Mistica Cattolica

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Ghergon
00sabato 12 aprile 2008 15:33
Comincia da oggi un percorso dottrinale che faremo insieme un po' per volta.
Se avrete la pazienza di seguirci posteremo brani dell'ottimo testo di Ascesi e Mistica di Adolfo Tanquerey che serviranno a fare un po' chiarezza e a riportare lumi nella un po' troppo incolta nostra civiltà religiosa moderna preparata sulle peggiori insensatezze aliene alla nostra cultura e a totale digiuno della autoctona Santa Dottrina Cattolica.

Il testo è molto chiaro e riporta gli uomini sulla retta via, quella della Salvezza Eterna donataci da Nostro Signore Gesù Cristo.

Fatene tesoro.
Ghergon
00sabato 12 aprile 2008 15:36
ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica


PRIMA PARTE
I Principii


CAPITOLO I.

Le origini della vita soprannaturale.

51. Questo capitolo ha per iscopo di farci meglio conoscere ciò che vi è di gratuito e d'eccellente nella vita soprannaturale, come pure le grandezze e le debolezze dell'uomo a cui questa vita è conferita. Per meglio intenderlo, vediamo:

I. Che cosa è la vita naturale dell'uomo;
II. La sua elevazione allo stato soprannaturale;
III. La sua caduta;
IV. La sua restaurazione per opera del divin Redentore.


ART. I. DELLA VITA NATURALE DELL'UOMO.

52. Si tratta qui di descrivere l'uomo quale sarebbe stato nello stato di semplice natura e quale viene dipinto dai filosofi.
Poichè la nostra vita soprannaturale s'innesta sulla nostra vita naturale e la conserva perfezionandola, è necessario richiamare brevemente ciò che su questo punto la retta ragione c'insegna.
L'uomo è un composto misterioso di corpo e di anima, di materia e di spirito che in lui intimamente s'uniscono per formare un'unica natura e un'unica persona. L'uomo dunque è, per così dire, il punto di congiunzione, il vincolo che unisce gli spiriti e i corpi; un compendio delle meraviglie della creazione, un piccolo mondo che concentra tutti i mondi, μιχρóχοσμος, e che manifesta la sapienza divina, la quale ha saputo riunire due esseri così disparati.


53. È un mondo pieno di vita: secondo l'osservazione di S. Gregorio Magno, vi si distinguono tre vite, la vita vegetativa, la vita animale e la vita intellettiva: "Homo habet vivere cum plantis, sentire cum animantibus, intelligere cum angelis." 53-1 Come la pianta, l'uomo si nutrisce, cresce e si riproduce; come l'animale, conosce gli oggetti sensibili e tende ad essi col suo appetito sensitivo, con le sue emozioni e le sue passioni, e si muove di moto spontaneo; come l'angelo, ma in grado minore e in modo diverso, conosce intellettualmente l'essere soprasensibile, il vero, e la sua volontà tende liberamente al bene razionale.


54. 2° Queste tre vite non si sovrappongono, ma si compenetrano, si coordinano e si subordinano, per concorrere ad un medesimo fine: la perfezione di tutto l'essere. È legge razionale insieme e biologica che, in ogni essere composto, la vita non può conservarsi e svilupparsi se non a patto di coordinare e quindi di subordinare i suoi vari elementi all'elemento principale e di asservirli per servirsene. Nell'uomo quindi le facoltà inferiori, vegetative e sensitive, devono essere sottomesse alla ragione e alla volontà. Questa condizione è assoluta: nella misura che manca, la vita s'affievolisce e scompare; infatti quando cessa la subordinazione, la dissociazione degli elementi incomincia, e si ha l'indebolimento del sistema e finalmente la morte. 54-1


55. 3° La vita è dunque una lotta; perchè le facoltà inferiori tendono con ardore al piacere, mentre le facoltà superiori tendono al bene onesto. Ora tra queste facoltà vi è spesso conflitto: ciò che ci piace, ciò che ci è o almeno ci sembra utile, non è sempre moralmente buono; è necessario quindi che la ragione, per far regnare l'ordine, combatta le tendenze contrarie e ne trionfi; ed ecco la lotta dello spirito contro la carne, della volontà contro la passione. Questa lotta è talora penosa; come in primavera sale la linfa negli alberi, così vi sono talora nella parte sensitiva dell'anima spinte violente verso il piacere sensibile.

56. Ma non sono irresistibili; la volontà, aiutata dall'intelletto, esercita su questi movimenti passionali un quadruplice potere: 1) potere di previdenza, che consiste nel prevedere e nel prevenire, con una saggia e costante vigilanza, molte immaginazioni, impressioni ed emozioni pericolose; 2) un potere d'inibizione e di moderazione, col quale noi infreniamo o almeno moderiamo i moti violenti che ci si sollevano nell'anima; così io posso impedire ai miei occhi di fissarsi su un oggetto pericoloso, alla mia immaginazione di trattenere immagini cattive; e se sorge in me moto di collera, io posso moderarlo; 3) un potere di stimolo, che eccita o intensifica per mezzo della volontà i movimenti passionali; 4) un potere di direzione, che ci rende capaci di dirigere questi movimenti verso il bene e quindi di distoglierli anche dal male.

57. Oltre a queste lotte intestine, ce ne possono essere altre tra l'anima e il suo Creatore. Vediamo certamente con la retta ragione che siamo obbligati a pienamente assoggettarci a Colui che è nostro supremo Padrone. Ma questa obbedienza ci costa; c'è in noi una certa sete d'indipendenza e d'autonomia che ci inclina a sottrarci all'autorità divina; è l'orgoglio, di cui non si trionfa che con l'umile confessione della propria indegnità e della propria impotenza, riconoscendo i diritti imprescrittibili del Creatore sulla sua creatura.
Così dunque, nello stato di natura, noi avremmo dovuto lottare contro la triplice concupiscenza.


58. 4° Quando l'uomo, invece di cedere alle cattive tendenze, fa il suo dovere, può a buon diritto aspettarsi una ricompensa, che sarà per la sua anima immortale una conoscenza più ampia e più profonda della verità e di Dio, sempre però conforme alla sua natura, cioè a dire analitica o discorsiva, e un amore più puro e più durevole. Se invece viola liberamente la legge in materia grave e non si pente prima di morire, non consegue il suo fine e merita un castigo, che sarà la privazione di Dio accompagnata da tormenti, proporzionati alla gravità delle sue colpe.
Tale sarebbe stato l'uomo nel cosidetto stato di natura pura, che del resto non è mai esistito; essendo stato l'uomo elevato allo stato soprannaturale, o al momento della sua creazione, come dice S. Tommaso, o immediatamente dopo, come dice S. Bonaventura.
Dio, nella infinita sua bontà, non si contentò di conferire all'uomo i doni naturali; ma volle elevarlo ad uno stato superiore, conferendogli doni preternaturali e soprannaturali.
Ghergon
00lunedì 14 aprile 2008 22:33
ART. II. ELEVAZIONE DELL'UOMO ALLO STATO SOPRANNATURALE. 59-1



I. Nozione del soprannaturale.

59. Richiamiamo che in teologia si distinguono due specie di soprannaturale: il soprannaturale assoluto, per essenza, quoad substantiam, e il soprannaturale relativo, quanto al modo, quoad modum.

1° Il soprannaturale per essenza è un dono divino fatto alla creatura intelligente, e che supera assolutamente tutta la sua natura, in questo senso che non può essere da lei prodotto e neppur da lei postulato, richiesto, meritato, cosicchè non solo supera ogni sua capacità attiva ma anche tutti i suoi diritti e tutte le sue esigenze. È qualche cosa di finito, perchè è un dono fatto alla creatura; ma è nello stesso tempo qualche cosa di divino, perchè solo il divino può superare le esigenze di ogni creatura. È però un divino comunicato e partecipato in modo finito e così evitiamo il panteismo. Non ci sono veramente che due sole forme di soprannaturale per essenza: l'Incarnazione e la grazia santificante.

A) Nel primo caso, Dio si unisce all'umanità nella persona del Verbo, in modo che la natura umana di Gesù ha per soggetto personale la seconda persona della SS. Trinità, senza alcuna alterazione come natura umana; cosicchè Gesù, uomo per la sua natura umana, è anche veramente Dio quanto alla sua persona. Abbiamo qui un'unione sostanziale, che non fonde due nature in una sola, ma le unisce, conservandone l'integrità, in una sola persona, la persona del Verbo; è quindi un'unione personale o ipostatica. È questo il più alto grado del soprannaturale quoad substantiam.

B) La grazia santificante è un grado minore di questo stesso soprannaturale. Con lei infatti l'uomo serba la personalità ma viene divinamente, benchè accidentalmente, modificato nella natura e nella capacità operativa; non diventa Dio, ma deiforme, cioè simile a Dio, divinæ consors naturæ, capace di afferrar direttamente Dio nella visione beatifica, quando la grazia sarà trasformata in gloria, e di vederlo faccia a faccia, come Dio vede se stesso; privilegio che supera evidentemente le esigenze delle creature anche più perfette, poichè ci fa partecipare alla vita intellettuale di Dio e alla sua natura.


60. 2° Il soprannaturale relativo, quanto al modo, è in sè qualche cosa che non supera la capacità o le esigenze di ogni creatura, ma solamente di qualche natura particolare. Tale è la scienza infusa, che supera la capacità dell'uomo ma non quella dell'angelo.
Dio comunicò all'uomo queste due forme di soprannaturale: conferì infatti ai nostri progenitori il dono di integrità, (soprannaturale quoad modum) che, perfezionandone la natura, la disponeva a ricevere la grazia, e nello stesso tempo conferì loro la grazia stessa, dono soprannaturale quoad substantiam: il complesso di questi due doni costituisce quella che si chiama giustizia originale.


II. Doni preternaturali conferiti ad Adamo.

61. Il dono di integrità perfeziona la natura dell'uomo senza elevarla all'ordine divino; è certamente un dono gratuito e preternaturale che supera le sue esigenze e le sue forze; ma non è ancora il soprannaturale per essenza. Comprende tre grandi privilegi, i quali, senza cangiare il fondo della natura umana, le danno una perfezione a cui non avea alcun diritto: la scienza infusa, il dominio delle passioni o l'esenzione dalla concupiscenza, l'immortalità del corpo.

62. A) La scienza infusa. Per natura noi non vi abbiamo diritto, perchè è privilegio degli angeli; solo progressivamente e con difficoltà noi, secondo le leggi psicologiche, possiamo arrivare alla conquista della scienza. Ora, per facilitare al primo uomo il suo ufficio di capo e di educatore del genere umano, Dio gli diede gratuitamente la scienza infusa di tutte le verità che gli erano necessarie, ed una certa facilità d'acquistare la scienza sperimentale; s'avvicinava così agli angeli.


63. B) Il dominio delle passioni ossia l'esenzione da quella tirannica concupiscenza che rende la virtù così difficile. Abbiamo detto che, per la costituzione stessa dell'uomo, vi è in lui una lotta terribile tra il desiderio sincero del bene e l'appetito disordinato dei piaceri e dei beni sensibili, ed una spiccata tendenza all'orgoglio: tutto quello insomma che noi chiamiamo la triplice concupiscenza. Per rimediare a questo naturale difetto, Dio conferì ai nostri progenitori un certo dominio sulle passioni che, senza renderli impeccabili, agevolava loro la virtù. In Adamo non v'era quella tirannia della concupiscenza che inclina violentemente al male, ma solamente una certa tendenza al piacere, subordinata alla ragione. Essendo la sua volontà sottomessa a Dio, le facoltà inferiori erano sottomesse alla ragione e il corpo all'anima: ordine quindi e rettitudine perfetta.


64. C) L'immortalità corporea. L'uomo è per natura soggetto alla malattia e alla morte; per una provvidenza speciale, fu preservato da questa doppia debolezza, affinchè l'anima potesse così più liberamente attendere all'adempimento dei suoi doveri superiori.
Ma questi privilegi erano destinate a rendere l'uomo più atto a ricevere e trafficare un dono molto più prezioso, intieramente e assolutamente soprannaturale, quello della grazia santificante.
III. I privilegi soprannaturali.


65. A) Per natura l'uomo è servo di Dio, cosa sua e sua proprietà. Ma per un'insigne bontà, di cui non potremo mai ringraziarlo abbastanza, Dio volle farlo entrare nella sua famiglia, adottarlo per figlio, farne il suo erede presuntivo, riserbandogli un posto nel suo regno; e perchè questa adozione non fosse una semplice formalità, gli conferì una partecipazione della sua vita divina, una qualità creata, è vero, ma reale, che gli fa godere sulla terra i lumi della fede, molto superiori a quelli della ragione, e possedere un giorno Dio nel cielo con la visione beatifica e un amore proporzionato alla chiarezza di questa visione.


