
la costruzione degna ed appropriata
degli edifici sacri... la forma (?!) e
la erezione degli altari, la nobiltà e la sicurezza
del tabernacolo eucaristico».

Strabiliante!.. forse che si poteva mettere in dubbio la nobiltà
e la sicurezza dei tabernacoli marmorei, i gioielli d’opere
d’arte e di fede della Tradizione?.. Una nobiltà, purtroppo,
che fu calpestata, derisa e buttata via dalle chiese, proprio dal
fanatismo e stupidità di tanti organi esecutori del Vaticano II
delle ben sette “Instructiones” ed exeq. della Costituzione
Liturgica!.. Tutte fantasie surriscaldate da “falsi profeti” di
una “Pastoralità” di cui, per venti secoli, la Chiesa non aveva
nemmeno conosciuto il nome!..

Purtroppo, gli altari “versus populum” piovvero nelle
chiese e nelle Cattedrali ancora prima che uscissero i nuovi
Canoni, ancora prima che uscisse una Legislazione Canonica,
ancora prima che la “Instrutio Oecum. Concilii” ne avesse
fatto almeno il nome: “altari versus populum”, dove si accenna
solo al celebrante che “deve potere facilmente girare
attorno all’altare” (“perché”?..) “e celebrare rivolto verso il
popolo”.

Ora, tutto questo non può essere che la tragica conferma,
da parte dei novatori, del loro voler mettere in primo piano
l’idea ereticale che la Messa altro non sia che un “banchetto”,
una “cena” e non più la memoria e rinnovazione
del Sacrificio della Croce, in modo incruento. E la conferma
di questo la si ebbe con la “Istitutio Generalis Missalis
Romani”, all’articolo 7:

«Cena dominica, sive Missa, est sacra synaxis,
seu congregatio populi Dei in unum
convenientis, sacerdotale praeside, ad memoriale
Domini celebrationem...».

È chiaro, quindi, che il soggetto, qui, è solo la “coena dominica”,
puramente e semplicemente sine adiecto!.. Infatti, ai
due termini “Coena dominica” e “Missa” si è dato il medesimo
valore che la filosofia scolastica-tomistica attribuisce ai
termini “ens” et “verum” et “bonum”:

ens et verum... convertuntur!
ens et bonum... convertuntur!

Così, anche la “cena dominica” et “Missa”... convertuntur!
Ora, questa definizione della Messa, della quale si è fatta “unum idemque” con la “cena dominica”, e “unum
idemque” con la “congregatio populi” ad celebrandum
“memoriale Domini”, richiama immediatamente la condanna
del Canone I della Sessione XXII.a del Concilio di Trento:

«Si quis dixerit in Missa non offerri Deo
verum et proprium Sacrificium, aut quod
“offerri” non si aliud quam nobis Christum
ad manducandum dari, anatema
sit!».

Inutile, perciò, fare salti mortali per cercare di spiegare
che, per “dominica coena”, si intendeva “l’ultima cena” di
Gesù con i suoi Apostoli, perché la “cena” di quella Pasqua
non fu che la “circostanza”, alla fine della quale Gesù istituì
l’Eucarestia!
Anche se si volesse intendere che la Messa è solo un “sacrum
convivium, in quo Christus sumitur”, si cadrebbe ancora
nell’eresia, condannata con anatema dal Concilio di Trento!
Per meglio mettere in evidenza la gravità di detta eresia,
contenuta nell’art. 7 della “Istitutio Generalis Missalis Romani”,
con la definizione: “Coena dominica, seu Missa”, si
legga la dottrina dogmatica, insegnata da Pio XII nella Allocuzione
ai partecipanti al Congresso Internazionale di Liturgia
Pastorale (il 22 settembre 1956):

«Anche quando la consacrazione (che è
l’elemento centrale del Sacrificio Eucaristico!)
si svolge senza fasto e nella semplicità,
essa (la “consacrazione”) rimane il
punto centrale di tutta la Liturgia del Sacrificio,
il punto centrale della “actio Cristi”...
cuius personam gerit sacerdos celebrans

Quindi, è chiaro che la Messa non è affatto una “cena”,
la “Coena Domini”, ma bensì è la rinnovazione incruenta
del Sacrificio della Croce, come ci aveva sempre insegnato,
prima del Vaticano II, la Chiesa!

Ora, il princìpio primo della logica (“sine qua non”!) è
il princìpio di identità e di contraddizione (che fa lo stesso!),
che insegna: “idem non potest esse et non esse, simul”.
Quindi, non possono aver ragione due Papi, dei quali
uno (Pio XII) definisce un punto di dottrina, e l’altro
(Paolo VI) lo definisce in senso contrario sul medesimo argomento
e sotto il medesimo aspetto.

Perciò, la Dottrina la si insegna anche - e meglio! - con i
fatti, gli esempi pratici. Fu il metodo divino di Gesù, che, prima,
“coepit facere” e poi “docere” (verbis).

Ora, l’introduzione fraudolenta dell’altare “versus populum”
è un “fatto” che ha sovvertito tutto un “ordine”,
contrario, che “preesisteva da oltre un millennio”, ossia
“versus absidem”, che era stato collocato ad Oriente, simbolo
del Cristo, “lux vera, quae illuminat omnem hominem
venientem in hunc mundum”!..
Ma allora, come mai nelle
“Instructiones” della Costituzione Liturgica, nell’art. 55
della “Euch. Mysterium”, si dice che “è più consono alla natura
della sacra celebrazione che Cristo non sia eucaristicamente
presente nel tabernacolo, sull’altare in cui viene celebrata
la Messa... fin dall’inizio della medesima...” facendo appello
alle ragioni del segno?..

Ma l’altare “versus populum” non vanifica proprio la
ragione del segno del “sol oriens”, che è Cristo, obbligando
il celebrante a voltare la schiena a quel “segno di luce”
per mostrare al popolo la “facies hominis”? E questo altare
“versus populum” non è, forse, un affermare quello che
insegnò il Conciliabolo di Pistoia, cioè che nelle chiese non
ci deve essere un solo unico altare, cadendo, così, sotto la
condanna della “Auctorem fidei” di Pio VI?..

Ma così furono resi inutilizzabili non solo i gloriosi marmorei
altari maggiori, ma anche tutti gli altri altari laterali, insinuando,
con questo, che ai Santi non si deve più tributare
alcun culto, nemmeno quello di “dulìa”, sfidando, però,
anche qui, la condanna di eresia del Concilio di Trento!
Perciò: quale sorte ebbe il tabernacolo?..

Nella Sua Allocuzione del 22 settembre 1956, Pio XII ha
scritto:
«Ci preoccupa... una tendenza, sulla quale
Noi vorremmo richiamare la vostra attenzione:
quella di una minore stima per
la presenza e l’azione di Cristo nel tabernacolo
».
«... e si diminuisce l’importanza di Colui
che lo compie. Ora, la persona del Signore
deve occupare il centro del culto, poiché
è essa che unifica le relazioni tra l’altare
e il tabernacolo, e conferisce loro il
proprio significato».

«È originariamente in virtù del sacrificio
dell’altare che il Signore si rende presente
nell’Eucarestia, ed Egli non abita nel tabernacolo
se non come “memoria sacrificii
et passionis suae”».
«Separare il tabernacolo dall’altare, equivale
a separare due cose che, in forza della
loro origine e natura, devono stare unite...
».
Come si vede, la Dottrina della Chiesa di sempre era
ben chiara e grave nella sua motivazione e preoccupazione
pastorale a causa della separazione del tabernacolo dall’altare!
Paolo VI, invece, nella Costituzione Liturgica, non ha
neppure fatto ricordare questa dottrina, come tacque pure sulla
condanna di Pio XII, nella “Mediator Dei”, a chi voleva
restituire all’altare l’antica forma di “mensa”, qual è, oggi,
l’altare “versus populum”, ignorando o sottacendo quello
che aveva detto sia nella “Mediator Dei” che nella Allocuzione
del 22 settembre 1956; e cioè:

«... si rivedano i canoni e le disposizioni
ecclesiastiche che riguardano il complesso
delle cose esterne attinenti al culto sacro...
la forma e la erezione degli altari... la nobiltà,
la disposizione e la sicurezza del tabernacolo
».
E allora, perché Paolo VI e il Vaticano II hanno taciuto
anche su questo? Con l’art. 128 della Costituzione Liturgica,
oltre che lasciare ampia libertà discrezionale agli organi
esecutivi post-conciliari, col comma 1° fu aggiunto che
«quelle norme che risultassero meno corrispondenti
alla riforma liturgica, siano
corrette... o abolite» (tout-court!); il che significa
aver dato carta bianca agli organi
esecutivi per fare strazio totale dell’antica liturgia!

E così, in esecuzione di quella formula, il card. Lercaro
si fece premura di decidere la sorte del tabernacolo. Lo fece,
in sordina, con gli articoli 90 e 91 della prima Instructio
della Costituzione Liturgica, insegnando che
«Nel costruire nuove Chiese, o nel restaurare
o adattare quelle già esistenti, ci si
occupi diligentemente della loro idoneità a
consentire la celebrazione delle azioni sa-
cre, secondo la loro vera natura».

Un dire, questo, che squalifica tutti i venti secoli della
Chiesa, perché le Basiliche, i Santuari, le Chiese parrocchiali,
le Cappelle, ecc. non sarebbero state costruite in maniera idonea
a consentire la celebrazione delle Azioni Sacre secondo la
loro vera natura!..

