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LiviaGloria
00domenica 6 aprile 2008 13:10
www.diocesi.genova.it

La salita al Santuario, parabola della vita

Omelia nella Vigilia della Solennità di N.S. della Guardia

Genova, Santuario di N. S .della Guardia,
28 agosto 2007


Statua di N.S. della Guardia venerata nel Santuario
Carissimi Fratelli e Sorelle nel Signore!

Siamo saliti alla casa di Maria, a questo Santuario carissimo alla nostra Diocesi e alla Liguria. Siamo saliti pregando il santo rosario e, oranti, abbiamo varcato questa soglia desiderata e benedetta. Il breve pellegrinaggio è simbolo di un pellegrinaggio antico che si snoda attraverso i secoli: qui i nostri padri sono venuti con fede e devozione per presentare ai piedi di Maria le pene e le gioie, qui hanno pregato per i figli; qui li hanno portati perché imparassero la devozione alla Madre di Dio e nostra; qui la fede delle generazioni si è consolidata o si è ritrovata. Da qui tutti sono ripartiti con il dono di una luce nuova e più viva. Questa lunga storia di fede, di speranza, di sacrificio, rivive questa sera e si arricchisce della nostra presenza. E' come una luce nella notte: una luce che sale dal tempo e che illumina Genova.
Ai piedi della Madonna vogliamo riflettere sul senso del nostro salire, vogliamo che il nostro cammino sprigioni tutta la sua ricchezza di suggestioni e di memoria.

1. Innanzitutto ci ricorda in modo plastico ed eloquente che la vita terrena è un pellegrinaggio dalla terra al cielo. L'uomo non è uno sbandato, un vagabondo errante che non sa dove andare e che procede portato da impulsi, sensazioni effimere, da voglie momentanee, da illusioni che molto promettono ma che tutto rapinano della sua bellezza interiore e della sua dignità profonda. L'uomo è fatto da Dio come un pellegrino che sa da dove parte e sa dove va: conosce la meta del suo cammino. A questo destino guarda ogni giorno, tiene puntato il cuore. Per questo destino sprigiona le sue migliori energie, disposto a qualunque sacrificio fino all'eroismo. Qual è questa meta, il fine, il traguardo che ha il potere di affascinare e di riempire la vita? Solamente l'infinito ha il potere di colmare il finito! Sembra un paradosso, e in un certo senso lo è: ma siamo fatti così. Ce lo ricordano i Santi, ma anche la nostra personale esperienza se non la viviamo in superficie. "Siamo fatti per Te e il nostro cuore non riposa se non in Te" scrive in modo struggente Sant' Agostino: struggente e universale. Sì, l'uomo è creato nel segno della finitezza e del limite – ben lo sappiamo – ma in modo tale che solamente l'infinito può colmare questo mendicante d'amore, di bellezza, di eternità. Solo Dio, niente di meno, può corrispondere pienamente al cuore dell'uomo. Ogni altro bene terreno pur nobile è frammento, ombra, piccolo anticipo. Che le parole di San Giovanni Climaco possano essere le nostre: "Il tuo amore mi ha ferito, io cammino cantando Te"!

2. Il nostro salire al Santuario ci ricorda non solo che la vita terrena è un pellegrinaggio dalla terra al cielo, ma anche che la vita spirituale è un cammino, un pellegrinaggio interiore.
Cari Amici, non lasciamoci ingannare: molte voci vogliono farci credere che ciò che conta è solo ciò che cade sotto i nostri sensi, che l'uomo è solo corpo e che deve essere sempre e comunque soddisfatto, che la vita presente è tutto e bisogna spremerla come godimento il più possibile: poi, verrà la notte del nulla! Ma non è così! Gesù ci ha rivelato una realtà ben più grande e nobile: l'esistenza dell'anima, la scintilla vitale che ci rende immagine e somiglianza di Dio. Questa è immortale ed è il fondamento della dignità umana. Quanto del nostro tempo e del nostro impegno impieghiamo per curare la bellezza del nostro spirito? Scopo del cammino spirituale è la conformazione a Gesù, conformazione che nasce dalla nostra radicale appartenenza a Lui. Dal Battesimo l'uomo riceve nell'anima il volto santo di Cristo; ma nel corso dell'esistenza terrena egli deve far risplendere questa originaria bellezza, vivendo con i suoi stessi sentimenti: imparando a pensare con il suo pensiero e ad amare con il suo cuore. Con una espressione sintetica e commovente, ancora San Giovanni Climaco ci esorta: "Il ricordo di Cristo aderisca al vostro respiro"! Oh sì, che la Santa Vergine ci doni questa sera che Gesù diventi il nostro respiro, il respiro della nostra anima.