66. B) A questa grazia abituale, che perfezionava e divinizzava, a così dire, la sostanza stessa dell'anima, s'aggiungevano delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo che divinizzavano le sue facoltà, e una grazia attuale che, mettendo in moto tutto quest'organismo soprannaturale, lo rendeva capace di fare atti soprannaturali, deiformi e meritori di vita eterna.
Questa grazia è sostanzialmente la stessa di quella che ci viene concessa per mezzo della giustificazione; per ora quindi non la descriviamo in particolare, perchè ci riserbiamo di farlo più tardi parlando dell'uomo rigenerato.
Tutti questi privilegi, eccettuata la scienza infusa, erano stati dati ad Adamo, non come un bene personale ma come un patrimonio di famiglia che doveva essere trasmesso a tutta la sua discendenza, a patto che egli rimanesse fedele a Dio.
Ghergon
00sabato 19 aprile 2008 17:59
ART. III. LA CADUTA E IL CASTIGO. 67-1




I. La caduta.


67. Non ostante tutti questi privilegi, l'uomo restava libero, e fu perciò sottoposto ad una prova, per potere, con l'aiuto della grazia, meritare il cielo. Questa prova consisteva nell'osservanza delle leggi divine e in particolare d'un precetto positivo aggiunto alla legge naturale, espresso dal Genesi sotto la forma di proibizione di mangiare il frutto dell'albero della scienza del bene e del male. La Scrittura narra come il demonio, sotto forma di serpente, venne a tentare i nostri progenitori, sollevando nell'anima loro un dubbio sulla legittimità di quella proibizione. Egli tenta di persuaderli che, mangiando di quel frutto, non solo non morranno, ma diventeranno come dei, e conosceranno da loro stessi il bene e il male senza aver bisogno di ricorrere alla legge divina: "eritis sicut dii, scientes bonum et malum" 67-2.
Era una tentazione d'orgoglio, e di ribellione a Dio. L'uomo soccombe e commette formalmente un peccato di disobbedienza, come nota S. Paolo

67-3, ma ispirato dall'orgoglio e presto seguito da altre debolezze. Fu una colpa grave, perchè fu il rifiuto di sottomettersi all'autorità di Dio, una specie di negazione del suo sovrano dominio e della sua sapienza, essendo quel precetto un mezzo per provare la fedeltà del primo uomo; colpa tanto più grave in quanto che i nostri progenitori conoscevano l'infinita liberalità di Dio verso di loro, i suoi imprescrittibili diritti, la gravità del precetto manifestata dalla gravità della sanzione che vi era annessa, e perchè, non essendo trascinati dall'impetuosità delle passioni, avevano il tempo di riflettere sulle formidabili conseguenze del loro atto.

68. Si fece pur questione come mai poterono essi peccare, non essendo soggetti agli allettamenti della concupiscenza. Per intenderlo, bisogna ricordarsi che nessuna creatura libera è impeccabile; ella può infatti deviar lo sguardo dal vero bene per volgerlo al bene apparente, attaccarsi a quest'ultimo e preferirlo al primo; questa preferenza costituisce appunto il peccato. Solo colui, come fa notare S. Tommaso, è impeccabile, la cui volontà si confonde con la legge morale: il che è privilegio di Dio.


II. Il castigo.


69. Il castigo non si fece aspettare, castigo loro e castigo della posterità.
A) Il castigo dei nostri progenitori viene descritto nel Genesi; ma anche qui si palesa la bontà di Dio: Dio avrebbe potuto applicare immediatamente la pena di morte ai nostri progenitori e per misericordia non lo fece. Si contentò di privarli dei privilegi speciali che avea loro conferiti, cioè del dono d'integrità e della grazia abituale; conservando quindi la loro natura e i loro privilegi naturali. La loro volontà è certamente indebolita se si paragona a quello che era col dono dell'integrità; ma non è provato che sia ora più debole di quel che sarebbe stata nello stato di natura; in ogni caso resta pur sempre libera e può scegliere tra il bene e il male. Dio volle anzi lasciar loro anche la fede e la speranza e fece subito risplendere ai disanimati loro sguardi la promessa di un liberatore, nato dalla stirpe umana, che un giorno avrebbe trionfato del demonio e restaurato l'uomo decaduto. Nello stesso tempo con la grazie attuale sollecitava i loro cuori al pentimento, e venne il momento in cui il loro peccato fu perdonato.

70. B) Ma che cosa diverrà l'umana stirpe che nascerà dalla loro unione? Sarà lei pure, nascendo, privata della giustizia originale, cioè della grazia santificante e del dono dell'integrità. Questi doni intieramente gratuiti, che erano, per così dire, un bene di famiglia, non dovevano trasmettersi alla posterità d'Adamo se egli non rimaneva fedele a Dio; ora questa condizione non essendo stata osservata, l'uomo nasce privo della giustizia originale. Quando Adamo, fatta penitenza, ebbe ricuperato la grazia, la ricuperò come persona privata e per conto suo particolare; e non potè quindi trasmetterla alla posterità. Era riserbato al Messia, al novello Adamo, divenuto ormai capo della schiatta umana, l'espiare le nostre colpe e l'istituire il sacramento della rigenerazione per trasmettere ad ogni battezzato la grazia perduta da Adamo.


71. I figli d'Adamo nascono dunque privi della giustizia originale, cioè della grazia santificante e del dono dell'integrità. La privazione di questa grazia costituisce ciò che si chiama peccato originale, peccato in un senso largo che non include alcun atto colpevole da parte nostra, ma uno stato di decadenza, e, tenendo conto del fine soprannatrale a cio restiamo destinati, una privazione, la mancanza d'una qualità essenziale che dovremmo possedere e quindi una macchia, una sozzura morale che ci esclude dal regno dei cieli.


72. E poichè il dono dell'integrità è anch'esso perduto, la concupiscenza infierisce in noi, e se non vi resistiamo coraggiosamente, ci trascina verso il peccato attuale. Noi siamo dunque, rispetto allo stato primitivo, diminuiti e feriti, soggetti all'ignoranza, inclinati al male, deboli per resistere alle tentazioni.
L'esperienza mostra che la concupiscenza non è uguale in tutti gli uomini; infatti non tutti hanno lo stesso temperamento e lo stesso carattere nè quindi le passioni ugualmente ardenti; scomparso il freno della giustizia originale che le signoreggiava, le passioni, riprendendo la loro libertà, sono diventate più violente negli uni, più temperate negli altri, come spiega S. Tommaso 72-1.
73. Si deve andare più oltre e ammettere, con la scuola Agostiniana, una certa diminuzione intrinseca delle nostre facoltà e delle nostre naturali energie? Non è necessario e niente lo prova.
Si deve ammettere, con certo Tomisti, una diminuzione estrinseca delle nostre energie, nel senso che abbiamo ora più ostacoli da vincere, in particolare la tirannia esercitata dal demonio su noi suoi vinti, e la sottrazione di certi soccorsi naturali che Dio ci avrebbe largiti nello stato di natura pura? È cosa possibile, anzi molto probabile; ma per essere giusti, bisogna aggiungere che questi ostacoli sono abbondantemente compensati dalle grazie attuali che il Signore ci dà per i meriti del suo Figlio, e dalla protezione degli angeli buoni, specialmente dei nostri angeli custodi.


74. Conclusione. Ciò che si può dire è che, per il peccato originale, l'uomo perdette il bell'equilibrio datogli da Dio, e che egli è, rispetto allo stato primitivo, un ferito ed uno squilibrato, come appare dallo stato attuale delle nostre facoltà.
A) Appare innanzi tutto nelle nostre facoltà sensitive: a) I nostri sensi esterni, i nostri sguardi, per esempio, si volgono con avidità verso ciò che lusinga la curiosità, le orecchie ascoltano con premura tutto ciò che soddisfa il nostro desiderio di conoscere novità, il nostro tatto tende alle sensazioni piacevoli, senza curarsi delle regole della morale. b) Lo stesso avviene dei nostri sensi interni: l'immaginazione ci rappresenta ogni sorta di scene più o meno sensuali, le nostre passioni ci trasportano con ardore, ed anche con violenza, verso il bene sensibile o sensuale senza darsi pensiero del suo lato morale, e tentano di trar seco il consenso della volontà. Queste tendenze non sono certamente irresistibili, perchè tali facoltà restano, fino a un certo punto, sottomesse al dominio della volontà; ma quale tattica e quanti sforzi per tenere a posto questi sudditi ribelli?


75. B) Le facoltà intellettuali, che costituiscono l'uomo propriamente detto, l'intelletto e la volontà, furono anch'esse colpite dal peccato originale. a) È vero che la nostra intelligenza resta capace di conoscere la verità, e col paziente lavoro acquista, anche senza il soccorso della rivelazione, la cognizione d'un certo numero di verità fondamentali d'ordine naturale. Ma quante debolezze umilianti! 1) Invece di tendere spontaneamente verso Dio e le cose divine; invece di elevarsi dalle creature al Creatore, come avrebbe fatto nello stato primitivo, essa tende ad assorbirsi nello studio delle cose create senza risalire alla loro causa; a concentrare la sua attenzione su ciò che soddisfa la sua curiosità ed a trascurare ciò che si riferisce al suo fine; la premura delle cose temporali le impedisce spesso di pensare all'eternità. 2) E quanta facilità a cadere nell'errore! I numerosi pregiudizi a cui siamo inclinati, le passioni che ci agitano l'anima e gettano un velo tra lei e la verità, ci traviano ahimè! troppo spesso anche nelle questioni più vitali, da cui dipende la direzione della nostra vita morale. b) La nostra stessa volontà, in cambio di assoggettarsi a Dio, ha delle pretese d'indipendenza; sente difficoltà a sottomettersi a Dio e specialmente ai suoi rappresentanti sulla terra. Quando si tratta di vincere le difficoltà che s'oppongono alla pratica del bene, quanta debolezza e quanta incostanza nello sforzo! E quante volte si lascia trascinare dal sentimento e dalla passione! S. Paolo descrisse con efficaci accenti questa deplorevole debolezza: "Io non faccio il bene che voglio e faccio il male che non voglio... Poichè mi diletto nella legge di Dio secondo l'uomo interiore; ma veggo nelle mie membra un'altra legge che si oppone alla legge della mia mente e mi fa schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie a Dio per Gesù Cristo Signor nostro" 75-1. Dunque, per dichiarazione dell'Apostolo, il rimedio a questo stato miserando sta nella grazia della redenzione, della quale ci resta ora a trattare.


ART. IV. LA REDENZIONE E I SUOI EFFETTI.76-1

76. La redenzione è un'opera meravigliosa, è il capolavoro di Dio, che rifà l'uomo sfigurato dal peccato e lo rimette, in un certo senso, in uno stato migliore di quello che precedette la sua caduta, tanto che la Chiesa non teme, nella sua liturgia, di benedire la colpa che ci meritò un Redentore quale l'Uomo-Dio: "O felix culpa quæ talem ac tantum meruit habere Redemptorem!"


I. Sua natura.

77. Dio, che da tutta l'eternità aveva previsto la caduta dell'uomo, volle anche da tutta l'eternità preparare agli uomini un Redentore nella persona del suo Figlio; il quale risolvette di farsi uomo, per potere, divenuto capo dell'umanità, espiare in modo perfetto il nostro peccato e restituirci, con la grazia, tutti i nostri diritti al cielo. Dio seppe così cavare il bene dal male e conciliare i diritti della sua giustizia con quelli della sua bontà.
Egli non era certamente obbligato ad esercitar pienamente tutti i diritti della sua giustizia e avrebbe potuto perdonare l'uomo, contentandosi della riparazione imperfetta che questi gli avrebbe potuto offrire. Ma giudicò cosa più degna della sua gloria e più utile all'uomo il por lui in istato di riparare interamente la sua colpa.


78. A) La giustizia perfetta chiedeva una riparazione adeguata, uguale all'offesa, offerta da un rappresentante legittimo dell'umanità. E questo fece Dio perfettamente con l'Incarnazione e con la Redenzione.

a) Dio incarna il suo Figlio e ne fa con ciò stesso il capo dell'umanità, la testa d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra; questo Figlio ha quindi il diritto d'agire in nome dei suoi membri e di riparare in nome loro.

b) Questa riparazione non è solamente uguale all'offesa ma la supera di molto; ha infatti un valore morale infinito; perchè, provenendo il valore morale d'un'azione anzitutto dalla dignità della persona, tutte le azioni dell'Uomo-Dio hanno un valore infinito. Un solo quindi dei suoi atti sarebbe bastato a riparare in modo adeguato tutti i peccati degli uomini. Ora Gesù fece atti innumerevoli di riparazione ispirati dal più puro amore; e li coronò coll'atto più sublime e più eroico, l'immolazione totale di se stesso nella dolorosa sua passione e sul Calvario; egli ha dunque soddisfatto abbondantemente e sovrabbondantemente: "Ubi abundavit delictum, superabundavit gratia"


78-1.
c) Questa riparazione è dello stesso genere della colpa: Adamo aveva peccato per disobbedienza e per orgoglio; Gesù espia con l'umile obbedienza ispirata dall'amore, che giunge fino alla morte e morte di croce, "factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis" 78-2. E come una donna era intervenuta nella caduta per trarre al male Adamo, così una donna interviene nella redenzione col suo potere d'intercessione e coi suoi meriti 78-3; è Maria, la Vergine Immacolata, la madre del Salvatore, che coopera con lui, sebbene in modo secondario, all'opera riparatrice.
Così resta pienamente soddisfatta la giustizia, e anche più lo sarà la bontà.