L’art. 91, poi, va più avanti:
«È bene che l’altare maggiore sia staccato
dalla parete... per potervi girare intorno...
e celebrare... rivolti al popolo»!

Finalmente!.. ecco rotto il “nodo Gordiano” ed ecco il
“delitto perfetto”, che può far ricordare l’astuzia diabolica di
cui parla Giosuè Carducci nella sua ode: “La Chiesa di polenta”
(strofa 15.ma), ove si legge: “... di dietro al Battistero,
un fulvo picciol, cornuto diavolo guardava e subsannava...”!
Ma il card. Lercaro non si turbò per questo. La soluzione
del problema “tabernacolo” verrà tre anni dopo con l’art. 52
della “Eucaristicum Mysterium”, dove si dice:
«La Santissima Eucarestia... non può essere
custodita, continuamente e abitualmente,
se non in un solo altare, o in un
luogo della Chiesa medesima».

Come si vede, appare evidente l’opposizione tra l’espressione
“un solo altare” e la seconda espressione: “in un solo
luogo della Chiesa medesima”, perché il “solo luogo” non
significa necessariamente un altare (laterale, o in una cappella!),
giacché la parola “luogo” significa un “luogo” qualsiasi,
(anche un “confessionale”, un pulpito, e via dicendo!).
Comunque, anche qui, è grave che, prima della firma del
Card. Lercaro e del Card. Larraona, si leggesse questa Dichiarazione:
«Praesentem Instructionem... Summus
Pont. Paulus VI, in audentia... 13 aprilis
1967... approbavit... et auctoritate sua...
confirmavit... et pubblici fieri... jussit...».
Dopo di che sparirono dagli altari maggiori i tabernacoli,
e, al posto del “Padrone” sfrattato, apparve la “Lettera del
Padrone”: il Messale, o la Bibbia (alla moda protestante!),
mentre il Santissimo, che doveva occupare il posto centrale
del culto, andò a finire in un nascondiglio, in un angolo più o
meno oscuro. E questo sarebbe dovuto
«per assicurare maggiormente al popolo
cristiano l’abbondante tesoro di grazie
che la Sacra Liturgia racchiude»!!!



tratto da la Battaglia continua n 1
Don Luigi Villa
Ghergon
00domenica 6 febbraio 2011 14:55
LA LINGUA LATINA

L’abbandono della lingua latina, come lingua della Chiesa,
avvenne il 30 novembre 1969, quando ebbe inizio - obbligatorio!
- l’uso del “Missale Romanum Novi Ordinis”; da allora
cessò, praticamente, di esistere in tutti i Riti della Liturgia,
cominciando dal rito stesso della santa Messa.
L’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII ne aveva già parlato,
denunciando le gravissime conseguenze dell’abbandono
della lingua latina in Liturgia, ma il Vaticano II, con deliberato
proposito, le ignorò, sapendo bene dove si doveva arrivare.
Ecco cosa scrisse Pio XII nella sua “Mediator Dei”:


«... È severamente da riprovarsi il temerario
ardimento di coloro che, di proposito,
introducono nuove consuetudini liturgiche
».
«Così, non senza grande dolore, sappiamo
che accade non soltanto in cose di poca,
ma anche di gravissima importanza. Non
manca, difatti, chi usa la lingua volgare
nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico;
chi trasferisce ad altri tempi, feste fissate
già per ponderate ragioni...».

«L’uso della lingua latina, come vige nella
gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile
segno di unità e un efficace antidoto
ad ogni corruttela della pura dottrina...».

Anche nella sua “Allocuzione al Congresso Internazionale
di Liturgia Pastorale” aveva detto:
«Da parte della Chiesa, la liturgia attuale
esige una preoccupazione di progresso,
ma anche di conservazione e di difesa;..
crea del nuovo nelle cerimonie stesse, nell’uso
della lingua volgare, nel canto popolare...
Sarebbe, tuttavia, superfluo ricordare,
ancora una volta, che la Chiesa ha
serie ragioni per conservare fermamente,
nel rito latino, l’obbligo incondizionato,
per il Sacerdote Celebrante, di usare la
lingua latina, come pure di esigere, quando
il canto gregoriano accompagna il Santo
Sacrificio, che questo si faccia nella lingua
della Chiesa...».

Ma il Vaticano II fu di parere diverso.
Il problema della
lingua latina fu deciso con l’art. 36 della “Commissione Liturgica”,
mediante quattro paragrafi, i due ultimi dei quali
distruggono ciò che il primo aveva garantito, impegnando la
parola solenne del Concilio! Ecco il contenuto dell’intero capitolo
36:

1) “l’uso della lingua latina sia conservato nei riti...”;
2) “... si possa concedere l’uso della lingua volgare in
alcune preghiere, in alcuni canti, ... ecc.”;
3) le forme e le misure erano lasciate alla discrezione
e decisione delle Autorità ecclesiastiche territoriali;
4) ma finisce con annullare, praticamente, tutto!..

Il testo della prima “Instructio, art. 57: Inter Oecum.
Concilii”, dichiarava che la competente Autorità territoriale
poteva introdurre il volgare in tutte le parti della Messa (escluso
il Canone). Ma, ad avvilire anche il Canone ci pensò
un’altra “Instructio”, la “Tres abhinc annos” con l’art. 28,
in cui si legge:

«la competente Autorità ecclesiastica territoriale,
osservando quanto prescrive
l’art. 36, par. 3° e 4° della Costituzione
Liturgica, può stabilire che la lingua parlata
possa usarsi anche nel Canone della
Messa...».

Quindi, con l’art. 57 della “Inter Oecum. Conc.”, la
competente Autorità territoriale poteva chiedere al Papa
la facoltà di “violare” i confini segnati dall’art. 36 della
Costituzione Liturgica! Una “violazione” che, de facto, si
considerava “una corretta esecuzione della legge”!.. La
“tres abhinc annos”, invece, saltò lo steccato allegramente,
come si espresse, infatti, con un linguaggio da caserma,
Mons. Antonelli, il 20 febbraio 1968:

«Con la recita del Canone in lingua italiana,
decisa dalla Conferenza Episcopale
Italiana... l’ultimo baluardo della Messa
in latino... viene a crollare».


Così, mentre la lingua araba è tuttora il veicolo dell’islamizzazione
che tiene uniti i musulmani nella loro fede e
li spinge contro i cristiani d’ogni paese, al contrario, la soppressione
della lingua latina nella Chiesa cattolica fu il
“delitto perfetto” di Paolo VI col quale infranse l’unione di
tutto il popolo cristiano proprio nella loro unica vera Fede!
I modernisti, così, poterono benedire il Vaticano II per
aver ottenuto questo, e in maniera “ch’era follìa sperar”!
(Manzoni).


Con questo ennesimo atto fraudolento, Paolo VI veniva
a “canonizzare” le istanze ereticali del Conciliabolo di Pistoia,
condannate da Pio VI con la Bolla “Auctorem fidei”,
e da Pio XII con la “Mediator Dei”!..

Il “MODERNISMO”, con Paolo VI, era salito al potere,
nonostante che la Tradizione e il Diritto canonico fossero
contro la riforma liturgica. Difatti, la “Costituzione Liturgica”
conteneva obblighi e impegni solenni:

1) L’uso della lingua latina nei Riti Latini, rimane la
norma, non la eccezione (Art. 36, paragrafo 1°);
2) L’art. 54, comma 2°, vuole che i sacerdoti abbiano
a “provvedere” (“provideatur”) che i fedeli sappiano cantare
e recitare, anche in lingua latina, le parti dello “Ordinario”.
3) L’art. 114 fa obbligo, anche ai Vescovi, di conservare
il patrimonio della musica sacra tradizionale, e di tenere
fiorenti le “scholae cantorum” per la esecuzione di quella
musica della Tradizione.
4) L’art. 116 fa obbligo “di dare la preminenza” al
canto gregoriano.

Quindi, ogni singola legge esecutiva delle Conferenza
Episcopali doveva essere eseguita - per obbligo “sub gravi”!
- da ogni Autorità a tutti i livelli; un obbligo che avevano
assunto con “giuramento”, indicato da Paolo VI in data
4 dicembre 1963, quando firmò la “Costituzione Liturgica”,
scrivendo: “In Spiritu Sancto approbamus” - “omnia
et singula, quae in hac costitutione Constituzione edicta
sunt”. Quindi, furono illegittime le disposizioni arbitrarie
della Conferenza Episcopale, come quella dell’uso volgare
nella Messa, appunto perché tale facoltà era negata dal testo
del par. 3 dell’art. 36:

«spetta alla competente autorità ecclesiastica
territoriale... decidere circa la “ammissione”
(quindi, non circa l’obbligo!) e
la “estensione” (ma solo come concessione,
non “obbligo” di adottarla!) della lingua
volgare».

A render più manifesto l’abuso di potere da parte dell’Episcopato
del Vaticano II, ci sarebbe il Canone 9 della
Sessione XXII del Concilio di Trento che dice:
«Si quis dixerit lingua tantum vulgari celebrari
debet... anathema sit!».

