Scuola per gli imam musulmani

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LiviaGloria
00domenica 15 febbraio 2009 11:33
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14 Febbraio 2009
INCHIESTA
Musulmani d’Italia: una scuola per gli imam
Il sermone che accompagna la pre­ghiera del venerdì nelle moschee dev’essere pronunciato in italiano, in modo che sia possibile control­lare che «non ci sia alcun tipo di pre­dicazione e istigazione all’odio, du­rante un momento che deve essere soltanto di tipo religioso». La propo­sta lanciata qualche settimana fa dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha raccolto molti consensi e qual­che imam si è premurato di dire che questo già avviene in decine di luoghi di preghiera. Dopo qualche giorno, come spesso avviene in Italia, il tema sembra essere già tornato nel dimen­ticatoio, mentre continua a infuriare la polemica sulle moschee che si vor­rebbero costruire in varie città. Il vero nodo da sciogliere – al di là del­la questione linguistica già di per sé rilevante – è la preparazione del per­sonale religioso che guida le comu­nità musulmane, quasi sempre sprov­visto della necessaria formazione teo­logica e della conoscenza degli ele­menti culturali e giuridici che fonda­no la nostra società.

Carenze non da poco per chi svolge un ruolo che non è soltanto spirituale ma che ha gran­de rilevanza nell’indirizzare idee e scelte dei fedeli. «Dobbiamo ammet­terlo, abbiamo gente di basso livello – denuncia Asfa Mahmoud, architetto giordano, presidente della Casa della cultura islamica di Milano, dove al ve­nerdì si radunano in quattromila per la preghiera –. Troppi gli imam auto­proclamati, che non hanno i numeri per guidare una comunità e spiegare il Corano tenendo conto del Paese in cui si vive, nel rispetto delle sue leggi e delle sue consuetudini, favorendo i processi d’integrazione e sconfessan­do chi vuole la separazione in nome dell’identità. C’è un’ignoranza diffusa che dev’essere superata con una for­mazione adeguata».

Che fare? E chi do­vrebbe prendere l’i­niziativa? Il maroc­chino Abdellah Re­douane, segretario del Centro islamico d’Italia dove ha sede la Grande Moschea di Roma, un’idea ce l’ha: un master per i­mam, incardinato presso un ateneo ita­liano. Il curriculum di studi dovrebbe comprendere teologia islamica, sto­ria della civiltà islamica, mistica, di­ritto costituzionale italiano, diritto pri­vato, storia dell’Europa, diritti umani, dialogo interreligioso. Potrebbero ac­cedervi persone che, oltre a una suf­ficiente padronanza dell’italiano, pos­siedono già i fondamenti del sapere i­slamico. «Non si può ammettere gen­te che parte da zero, altrimenti ci vor­rebbero 15 anni di studio. Ci vorrà un esame di ammissione per seleziona­re le domande: non possiamo sdoga­nare l’ignoranza in nome della fede e dobbiamo offrire garanzie di serietà anche a quella parte di opinione pub­blica che guarda con diffidenza a tut­to ciò che si muove all’interno delle moschee». Secondo Souad Sbai, ex presidente della federazione delle comunità ma­rocchine in Italia e deputata del Pdl, «la diffidenza ha le sue buone ragio­ni, se consideriamo quello che varie inchieste giudiziarie hanno portato alla luce.