79. B) Infatti la S. Scrittura attribuisce la redenzione all'infinita misericordia di Dio e all'amore eccessivo che ci porta: "Dio, dice S. Paolo, che è ricco in misericordia, per la eccessiva carità con cui ci amò... ci convivificò in Cristo: Deus qui dives est in misericordia propter nimiam caritatem qua dilexit nos... convivificavit nos in Christo"79-1.
Le tre persone divine vi concorrono a gara e ognuna con un amore che sembra veramente andare all'eccesso.

a) Il Padre ha un sol Figlio, a lui uguale, che ama come un altro se stesso e da cui è infinitamente riamato; or questo figlio unico egli lo dà, lo sacrifica per noi, per renderci la vita perduta col peccato: "Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret, ut omnis qui credit in eum non pereat, sed habeat vitam æternam 79-2. Poteva essere più generoso e darci più di suo Figlio? Con Lui, del resto, non ci ha forse dato tutto? "Qui etiam proprio Filio non pepercit, sed pro nobis tradidit illum, quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit"? 79-3

80. b) Il Figlio lietamente e generosamente accetta la missione affidatagli; fin dal primo istante dell'Incarnazione, si offre al Padre come vittima per sostituire tutti i sacrifizi dell'antica legge, e l'intiera sua vita non sarà che un lungo sacrifizio coronato dall'Immolazione del Calvario; sacrifizio ispirato dall'amore che ha per noi: "(Christus) dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis oblationem et hostiam Deo" 80-1; "Cristo ci amò e diede per noi se stesso a Dio, oblazione e ostia di soave odore".

81. c) A perfezionare l'opera sua, egli ci manda lo Spirito Santo, amore sostanziale del Padre e del Figlio, che, non contento di infondere nelle anime nostre la grazia e le virtù infuse, specialmente la divina carità, dà se stesso a noi, perchè possiamo godere non solo della sua presenza e dei suoi doni, ma anche della sua persona: "La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato: Caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis" 81-1.

La redenzione è dunque davvero l'opera d'amore per eccellenza, il che ce ne fà già presagire gli effetti.

II. Gli effetti della Redenzione.

82. Non pago di riparare, con la sua soddisfazione, l'offesa fatta a Dio e di riconciliarci con lui, Gesù ci merita tutte le grazie che avevamo perduto col peccato ed altre ancora.
Ci restituisce anzitutto i beni soprannaturali perduti col peccato: a) la grazia abituale col corteggio delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo; e, per meglio adattarsi alla natura umana, istituisce i sacramenti, segni sensibili che ci conferiscono la grazia in tutte le circostanze importanti della vita e ci danno così maggior sicurezza e confidenza; b) grazie attuali copiosissime, che abbiamo diritto di pensare anche più abbondanti che nello stato d'innocenza, fondandoci sulla parola di S. Paolo: "ubi autem abundavit delictum, superabundavit gratia" 82-1.

83. c) È però vero che il dono dell'integrità non ci è restituito immediatamente ma progressivamente. La grazia della rigenerazione ci lascia alle prese con la triplice concupiscenza e con tutte le miserie della vita, ma ci dà la forza necessaria per trionfarne, ci rende più umili, più vigilanti e più attivi per prevenire e vincere le tentazioni, ci rassoda quindi nella virtù e ci dà occasione d'acquistare maggiori meriti. Mettendoci sott'occhio gli esempi di Gesù, che portò così valorosamente la croce sua e la nostra, stimola il nostro ardore e sostiene la nostra costanza nello sforzo; e le grazie attuali che egli ci meritò e ci largisce con una santa prodigalità, facilitano mirabilmente i nostri sforzi e le nostre vittorie. A mano a mano che lottiamo, sotto la guida e con l'aiuto del Maestro, la concupiscenza diminuisce, la nostra forza di resistenza aumenta, e viene il momento in cui certe anime privilegiate sono talmente rassodate nella virtù che, pur rimanendo libere di peccare, non commettono più alcun peccato veniale deliberato. La vittoria definitiva non si ha che con la nostra entrata nel cielo; ma sarà tanto più gloriosa quanto maggiori saranno stati gli sforzi al cui prezzo essa venne comprata. Non possiamo dunque dire: O felix culpa?

84. d) A questi aiuti interni Nostro Signore ne aggiunge degli esterni, specialmente quella Chiesa visibile da lui fondata e ordinata a illuminare le nostre menti con la sua autorità dottrinale, reggere le nostre volontà col suo potere legislativo e giudiziario, e santificare le nostre anime coi sacramenti, coi sacramentali e colle indulgenza. Or non è questo un aiuto immenso di cui dobbiamo ringraziare Dio? O felix culpa!


85. e) Finalmente non è certo che il Verbo si sarebbe incarnato senza il peccato originale. Ora l'Incarnazione è un bene così prezioso, che basta da solo a giustificare e spiegare il canto della Chiesa: "O felix culpa!"
In cambio d'un capo ornato certamente di belle doti, ma debole e peccabile, noi abbiamo per nostro capo il Figlio eterno di Dio, il quale, essendoso rivestito della nostra natura, è tanto vero uomo come è vero Dio. Egli è il mediatore ideale, mediatore così di religione come di redenzione, che adora il Padre non solo a nome suo, ma anche a nome dell'intiera umanità, anzi a nome pure degli Angeli che sono lieti di glorificare Dio per mezzo di Lui "per quem laudant Angeli" 85-1.
Egli è il sacerdote perfetto, che per la sua natura divina ha libero accesso presso Dio e che si china con compassione verso gli uomini, divenuti suoi fratelli, e li tratta con indulgenza, essendo egli stesso circondato di debolezza: "qui condolere possit iis qui ignorant et errant, quoniam et ipse circumdatus est infirmitate" 85-2.
Con lui e per lui noi possiamo rendere a Dio gli omaggi infiniti a cui ha diritto; con lui e per lui noi possiamo ottenere tutte le grazie che sono necessarie a noi e ai nostri fratelli: quando noi adoriamo, è lui che adora in noi e per noi; quando noi domandiamo soccorsi, è lui che appoggia le nostre suppliche; ecco perchè tutti ciò che chiediamo al Padre in nome suo ci viene liberalmente concesso.
Dobbiamo dunque rallegrarci d'avere un tal redentore e un tal mediatore, e riporre in lui una illimitata confidenza.


CONCLUSIONE.
86. Questo sguardo storico fa mirabilmente risaltare l'eccellenza della sua vita spirituale come pure la grandezza e la debolezza di colui che la riceve.

1° Eccellente è davvero questa vita perchè:
a) Procede da un pensiero affettuoso di Dio, che da tutta l'eternità ci amò e ci volle unire a sè nella più dolce intimità: "In caritate perpetuâ dilexi te; ideo attraxi te miserans" 86-1: "Io t'ho amato d'amore costante e perciò ti trassi a me".
b) È una partecipazione reale, benchè finita, della natura e della vita di Dio, "divinæ consortes naturæ". (Vedi il n. 106).
c) È così altamente stimata da Dio che, per restituircela, il Padre sacrificò l'unico suo Figlio e Questi intieramente s'immola e lo Spirito Santo viene nell'anima nostra per comunicarcela.
È quindi il bene più prezioso di tutti "maxima et pretiosa nobis promissa donavit" 86-2, che noi dobbiamo stimare sopra ogni altra cosa, custodire e coltivare con gelosissima cura: tanti valet quanti Deus!"

87. 2° Eppure portiamo questo tesoro in un vaso fragile. Se i nostri progenitori, dotati del dono dell'integrità e circondati da ogni sorta di privilegi, sventuratamente lo perdettero per sè e per i loro discendenti, che cosa non abbiamo da temere noi che, non ostante la nostra rigenerazione spirituale, portiamo dentro la triplice concupiscenza? Vi sono certo in noi nobili e generose tendenze, che provengono da ciò che vi è di buono nella nostra natura e principalmente dalla nostra incorporazione a Cristo; energie soprannaturali che ci sono date per i suoi meriti; ma pure rimaniamo deboli ed incostanti, 87-1 se cessiamo d'appoggiarci su colui che è il nostro braccio destro e insieme il nostro capo; il segreto della nostra forza non sta in noi ma in Dio e in Gesù Cristo. La storia dei nostri progenitori e della lacrimevole loro caduta ci mostra che il più gran male, il solo male su questa terra, è il peccato; che dobbiamo quindi stare assiduamente vigilanti per respingere immediatamente ed energicamente i primi assalti del nemico, da qualunque parte egli venga, dal di dentro o dal di fuori. Del resto noi siamo ben armati contro di lui, come verrà dimostrato nel secondo capitolo sulla natura della vita cristiana.


53-1 Oltre i trattati di filosofia, cf. C. de Smedt, Notre vie surnaturelle, 1912, Introduzione, p. 1-37; I. Schryvers, Les principes de la Vie spirituelle, 1922, p. 31.
54-1 A. Eymieu, Le gouvernement de soi-même, t. III, La loi de la vie, libro III, p. 128.
59-1 Per quest'articolo vedi la nostra Synopsis Theologiæ Dogmaticæ, t. II, n. 859-894 con gli autori indicati, particolarmente S. Tommaso, I, q. 93-102; P. Bainvel S. I., Nature et surnaturel, C. I-IV; L'Abbé de Broglie, Conférences sur la vie surnaturelle, t. II, p. 3-80; L. Labauche, Leçons de théol. dogmatique, t. II, L'Homme, P. I, c. I-II.
67-1 S. Tommaso IIª IIæ q. 163-165; de Malo q. 4; Bainvel, Nature et Surnaturel, c. VI-VII; A. de Broglie, op. cit., p. 133-346; L. Labauche, op. cit., Parte II, c. 1-5; Ad. Tanquerey, Syn. theol. dogm. t. II, n. 895-950.
67-2 Gen., III, 5.
67-3 Rom., V.
72-1 Summa theol., 1ª 2æ, q. 82, a. 4, ad 1.
75-1 Rom., VII, 19-25.
76-1 S. Tommaso, III, q. 46-49; Hugon, O. P., Le Mystère de la Rédemption; Bainvel, op. cit., c. VIII; J. Rivière, Le Dogme de la Rédemption, étude théologique, 1914; Ad. Tanquerey, Synopsis theol. dogm., t. II, n. 1119-1202; L. Labauche, Leç. de Théol., t. I, IIIe P.
78-1 Rom., V, 20.
78-2 Philip., II, 8.
78-3 Si tratta del merito di convenienza che si chiama de congruo, e che spiegheremo più avanti.
79-1 Ephes., II, 4.
79-2 Joan., III, 16.
79-3 Rom., VIII, 32.
80-1 Rom., V, 5.
81-1 Ephes., V, 2.
82-1 Rom., V, 20.
85-1 Prefazio della Messa.
85-2 Hebr., V, 2.
86-1 Jer., XXXI, 3.
86-2 II Petr., I, 4.
87-1 Questa grandezza e questa bassezza dell'uomo fu spesso descritta dai pensatori cristiani, specialmente da Pascal, Pensées, nn. 397-424, ed. Brunschwigg.

Ghergon
00martedì 22 aprile 2008 22:11
ADOLFO TANQUEREY
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica


PARTE PRIMA


I Principii


CAPITOLO II.


Natura della vita cristiana

88. Essendo la vita soprannaturale una partecipazione della vita di Dio per i meriti di Gesù Cristo, viene talora definita la vita di Dio in noi o la vita di Gesù in noi. Queste espressioni sono giuste, se si bada a spiegarle bene in modo da evitare ogni cenno di panteismo. Noi infatti non abbiamo una vita identica a quella di Dio o di Nostro Signore, ma una somiglianza di questa vita, una partecipazione finita, benchè reale, di questa vita.
Possiamo dunque definirla: una partecipazione della vita divina, conferita dallo Spirito Santo che abita in noi, in virtù dei meriti di Gesù Cristo, e che noi dobbiamo coltivare contro le tendenza che le si oppongono.

89. È chiaro quindi che la vita soprannaturale è una vita in cui Dio ha la parte principale e noi la parte secondaria. Dio, la terza persona della SS. Trinità (che si chiama anche Spirito Santo), viene personalmente a conferirci questa vita, perchè egli solo può farci partecipare alla sua stessa vita. Ce la comunica per i meriti di Gesù Cristo (n. 78), che è causa meritoria, esemplare e vitale della nostra santificazione. È quindi vero che Dio vive in noi, che Gesù vive in noi; ma la nostra vita spirituale non è identica a quella di Dio o a quella di Nostro Signore; ne è distinta ed è solo simile all'una e all'altra. La vita nostra consiste nell'utilizzare i doni divini per vivere in Dio e per Dio, per vivere in unione con Gesù e imitarlo; e poichè resta in noi la triplice concupiscenza, noi non possiamo vivere che a patto di accanitamente combatterla; e avendoci inoltre Dio dotati d'un organismo soprannaturale, noi dobbiamo farlo crescere con gli atti meritorii e con la fervorosa frequenza dei sacramenti.
È questo il senso della definizione che abbiamo data; l'intiero capitolo non ne sarà che la spiegazione e lo svolgimento e ci darà modo di trarre delle conclusioni pratiche sulla devozione alla SS. Trinità, sulla devozione e sull'unione al Verbo Incarnato, ed anche sulla devozione alla S. Vergine ed ai Santi che discende dalle loro relazioni col Verbo Incarnato.
Benchè l'azione di Dio e l'azione dell'anima si svolgano parallelamente nella vita cristiana, noi, per maggior chiarezza, tratteremo in due distinti articoli della parte di Dio e della parte dell'uomo.