Ora, questa “scomunica” non fu mai abrogata, né lo poteva
essere, in quanto l’uso della lingua latina, da parte del
sacerdote celebrante, è obbligatorio per evitare un sicuro
pericolo di corruzione della dottrina sul mistero del Sacrificio
Eucaristico1.
1 “Mediator Dei” di Pio XII.



È certo, ormai, che il testo dell’Offertorio e delle tre Preci
Eucaristiche dei Canoni, aggiunti al Canone Romano
Antico, è infetto di formule che si possono dire “eretiche”.
Ad esempio: la formula, in lingua italiana, della Consacrazione
della specie del vino nel Calice - ove la traduzione è a doppio
titolo - si legge: “Qui pro vobis, et pro multis, effundetur”
(tempo futuro semplice, forma passiva = a: “sarà sparso”),
la CEI, invece, ha fatto tradurre: “È il Sangue... sparso
(participio passato) per voi e per tutti”.

Ora, questa traduzione della CEI del “pro multis effundetur”
in “sparso... per tutti”, è un’offesa all’intelligenza dei
preti - che dovrebbero sapere anche di “latino”! - ma, soprattutto,
è un’offesa a Cristo che, “pridie cum pateretur”

(cioè, quando istituì il sacrificio della Messa) non poteva dire:
“Prendete e bevete, questo è il Mio Sangue, sparso per
voi”, perché era ancora da spargere!

Quid dicendum, allora?.. Come non porsi il gravissimo
problema di coscienza che ne è scaturito?

Papa Innocenzo
XI, condannando 65 proposizioni contenenti altrettanti
“errori” di morale lassa, stabilì anche il principio - obbligante
la coscienza “sub gravi”! - che non è lecito seguire
un’opinione solamente probabile, bensì è necessario seguire la
sentenza più sicura quando si tratta della validità dei Sacramenti.
Ora, la Messa contiene il problema dogmatico della
Consacrazione!
Come non porsi anche questo problema
della “traduzione” dal latino in italiano (e nelle altre lingue
volgari), tanto più che l’art. 40 della Instructio “Inter Oecum.
Concilii” dice chiaramente:
«Le traduzioni dei testi liturgici si facciano
sul testo Liturgico Latino»!..

Ci riempie di stupore anche il modo in cui fu tradotto, e
poi imposto dalle Conferenze Episcopali di recitare in volgare,
durante la Consacrazione delle sacre specie, anche il testo
della formula consacratoria, che, in luogo di “... Corpus
meum, quod pro vobis tradetur” (= a: per voi tradito, o
consegnato), fu tradotto: “mio Corpo, per voi offerto” (participio
passato, che indica solo un ricordo, un “memoriale”,
ma che è smentito dal “pridie quam pateretur”, per
cui il participio passato non avrebbe senso!).

Peggio ancora nella formula di consacrazione del Calice:
In luogo di: “... Sanguinis mei... qui pro vobis et pro
multis effundetur”, fu messa la traduzione: “Questo è il Calice
del mio Sangue”... poi, viene ripetuta di nuovo la parola:
Sangue, ma che non c’è nel testo latino corrispondente. “È il
Sangue... sparso” (participio passato, in luogo del tempo
futuro: sarà sparso: “effundetur”), “per voi e per tutti” (in
luogo di “per voi e per molti” (del corrispondente testo latino,
riconfermato anche dalla Costituzione Apostolica di
Paolo VI!).

Anche qui, allora, ci possiamo avvalere del diritto che ci
conferisce lo stesso Vaticano II, al cap. 2 della “Declaratio
de libertate religiosa”, secondo la quale
«... in materia religiosa, nessuno sia sforzato
ad agire contro la sua coscienza, né
sia impedito, entro debiti limiti, di agire in
conformità ad essa coscienza... privatamente
o pubblicamente, in forma individuale
o associata...».

Perciò, chi è fedele alla Tradizione, “in rebus maximi
momenti”, secondo la legge liturgica pre-conciliare, è certamente
dentro i “debiti limiti”, più e meglio di chi sta, al contrario,
dentro l’altra linea post-conciliare!

L’analisi di questa triste situazione liturgica ci porta a considerare
anche l’inconciliabile contrasto tra la “Mediator
Dei” e la “Costituzione liturgica del Vaticano II”.

Si badi: quando viene affermato che la celebrazione della
Liturgia deve essere comunitaria, s’insinua che lo svolgimento
della Liturgia, invece di essere di spettanza esclusiva dei
ministri dell’ordine gerarchico, (come si legge nel Can. 109 e
Can. 968, par. 1.A, Codex J. C., e cioè che solo l’uomo - e
non la donna! - viene costituito mediante la sacra ordinazione!),
spetta, invece, a tutta la comunità dei fedeli: uomini e
donne, ossia a tutto “il popolo di Dio”!

Questo, purtroppo, lo si legge nell’art. 14 della “Instructio
Generalis Missalis Romani”, Novi Ordinis, dove si
afferma espressamente che:
«La celebrazione della Messa, di sua natura
ha indole comunitaria... in quanto,
mediante i dialoghi tra il celebrante e l’assemblea,
e con le acclamazioni, che non
sono soltanto segni esterni della celebrazione
comune... (o “concelebrazione”?!),
viene favorita ed è effettuata una comunione
tra il sacerdote e il popolo...»,
e il testo latino di quell’art. 14 mette in rilievo, più chiaramente,
questo concetto comunitario (“eretico”!).
«Cum Missae celebratio, natura sua, indolem
“communitariam” habeat, dialogis
inter celebrantem et coetum fidelium, nec
non acclamationibus, magna vis inhaeret:
etenim non sunt tantum signa externa celebrationis
communis, sed communionem
inter sacerdotes et populum fovent et efficiunt
» (!!).

Non si dica, qui, che questa dottrina non è del Vaticano II,
ossia della “Costutizione Conciliare Liturgica”, perché la
“Instructio Generalis” è l’organo esecutivo dei testi conciliari,
e, quindi, questa “Instructio Generalis” ha confermato
e aggravato la “mens” del Vertice Apostolico!
Inoltre, si deve anche presumere che in tale senso eterodosso
va inteso anche l’art. 27 della Costituzione Liturgica
che dice:
«Quoties ritus, iuxta propriam cuiusque
naturam, secum-ferunt celebrationem
communem cum frequentia et actuosa
participatione fidelium... inculcetur hanc,
in quantum fieri potest, praeferendam esse
eorundem - (rituum) - celebrationi singulari,
et quasi privatae...».

Come si vede, è una forma sibillina, ambigua, proprio come
la voleva il massone mons. Bugnini nel suo scritto del 23
marzo 1968, in cui aveva detto, appunto:

“Lo stesso modo di esprimersi, talvolta fluido e quasi
incerto, in certi casi, (...) fu scelto volutamente dalla Commissione
Conciliare, che limò il testo della Costituzione per
lasciare, nella fase di applicazione, le più ampie possibilità...”.

Ora, l’espressione di “celebrazione comunitaria” è del
tutto sconosciuta nella enciclica “Mediator Dei” di Pio XII,
come è del tutto sconosciuta in tutti i testi pre-conciliari fino
al Vaticano II! Sì, si parla di “Messa dialogata”, ma questo
non significa affatto “Messa comunitaria”, e tanto meno
“Celebrazione comunitaria”! Essere ammessi al “dialogo”
coi ministri del rito, non significa nè che i fedeli ne abbiano
“diritto”, nè che senza di loro sia inconcepibile, perché, nella
Messa, il protagonista è solo il Cristo, attraverso il sacerdote
che Lo rappresenta “in persona Christi”, per divina istitu
zione di Cristo stesso!

E qui, vediamo il significato di quel malaugurato testo dell’art.
27 della Costituzione Liturgica, stando alla regola del
Can. 18 del Codice di Diritto Canonico, che prescrive il criterio
d’interpretazione delle leggi ecclesiastiche, che è la
“propria verborum significatio in textu et in contextu considerata”.
Perciò, si giri e si rigiri, ma il significato di quella “celebrationem communem”, usata dall’art. 27, il suo significato
non è altro che “concelebrazione”! Il che è l’affermazione
di un princìpio ereticale, contrario alla dottrina contenuta nella
Sessione XXIII.a del Tridentino, al capo IV, sulla Gerarchia
ecclesiastica e la sacra ordinazione, che attribuisce
solo al clero l’esercizio dei divini misteri e, quindi, anche della
celebrazione dei riti liturgici.

Invece, nel tessuto dell’art. 27, il Vaticano II ha messo un
inciso che direi “capzioso”, secondo il quale gli elementi che
“secumferunt” (= comportano) una “celebrazione comune”
sarebbero due: 1°: la “frequentia fidelium”, ossia una adunanza
numerosa; 2°: la “actuosa participatio fidelium”, ossia
una “partecipazione attiva dei fedeli”.

Ora, questi due elementi, che possono determinare (“di
fatto” se non “di diritto”!) una “con-celebrazione” dei fedeli
col sacerdote, costituisce certamente una paradossale
aberrazione dello stesso Vaticano II contro la dottrina dogmatica
della Tradizione! Su questo punto, infatti, abbiamo
una categorica condanna del Magistero solenne di Pio XII con
la sua “Mediator Dei”!