3. Ma nel pellegrinaggio dal tempo all'eternità non siamo soli. La preghiera del Santo Rosario ci ha ricordato che la Madonna cammina con noi e ci porta Gesù. Il Rosario, infatti, è Vangelo meditato con Maria e nessuno conosce il mistero di Cristo meglio della Madre. Ecco perché i santi ripetevano "ad Iesum per Mariam". Per questo dobbiamo avere la preghiera del Rosario come una preghiera cara e quotidiana: ogni mistero è come puntare la fede e l'amore su un episodio della vita di Cristo e della Madonna, mentre le labbra ripetono l'Ave come l'onda del mare si infrange tranquilla sulla spiaggia. Il cuore di Dio è la riva, e l'onda insistente è la nostra preghiera.
Mentre lungo la salita ci siamo nutriti con la preghiera del Rosario, ora siamo nutriti dall'Eucaristia, Pane di Vita Eterna, Cristo stesso. L'Eucaristia è il pane dei pellegrini, il cuore della Chiesa, il tesoro più grande della fede: noi nasciamo dal grembo eucaristico, memoriale della Croce, banchetto di vita eterna, presenza reale che ci accompagna e ci sostiene. Per questo nel prossimo anno pastorale vogliamo conoscere meglio il mistero dell'Eucaristia attraverso la catechesi specifica che vi invito a frequentare con impegno e cuore. Ma soprattutto cureremo in modo particolare la celebrazione e la partecipazione alla Santa Messa festiva.
Cari Amici, eleviamo a Lei, la grande Madre, la nostra voce fiduciosa:

Vergine Santa, Madonna della Guardia
Mostraci dopo quest'esilio, il tuo Figlio Gesù
O clemente o pia, o dolce Vergine Maria.

Angelo Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova


LiviaGloria
00domenica 25 maggio 2008 15:05
LiviaGloria
00venerdì 19 dicembre 2008 17:00
letterepaoline.wordpress.com/


Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui. Quando scrivono hanno sessant’anni di ritardo sull’evento del suo passaggio. Noi ne abbiamo molti di più: duemila. Tutto quanto può essere detto su quest’uomo è in ritardo rispetto a lui. Conserva una falcata di vantaggio e la sua parola è come lui. […]

Duemila anni dopo di lui è come sessanta. È appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine. […]

Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno. Lui lavora i cuori, diversi e più duri del legno. Alcuni si associano al suo lavoro. Con fatica li forma ai principi di una nuova economia: non si fa nulla in serie e si va dall’unico all’unico. Non si vende, si dona. […]

Qualcosa prima della sua venuta lo intuisce. Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui. Questo qualcosa è la bellezza sulla terra. La bellezza del vivere è composta dall’invisibile fremito degli atomi spostati dal suo corpo in cammino».

***

Sono alcuni passaggi di un piccolo libro dello scrittore e poeta francese Christian Bobin, L’uomo che cammina. E vengono subito alla mente, leggendo quello ch’è sicuramente il più bel capitolo dell’ultimo lavoro scritto in coppia da Adriana Destro (antropologa) e Mauro Pesce (esegeta e storico del cristianesimo), L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita.






«Vorrei scrivere questo libro per i più miserabili degli uomini. Vorrei anche scriverlo nel loro linguaggio, ma questo non mi è permesso. Non si può imitare né la miseria né il linguaggio della miseria. Bisognerebbe essere un miserabile per partecipare senza sacrilegio al sacramento della miseria. Cristo è venuto in questo mondo, e vi è venuto per tutti, e non solamente per i miserabili.