Dio opera in noi

1° Per sè stesso
Abita in noi: donde la devozione alla SS. Trinità.
Ci dota d'un organismo soprannaturale.

2° Per mezzo del Verbo Incarnato che è principalmente
Causa meritoria della nostra vita.
Causa esemplare della nostra vita.
Causa vitale della nostra vita.
Donde la devozione al Verbo Incarnato.

3° Per mezzo di Maria che è secondariamente
Causa meritoria della nostra vita.
Causa esemplare della nostra vita.
Causa distributrice delle grazie.
Donde la devozione a Maria.


4° Per mezzo dei Santi e degli Angeli
Immagini viventi di Dio: venerarli.
Intercessori: invocarli.
Modelli: imitarli.

Noi viviamo e operiamo per Dio

1° Lottando contro
la concupiscenza.
il mondo.
il demonio.


2° Santificando le nostre azioni.
Loro triplice valore.
Condizioni del merito.

Mezzi per rendere i nostri atti più meritorii.

3° Ricevendo degnamente i Sacramenti
La grazia sacramentale.
La grazia speciale
della Penitenza.
dell'Eucarestia.


ART. I. DELLA PARTE DI DIO NELLA VITA CRISTIANA.


Dio opera in noi sia per se stesso, sia per mezzo della SS. Vergine, degli Angeli e dei Santi.

§ I. Della parte della SS. Trinità.
90. Il primo principio, la causa efficiente principale e la causa esemplare della vita soprannaturale in noi è la SS. Trinità, o, per appropriazione, lo Spirito Santo. Perchè la vita della grazia, benchè sia opera comune delle tre divine persone, essendo opera ad extra, si attribuisce specialmente allo Spirito Santo, come opera d'amore.
Ora questa adorabile Trinità contribuisce alla nostra santificazione in due modi: col venire ad abitare nell'anima nostra e col produrre un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l'anima, la abilita a fare atti deiformi.
I. L'abitazione dello Spirito Santo nell'anima 90-1

91. Essendo la vita cristiana una partecipazione della vita stessa di Dio, è evidente che egli solo la può conferire. E la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi intieramente a noi, affinchè possiamo rendergli i nostri ossequi, godere della sua presenza e lasciarci da lui docilmente guidare a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo 90-2: è ciò che i teologi chiamano grazia increata. Vedremo:

1° in che modo le tre divine persone vivono in noi;
2° come dobbiamo diportarci verso di loro.
1° IN CHE MODO LE DIVINE PERSONE ABITANO IN NOI.

92. Dio, come dice S. Tommaso 92-1, abita naturalmente nelle creature in tre modi diversi: con la sua potenza, nel senso che tutte le creature stanno soggette al suo dominio; come la sua presenza, in quanto che vede tutto, anche i più segreti pensieri del nostro cuore "omnia nuda et aperta sunt oculis eius"; con la sua essenza, perchè opera dappertutto ed è dovunque la pienezza dell'essere e la causa prima di tutto ciò che è di reale nelle creature, comunicando loro continuamente non solo il moto e la vita ma lo stesso essere: "in ipso vivimus, movemur et sumus" 92-2.
Ma la sua presenza in noi per mezzo della grazia è di ordine molto superiore e più intimo. Non è soltanto la presenza del Creatore e del Conservatore che regge gli esseri da lui creati ma è la presenza della Santissima e Adorabilissima Trinità quale ci è rivelata dalla fede: il Padre viene in noi e vi continua a generare il Verbo; con lui riceviamo il Figlio, perfettamente uguale al Padre, sua immagine vivente e sostanziale, che non cessa di infinitamente amare il Padre come infinitamente ne è riamato; dal qual mutuo amore procede lo Spirito Santo, persona uguale al Padre e al Figlio, vincolo reciproco fra i due eppur distinto dall'uno e dall'altro. Quante meraviglie in un'anima in stato di grazia!
La particolarità di questa presenza è che Dio non solo è in noi, ma si dà a noi, perchè noi possiamo godere di lui. Secondo il linguaggio dei nostri Libri Sacri, possiamo dire che, per mezzo della grazia, Dio si dà a noi come padre, come amico, come collaboratore, come santificatore, e che così egli diviene veramente il principio stesso della nostra vita interiore, la sua causa efficiente ed esemplare.


93. A) Nell'ordine della natura Dio è in noi come creatore e sovrano padrone e noi non siamo che suoi servi, sua proprietà, cosa sua. Ma nell'ordine della grazia egli si dà a noi come nostro Padre, e noi siamo i suoi figli adottivi; mirabile privilegio che è il fondamento della nostra vita soprannaturale. Questo continuamente ripetono S. Paolo e S. Giovanni: "Non enim accepistis spiritum servitutis iterum in timore, sed accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus Abba (Pater). Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei 93-1". Dio dunque ci adotta per figli, ma in modo assai più perfetto che non facciano gli uomini con l'adozione legale. Questi possono bene trasmettere ai figli adottivi il nome e le sostanze, ma non il sangue e la vita. "L'adozione legale, dice con ragione il Cardinal Mercier, 93-2 è una finzione. Il figlio adottato viene considerato dai genitori adottivi come se fosse loro figlio e riceve da essi quell'eredità a cui avrebbe avuto diritto il frutto della loro unione; la società riconosce questa finzione e ne sancisce gli effetti; tuttavia l'oggetto della finzione non si trasforma in realtà... Ma la grazia dell'adozione divina non è una finzione... è una realtà. Dio largisce a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione, dice S. Giovanni: "Dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius" 93-3. E questa filiazione non è nominale ma effettiva: "Ut filii Dei nominemur et simus". Noi entriamo in possesso della natura divina, "divinæ consortes naturæ".


94. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una
partecipazione, "consortes", una somiglianza, un'assimilazione che fa di noi, non già degli dèi, ma degli esseri deiformi. Non è però men vero che essa non è una finzione ma una realtà, una vita nuova, non uguale ma simile a quella di Dio, e che, a detta della Sacra Scrittura, suppone una nuova generazione o rigenerazione: "Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto... per lavacrum regenerationis et renovationis Spiritus Sancti... regeneravit nos in spem vivam... voluntarie enim genuit nos verbo veritatis" 94-1. Tutte queste espressioni ci mostrano che la nostra adozione non è puramente nominale ma vera e reale, benchè molto bene distinta dalla filiazione del Verbo Incarnato. Ed è per questo che noi diventiamo di pieno diritto eredi del regno celeste, coeredi di Colui che è nostro fratello maggiore: "hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi... ut sit ipse primogenitus in multis fratribus" 94-2. O non è dunque il caso di ripetere le così soavi parole di S. Giovanni: "Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus?" 94-3.
Dio quindi avrà per noi la premura, la tenerezza d'un padre. Egli stesso si paragona a una madre che non potrà mai dimenticare il figlio: "Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filio uteri sui? Et si illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui 94-4". E l'ha ben dimostrato davvero, poichè, per salvare i figli decaduti, non esitò a dare e a sacrificare l'unico suo Figlio: "Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret, ut omnis qui credit in eum non pereat, sed habeat vitam æternam 94-5". Ed è questo stesso amore che lo spinge a darsi intieramente, fin d'ora e in modo abituale, ai figli adottivi, abitando nei loro cuori: "Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus 94-6". Egli abita dunque in noi come Padre amantissimo e premurosissimo.


95. B) Dio si dà pure a noi come amico. L'amicizia aggiunge alle relazioni di padre e di figlio una certa uguaglianza, "amicitia æquales accipit aut facit", una certa intimità, una scambievolezza d'affetto che porta seco le più dolci comunicazioni. Relazioni appunto di questo genere la grazia pone tra Dio e noi; è vero che quando si tratta di Dio e dell'uomo non si può parlare d'uguaglianza vera, ma solo d'una certa somiglianza che però basta a stabilire una vera intimità. Dio infatti ci apre i suoi secreti; ci parla non solo per mezzo della Chiesa, ma anche interiormente per mezzo del suo Spirito: "Ille vos docebit omnia et suggeret vobis omnia quæcumque dixero vobis 95-1". Quindi è che nell'ultima cena Gesù dichiara agli Apostoli che ormai non saranno più servi ma amici, perchè egli non avrà più segreti per loro: "Iam non dicam vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus eius; vos autem dixi amicos, quia omnia quæcumque audivi a Patre meo, nota feci vobis 95-2". Sarà quindi una dolce familiarità quella che governerà ormai le loro relazioni, la familiarità che corre tra amici che siedono alla stessa mensa: Ecco che io sto alla porta e picchio; se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me: "Ecce sto ad ostium et pulso; si quis audierit vocem meam et aperuerit mihi januam, intrabo ad illum et cœnabo cum illo, et ipse mecum 95-3". Mirabile intimità a cui noi non avremmo mai osato aspirare se l'Amico divino non si fosse fatto avanti lui per il primo. Eppure una tale intimità si è avverata e si avvera ogni giorno, non soltanto presso i santi, ma anche in quelle anime interiori che acconsentono ad aprire le porte dell'anima all'ospite divino. È ciò che ci attesta l'autore dell'Imitazione, quando descrive le frequenti visite dello Spirito Santo alle anime interiori, le sue dolci conversazioni con loro, le consolazioni e le carezze di cui le colma, la pace che fa regnare in loro, la stupenda familiarità con cui le tratta: "Frequens illi visitatio cum homine interno, dulcis sermocinatio, grata consolatio, multa pax, familiaritas stupenda nimis 95-4". Del resto la vita dei mistici contemporanei, di Santa Teresa del Bambin Gesù, di Suor Elisabetta della Trinità, di Gemma Galgani e di tanti altri, ci prova che le parole dell'Imitazione si avverano tutti i giorni. È dunque vero che Dio vive in noi come un intimo amico.


96. C) Nè vi resta ozioso ma vi opera come il più potente dei collaboratori. Sapendo bene che non possiamo coltivare da noi quella vita soprannaturale che pone in noi, egli supplisce alla nostra impotenza, collaborando con noi per mezzo della grazia attuale. Abbiamo bisogno di luce per afferrare le verità della fede che dovranno ormai guidare i nostri passi? Verrà lui, che è il Padre dei lumi, a illuminare il nostro intelletto sul nostro ultimo fine e sui mezzi per conseguirlo, e ci suggerirà buoni pensieri ispiratori di buone opere. Abbiamo bisogno di forza onde voler sinceramente dirigere la nostra vita verso il nostro fine, volerlo energicamente e costantemente? Ed egli ci darà quel concorso soprannaturale che ci abilita a volere e ad eseguire le nostre risoluzioni, "operatur in vobis et velle et perficere 96-1". Se si tratta di combattere le nostre passioni o di disciplinarle, di vincere le tentazioni che talora ci assediano, egli pure ci darà la forza di resistervi e di trarne profitto per rassodarci nella virtù: "Fidelis est Deus qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam cum tentatione proventum 96-2". Quando, stanchi di fare il bene, ci sentiremo tratti allo scoraggiamento e alla fiacchezza, egli ci si avvicinerà per sorreggerci e assicurare la nostra perseveranza; Colui che in voi cominciò l'opera della vostra santificazione, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù; "qui cœpit in vobis opus bonum, ipse perficiet usque in diem Christi Jesu 96-3". Insomma, noi non saremo mai soli, anche quando, privi di consolazione, ci crederemo abbandonati; la grazia di Dio sarà sempre con noi a patto che noi acconsentiamo a lavorar con lei: "Gratia eius in me vacua non fuit, sed abundantius illis omnibus laboravi: non ego autem, sed gratia Dei mecum 96-4..." Appoggiato su questo onnipotente collaboratore, saremo invincibili, perchè tutto noi possiamo in colui che ci conforta: "Omnia possum in eo qui me confortat 96-5".


97. D) Questo collaboratore è nello stesso tempo un santificatore: venendo ad abitare nell'anima nostra, la trasforma in un tempio santo ornato di tutte le virtù: "Templum Dei sanctum est: quod estis vos 97-1". Il Dio infatti che viene in noi colla grazia, non è il Dio della natura, ma il Dio vivente, la SS. Trinità, sorgente infinita di vita divina, e che altro non chiede che farci partecipare alla sua santità; è vero che talora questa abitazione è attribuita, per appropriazione, allo Spirito Santo, perchè è opera d'amore; ma, essendo operazione ad extra, è comune alle tre persone divine. Ecco perchè S. Paolo ci chiama indifferentemente tempii di Dio e tempii dello Spirito Santo: "Nescitis quia templum Dei estis et Spiritus Dei habitat in vobis? 97-2".
L'anima nostra diviene dunque tempio del Dio vivente, un sacro recinto riservato a Dio, un trono di misericordia donde si compiace di distribuire i suoi favori celesti e che egli adorna di tutte le virtù. Descriveremo presto l'organismo soprannaturale di cui ci dota. Ma è evidente che la presenza in noi del Dio tre volte santo, quale abbiamo descritta, non può essere che santificante, e che l'Adorabile Trinità che vive e opera in noi diviene veramente il principio della nostra santificazione, la sorgente della nostra vita interiore. E ne è pure la causa esemplare, poichè, essendo figli di Dio per adozione, dobbiamo imitare il Padre. Il che del resto intenderemo meglio spiegando come dobbiamo diportarci verso le tre divine persone che abitano in noi.