Certo, anche prima del Vaticano II, il popolo “dialogava”
e “cantava” col celebrante, sia durante la Messa che durante
il Vespro Domenicale, nelle parti che erano permesse anche al
popolo. Ma questo non fu mai affermato che fosse una “celebrazione
comunitaria”, o “celebrazionem communem”.
Il sacerdote celebrava “coram populo”, sì, ma non “in
comune” col popolo. È ben triste, perciò, che un Vaticano II

sia caduto in un “sofisma” così grossolano, in posizione del
tutto contraria alla “Mediator Dei”, nella quale si legge:
«La Messa dialogata (nel testo latino: “id
genus sacrum, alternis vocibus celebratum”)
non può sostituirsi alla Messa solenne,
anche se è celebrata alla presenza
dei soli ministri».

E la “condanna” è ancora più chiara e circostanziata in un
“passo” precedente:
«Alcuni, avvicinandosi ad errori già condannati...
insegnano che... il Sacrificio Eucaristico
è una vera e propria “concelebrazione”...
e che “è meglio” che i sacerdoti
“concelebrino” insieme col popolo
presente, piuttosto che, nella assenza di
esso, offrano privatamente il sacrificio...».

Quindi, l’art. 27 della “Costituzione Liturgica Conciliare”
ripete dei concetti già condannati solennemente dalla
“Mediator Dei”; non solo, ma pur sapendo di affermare un
princìpio condannato dalla Tradizione, si è espresso, consapevolmente,
anche con queste altre espressioni:
«... Inculcetur hanc (celebrationem communem)...
esse praeferendam celebrationi
singulari, et quasi privatae!.. quod valet
praesertim pro Missae celebratione... salva
semper natura publica et sociali... cuiusvis
Missae...».

Per questa enormità, introdotta fraudolentemente nella
riforma liturgica, sarà bene che estendiamo, qui, quella parte
della “Mediator Dei” che tratta espressamente questo argomento,
di natura dogmatica, per evidenziare maggiormente gli
“errori modernisti” proprii del Vaticano II!
Ecco il testo sulla “partecipazione dei fedeli al Sacrificio
Eucaristico”:
«È necessario, Venerabili Fratelli, spiegare
chiaramente al vostro gregge come il fatto
che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico
non significa, tuttavia, che essi godano
di poteri sacerdotali.
Vi sono, difatti, ai
nostri giorni, alcuni che, avvicinandosi ad
errori già condannati, insegnano che nel
Nuovo Testamento si conosce soltanto un sacerdozio,
che spetta a tutti i battezzati, e che
il precetto dato da Gesù agli Apostoli nell’ultima
Cena di fare ciò che Egli aveva fatto,
si riferisce direttamente a tutta la Chiesa
dei cristiani, e soltanto in seguito è sottentrato
il sacerdozio gerarchico. Sostengono,
perciò, che solo il popolo gode di una vera
potestà sacerdotale, mentre il sacerdote agisce
unicamente per ufficio commessogli dalla
comunità. Essi ritengono, di conseguenza,
che il Sacrificio Eucaristico è una vera e
propria “concelebrazione”, e che è meglio
che i sacerdoti “concelebrino” insieme col
popolo presente, piuttosto che, nella assenza
di esso, offrano privatamente il Sacrificio...
».

«È inutile spiegare quanto questi capziosi errori
siano in contrasto con le verità più sopra
dimostrate, quando abbiamo parlato del posto
che compete al sacerdote nel Corpo Mi-stico di Gesù. Ricordiamo solamente che il
sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta
la persona di N. S. Gesù Cristo, in
quanto Egli è Capo di tutte le membra, e offrì
Sé stesso per esse. Perciò, va all’altare
come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma
superiore al popolo! Il popolo, invece, non
rappresentando per nessun motivo la persona
del Divin Redentore, né essendo mediatore
tra sé e Dio, non può in nessun modo godere
di poteri sacerdotali...».

E più avanti:
«Quando si dice che il popolo offre insieme
col sacerdote, non si afferma che le membra
della Chiesa..., non altrimenti che il sacerdote
stesso, compiono il rito liturgico visibile -
il che appartiene al solo ministro da Dio a
ciò deputato - ma che unisce i suoi voti di
lode, di impetrazione, di espiazione, e il suo
ringraziamento alle intenzioni del sacerdote,
dello stesso Sommo Sacerdote, acciocché
vengano presentate a Dio Padre, nella stessa
oblazione della vittima, anche col rito esterno
del sacerdote».

Si osservi, ora, quanto sia in contrasto questa dottrina
della Chiesa ante Vaticano II con il 1° articolo della “Institutio
generalis Missalis Romani” che afferma quel suo confusionale
ed erroneo principio:
«Celebratio Missae, ut actio Christi et Populi
Dei hierarchice ordinati... centrum
est totius vitae christianae...».

A parte il fatto che la dottrina tradizionale è confermata
dal Canone 109 del Diritto Canonico, con le parole:
«Qui in ecclesiasticam hierarchiam cooptantur,
non ex populi, vel potestatis saecularis
consensu, aut vocatione adleguntur;
sed in gradibus potestatis ordinis constituuntur
sacra ordinatione.., ecc.»,
si rimane allibiti al trovarsi di fronte a una definizione così
arbitraria e temeraria, condannata da Pio XII nella “Mediator
Dei”, quasi fosse un’azione promiscua di Cristo e di
tutto il “popolo di Dio”, ordinato gerarchicamente!.. È una
vera aberrazione che ci riporta ad altre più gravi, come quelle
dell’art. 7° della “Institutio Generalis”, e dell’art. 14. Si
legga l’art. 7:

«Coena dominica, sive Missa, est sacra synaxis,
seu congragatio populi Dei, in
unum convenientis...».

È un’autentica definizione eretica che ci richiama alla
mente le parole di S. Ambrogio a riguardo del delitto di Erode:
«Quanta, in uno facìnore... sunt crimina!»
(dall’Ufficio: 29 agosto, in decollatione S.
Jo. Baptistae”)
L’art. 14, poi, più spudoratamente ancora, pretende d’insegnare
che
«Missae celebratio... natura sua (?!) indolem
habet communitariam» (!!).

E perché non mi si tacci di giudizio temerario, mettiamo
a confronto la “Institutio Generalis” con la dottrina del
Magistero infallibile del Tridentino e di Pio XII.
Nell’art. 7°, la disposizione logica dei termini:
«Coena Dominica, sive “Missa” est sacra
Synaxis, seu Congregatio Populi Dei»; è
chiaro che i “concetti”, come nella filosofia
scolastica, “convertuntur”: «Coena est
Missa: Missa est Coena: Missa est Congregatio
Populi: Congregatio Populi Dei
est Missa»...

Le enormità di queste “identificazioni” sono più che
evidenti! Il termine “cena”, messo in primo piano, è proprio
il concetto ereticale condannato dal Canone 1° della
XXII.a Sessione del Tridentino:
«Si quis dixerit... quod offerri non sit
aliud, quam nobis Christum ad manducandum
dari... anathema sit!».

Il concetto “cena”, infatti, non contiene il concetto di
“sacrifico” della vittima; anzi, lo esclude, perché il “Sacrificio
latreutico” distrugge totalmente la vittima, senza che ne
possa gustare le carni lo stesso offerente. Perciò, il termine
“cena” indica solo e nient’altro che “cena”, e non “sacrificum
verum et proprium”!

La definizione, poi, di “Messa-Cena-Adunanza del popolo
di Dio”, è un’altra negazione della definizione dogmatica
contenuta nel Catechismo dottrinale di San Pio X:
«La Messa è il sacrificio del Corpo e del
Sangue di Gesù Cristo, che, sotto le apparenze
del pane e del vino, si offre a Dio, in memoria e rinnovazione (= ripresentazione)
del Sacrifico della Croce»...
Ora, “L’elemento centrale del Sacrificio Eucaristico è
quello in cui Cristo interviene come “seipsum offerens””,
come lo afferma chiaramente il Concilio di Trento2.
E “ciò avviene alla consacrazione” (non, quindi, alla
“comunione”-cena!), in cui, all’atto stesso della “transustanziazione”,
operata dal Signore3, il Sacerdote celebrante è
“personam Christi gerens”. E questo anche quando la consacrazione
si svolge senza fasto, nella semplicità. Perché “essa
- (la consacrazione) rimane il punto centrale di tutta la
Liturgia del Sacrificio”; il punto centrale della “actio
Christi, cuius personam gerit sacerdos celebrans”. E questo
è esattamente l’opposto da quello insegnato nell’art. 1°
della “Institutio Generalis”, ove si legge che “celebratio
Missae”, ut actio Christi et “Populi Dei”!..
Siamo di fronte - checché se ne dica! - ad una incredibile
frana dei dogmi di fede, in cui ci ha buttati la Riforma
Liturgica del Vaticano II, gestita dal massone mons. Annibale
Bugnini!

Cito, perciò, l’interpretazione ufficiale di quella Costituzione
Liturgica, fatta dal card. Lercaro nella quarta Instructio:
la “Eucharisticum Mysterium”, nel suo articolo 17°:
«... Nelle celebrazioni liturgiche debbono
essere evitate la divisione e la dispersione
della comunità. Perciò, si deve badare a
che nella stessa chiesa non si svolgano
contemporaneamente due celebrazioni li
turgiche, che attraggano l’attenzione del
popolo a cose diverse. Ciò sia detto, soprattutto,
della celebrazione della Eucarestia...».