Sono troppi gli imam fai-da­te, troppe le moschee in cui,anziché e­ducare alla convivenza, si predica la separazione o l’odio per chi non è mu­sulmano. Da troppo tempo la que­stione non è più soltanto religiosa, ci sono aspetti legati alla sicurezza. Lo Stato ha il diritto e il dovere di sapere con chi ha a che fare. La massima traspa­renza su quanto viene detto durante il ser­mone del venerdì e sulla preparazione di chi guida la preghiera è utile alle istituzioni ed è un bene per i tan­tissimi fedeli che trop­po spesso ricevono un insegnamento che strumentalizza il sen­timento religioso a scopi politici». Sia la Sbai sia Redouane propongono di rilan­ciare il ruolo della Consulta per l’islam italiano (istituita nel 2005 dall’allora ministro dell’Interno Pisanu) come luogo di confronto da cui potrebbe u­scire una proposta per istituire corsi di formazione superiore per guide spiri­tuali islamiche, che andrebbe poi messa a punto da un gruppo di acca­demici ed esperti. In più la Sbai pro­pone l’istituzione di un albo a cui do­vrebbe obbligatoriamente essere i­scritto chi vuole esercitare la funzio­ne di imam. «L’albo dev’essere una condizione vin­colante per evitare la moltiplicazione degli pseudo-imam», concorda Yahya Pallavicini, segretario generale della Coreis, che vorrebbe affidarne la ge­stione al ministero dell’Interno e lo­calmente alle prefetture, «in attesa che prenda forma una rappresentanza condivisa e riconosciuta dell’islam i­taliano, purificato da ingerenze di Pae­si stranieri». Secondo Pallavicini anche i corsi di formazione devono essere promossi dallo Stato italia­no, «con il contributo di or­ganizzazioni islamiche cre­dibili e affidabili.

E devono puntare alla formazione di personale che possa forni­re assistenza spirituale non solo nelle moschee ma an­che in ospedali, carceri, ci­miteri, dove c’è una do­manda di tipo religioso che chiede risposte religiose». La Coreis ha già promosso autonomamente iniziative di formazione da cui in questi anni sono uscite de­cine di imam. Tutti rigoro­samente italiani, e che per ora si rivolgono a un ri­stretto universo di fedeli anch’essi italiani. La partita più importante si gioca però all’interno delle comunità straniere, dove è in atto da tempo u­na guerra sotterranea – e che ogni tanto fa sentire i suoi clamori anche in su­perficie – per un’egemonia che è insieme religiosa, sociale e po­litica.

L’Unione delle comunità e or­ganizzazioni islamiche in Italia (U­coii), che si vanta di controllare la stra­grande maggioranza delle moschee (735 nel 2007) censite dal ministero dell’Interno, è oggetto di contestazio­ni sia al suo interno sia da altre asso­ciazioni musulmane. La Consulta per l’islam italiano – dove si sono a lungo confrontate e spesso aspramente combattute le diverse anime del mon­do musulmano e che aveva contri­buito alla stesura della Carta dei valo­ri, primo segnale dell’accettazione dei principi che stanno a fondamento del­la nostra società – è stata sostanzial­mente ibernata (o piuttosto, come si moromora, definitivamente sepolta?) dall’attuale titolare del Viminale, Ro­berto Maroni. Che finora si è impe­gnato sul versante del controllo e del­la repressione delle derive fonda­mentaliste e terroristiche, piuttosto che sulle misure per favorire l’inte­grazione. D’altra parte (vedere box) i tempi non sembrano ancora maturi per giunge­re a una rappresentanza unitaria e condivisa dell’islam d’Italia, capace di dare vita a iniziative forti come la pro­mozione di un’«alta formazione» per le guide del culto.

Chi si muoverà per primo? Con quali credenziali? Con quale seguito? Da questa «palude ita­lica » bisogna uscire al più presto, pro­muovendo iniziative che garantisca­no la libertà religiosa, una prepara­zione teologica e culturale adeguata e in armonia con le leggi di questo Pae­se, nel rispetto assoluto dei principi che fondano la convivenza civile. Al­trimenti il rischio è che nella palude nascano insidiose sabbie mobili, in cui crescono sentimenti di estraneità e ostilità. E allora sarebbe peggio per tutti. Musulmani in preghiera nella Grande Moschea di Roma. Costruita dai Paesi arabi nel 1995, è la più grande d’Europa. Secondo una rilevazione del Viminale, nel 2007 erano 735 i luoghi di culto islamici in Italia
Giorgio Paolucci
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LiviaGloria
00martedì 17 febbraio 2009 15:42
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