2° I NOSTRI DOVERI VERSO LA SS. TRINITÀ CHE VIVE IN NOI.
98. Possedendo un tesoro così prezioso come la SS. Trinità, bisogna pensarvi spesso "ambulare cum Deo intus". Or questo pensiero fa nascere tre principali sentimenti: l'adorazione, l'amore, l'imitazione 98-1.

99. A) Il primo sentimento che scaturisce come spontaneamente dal cuore è quello dell'adorazione: "Glorificate et portate Deum in corpore vestro 99-1". Come, infatti, non benedire, glorificare, ringraziare quest'ospite divino che trasforma l'anima nostra in un vero santuario? Dopochè Maria ebbe ricevuto nel casto suo seno il Verbo Incarnato, la sua vita non fu più che un perpetuo atto d'adorazione e di riconoscenza: "Magnificat anima mea Dominum... fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus"; e tali pure sono i sentimenti, benchè in grado minore, di un'anima che prende coscienza dell'abitazione dello Spirito Santo in lei: capisce che, essendo tempio di Dio, deve incessantemente offrirsi come ostia di lode alla gloria delle tre divine persone. a) Al principio delle proprie azioni, facendo il segno di croce in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, consacra loro ogni sua opera; terminandole, riconosce che tutto il bene da lei fatto si deve ad esse attribuire: Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. b) Ama ripetere quelle preghiere liturgiche che ne celebrano le lodi: il Gloria in excelsis Deo, che esprime così bene tutti i sentimenti di religione verso le divine persone e specialmente verso il Verbo Incarnato; il Sanctus, che proclama la santità divina; il Te Deum, che è l'inno della riconoscenza. c) Alla presenza di quest'ospite divino, molto amorevole senza dubbio ma che non cessa d'essere Dio, riconosce umilmente l'intiera sua dipendenza da Colui che è il suo primo principio e il suo ultimo fine; la sua incapacità a lodarlo come egli si merita, e in questo sentimento si unisce allo Spirito di Gesù che solo può rendere a Dio quella gloria a cui ha diritto: "Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perchè noi non sappiamo ciò che dobbiamo chiedere nelle nostre preghiere, secondo i nostri bisogni; ma lo Spirito prega egli stesso per noi con gemiti inenarrabili; "Spiritus adiuvat infirmitatem nostram; nam quid oremus sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus 99-2".

100. B) Dopo avere adorato Dio e proclamato il proprio nulla, l'anima si abbandona ai sentimenti del più confidente amore. Per quanto sia infinito pur Dio si abbassa a noi, come il padre più amoroso verso il proprio figlio, e c'invita ad amarlo e a dargli il cuore: "Præbe, fili, cor tuum mihi 100-1"; questo amore egli potrebbe esigerlo imperiosamente ma preferisce chiederlo dolcemente, affettuosamente, perchè vi sia, a così dire, più spontaneità nella nostra risposta, più abbandono filiale nel nostro ricorso a lui. E come non rispondere con confidente amore a tanti e sì delicati riguardi, a tante così materne sollecitudini? Sarà un amore penitente, per espiare le nostre troppo numerose infedeltà passate e presenti; un amore riconoscente, per ringraziare quest'insigne benefattore, questo collaboratore premuroso che lavora l'anima nostra con tanta assiduità; ma principalmente un amore d'amicizia, che ci farà conversare dolcemente col più fedele e più generoso degli amici, ci farà caldeggiare tutti i suoi interessi, procurarne la gloria e farne benedire il santo nome. Non sarà quindi un semplice sentimento affettuoso, ma un amore generoso, che va fino al sacrifizio, all'oblio di sè, alla rinunzia della propria volontà, per sottomettersi ai precetti e ai consigli divini.

101. C) Quest'amore ci condurrà dunque all'imitazione dell'adorabile Trinità in quel grado che è compatibile con l'umana debolezza. Figli adottivi d'un Padre tre volte santo, tempii viventi dello Spirito Santo, intendiamo meglio la necessità di rispettare il nostro corpo e la nostra anima. Tale era la conclusione che l'Apostolo inculcava ai discepoli: "Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà; poichè santo è il tempio di Dio che siete voi; Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Si quis autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei sanctum est quod estis vos 101-1". L'esperienza prova che per le anime generose non v'è motivo più potente di questo per allontanarle dal peccato ed eccitarle alla pratica delle virtù; infatti, non si deve forse purificare e ornare continuamente un tempio ove risiede il Dio tre volte santo? Del resto quando Nostro Signore volle proporci un ideale di perfezione, non andò a cercarlo fuori della SS. Trinità: "Siate perfetti, egli dice, come è perfetto il vostro Padre celeste: "Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester cælestis perfectus est 101-2". A prima vista, quest'ideale sembra troppo elevato; ma quando ci ricordiamo che siamo figli adottivi del Padre, e che egli vive in noi per imprimervi la sua immagine e collaborare alla nostra santificazione, capiamo bene che nobiltà obbliga e che abbiamo il dovere d'avvicinarci sempre più alle perfezioni divine. Specialmente per praticare la carità fraterna Gesù ci chiede di avere dinanzi agli occhi quel perfetto modello che è l'indivisibile unità delle tre divine persone: "Che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, e io in te, che siano anch'essi una cosa sola in noi; Ut omnes unum sint, sicut tu, Pater, in me et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint 101-3". Tenera preghiera, di cui san Paolo si faceva eco quando supplicava i cari discepoli di non dimenticare che, essendo un solo corpo e un solo spirito, non avendo che un solo ed unico Padre che abita in tutti i giusti, dovevano conservare l'unità dello spirito col vincolo della pace 101-4.
Riepilogando possiamo conchiudere che la vita cristiana consiste prima di tutto in una unione intima, affettuosa e santificante colle tre divine persone, che ci conserva nello spirito di religione, d'amore e di sacrifizio.
Ghergon
00venerdì 25 aprile 2008 21:26
II. Dell'organismo della vita cristiana 102-1.


102. Le tre divine persone che abitano nel santuario dell'anima nostra si dilettano di arricchirla di doni soprannaturali e ci comunicano una vita simile alla loro che si chiama la vita della grazia o vita deiforme.
Ora in ogni vita vi è un triplice elemento: un principio vitale che è, per così dire, la sorgente della vita; delle facoltà che fanno produrre operazioni vitali; e in fine degli atti, che ne sono l'espansione e contribuiscono al suo accrescimento. Nell'ordine soprannaturale, Dio, che vive in noi, produce nelle anime nostre questi tre elementi. a) Ci comunica dapprima la grazia abituale, che fa in noi l'ufficio di principio vitale soprannaturale102-2 e divinizza, a così dire, la sostanza stessa dell'anima nostra, rendendola atta, benchè remotamente, alla visione beatifica e agli atti che la preparano.

103. b) Da questa grazia sgorgano le virtù infuse103-1 e i doni dello Spirito Santo, che perfezionano le nostre facoltà e ci danno il potere immediato di fare atti deiformi, soprannaturali e meritorii.
c) Per mettere in moto queste facoltà, Dio ci concede le grazie attuali, che illuminano la nostra intelligenza, fortificano la nostra volontà, ci aiutano ad operare soprannaturalmente e ad aumentare così il capitale di grazia abituale che ci ha compartito.

104. Questa vita della grazia, benchè distinta dalla vita naturale, non è semplicemente a lei sovrapposta ma la compenetra tutta quanta, la trasforma e la divinizza. Si assimila tutto ciò che vi è di buono nella natura, nell'educazione e nelle abitudini acquisite; perfeziona e soprannaturalizza tutti questi elementi volgendoli verso l'ultimo fine, che è il possesso di Dio per mezzo della visione beatifica e dell'amore che l'accompagna.
Spetta a questa vita soprannaturale il dirigere la vita naturale, in virtù del principio generale già esposto al n. 54, che gli esseri inferiori sono subordinati agli esseri superiori 104-1. Non può durare nè svilupparsi se non a patto di dominare e serbare sotto la sua influenza gli atti dell'intelligenza, della volontà e delle altre facoltà; con ciò non distrugge nè diminuisce la natura, ma anzi la esalta e la perfeziona. Il che dimostreremo, studiandone per ordine i tre elementi.


1° DELLA GRAZIA ABITUALE. 105-1
105. Dio, volendo nell'infinita sua bontà elevarci a lui per quanto è permesso alla debole nostra natura, ci dà un principio vitale, soprannaturale deiforme: la grazia abituale, grazia che si chiama creata 105-2 per opposizione alla grazia increata che consiste nell'abitazione dello Spirito Santo in noi. Questa grazia ci rende simili a Dio e ci unisce strettissimamente a lui: "Est autem hæc deificatio, Deo quædem, quoad fieri potest, assimilatio unioque 105-3". Sono questi i due aspetti della grazia che esporremo, dandone la definizione tradizionale e determinando l'unione prodotta dalla grazia tra l'anima e Dio.

A) Definizione.

106. La grazia ordinariamente si definisce una qualità soprannaturale, inerente all'anima nostra, che ci fa partecipare in modo reale, formale, ma accidentale, alla vita divina.

a) È dunque una realtà di ordine soprannaturale ma non una sostanza, perchè nessuna sostanza creata può essere soprannaturale; è un modo d'essere, uno stato dell'anima, una qualità inerente alla sostanza dell'anima nostra, che la trasforma, la eleva sopra tutti gli esseri anche più perfetti; qualità permanente di sua natura, che sta in noi finchè non la scacciamo dall'anima nostra commettendo volontariamente un peccato mortale. "La grazie, dice il Card. Mercier106-1
appoggiandosi su Bossuet, è quella qualità spirituale che Gesù diffonde nelle anime nostre, che penetra nel più intimo della nostra sostanza, che s'imprime nel più secreto delle anime nostre, e che si spande (per mezzo delle virtù) in tutte le potenze e le facoltà dell'anima, che possiede interiormente l'anima e la rende pura e grata agli occhi di questo divin Salvatore, la fa suo Santuario, suo tempio, suo tabernacolo, insomma suo luogo di delizie."

107. b) Questa qualità ci rende, secondo l'energica espressione di S. Pietro, partecipi della natura divina, divinæ consortes naturæ; ci fa entrare, come dice S. Paolo, in comunione con lo Spirito Santo "communicatio Sancti Spiritus 107-1", in società col Padre e col Figlio, come aggiunge S. Giovanni 107-2. Non ci fa certamente uguali a Dio, ma esseri deiformi simili a lui; e ci dà, non la vita stessa di Dio che è essenzialmente incomunicabile, ma una vita simile alla sua. Il che ora spiegheremo, per quanto l'umana intelligenza vi può arrivare.

108. 1) La vita propria di Dio è di contemplare direttamente sè stesso e di infinitamente amarsi. Nessuna creatura, per quanto sia perfetta, può contemplare da se stessa l'essenza divina "che abita una luce inaccessibile, lucem inhabitat inaccessibilem" 108-1. Ma Dio, per un privilegio intieramente gratuito, chiama l'uomo a contemplare questa essenza divina nel cielo; ed essendone l'uomo incapace, ne eleva, ne dilata, ne fortifica l'intelligenza col lume della gloria. Allora, dice S. Giovanni, saremo simili a Dio, perchè lo vedremo come egli vede se stesso, o, che è lo stesso, come egli è in se: "Similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est 108-2". Lo vedremo, aggiunge S. Paolo, non più attraverso lo specchio delle creature, ma faccia a faccia, senza intermedio, senza nubi, con una fulgida chiarezza: "Nunc per speculum et in ænigmate, tunc autem facie ad faciem 108-3". Così parteciperemo, benchè in modo finito, alla vita stessa di Dio, poichè lo conosceremo come egli conosce se stesso e lo ameremo come egli ama se stesso. Il che spiegano i teologi dicendo che l'essenza divina verrà ad unirsi alla parte più intima dell'anima nostra e ci servirà di specie impressa, per renderci capaci di vederla senza alcuno intermedio creato, senza immagine alcuna.

109. 2) Ora la grazia abituale è già una preparazione alla visione beatifica e quasi un saggio di questo favore, prælibatio visionis beatificæ; è la gemma che già contiene il fiore, benchè questo non debba sbocciare che più tardi; è quindi dello stesso genere della visione beatifica e partecipa della sua natura.
Cerchiamo di spiegarci con un paragone, per quanto possa riuscire imperfetto. Io posso conoscere un artista in tre modi: dallo studio delle sue opere, -- dal ritratto che me ne fa un suo intimo amico -- o finalmente dalle relazioni dirette che io ho con lui. La prima di queste conoscenze di Dio, è quella che abbiamo dalla vista delle sue opere, conoscenza induttiva molto imperfetta, perchè le sue opere, pur manifestandoci la sua sapienza e la sua potenza, nulla ci dicono della sua vita interiore. La seconda risponde assai bene alla conoscenza che ce ne dà la fede: sulla testimonianza degli scrittori sacri e principalmente del Figlio di Dio, io credo tutto ciò che Dio si degnò di rivelarmi non solamente sulle sue opere e sui suoi attributi, ma anche sulla sua vita intima; io credo che da tutta l'eternità egli genera un Verbo che è suo Figlio, che ama e dal quale è riamato, e che da questo mutuo amore procede lo Spirito Santo. Certo io non capisco, e sopratutto io non vedo, ma io credo con incrollabile certezza, e questa fede mi fa partecipare in modo velato, oscuro, ma reale, alla conoscenza che Dio ha di sè stesso. Solo più tardi, per mezzo della visione beatifica, si avvererà il terzo modo di conoscenza; ma, com'è chiaro, il secondo è in sostanza della stessa natura di quest'ultimo, e certamente molto superiore alla conoscenza razionale.