«Pertanto, quando si celebra la santa
Messa per il popolo, si abbia cura di impedire
quella “dispersione” che deriva,
generalmente, dalla celebrazione contemporanea
di più Messe nella medesima
chiesa. La stessa cura si ponga, per quanto
è possibile, anche negli altri giorni!..».
Sono parole di autentici vaneggiamenti conciliari!.. Pio XII,
sempre nella sua “Mediator Dei”, lo ebbe a dire:
«... Si deve osservare che sono fuori della
verità e del cammino della retta ragione coloro
i quali, tratti da false opinioni, attribuiscono
a tutte queste circostanze tale valore
da non dubitare di asserire che, omettendole,
l’azione sacra non può raggiungere lo scopo
prefissosi.

Non pochi fedeli, difatti, sono incapaci di
usare il “Messale Romano”, anche se è
scritto in lingua volgare, né tutti sono idonei
a comprendere rettamente, come conviene, i
riti e le cerimonie liturgiche!
L’ingegno, il carattere e l’indole degli uomini
sono così vari e dissimili che non tutti
possono egualmente essere impressionati e
guidati da preghiere, da canti, o da azioni sacre,
compiute in comune.
I bisogni, inoltre, e
le disposizioni delle anime, non sono uguali
in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli
Chi dunque potrà dire, spinto da tale preconcetto,
che tanti cristiani non possono partecipare
al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici?
Questi possono certamente farlo in
altra maniera che ad alcuni riesce più facile,
come, ad esempio, meditando piamente i misteri
di Cristo, o compiendo esercizi di pietà,
e facendo altre preghiere che, pur differenti
nella forma dei sacri riti, ad essi, tuttavia,
corrispondono per la loro natura!».
Quale grande sapienza “pastorale”, psicologica, penetrante
le più intime fibre dell’animo umano in queste parole di
Pio XII!
Purtroppo, invece, un altro frutto del Modernismo in atto
è anche la “mutilazione della Messa”, il cui creatore fu
il framassone mons. Annibale Bugnini che riuscì a strappare
il consenso a Paolo VI.
E così, adesso, abbiamo una Messa bugniniana-massonica
col “Dio dell’Universo”, col “panis vitae”, col “potus
spiritualis”... Nella “traduzione tedesca”, sempre nel testo
latino, la parola “hostia” (= vittima, sacrificio cruento) è tradotta
sempre come “dono” (Gabe), mentre la traduzione italiana,
qualche volta, conserva la parola “sacrificio”.
Ancora: mentre nella traduzione italiana del nuovo mini-
Offertorio (detto anche “preparazione dei doni”!) conserva
la preghiera “Orate, frates”, in cui, oltre al concetto di “sacrificio”,
c’è anche una traccia di differenza tra sacerdote e
popolo (“il mio e vostro sacrificio”!), nella traduzione tedesca,
invece, si fa dire al sacerdote: “Preghiamo che Dio onnipotente
accetti i “doni” della Chiesa come lode e per la
salute del mondo intero”!.. e poi, più sotto, si legge: “ovvero
un altro invito idoneo alla preghiera”; il che significa:
piena libertà per invenzioni fantastiche!
Ma anche lo stesso “Messale nuovo” è un grande scandalo!
Bisognerebbe leggere, qui, il “Breve esame critico del
Novus Ordo Missae” dei cardinali Bacci e Ottaviani, in collaborazione
con grandi “esperti”, pubblicato nel 1969, che
contiene un grave giudizio da parte dell’allora Prefetto del
Sant’Uffizio!..

Cominciamo dalla definizione di Messa (paragrafo 7:
“De structura missae”, nella “Istitutio generalis”, o preambolo
del Messale:
«La “Coena dominica”, o Messa, è la sacra
assemblea del popolo di Dio che si raduna
sotto la presidenza del prete per celebrare
la cerimonia del Signore. Per questa
assemblea locale della Sancta Ecclesia
vale in modo eminente la promessa di Cristo:
“dovunque due o tre persone sono
riunite nel mio nome, Io sono in mezzo a
loro»!..

Ed ecco il commento del card. Ottaviani:
«la definizione di “Messa” è dunque limitata
a quella di “cena”, il che è poi continuamente
ripetuto. Tale cena è inoltre caratterizzata
dall’assemblea, presieduta dal sacerdote,
e dal compiersi il “memoriale del
Signore”, ricordando quello che egli fece il
giovedì santo. Tutto ciò non implica né la
“presenza reale”, né la “realtà del sacrificio”,
né la sacramentalità del sacerdote
consacrante, né il valore intrinseco del sacrificio
eucaristico, indipendentemente dalla
presenza dell’assemblea; non implica, in
una parola, nessuno dei valori dogmatici

essenziali della Messa che ne costituiscono,
pertanto, la vera definizione. Qui, -
conclude il cardinale - l’omissione volontaria
equivale al loro superamento, quindi,
almeno in pratica, alla loro negazione!».

Ce n’è abbastanza per dire che quella definizione di
“Messa” era “eretica”! E il Papa Paolo VI, leggendo quello
scritto dei due cardinali, ne ebbe paura e fece cambiare
quel “paragrafo 7”, correggendolo;4 ma lo si fece in parte,
però, perché il “testo della Messa” è rimasto ancora tale e
quale! Non fu cambiata una parola!

Con quella “furba” riparazione, gli “errori” di quel paragrafo
sembrerebbero riparati. Invece, no! La “Messa”
rimane “cena”, come prima; il “sacrificio” è solo un “memoriale”,
come prima; la “presenza di Cristo” nelle due
specie è qualitativamente uguale alla sua presenza nell’assemblea,
nel prete e nella sacra Scrittura.
I laici (e molto
clero!) non hanno notato la sottile distinzione del “sacrificio
dell’altare”, detto, adesso, “duraturo”; ma la “mens” dei
compilatori è quella, spiegata da Rahner nel suo commento
al “Sacrosanctum Concilium”, art. 47:

«L’art. 47 contiene - era già nel Concilium! -
una descrizione teologica dell’Eucarestia.
Due elementi sono specialmente degni di
attenzione: si parla di lasciar “durare” il
sacrificio di Cristo, mentre le espressioni
“repraesentatio” (Concilio di Trento) e

4 Il testo rifatto suona così: “Nella messa, o cena dominica, il popolo di Dio è
radunato per celebrare, sotto la presidenza del prete, che agisce “in persona
Christi”, il memoriale o sacrificio eucaristico. Di questa assemblea locale vale, in
modo eminente, la promessa di Cristo: “Dovunque due o tre persone sono riunite
nel mio nome, Io sono in mezzo a loro”.


“renovatio” (testi papali più recenti) sono
state evitate di proposito. La celebrazione
eucaristica è caratterizzata con una parola,
presa dalla recente discussione protestante, e
cioè: “memoriale dell
a morte e della risurrezione
di Gesù”».

Ora, questo è un allontanarsi dal rinnovamento incruento
del sacrificio del Calvario!.. Difatti, secondo questa “nuova
definizione”, il sacrificio di Cristo sarebbe successo una
volta sola, per sempre e durerebbe nel suo effetto. È la dottrina
di Lutero!..

Se il “sacrificio” è solo un “memoriale”, nel quale continua
l’effetto dell’unico sacrificio, allora Cristo è presente
solo spiritualmente; e questo fa diminuire anche la reintrodotta
espressione “in persona Christi”; e la “presenza
reale” è solo simboleggiata nelle due specie! La comprova
di questo lo si può avere anche con le dichiarazioni dei teologi
tedeschi Lângerlin, collaboratore di J. A. Jungmann, e
di Johannes Wagner, i quali, parlando appunto della “nuova
versione” del paragrafo (7), dicono:

«Malgrado la nuova versione, concessa,
nel 1970, ai reazionari militanti (che sarebbero
i cardinali Ottaviani e Bacci... e
noi!), e ciò nonostante non disastrosa (!!),
grazie all’abilità dei redattori, la nuova
teologia della Messa evita pure le vie senza
uscite delle teorie di sacrificio post-tridentine,
e corrisponde per sempre a certi
documenti interconfessionali degli ultimi
anni»5.
5 Cfr. Dal libro: “Tradizione e progresso”, edito a Graz.


È chiaro: l’attuale culto è storpiato, sopratutto in questi
due punti: la “finalità della Messa” e l’Essenza del Sacrificio.

1) - Finalità della Messa
a) La “finalità ultima”, ossia il “Sacrificium laudis” alla
SS. Trinità, secondo l’esplicita dichiarazione di Cristo (Ps.
XL, 7-9 in Hebr. 10, 5), è scomparsa dall’Offertorio, dal
Prefazio e dalla conclusione della Messa (“Placeat tibi
Sancta Trinitas”);

b) La “finalità ordinaria”, o “Sacrificio propiziatorio”,
è deviata: invece di metter l’accento sulla remissione
dei peccati dei vivi e dei morti, è messa sulla nutrizione e santificazione
dei presenti (n. 54). Certo, Cristo, in stato di vittima,
ci unisce al suo stato vittimale; ma questo precede la
“manducazione”, tanto è vero che il popolo, assistendo alla
Messa, non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente;

c) La “finalità immanente”, cioé: il solo sacrificio gradito
e accettabile da parte di Dio è solo quello di Cristo.
Nel nuovo “Ordo Missae”, invece, (messa bugniniana-paolina)
si snatura questa “offerta” in una specie di scambio di
doni tra l’uomo e Dio. L’uomo porta il “pane”, e Dio lo
cambia “in pane di vita”. L’uomo porta il “vino”, e Dio lo
cambia in “bevanda spirituale”.