110. c) Questa partecipazione della vita divina non è semplicemente virtuale ma formale. La partecipazione virtuale non ci fa possedere una data qualità che in un modo diverso da quello in cui si trova nella causa principale; così la ragione è una partecipazione solo virtuale dell'intelletto divino, perchè ci fa conoscere la verità, ma in un modo assai diverso dalla conoscenza che ne ha Dio. Non è così della visione beatifica, e, salve le proporzioni, della fede; queste ci fanno conoscere Dio some egli conosce se stesso, non certo nello stesso grado ma nello stesso modo.


111. d) Questa partecipazione non è sostanziale ma accidentale. Così essa si distingue dalla generazione del Verbo, che riceve tutta la sostanza del Padre; e dalla unione ipostatica, che è un'unione sostanziale della natura umana con la natura divina nell'unica persona del Verbo; noi conserviamo infatti la nostra personalità e la nostra unione con Dio non è sostanziale. Tale è la dottrina di S. Tommaso: 111-1 "Essendo la grazia molto superiore alla natura umana, non può essere nè una sostanza, nè la forma sostanziale dell'anima; non può esserne che la forma accidentale". E, per spiegare il suo pensiero, aggiunge che tutto ciò che è sostanzialmente in Dio ci vien dato accidentalmente e ci fa partecipare alla divina bontà: "Id enim quod substantialiter est in Deo, accidentaliter fit in anima participante divinam bonitatem, ut de scientia patet".
Con queste restrizioni si evita di cadere nel panteismo, e si ha nondimeno un'idea altissima della grazia, che ci apparisce come una divina somiglianza impressa da Dio nell'anima nostra: "faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram 111-2".


112. Per farci intendere questa divina somiglianza, i Padri usano diversi paragoni. 1) L'anima nostra, essi dicono, è una immagine vivente della Trinità, una specie di ritratto in miniatura, poichè lo Spirito Santo stesso viene ad imprimersi in noi come il sigillo sulla molle cera e vi lascia così la sua divina somiglianza 112-1. Ne concludono che l'anima in stato di grazia è d'una meravigliosa bellezza, poichè l'artista che vi dipinge questa immagine è infinitamente perfetto, non essendo altri che Dio stesso: "Pictus es ergo, o homo, et pictus es a Domino Deo tuo. Bonum habes artificem atque pictorem 112-2". E ne conchiudono pure con ragione che noi non solo non dobbiamo distruggere od offuscare questa immagine, ma anzi renderla ogni giorno più rassomigliante. -- Paragonano anche l'anima nostra a quei corpi trasparenti che, ricevendo la luce del sole, ne sono come penetrati e acquistano un incomparabile fulgore che diffondono poi tutto intorno a loro 112-3; così l'anima nostra, simile a un globo di cristallo illuminato dal sole, riceve la luce divina, risplende di vivo fulgore e lo riflette sugli oggetti circostanti.


113. 2) Per dimostrare che questa rassomiglianza non è cosa superficiale ma penetra nel più intimo dell'anima nostra, ricorrono al paragone del ferro e del fuoco. Come, dicono essi, una verga di ferro, immersa in un ardente braciere, acquista subito lo splendore, il calore e la pieghevolezza del fuoco, così l'anima nostra, immersa nella fornace del divino amore, si libera dalle scorie e diviene brillante, ardente e docile alle ispirazioni divine.


114. 3) Un autore contemporaneo, volendo esprimere l'idea che la grazia è una vita nuova, la paragona a un innesto divino fatto sul ramo salvatico della nostra natura e che si fonde coll'anima nostra per costituire un nuovo principio vitale e quindi una vita assai superiore. Però, come l'innesto non conferisce al ramo salvatico tutta la vita di quella natura onde è stato tolto ma soltanto questa o quella delle sue proprietà vitali, così la grazia santificante non ci dà tutta la natura di Dio ma qualche cosa della sua vita che costituisce per noi una nuova vita; noi quindi partecipiamo alla vita divina ma non la possediamo nella sua pienezza 114-1.
È chiaro che questa divina somiglianza prepara l'anima nostra ad una intimissima unione con l'adorabile Trinità che abita in lei.
B) Unione tra l'anima nostra e Dio.


115. Da ciò che abbiamo detto sull'abitazione della SS. Trinità nell'anima nostra (n. 92), risulta che tra noi e l'ospite divino corre un'unione morale intimissima e santificantissima.
Ma non c'è forse qualche cosa di più, qualche cosa di fisico 115-1 in quest'unione?


116. a) I paragoni usati dai Padri sembrerebbero indicarlo.
1) Un gran numero di essi ci dicono che l'unione di Dio coll'anima è simile a quella dell'anima col corpo: "In noi vi sono, dice S. Agostino, due vite, la vita del corpo e la vita dell'anima; la vita del corpo è l'anima, la vita dell'anima è Dio "sicut vita corporis anima, sic vita animæ Deus 116-1." È chiaro che si tratta solo di analogie; ma studiamoci di cavarne la verità che contengono. L'unione tra il corpo e l'anima è sostanziale, così che non formano più che una sola e medesima natura, una sola e medesima persona. Non è così dell'unione dell'anima con Dio: noi conserviamo sempre la nostra natura e la nostra personalità e restiamo quindi essenzialmente distinti dalla divinità. Ma, come l'anima dà al corpo la vita di cui gode, così Dio, senza essere forma dell'anima, le dà la vita soprannaturale, vita non uguale ma veramente e formalmente simile alla sua; e questa vita costituisce un'unione realissima tra l'anima e Dio. Suppone una realtà concreta che Dio ci comunica e che serve di vincolo unitivo tra lui e noi; questa nuova relazione non aggiunge certamente nulla a Dio, ma perfeziona l'anima nostra e la rende deiforme; lo Spirito Santo quindi diviene non causa formale, ma causa efficiente ed esemplare della nostra santificazione.


117. 2) Questa stessa verità si deduce dal paragone che alcuni autori 117-1 fanno tra l'unione ipostatica e l'unione dell'anima nostra con Dio. Vi è certamente tra le due una differenza essenziale: l'unione ipostatica è sostanziale e personale, perchè la natura divina e la natura umana, sebbene perfettamente distinte, non formano più in Gesù Cristo che una sola e medesima persona, mentre che l'unione dell'anima con Dio per mezzo della grazia, ci lascia la nostra personalità, essenzialmente distinta dalla personalità divina, e non ci unisce a Dio se non in modo accidentale: "Si compie infatti per mezzo della grazia santificante, che è un accidente aggiunto alla sostanza dell'anima; ora, in linguaggio scolastico, l'unione d'un accidente e d'una sostanza si chiama unione accidentale 117-2".
Ma rimane pur sempre vero che l'unione dell'anima con Dio è un'unione di sostanza a sostanza, 117-3 e che l'uomo e Dio vengono in contatto così intimo come il ferro e il fuoco che l'avvolge e lo penetra, come il cristallo e la luce. Per dir tutto in una parola, l'unione ipostatica fa un uomo-Dio, l'unione della grazia fa degli uomini divinizzati; e come le azioni di Cristo sono divino-umane o teandriche, così le azioni del giusto sono deiformi, fatte in comune da Dio e da noi, e per questo titolo meritorie della vita eterna, la quale non è altro che la unione immediata con la Divinità. Possiamo quindi dire col P. de Smedt, 117-4 "che l'unione ipostatica è il tipo della nostra unione con Dio per mezzo della grazia, e che questa ne è l'immagine più perfetta che una pura creatura possa riprodurre in sè".
Concludiamo collo stesso autore che l'unione della grazia non è puramente morale, ma contiene un elemento fisico che ci permette di chiamarla fisico-morale: "La natura divina è veramente nel suo essere stesso unita alla sostanza dell'anima per mezzo di un vincolo speciale, per modo che l'anima giusta possiede in sè la natura divina come cosa che le appartiene, e quindi possiede un carattere divino, una perfezione d'ordine divino, una bellezza divina, infinitamente superiore a tutto ciò che può esservi di perfezione naturale in una creatura qualsiasi reale o possibile 117-5.


118. b) Se, lasciando da parte i paragoni, studiamo il lato dottrinale della questione, arriviamo alla stessa conclusione.

1) In cielo, gli eletti vedono Dio faccia a faccia, senza alcun intermedio; la stessa essenza divina fa l'ufficio di specie impressa: "in visione qua Deus per essentiam videbitur, ipsa divina essentia erit quasi forma intellectus qua intelliget 118-1". Vi è dunque tra essi e la Divinità un'unione vera, reale, che si può chiamare fisica, perchè Dio non può essere visto e posseduto che a patto d'essere presente al loro intelletto colla sua essenza, e non può essere amato, se non è effettivamente unito alla loro volontà come oggetto d'amore: "amor est magis unitivus quam cognitio 118-2". Ora la grazia altro non è che un principio e un germe della gloria: "gratia nihil est quam inchoatio gloriæ in nobis 118-3".
L'unione dunque cominciata sulla terra tra l'anima nostra e Dio per mezzo della grazia è in sostanza dello stesso genere di quella della gloria, reale e in un certo senso fisica come questa. Tal è la conclusione del P. Froget nel suo bel libro L'abitazione dello Spirito Santo (p. 159), appoggiandosi su numerosi testi di S. Tommaso: «Dio è dunque realmente, fisicamente, sostanzialmente presente nel cristiano che ha la grazia; e non è già una semplice presenza materiale ma un vero possesso accompagnato da un principio di godimento».

2) La medesima conclusione discende pure dall'analisi della grazia stessa. Stando all'insegnamento dell'Angelico Dottore, che si fonda sugli stessi testi scritturali che abbiamo citati, la grazia abituale ci è data per godere non solo dei doni di Dio, ma delle stesse persone divine; "Per donum gratiæ gratum facientis perficitur creatura rationalis ad hoc quod libere non solum ipso dono creato utatur, sed ut ipsâ divinâ personâ fruatur 118-4". Ora, aggiunge un discepolo di S. Bonaventura, per godere d'una cosa è necessaria la sua presenza, e quindi per godere dello Spirito Santo la sua presenza è necessaria come necessario è il dono creato che ci unisce a lui 118-5. E poichè la presenza del dono creato è reale e fisica, quella dello Spirito Santo non dovrà forse essere dello stesso genere?
Ecco dunque che le deduzioni della fede come i paragoni dei Patri ci autorizzano a dire che l'unione dell'anima nostra con Dio per mezzo della grazia non è soltanto morale, che non è neppure sostanziale in senso proprio, ma che è talmente reale da potersi chiamare fisico-morale. Restando però essa velata ed oscura ed essendo progressiva, nel senso che noi ne percepiamo tanto meglio gli effetti quanto più coltiviamo la fede e i doni dello Spirito Santo, le anime ferventi che sospirano l'unione divina, se sentono vivamente sollecitate ad avanzarsi ogni giorno più nella pratica delle virtù e dei doni.
Ghergon
00domenica 4 maggio 2008 21:37
2° DELLE VIRTÙ E DEI DONI, O DELLE FACOLTÀ DELL'ORDINE SOPRANNATURALE.
Richiamatane prima l'esistenza e la natura, parleremo per ordine delle virtù e dei doni.

A) Esistenza e natura.

119. La vita soprannaturale inserita nell'anima nostra per mezzo della grazia abituale richiede, per operare e svilupparsi, delle facoltà di ordine soprannaturale, che la liberalità divina generosamente ci concede sotto nome di virtù infuse e di doni dello Spirito Santo: "L'uomo giusto, dice Leone XIII, che vive della vita della grazia e che opera per mezzo delle virtù, che tengono in lui il posto di facoltà, ha pure bisogno dei doni dello Spirito Santo: Homini iusto, vitam scilicet viventi divinæ gratiæ et per congruas virtutes tamquam facultates agenti, opus plane est septenis illis quæ proprie dicuntur Spiritus Sancti donis 119-1". Conviene infatti che le nostre facoltà naturali, le quali da sè stesse non possono produrre che atti del medesimo ordine, siano perfezionate e divinizzate da abiti infusi, che le elevino e le aiutino ad operare soprannaturalmente. E Dio, infinitamente liberale qual è, ce ne da di due specie: le virtù, che, sotto la direzione della prudenza, ci abilitano a operare soprannaturalmente col concorso della grazia attuale; e i doni che ci rendono così docili all'azione dello Spirito Santo che, guidati da una specie di divino istinto, siamo, per così dire, mossi e diretti da questo divino Spirito. Bisogna però notare che questi doni, i quali ci sono conferiti colle virtù e colla grazia abituale, non vengono esercitati con frequenza ed intensità se non dalle anime mortificate che, con una lunga pratica delle virtù morali e teologali, acquistarono quella soprannaturale pieghevolezza, onde rendonsi intieramente docili alle ispirazioni dello Spirito Santo.