Ma questo “panis vitae” e “potus spiritualis” sono una
vera indeterminatezza che può significare qualsiasi cosa! C’è,
qui, l’identico e capitale equivoco della definizione di Messa;
là, il Cristo, presente solo spiritualmente in quel “pane
e vino” spiritualmente mutati!
É un gioco di equivoci. Per questo furono soppresse le due
stupende preghiere: “Deus qui humanae substantiae mirabiliter
condidisti...” e “Offerimus tibi, Domine, Calicem salutaris...”.
Quindi, non v’è più distinzione tra sacrificio divino e umano! Perciò, avendo soppresso le “finalità reali”,
ne hanno inventate di fittizie: “offerte per i poveri”, “per
la chiesa” e offerta dell’ostia da immolare. Così, la partecipazione
all’immolazione della Vittima divina è diventata una
specie di riunione tra filantropi e una specie di banchetto di
beneficenza!..

2) - Essenza del Sacrificio
a) “Presenza Reale”: mentre nel “Suscipe” era esplicitato
il “fine” dell’offerta, qui, nessuna menzione. Quindi, il
mutamento di formulazione rivela un mutamento di dottrina.
Cioè: la non-esplicitazione del Sacrificio significa - si voglia
o no! - la soppressione del ruolo centrale della “Presenza
Reale”. Difatti, a questa “Presenza Reale” e permanente di
Cristo, in Corpo, Anima e Divinità, non si fa mai alcuna allusione.
La stessa parola “transustanziazione” è completamente
ignorata!

b) “Formule consacratorie”: La formula antica della
Consacrazione non era “narrativa”, come quella, invece,
delle “nuove formule consacratorie”, pronunciate dal sacerdote
come fossero una “narrazione storica” e non come
esprimenti un giudizio categorico e affermativo, proferito da
Colui nella cui persona Egli agisce: “Hoc est Corpus
meum”, e non “Hoc est Corpus Christi”. Quindi, le parole
della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del
“Novus Ordo”, possono essere valide in virtù dell’intenzione
del ministro, ma possono anche non essere valide, perché
non lo sono più “ex vi verborum”, cioé in virtù del “modus
significandi” che avevano, fino a ieri, nella Messa.
Perciò, potremmo anche domandarci: i sacerdoti d’oggi,
che si affidano al “Novus Ordo” per “fare ciò che fa la
Chiesa”, consacrano ancora validamente?..
Termino. Continuando l’esame degli elementi costitutivi
del Sacrificio (Cristo, sacerdote, Chiesa, fedeli), nel “Novus
Ordo” risulterebbe una serie di omissioni, soppressioni, modalità
strane e dissacrazioni che costituiscono un complesso di
più o meno gravi deviazioni della teologia della Messa cattolica.
È evidente, quindi, che il “Novus Ordo” ha rotto con il
Concilio di Trento e, diciamo pure, con la nostra Fede cattolica
di sempre!
***
“Anima mea turbata est valde, sed Tu, Domine, usque
quo?” (L’anima mia è turbata fin nel profondo, ma Tu, Signore,
fin dove e fino a quando?) (Ufficio dei defunti).











Heleneadmin
00domenica 6 febbraio 2011 16:28
leggi bene Ghergon...neghiamo anche il primo concilio?
Il mio Spirito è in te e le mie parole,
che ho posto sulla tua bocca, non si allontaneranno mai, ora e in eterno, dalle tue
labbra (7).


Concilio Vaticano PRIMO

Capitolo II.
La rivelazione.
La stessa santa madre chiesa ritiene ed insegna che Dio, principio e fine di ogni cosa,
può esser conosciuto con certezza con la luce naturale della ragione umana a partire
dalle cose create: Le sue invisibili perfezioni, infatti, si fanno palesi all’intelletto fin
dalla creazione del mondo attraverso le sue opere (11);
ma che è piaciuto alla sua
sapienza e bontà rivelare se stesso e gli eterni decreti della sua volontà per altra via -
soprannaturale -, dal momento che l’apostolo afferma: In molte maniere ed in molti modi
un tempo Dio parlò ai padri per mezzo dei profeti. Ora, in questi nostri tempi, ci ha
parlato per mezzo del Figlio suo (12).
Si deve a questa divina rivelazione, se le verità


Si deve a questa divina rivelazione, se le verità che per loro natura non sono inaccessibili
alla ragione umana nell’ordine divino, nella presente condizione del genere umano,
possono esser conosciute da tutti facilmente, con assoluta certezza e senza alcun errore.

Non è, tuttavia, per questo motivo che la rivelazione, assolutamente parlando, è
necessaria; ma perché Dio, nella sua infinita bontà, ha ordinato l’uomo ad un fine
soprannaturale, a partecipare, cioè, i beni divini, che superano del tutto le possibilità
dell’umana intelligenza. Occhio, infatti, non vide, orecchio non intese e cuore umano
non poté mai desiderare quello che Dio ha preparato per quelli che lo amano (13).


Capitolo III.
La fede.
Poiché l’uomo dipende totalmente da Dio, suo creatore e signore, e la ragione creata è
sottomessa completamente alla verità increata, quando Dio si rivela, dobbiamo
prestargli, con la fede, la piena soggezione dell’intelletto e della volontà. Quanto a
questa fede - inizio dell’umana salvezza - la chiesa cattolica professa che essa è una virtù
soprannaturale,
per cui, sotto l’ispirazione di Dio e con l’aiuto della grazia, crediamo
vere le cose da lui rivelate, non per la intrinseca verità delle cose, chiara alla luce
naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio, che le rivela, che non può né
ingannarsi né ingannare. La fede, infatti, secondo dell’apostolo, è sostanza delle cose che
si sperano e prova di quelle che non si vedono (15



E di nuovo sta scritto: Abbiamo il linguaggio più certo dei profeti. E
farete bene se presterete ad esso la vostra attenzione, come ad una lucerna che splende
in luogo caliginoso (17).).



Con fede divina e cattolica deve credersi tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio
scritta o tramandata, e che è proposto dalla chiesa come divinamente rivelato sia con
giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario universale.




Fede e ragione.

Il consenso della chiesa cattolica ha sempre ritenuto e ritiene anche che esistono due
ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto.
Per il loro principio, perché nell’uno conosciamo con la ragione naturale, nell’altro con
la fede divina; per l’oggetto, perché oltre quello che la ragione naturale può attingere, ci
si propongono a credere dei misteri nascosti in Dio, che, qualora non fossero rivelati da
Dio, non potrebbero conoscersi. È questo il motivo per cui l’apostolo, che pure afferma
che Dio era stato conosciuto dai pagani attraverso le creature (26), parlando tuttavia
della grazia e della verità guadagnataci da Cristo (27), dice solennemente: Parliamo
della sapienza di Dio nel mistero: essa è nascosta e Dio l’ha predestinata a gloria
nostra prima dei secoli e nessuno tra i principi di questo mondo l’ha conosciuta. Ma a
noi Dio l’ha rivelata per mezzo del suo Spirito. Lo Spirito, infatti, scruta ogni cosa,
anche i misteri più profondi di Dio (28). E lo stesso Unigenito loda il Padre, perché ha
nascosto queste cose ai sapienti e ai prudenti e le ha rivelate ai piccoli (29).


Certo quando la ragione, illuminata dalla fede cerca assiduamente, piamente e nei limiti
dovuti, con l’aiuto di Dio consegue una certa conoscenza molto feconda dei misteri, sia
per analogia con ciò che conosce naturalmente
, sia per il nesso degli stessi misteri fra
loro e col fine ultimo dell’uomo. Mai, però, essa è resa capace di poterli comprendere
come le verità che formano il suo oggetto proprio. I misteri divini, infatti, per loro
intrinseca natura, sorpassano talmente l’intelletto creato, che anche dopo ricevuta la
divina rivelazione e la grazia, rimangono avvolte nel velo della fede e circondate come
da una caligine. Ciò, fino a quando, in questa vita mortale, siamo dei pellegrini lontani
da Dio. Camminiamo infatti nella fede e non nella visione (30).




Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere vera divergenza tra fede e
ragione: lo stesso Dio, infatti, che rivela i misteri e infonde la fede, ha anche deposto il
lume della ragione nell’animo umano. E Dio non potrebbe negare se stesso, come il vero
non potrebbe mai contraddire il vero. Questa inconsistente apparenza di contraddizione,
quindi, sorge specialmente da ciò che i dogmi della fede non sono stati compresi ed
esposti secondo il pensiero della chiesa, o che opinioni fantastiche sono scambiate per
conclusioni della ragione. Ogni asserzione, quindi, contraria alla verità di una fede
illuminata, la definiamo senz’altro falsa.


la fede libera e
protegge la ragione dagli errori e l’arricchisce di molteplici cognizioni. Perciò la chiesa è
tanto lontana dall’opporsi allo studio delle arti e delle discipline umane, da favorirlo,
anzi, e da promuoverlo in ogni maniera.
Essa, infatti, non ignora e non disprezza i vantaggi che da esse derivano per la vita degli
uomini. Anzi confessa che esse, venute da Dio, signore delle scienze, con la grazia
possono condurre a Lui, se trattate rettamente.




Canoni

II. La rivelazione.
1. Se qualcuno dice che Dio, uno e vero, creatore e signore nostro, non può esser
conosciuto con certezza, col lume dell’umana ragione, attraverso le cose create, sia
anatema



5. Se qualcuno dice che l’assenso alla fede cristiana non è libero, ma che è prodotto
necessariamente dalle argomentazioni dell’umana ragione
o che alla sola fede viva - che
opera per mezzo della carità - è necessaria la grazia di Dio, sia anatema.



Prima costituzione dogmatica sulla chiesa di Cristo.
Pio vescovo, servo dei servi di Dio, con l’approvazione del sacro concilio, a perpetua
memoria.
L’eterno pastore e vescovo delle nostre anime (33) per rendere perenne l’opera salutare
della redenzione, decise di costituire la santa chiesa, nella quale, come nella casa del Dio
vivente, tutti i fedeli fossero raccolti dal vincolo della stessa fede e della medesima
carità. Perciò, prima di essere glorificato, egli pregò il Padre non solo per gli apostoli,
ma anche per quelli che avrebbero creduto in lui attraverso la loro parola, affinché tutti
fossero uno, come il Figlio stesso e il Padre sono uno (34). Così dunque egli mandò gli
apostoli, che si era scelto dal mondo (35), allo stesso modo che era stato mandato dal
Padre (36), così volle che nella sua chiesa vi fossero dottori e pastori fino alla fine del
mondo (37).




Se, quindi, qualcuno dirà che non è per istituzione dello stesso Cristo signore, cioè per
diritto divino, che il beato Pietro ha sempre dei successori nel primato su tutta la chiesa;
o che il Romano pontefice non è successore del beato Pietro in questo primato: sia
anatema.


Valore e natura del primato del Romano pontefice.

Basandoci, perciò, sulle chiare testimonianze delle sacre scritture, e seguendo gli
espliciti decreti sia dei nostri predecessori Romani pontefici, che dei concili generali,
rinnoviamo la definizione del concilio ecumenico di Firenze (46), secondo la quale tutti i
cristiani devono credere che "la santa sede apostolica e il Romano pontefice hanno il
primato su tutta la terra; e che lo stesso pontefice Romano è successore del beato Pietro,
principe degli apostoli, e vero vicario di Cristo, capo di tutta la chiesa, padre e maestro di
tutti i cristiani. Che al beato Pietro, inoltre, è stato dato dal signore nostro Gesù Cristo il
pieno potere di pascere, reggere e governare la chiesa universale, come si legge negli atti
dei concili ecumenici e nei sacri canoni".



Insegniamo, perciò, e dichiariamo che la chiesa Romana, per disposizione del Signore,
ha un primato di potere ordinario su tutte le altre; e che questa potestà di giurisdizione
del Romano pontefice, essendo veramente episcopale, è immediata: quindi i pastori e i
fedeli, di qualsiasi rito e dignità, sia considerati singolarmente che nel loro insieme, sono
tenuti al dovere della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza verso di essa,
non solo in ciò che riguarda la fede e i costumi, ma anche in ciò che riguarda la
disciplina e il governo della chiesa sparsa su tutta la terra.



Questa è la dottrina
della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza mettere in pericolo la
fede e la salvezza.
Heleneadmin
00domenica 6 febbraio 2011 16:40
Condanniamo, quindi, e riproviamo le opinioni di quanti affermano che si possa
lecitamente impedire questa comunicazione del capo supremo con i pastori e con i
fedeli,


Nessuno, invece, potrà riesaminare un giudizio
pronunziato dalla sede apostolica - di cui non vi è autorità maggiore -, come a nessuno è
lecito giudicare di un giudizio dato da essa (51). Quindi, quelli che affermano essere
lecito appellare dalle sentenze dei Romani pontefici al concilio ecumenico, come ad una
autorità superiore al Romano pontefice, sono lontani dal retto sentiero della verità.



Perciò se qualcuno dirà che il Romano pontefice ha solo un potere di vigilanza o di
direzione, e non, invece, la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la chiesa,
non solo in materia di fede e di costumi, ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il
governo della chiesa universale; o che egli ha solo una parte principale, e non, invece, la
completa pienezza di questa potestà; o che essa non è ordinaria ed immediata, sia su tutte
le singole chiese, che su tutti i singoli pastori: sia anatema.



Il magistero infallibile del Romano pontefice.
Il primato apostolico, che il Romano pontefice ha su tutta la chiesa come successore di
Pietro, principe degli apostoli, comprende pure la suprema potestà di magistero: questa
santa sede l’ha sempre ritenuto, l’uso perpetuo della chiesa lo comprova e lo
dichiararono gli stessi concili ecumenici, specialmente quelli in cui l’Oriente conveniva
con l’Occidente nell’unione della fede e della carità

concilio II di Lione, inoltre, i Greci professarono: "La santa
chiesa Romana ha il sommo e pieno primato e principato su tutta la chiesa cattolica. Essa
riconosce veramente ed umilmente di averlo ricevuto, con la pienezza del potere, dallo
stesso Signore nel beato Pietro, principe e capo degli apostoli, di cui il Romano
pontefice è successore. E come più degli altri ha il dovere di difendere la verità della
fede, così, se sorgessero dispute sulla fede, devono essere decise secondo il suo giudizio"
(54). Finalmente il concilio di Firenze ha definito che "il pontefice Romano è vero
vicario di Cristo, capo di tutta la chiesa, padre e maestro di tutti i cristiani; a lui, nel
beato Pietro, è stato dato dal signore nostro Gesù Cristo il pieno potere di reggere e
governare la chiesa universale" (55).


sede di Pietro rimane sempre immune da ogni errore, conforme
alla promessa divina del Signore, nostro salvatore, fatta al principe dei suoi apostoli: Io
ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. Tu, una volta convertito,
conferma i tuoi fratelli (57).



Perciò questo carisma di verità e di fede - che non verrà mai meno - è stato dato
divinamente a Pietro e ai suoi successori che siedono su questa cattedra,


Noi, quindi, aderendo fedelmente ad una tradizione accolta fin dall’inizio della fede
cristiana, a gloria di Dio, nostro salvatore, per l’esaltazione della religione cattolica e la
salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del santo concilio, insegniamo e
definiamo essere dogma divinamente rivelato che il Romano pontefice, quando parla ex
cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani,
in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la
fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell’assistenza divina che gli
è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità, di cui il divino Redentore
ha voluto dotata la sua chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i
costumi. Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il
consenso della chiesa.
Se poi qualcuno - Dio non voglia! - osasse contraddire questa nostra definizione: sia
anatema.
Ghergon
00domenica 6 febbraio 2011 16:48
Ciao, i testi che hai portato non sono attinenti alla evidenziazione degli errori conciliari riportati da Don Villa.
Dovresti postare qualcosa su quegli specifici errori.
Ciao.






Heleneadmin
00domenica 6 febbraio 2011 19:25
Re:
Ghergon, 06/02/2011 16.48:

Ciao, i testi che hai portato non sono attinenti alla evidenziazione degli errori conciliari riportati da Don Villa.
Dovresti postare qualcosa su quegli specifici errori.
Ciao.


e da nni e anche ultimamente che posto,ma evidentemente non leggi e fuggi le evidenze nonostante io risponda capillarmente ai tuoi post ed insinuazioni.

Mi resta solo da dirti:ravvediti.

Con questo ti posto una cosa interessante da leggere e come fratello con la fede,la logica,la intelligenza,vale la pena dividersi dalla Chiesa per un concilio che puo essere rivisto?
Almeno nei scismi passati avvano una verità dogmatica,un dogma che non si poteva discutere:Voi no

quindi vale la pena non aver pazienza e non essere in comunione,non ricevere nella completazza tutti i sacramenti di salvezza?
Visto che oltretutto oggi potete avere la messa tridentina?

Ghergon,ne vale veramente la pena visto che nessun dogma è stato esercitato?

Ricorda...spirito di ribellione...lo stesso spirito del maligno,che seppur lui sapesse al di sopra degli angeli,lo portò in perdizione.









disputationes-theologicae.blogspot.com/2009/06/il-magistero-ordinario-infallib...
Heleneadmin
00domenica 6 febbraio 2011 19:34
Re:
Ghergon, 06/02/2011 16.48:

Ciao, i testi che hai portato non sono attinenti alla evidenziazione degli errori conciliari riportati da Don Villa.
Dovresti postare qualcosa su quegli specifici errori.
Ciao.










sai cosa vuole dire questa tua richiesta? che non leggi cosa posto,se no sapevi le risposte...

tra un po sono stanca di tirare fuori le stesse cose,quindi non insistere troppo e incomincia a rispondere

Ghergon
00domenica 6 febbraio 2011 19:52
Cara amica mia, te lo dico in maniera sintetica.
Se tu posti sulla infallibilità papale ti dico che va bene e che siamo tutti d'accordo.
Ma sei fuori tema.
Il CVII è pastorale, e Paolo VI affermò ripetutamente che il CVII fu solo concilio operativo, atto a fornire indicazioni per il momento storico.
Quindi nel CVII non c'è nulla di infallibile a detta dello stesso Paolo VI che parlo anche di magistero ordinario autentico(sono due le forme ordinario infallibile e ordinario non infallibile cioè autentico).
Quindi nel CVII non ci sono dogmi.
E difatti non potevano "dogmatizzare", scusa il barbarismo, seminando l'opposto delle dottrine di fede, se non sarebbero stati automaticamente scomunicati dai Papi precedenti.