120. La differenza essenziale tra le virtù e i doni deriva dunque dal loro diverso modo di operare in noi; nella pratica delle virtù, la grazia ci lascia attivi, sotto l'influsso della prudenza; nell'uso dei doni, raggiunto che abbiano il loro pieno sviluppo, richiede da noi più docilità che attività, come esporremo meglio trattando della via unitiva. Intanto un paragone ci aiuterà a capire: quando una madre insegna a camminare al figlio, ora si contenta di guidarne i passi impedendogli di cadere, ora lo prende tra le braccia per fargli superare un ostacolo o per farlo riposare; nel primo caso si ha la grazia cooperante delle virtù, nel secondo si ha la grazia operante dei doni.
Ma da ciò risulta che, normalmente, gli atti compiti sotto l'influsso dei doni sono più perfetti di quelli che si compiono solamente sotto l'influsso delle virtù, appunto perchè l'azione dello Spirito Santo nel primo caso è più attiva e più feconda.

B) Delle virtù infuse.


121. È certo, secondo la dottrina del Concilio di Trento, che nel momento stesso della giustificazione riceviamo le virtù infuse della fede, della speranza e della carità 121-1. Ed è dottrina comune, confermata dal Catechismo del Concilio di Trento 121-2, che anche le virtù morali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza ci sono comunicate nello stesso momento. Non dimentichiamo però che queste virtù ci danno, non la facilità, ma il potere soprannaturale prossimo di fare atti soprannaturali; saranno necessari ripetuti atti per aggiungervi quella facilità che viene dall'abitudine acquisita.
Vediamo come queste virtù rendono soprannaturali le nostra facoltà.

a) Le une sono teologali, perchè hanno Dio per oggetto materiale e qualche attributo divino per oggetto formale. La fede ci unisce a Dio, suprema verità, e ci aiuta a veder tutto e a tutto giudicare alla divina sua luce. La speranza ci unisce a Colui che è la sorgente della nostra felicità, sempre pronto a versare su noi le sue grazie per compiere la nostra trasformazione ed aiutarci col suo potente soccorso a fare atti di confidenza assoluta e di filiale abbandono. La carità ci eleva a Dio sommamente buono in se stesso; e, sotto il suo influsso, noi ci compiacciamo delle infinite perfezioni di Dio più che se fossero nostre, desideriamo che siano conosciute e glorificate, stringiamo con Lui una santa amicizia, una dolce familiarità e così diventiamo ognor più a lui somiglianti. Queste tre virtù teologali ci uniscono dunque direttamente a Dio.


122. b) Le virtù morali, che hanno per oggetto un bene onesto distinto da Dio e per motivo l'onestà stessa di quest'oggetto, favoriscono e perpetuano questa unione con Dio, regolando le nostre azioni in modo che, non ostante gli ostacoli che si trovano dentro e fuori di noi, tendano continuamente verso Dio. Così la prudenza ci fa scegliere i mezzi migliori per tendere al nostro fine soprannaturale. La giustizia, facendoci rendere al prossimo ciò che gli è dovuto, santifica le nostre relazioni coi nostri fratelli in modo da avvicinarci a Dio. La fortezza arma l'anima nostra contro la prova e la lotta, ci fa sopportare con pazienza i patimenti e intraprendere con santa audacia le più rudi fatiche per procurare la gloria di Dio. E, poichè il piacere colpevole ce ne distoglierebbe, la temperanza modera il nostro ardore pel piacere e lo subordina alla legge del dovere. Tutte queste virtù hanno dunque per ufficio di allontanare gli ostacoli e anche di somministrarci mezzi positivi per andare a Dio 122-1.

C) Dei doni dello Spirito Santo.
123. Senza descriverli in particolare (cosa che faremo più tardi) ci basti qui dimostrarne la corrispondenza colle virtù.
I doni, senza essere più perfetti delle virtù teologali e specialmente della carità, ne perfezionano l'esercizio. Così il dono dell'intelletto ci fa penetrare più addentro nelle verità della fede per scoprirne i reconditi tesori e le arcane armonie; quello della scienza ci fa considerare le cose create nelle loro relazioni con Dio. Il dono del timore fortifica la speranza, staccandoci dai falsi beni di quaggiù, che potrebbero trascinarci al peccato e ci accresce quindi il desiderio dei beni celesti. Il dono della sapienza, facendoci gustare le cose divine, aumenta il nostro amore per Dio. La prudenza è grandemente perfezionata dal dono del consiglio, che ci fa conoscere, nei casi particolari e difficili, ciò che è o non è espediente di fare. Il dono della pietà perfeziona la virtù della religione, che si connette colla giustizia, facendoci vedere in Dio un padre che siamo lieti di glorificare per amore. -- Il dono della fortezza compie la virtù dello stesso nome, eccitandoci a praticare ciò che vi è di più eroico nella paziente costanza e nell'operare il bene. Infine il dono del timore, oltre che facilita la speranza, perfeziona pure in noi la temperanza, facendoci temere i castighi e i mali che risultano dall'amore illecito dei piaceri.
Tal è il modo con cui armoniosamente si sviluppano nell'anima le virtù e i doni, sotto l'influsso della grazia attuale, di cui ci resta ora a dire una parola.

3° DELLA GRAZIA ATTUALE 124-1.
Come nell'ordine di natura abbiamo bisogno del concorso di Dio per passare dalla potenza all'atto, così nell'ordine soprannaturale non possiamo porre in atto le nostre facoltà senza il soccorso della grazia attuale.
124. Ne esporremo:
1° la nozione;
2° il modo di operare;
3° la necessità.


A) La nozione. La grazia attuale è un aiuto soprannaturale e transitorio che Dio ci dà per illuminare la nostra intelligenza e fortificare la nostra volontà nella produzione degli atti soprannaturali.

a) Opera quindi direttamente sulle nostre facoltà spirituali, l'intelligenza e la volontà, non più soltanto per elevarle all'ordine soprannaturale, ma per metterle in moto e far loro produrre atti soprannaturali. Diamone un esempio: prima della giustificazione o dell'infusione della grazia abituale, ci illumina sulla malizia e sui terribili effetti del peccato per farcelo detestare. Dopo la giustificazione, ci mostra, alla luce della fede, l'infinita bellezza di Dio e la misericordiosa sua bontà per farcela amare con tutto il cuore.

b) Accanto però a queste grazie interne, ve ne sono altre che si chiamano esterne, le quali, operando direttamente sui nostri sensi e sulle nostre facoltà sensitive, indirettamente influiscono sulle nostre facoltà spirituali, tanto più che sono spesso accompagnate anche da veri aiuti interni. Così la lettura della Sacra Bibbia o d'un libro cristiano, l'ascoltazione d'una predica, d'un pezzo di musica religiosa, d'una buona conversazione, sono grazie esterne: di per sè non fortificano la volontà, ma producono in noi delle impressioni favorevoli che scuotono l'intelletto e la volontà e li inclinano verso il bene soprannaturale. Dio, del resto, vi aggiungerà spesso dei movimenti interni che, illuminando l'intelletto e fortificando la volontà, ci aiuteranno potentemente a convertirci o a divenir migliori. È quanto possiamo dedurre dalle parole del libro degli Atti, che ci mostrano lo Spirito Santo che apre il cuore d'una donna chiamata Lidia, per renderla attenta alla predicazione di S. Paolo 124-2. Dio poi, il quale sa che noi ci eleviamo dal sensibile allo spirituale, s'adatta alla nostra debolezza e si serve delle cose visibili per portarci alla virtù.

125. B) Suo modo di operare. a) La grazia attuale influisce su di noi in modo morale e fisico nello stesso tempo: in modo morale, con le persuasioni e le attrattive, come una madre che, per aiutare il bambino a camminare, dolcemente lo chiama e lo invita a sè promettendogli una ricompensa; in modo fisico 125-1, aggiungendo nuove forze alle nostre facoltà, troppo deboli per operare da sole, come fa una madre che prende per le braccia il suo bambino e l'aiuta, non solo con la voce ma anche col gesto, a fare qualche passo innanzi. Tutte le Scuole ammettono che la grazia operante opera fisicamente, producendo nell'anima nostra dei movimenti indeliberati; quando però si tratta della grazia cooperante, vi è tra le diverse scuole Teologiche qualche disparere, che del resto per la pratica non ha grande importanza: non entriamo in queste discussioni, perchè non vogliamo fondare la nostra spiritualità su questioni controverse.

b) Sotto un altro aspetto, la grazia previene il nostro libero consenso o l'accompagna nel compimento dell'atto. Così mi nasce, per esempio, il pensiero di fare un atto d'amor di Dio senza che io abbia fatto nulla per suscitarlo: è una grazi preveniente, è un buon pensiero che Dio mi dà; se io l'accolgo bene e mi studio di produrre quest'atto d'amore, io lo faccio con l'aiuto della grazia adiuvante o concomitante. -- Pari a questa distinzione è quella della grazia operante, per mezzo della quale Dio opera in noi senza di noi, e della grazia cooperante, per mezzo della quale Dio opera in noi e con noi, cioè colla nostra libera collaborazione.

126. C) Sua necessità. 126-1 Il principio generale è che la grazia attuale è necessaria per ogni atto soprannaturale, perchè vi dev'essere proporzione tra l'effetto e il suo principio.
a) Così, quando si tratta della conversione, vale a dire del passaggio dal peccato mortale allo stato di grazia, abbiamo bisogno d'una grazia soprannaturale per fare gli atti preparatorii di fede, di speranza, di penitenza e d'amore; e anche per l'inizio della fede, cioè per quel pio desiderio di credere che ne è il primo passo. b) Ed è pure per la grazia attuale che perseveriamo nel bene nel corso della nostra vota sino all'ora della morte. Per questo infatti: 1) si deve resistere alle tentazioni che assalgono anche le anime giuste e che sono talvolta così insistenti e ostinate che non possiamo resistervi senza l'aiuto di Dio. Ecco perchè Nostro Signore raccomanda agli apostoli, anche dopo l'ultima Cena, di vigilare e pregare, vale a dire di appoggiarsi non sui propri sforzi soltanto ma sulla grazia per non soccombere alla tentazione126-2. 2) Si devono inoltre adempiere tutti i propri doveri, e lo sforzo energico, costante, richiesto da questo adempimento non può farsi senza l'aiuto della grazia: solo colui che incominciò in noi l'opera della perfezione, può condurla a buon fine 126-3; solo l'autore della nostra vocazione all'eterna salute ha diritto di darvi l'ultima mano 126-4.

127. E ciò è specialmente vero per la perseveranza finale che è dono speciale e grande dono 127-1: morire nello stato di grazia, non ostante tutte le tentazioni che vengono ad assalirci in quell'ultimo momento, o sfuggire a queste lotte con una morte dolce o repentina che ci addormenti nel Signore, è, a detta dei Concilii, la grazia delle grazie che non si potrà mai chiedere abbastanza, che non si può strettamente meritare, ma che si può ottenere con la preghiera e con la fedele cooperazione alla grazia, suppliciter emereri potest 127-2. c) E quando si vuole non solo perseverare, ma crescere ogni giorno più in santità, schivare i peccati veniali deliberati e diminuire il numero delle colpe di fragilità, non si dovrà pure far assegnamento sui divini favori? Pretendere che si possa stare a lungo senza commettere qualche peccato che ritardi il nostro avanzamento spirituale, è un andare contro l'esperienza delle anime migliori che si rimproverano così amaramente le loro debolezze, è un contradire S. Giovanni, che dichiara illusi quelli che pensano di non commettere peccati: "Si dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, et veritas non est in nobis" 127-3; è un contradire il Concilio di Trento, il quale condanna chi dicesse che l'uomo giustificato può, senza uno speciale privilegio divino 127-4, evitare in tutta la vita i peccati veniali.


128. La grazia attuale ci è dunque necessaria anche dopo la giustificazione; ed ecco perchè la S. Scrittura insiste tanto sulla necessità della preghiera, con cui quella si ottiene dalla misericordia divina, come spiegheremo più tardi. Possiamo pure ottenerla con atti meritori o, in altre parole, con la libera cooperazione alla grazia; perchè quanto più siamo fedeli ad approfittarci delle grazie attuali che ci vengono largite, tanto più Dio si sente inclinato a concedercene delle nuove.

CONCLUSIONI.
129. 1° Dobbiamo dunque avere la più grande stima per la vita della grazie; è una vita nuova, una vita che ci unisce e ci rende simili a Dio, con tutto l'organismo necessario al suo esercizio. Ed è vita assai più perfetta della vita naturale. Se la vita intellettuale è molto superiore alla vita vegetativa e alla vita sensitiva, la vita cristiana è infinitamente superiore alla vita semplicemente razionale; questa infatti è dovuta all'uomo, posto che Dio si risolva a crearlo, mentre la vita della grazia supera tutte le attività e tutti i meriti delle creature anche più perfette. Qual creatura infatti potrebbe mai pretendere il diritto di divenire figlio adottivo di Dio, tempio dello Spirito Santo, e il privilegio di vedere Dio faccia a faccia come Dio vede se stesso? Dobbiamo quindi stimare questa vita più di tutti i beni creati, e considerarla come il tesoro nascosto pel cui acquisto non si deve esitare a vendere tutto ciò che si possiede.