Con questa pastoralità, senza dogmi i modernisti però hanno fatto ugualmenbte tabula rasa, cioè hanno sovrapposto le loro intenzioni ai dogmi, senza obbligare nessuno ma agendo da demolitori e da padroni e imponendo nuovi modus operandi... illeciti.
La vergogna fu che nessuno mosse un dito...tranne quel sant'uomo di Marcel Lefebvre..ma questo è un altro discorso...

Ciao!


Heleneadmin
00lunedì 7 febbraio 2011 20:45
Re:
Ghergon, 06/02/2011 19.52:

Cara amica mia, te lo dico in maniera sintetica.
Se tu posti sulla infallibilità papale ti dico che va bene e che siamo tutti d'accordo.
Ma sei fuori tema.
Il CVII è pastorale, e Paolo VI affermò ripetutamente che il CVII fu solo concilio operativo, atto a fornire indicazioni per il momento storico.
Quindi nel CVII non c'è nulla di infallibile a detta dello stesso Paolo VI che parlo anche di magistero ordinario autentico(sono due le forme ordinario infallibile e ordinario non infallibile cioè autentico).
Quindi nel CVII non ci sono dogmi.
E difatti non potevano "dogmatizzare", scusa il barbarismo, seminando l'opposto delle dottrine di fede, se non sarebbero stati automaticamente scomunicati dai Papi precedenti.

Con questa pastoralità, senza dogmi i modernisti però hanno fatto ugualmenbte tabula rasa, cioè hanno sovrapposto le loro intenzioni ai dogmi, senza obbligare nessuno ma agendo da demolitori e da padroni e imponendo nuovi modus operandi... illeciti.
La vergogna fu che nessuno mosse un dito...tranne quel sant'uomo di Marcel Lefebvre..ma questo è un altro discorso...

Ciao!






Vuoi forse dire che tutti i concili precedenti sono stati dogmatici...???
Attento a come rispondi... [SM=g27829]



Nello schema proposto si noterà un’inconsistenza, che finora abbiamo lasciato volutamente passare:
nella serie di insegnamenti «straordinari/solenni» figura anche il «magistero ordinario universale»,
il quale di certo non è straordinario, perché si chiama ordinario; e nemmeno è solenne, perché non
viene di norma solennizzato in alcun modo (ad es. con una definizione dogmatica solenne). Cos’è il
magistero ordinario universale? In questa categoria rientra ogni insegnamento costante di tutti i
vescovi in comunione gerarchica col Papa, senza tuttavia che sia mai intervenuta una proclamazione
solenne. Si tratta di insegnamenti, si potrebbe dire, attinenti a verità che la chiesa sempre e
dovunque ha proposto a credere, anche se essi non sono mai stati formalmente definiti come dogmi.
Nonostante ciò, si ritiene che queste dottrine vengano proposte infallibilmente da parte del
magistero della Chiesa (cf. DS 2879; LG 25). Per questo, il magistero ordinario universale rientra
nel gruppo delle forme di esercizio straordinarie, ovvero di quelle che fissano la dottrina in maniera
incontrovertibile.
Heleneadmin
00lunedì 7 febbraio 2011 20:46
I modernisti sono modernisti,il CVII è il CVII

Sono discorsi separati e complementari.
Ghergon
00martedì 8 febbraio 2011 17:54
L’’ERETIICO
CARDIINALE
WALTER KASPER

www.chiesaviva.com/433%20mensile.pdf


Heleneadmin
00martedì 8 febbraio 2011 21:28
Come sempre non rispondi mai alle domande,specialmente quelle dirette a cui non puoi dimostrare nulla.


Puoi solo continuare a buttare fango contro la Chiesa che tu dici,ormai,non esserlo piu...ma i sacramenti della vera Chiesa cattolica ,per la loro validità,li prendi....

Siccome è un continuo calunniare oltre misura senza possibilità di confronto visto l'evitare continuo delle domande e visto che il sito non tratta specificatamente di questioni ecclesiastiche,sei bannato a data da definirsi
Heleneadmin
00martedì 8 febbraio 2011 21:51
www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&...


Sentiamo di nuovo il Papa nella citata lettera di accompagnamento al Motu proprio: “Questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.
Papa Benedetto parla quindi di “deformazioni arbitrarie”; si tratta, secondo questa analisi, di applicazioni errate sopraggiunte più tardi, e non del messale di Paolo VI in sé. Circa quest’ultimo, in più riprese nei suoi scritti il Papa ammonisce quelli che lo ritengono esso stesso una deformazione della tradizione ecclesiale ed espressione di una teologia eterodossa. Non a caso preferisce non parlare di due riti, ma di “due forme di uno stesso rito”: forma extraordinaria, l’antico messale; forma ordinaria il nuovo; e “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum”. La stessa cosa l’allora cardinale Ratzinger la aveva dichiarata più estesamente in un discorso del 24 ottobre 1998: “Si può dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l'antica e la nuova liturgia, quando l'una e l'altra vengono celebrate in conformità con le prescrizioni dei libri liturgici. Il cristiano medio, privo di una cultura liturgica specialistica, ha difficoltà a distinguere tra una Messa cantata in latino secondo il vecchio messale ed una cantata in latino secondo quello nuovo. La differenza fra una celebrazione liturgica che si attiene fedelmente al messale di Paolo VI e la realtà di celebrazioni in lingua corrente, con tutte le possibili libertà di partecipazione e di creatività, quella differenza sì che può essere enorme!”.
Questa affermazione, netta e reiterata, che la differenza fra il vecchio e il nuovo “ordo Missae” non è sostanziale, e che si tratta anzi di due forme dello stesso rito, può piacere o meno – si tratta in ogni caso del parere del Papa, espresso in modo piuttosto formale in atti di elevato valore magisteriale.
Heleneadmin
00martedì 8 febbraio 2011 21:56
* Chiese sui iuris di rito liturgico occidentale (1):
o Chiesa cattolica latina, nella quale si praticano vari riti liturgici, da non confondere con i riti o le chiese sui iuris. Fra tali riti liturgici si contano il rito romano (quello più diffuso e inglobante il rito tridentino), il rito ambrosiano, il rito mozarabico, il rito di Braga (Portogallo), e riti di ordini religiosi quali quello certosino.

* Chiese sui iuris di rito liturgico bizantino (15):
o Chiesa cattolica italo-albanese (diocesi di Lungro e Piana degli Albanesi, in Italia)
o Chiesa greco-cattolica albanese (Albania)
o Chiesa greco-cattolica bielorussa (Bielorussia)
o Chiesa greco-cattolica bulgara (Bulgaria)
o Chiesa greco-cattolica croata (diocesi di Križevci, Croazia)
o Chiesa greco-cattolica di Grecia (Grecia e Turchia) (EL, FR, EN) [1]
o Chiesa greco-cattolica di Serbia e Montenegro (Serbia e Montenegro)
o Chiesa greco-cattolica macedone (Macedonia)
o chiesa greco-cattolica (melchita) (Siria, Libano, Israele, Palestina, Giordania, Iraq, Egitto e comunità mediorientali nel mondo)
o Chiesa greco-cattolica rumena (Romania) (RO) [2]
o Chiesa greco-cattolica rutena (eparchia di Mukačevo, Ucraina)
o Chiesa greco-cattolica russa (Russia)
o Chiesa greco-cattolica slovacca (Slovacchia)
o Chiesa greco-cattolica ucraina (Ucraina, Polonia, Stati Uniti, Canada e comunità ucraine nel mondo)
o Chiesa greco-cattolica ungherese (Ungheria)

* Chiese sui iuris di rito liturgico alessandrino (2)
o Chiesa cattolica copta (Egitto)
o Chiesa cattolica etiope (Etiopia ed Eritrea)

* Chiese sui iuris di rito liturgico antiocheno o siriaco occidentale (3)
o Chiesa maronita (Libano, Siria, Cipro, Israele, Palestina, Egitto, Giordania e diaspora siro-libanese nel mondo)
o Chiesa cattolica sira (Libano, Iraq, Giordania, Kuwait, Palestina, Egitto, Sudan, Siria, Turchia, Stati Uniti, Canada e Venezuela)
o Chiesa cattolica siro-malankarese (India)

* Chiese sui iuris di rito liturgico siriaco orientale (2)
o Chiesa cattolica caldea (Iraq, Iran, Libano, Egitto, Siria, Turchia, Stati Uniti)
o Chiesa cattolica siro-malabarese (India e Stati Uniti)

* Chiesa sui iuris di rito liturgico armeno (1)
o Chiesa armeno-cattolica (Libano, Iran, Iraq, Egitto, Siria, Turchia, Israele, Palestina, Italia e diaspora armena nel mondo)
Heleneadmin
00mercoledì 9 febbraio 2011 18:17
forumnwo.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd...

in questo link è spiegato perfettamente tutto,così da fugare dubbi o da pretese verità estrapolate senza approfondimenti.

Qui si spiega il NOM che non è eretico e perfettamente cattolico e proseguimento della tradizione.

Si comprende perchèp i Péapi non sono eretici,il nom nemmeno e neppure i fedeli che fanno una messa assolutamente regolare.

E certamente lungo,ma le cose prese nella brevità...certamente non chiariscono
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