130. 2° Quando si possiede un tal tesoro, bisogna sacrificare ogni cosa piuttosto che esporci a perderlo. È questa la conclusione che ne trae il Papa S. Leone: "Agnosce, o christiane, dignitatem tuam, et, divinæ consors factus naturæ, noli in veterem vilitatem degeneri conversatione redire 130-1". Non vi è alcuno che più del cristiano debba rispettare se stesso, non certo per ragione dei propri meriti ma per ragione di quella vita divina a cui partecipa, e perchè è tempio dello Spirito Santo, tempio santo di cui non si deve mai offuscare la bellezza: "Domum tuam decet sanctitudo in longitudinem dierum 130-2".
131. 3° Anzi, è evidente che dobbiamo pure utilizzare, coltivare quest'organismo soprannaturale di cui siamo dotati. Se piacque alla divina bontà di elevarci ad uno stato superiore, di darci largamente virtù e doni che perfezionano le nostre facoltà naturali, se ad ogni istante ci offre la sua collaborazione per metterli in opera, sarebbe un mal corrispondere a tanta liberalità il rigettar questi doni col non voler fare che atti naturalmente buoni o col non far produrre alla vigna dell'anima nostra che frutti imperfetti. Quanto più il donatore si mostrò generoso, tanto più s'aspetta da noi una collaborazione attiva e feconda. Il che apparirà anche meglio quando avremo veduto la parte che ha Gesù nella vita cristiana.

§ II. Della parte che ha Gesù nella vita cristiana 132-1.
132. Tutta la SS. Trinità ci conferisce quella partecipazione della vita divina che abbiamo descritta. Ma lo fa per riguardo ai meriti e alle soddisfazioni di Gesù Cristo, il quale sotto questo aspetto ha una parte così essenziale nella nostra vita soprannaturale, che questa a buon diritto viene detta vita cristiana.
Secondo la dottrina di S. Paolo, Gesù Cristo è il capo dell'umanità rigenerata, come Adamo lo era stato dell'umana stirpe al suo nascere, in guisa però assai più perfetta. Egli coi suoi meriti ci riconquistò il diritto alla grazia e alla gloria; coi suoi esempi ci mostra come dobbiamo vivere per santificarci e meritare il cielo; ma egli è sopratutto il capo d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra: è quindi causa meritoria, esemplare e vitale della nostra santificazione.
I. Gesù causa meritoria della nostra vita spirituale.

133. Quando diciamo che Gesù è causa meritoria della nostra santificazione, prendiamo questa parola nel suo più esteso significato in quanto comprende la soddisfazione e il merito; "Propter nimiam charitatem qua dilexit nos, sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustificationem meruit et pro nobis satisfecit".
Logicamente la soddisfazione precede il merito, nel senso che, per ottenere il perdono dei nostri peccati e meritare la grazia, è prima necessario riparare l'offesa fatta a Dio; ma in realtà tutti gli atti liberi di N. Signore erano nello stesso tempo soddisfatorii e meritorii, e avevano tutti un valore morale infinito, come abbiamo detto al n. 78. Non ci resta che trarre da queste verità alcune conclusioni.

A) Non vi sono peccati irremissibili, purchè, contriti e umiliati, ne chiediamo umilmente perdono. E questo noi facciamo nel sacro tribunale della penitenza, ove la virtù del sangue di Gesù ci viene applicata per mezzo del ministro di Dio. Questo facciamo pure nel santo sacrifizio della messa, ove Gesù continua ad offrirsi, per le mani del sacerdote, vittima di propiziazione, eccita nell'anima nostra profondi sentimenti di contrizione, ci rende Dio propizio, ci ottiene perdono sempre più pieno dei nostri peccati e una remissione sempre più abbondante della pena che dovremmo subire per espiarli. Possiamo aggiungere che tutti i nostri atti cristiani, uniti ai patimenti di Gesù, hanno un valore soddisfatorio per noi e per le anime per cui li offriamo.

134. B) Gesù ci meritò pure tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per conseguire il nostro fine soprannaturale e coltivare in noi la vita cristiana: Benedixit nos in omni benedictione spirituali in cælestibus in Christo Jesu 134-1", Dio ci benedisse in Cristo con ogni sorta di benedizioni spirituali: grazie di conversione, grazie di perseveranza, grazie per resistere alle tentazioni, grazie per trar profitto dalle tribolazioni, grazie di consolazione, grazie di rinnovamento spirituale, grazie di nuova conversione, grazia di perseveranza finale, tutto egli ci meritò; e ci assicura che tutto ciò che chiederemo al Padre in suo nome, vale a dire appoggiandoci sui suoi meriti, ci sarà concesso.
Per ispirarci anche maggior fiducia, istituì i sacramenti, segni visibili che ci conferiscono la grazia in tutte le circostanze più importanti della vita e ci danno diritto a grazie attuali che riceviamo a tempo opportuno.

135. C) Ma fece anche di più; ci diede il potere di sodisfare e di meritare, volendo così associarci a lui come cause secondarie e far di noi gli artefici della nostra santificazione. Ce ne fa perfino un precetto e condizione essenziale della nostra vita spirituale. S'ei portò la croce, gli è perchè anche noi lo seguiamo portando la nostra: "Si quis vult post me venire, abnegat semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me 135-1". Così l'intesero gli Apostoli: "Se vogliamo partecipare alla sua gloria, dice S. Paolo, dobbiamo anche partecipare ai suoi patimenti, si tamen compatimur ut et conglorificemur 135-2"; e S. Pietro aggiunge che se Gesù Cristo patì per noi, lo fece perchè noi battiamo le sue orme 135-3. Anzi, le anime generose si sentono stimolate, come S. Paolo, a soffrir lietamente, in unione con Cristo, per il suo corpo mistico che è la Chiesa 135-4; a questo modo partecipano all'efficacia redentrice della sua Passione e collaborano come cause seconde alla salute dei fratelli. Oh! quanto questa dottrina è più vera, più nobile, più consolante dell'incredibile affermazione di certi protestanti che hanno il triste coraggio d'affermare che, avendo Gesù Cristo patito sufficientemente per noi, noi non abbiamo che da godere dei frutti della sua redenzione senza berne il calice! Pretendono con ciò di esaltare la pienezza dei meriti di Cristo, mentre in verità è il potere di meritare quello che fa risaltar meglio la pienezza della redenzione. Non è infatti più onorifico per Cristo il manifestare la fecondità delle sue soddisfazioni, associandoci all'opera sua redentrice e rendendoci capaci di collaborarvi, benchè in modo secondario, con imitarne gli esempi?

II. Gesù causa esemplare della nostra vita.
136. Gesù non si contentò di meritare per noi, ma volle pur essere la causa esemplare, il modello vivente della nostra vita soprannaturale.
Gran bisogno noi avevamo d'un modello di questo genere; perchè, per coltivare una vita che è una partecipazione della vita stessa di Dio, dobbiamo avvicinarci quanto più è possibile alla vita divina. Ora, osserva S. Agostino, gli uomini che avevamo sotto gli occhi erano così imperfetti da non poterci servire da modelli, e Dio, che è la santità stessa, sembrava troppo distante. E allora l'eterno Figlio di Dio, viva sua immagine, si fa uomo e ci mostra coi suoi esempi come si può sulla terra avvicinarsi alla perfezione divina. Figlio di Dio e figlio dell'uomo, visse una vita veramente deiforme e potè dire, "qui videt me, videt et Patrem" 136-1, chi vede me, vede anche il Padre mio. Avendo manifestato nelle sue azioni la santità divina, potè proporci come possibile l'imitazione delle divine perfezioni: "Estote igitur perfecti sicut et Pater vester cælestis perfectus est" 136-2. Ecco perchè il Padre ce lo propone come modello: nel battesimo e nella trasfigurazione, apparendo ai discepoli dice loro parlando del Figlio: "Hic est filius meus in quo mihi bene complacui" 136-3: ecco il mio Figlio nel quale mi sono compiaciuto. Se trova in lui tutte le sue compiacenze, ei vuole dunque che noi l'imitiamo. Anche Nostro Signore ci dice con tutta sicurezza: "Ego sum via... nemo venit ad Patrem nisi per me... Discite a me quia mitis sum et humilis corde... Exemplum enim dedi vobis ut quemadmodum ego feci vobis, ita et vos faciatis" 136-4. E che cos'è in sostanza il Vangelo se non il racconto della vita, della passione e morte e risurrezione di Nostro Signore, onde proporlo alla nostra imitazione? "cæpit facere et docere" 136-5. Che cos'è il cristianesimo se non l'imitazione di Gesù Cristo? tanto che S. Paolo compendierà tutti i doveri cristiani in quello d'imitare Nostro Signore: "Imitatores mei estote sicut et ego Christi" 136-6. Vediamo dunque quali sono le qualità di questo modello.

137. a) Gesù è un modello perfetto; anche per confessione di coloro che non credono alla sua divinità, egli è il tipo più compito di virtù che sia mai comparso sulla terra. Praticò le virtù in grado eroico e con le disposizioni interne più perfette: religione verso Dio, amore del prossimo, annientamento di sè stesso, orrore del peccato e di ciò che può condurvi 137-1. Eppure è un modello imitabile ed universale, pieno d'attrattiva, i cui esempi sono pieni d'efficacia.
138. b) È un modello che tutti possono imitare; perchè volle assumere le nostre miserie e le nostre debolezze, subire persino la tentazione, esserci simile in tutto fuori del peccato: "Non enim habemus Pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato" 138-1. Per trent'anni ei visse la vita più nascosta, più oscura, più comune, obbedendo a Maria e a Giuseppe, lavorando come garzone ed operaio, "fabri filius" 138-2; e perciò divenne il modello perfetto della maggior parte degli uomini, che non hanno se non doveri oscuri da compiere e che devono santificarsi in mezzo alle occupazioni più comuni. Ma visse pure la vita pubblica e praticò l'apostolato sia in un gruppo scelto, formando gli Apostoli; sia tra la folla, evangelizzando il popolo; e quindi dovette soffrire la fatica e la fame; godette l'amicizia di alcuni come ebbe a sopportare l'ingratitudine di altri; provò trionfi e sconfitte; passò insomma per le peripezie di ogni uomo che ha relazioni con gli amici e col pubblico. La sua vita sofferente ci diede l'esempio della pazienza più eroica in mezzo alle torture fisiche e morali che ei tollerò, non solo senza lamentarsi, ma pregando per i suoi carnefici. Nè si dica che che, essendo Dio, patì di meno; era anche uomo: dotato di squisita sensibilità, sentì più vivamente di noi l'ingratitudine degli uomini, l'abbandono degli amici, il tradimento di Giuda; provò tali sentimenti di tedio, di tristezza, di timore, che non potè tenersi dal pregare che l'amaro calice, se fosse possibile, s'allontanasse da lui; e, sulla croce, emise quel grido straziante che mostra la profondità delle sue angoscie: "Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?" 138-3 Gesù fu dunque un modello universale.


139. c) Si mostra pieno d'attrattiva. Aveva predetto che, quando fosse elevato da terra (alludendo al supplizio della croce), avrebbe attirato tutto a sè: "Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum 139-1". La profezia si avverò. Vedendo ciò che Gesù fece e patì per loro, i cuori generosi si accesero d'amore pel divin Crocifisso e quindi per la sua croce 139-2; non ostante le ripugnanze della natura, portano valorosamente le croci interne od esterne, sia per meglio rassomigliare al divino Maestro, sia per attestargli il loro amore, soffrendo con lui e per lui, sia per avere una parte più abbondante dei frutti della redenzione e collaborare con lui alla santificazione dei fratelli. È ciò che chiaramente si vede nella vita dei santi, i quali corrono dietro la croce con più avidità che non i mondano dietro i piaceri.

140. d) Questa attrattiva è tanto più forte in quanto che egli vi aggiunge l'efficacia della sua grazia: essendo le azioni fatte da Gesù prima della morte tutte meritorie, egli ci meritò la grazia di farne di simili; quando noi consideriamo la sua umiltà, la sua povertà, la sua mortificazione e le altre sue virtù, siamo eccitati ad imitarlo non solo per la forza persuasiva dei suoi esempi, ma anche per l'efficacia delle grazie che ci meritò praticando le virtù e che in quell'occasione ci concede.

141. Vi sono poi certe particolari azioni di Nostro Signore che hanno una maggiore importanza e a cui dobbiamo in modo speciale unirci perchè contengono più copiose grazie: sono i suoi misteri. Così il mistero dell'Incarnazione ci meritò la grazia della rinunzia a noi stessi e della unione con Dio, perchè Nostro Signore ci offrì con Lui per consacrarci tutti al Padre; il mistero della crocifissione ci meritò la grazia di crocifiggere la carne e le sue cupidigie; il mistero della morte ci meritò di morire al peccato e alle sue cause, ecc. 141-1 La qual cosa, del resto, intenderemo meglio, vedendo in che modo Gesù è il capo del corpo mistico di cui noi siamo le membra.
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