Intorno alla sua mangiatoia, si sono visti i Pastori e i Magi, ma né i Pastori né i Magi erano dei miserabili. È possibile che il buon Ladrone lo fosse, ma non ne siamo sicuri. Contrariamente a quel che credono i moralisti, la vera miseria non sfocia nel crimine: essa non ha esito né nel male né nel bene, la vera miseria non ha esito. La vera miseria ha esito soltanto in Dio.

La miseria non ha via d’uscita che in Dio, ma essa non vuole vie d’uscita. Essa si chiude su di sé. Essa è murata, come l’Inferno. Bisogna tuttavia che la cristianità vi discenda. Per tutto il tempo che noi tollereremo un inferno in questo mondo, saremo forzati ad attendere a casa nostra il regno di Dio. L’inferno di questo mondo è l’inferno stesso. Ne è l’atrio e il serraglio. Satana è il dispensatore delle ricchezze, ma il tesoro di Mammona è vuoto. È nell’inaccessibile fondo della miseria che Satana si è trincerato, per la confusione e la costernazione dei ricchi stessi. L’oro non è che un simulacro, un’impostura, una trappola di colui che si dice l’idolo del mondo.

Mentre l’umanità guarda volare le mosche, non vede restringersi il cerchio dell’orizzonte, discende nella miseria, è aspirata dalla miseria. Il potere della miseria non si giudica dal numero dei miserabili, cioè dal numero d’uomini che mancano assolutamente del necessario. È possibile che la società moderna la finisca con la povertà, forse soltanto eliminando a ogni generazione i nati poveri, gli inadatti, gli inadattabili, con una regolamentazione delle nascite e una stretta selezione. Io non credo per niente che riducendo il numero dei poveri si riduca al tempo stesso quello dei miserabili. Io penso al contrario che il misericordioso sacerdozio della povertà fu precisamente stabilito in questo mondo per riscattarlo dalla miseria, dalla feroce e contagiosa disperazione dei miserabili.

Se noi potessimo disporre di qualche mezzo per scoprire la speranza come il rabdomante scopre l’acqua sotterranea, è avvicinando dei poveri che noi vedremo torcersi tra le nostre dita la bacchetta di nocciolo. La povertà non è un uomo che manca, per stato, del necessario: è un uomo che vive poveramente, secondo l’immemoriale tradizione della povertà, che vive giorno per giorno, del lavoro delle sue mani, che mangia nella mano di Dio, secondo la vecchia tradizione popolare. Egli vive non solo dell’opera delle sue mani, ma anche della fraternità degli altri poveri, delle mille piccole risorse della povertà, del previsto e dell’imprevisto».
LiviaGloria
00domenica 4 gennaio 2009 11:25
LiviaGloria
00giovedì 8 gennaio 2009 20:10
lapaginadisanpaolo.unblog.fr/tag/teologia/teologia-biblica/



Il tema è affascinante. Tutti coscientemente o incoscientemente tentiamo verso la piena realizzazione di noi stessi. Tale entusiasmo istintivo, però, si attenua appena si vuole approfondire il fenomeno della “maturità”; di essa è persino difficile dare una definizione sia da un punto di vista psicologico che spirituale. Di più: se cerchiamo di investigare il concetto di “maturità” in uno scrittore dell'antichità, il problema diviene ancora più complesso, dato che non sempre vi è coincidenza tra il nostro e il suo “concepire la maturità”. Proprio per questo mi sembra bene prima presentare una definizione di “maturità” quanto più possibile vicina al nostro modo di pensare e poi di confrontarla con il pensiero di Paolo. In tal modo, possiamo rilevare coincidenze e differenze tra il nostro modo di pensare la “maturità” in generale e la “maturità cristiana” in particolare. Solo dopo tale analisi, potremo approfondire il concetto particolare di “maturità cristiana” nell'insieme del pensiero di Paolo, l'apostolo del progetto di Dio per la costituzione dell'uomo nuovo nel Cristo Gesù. Tale progetto, negli scritti paolini, ha una duplice traiettoria: una dottrinale e una parenetica. La traiettoria dottrinale riguarda la nostra maturità come progetto voluto da Dio, realizzato nel Cristo e portato alla sua perfezione nell'opera dello Spirito in noi. La traiettoria parenetica, invece, delinea un comportamento di maturità basato sulle tre virtù teologali: fede, speranza e carità in vista della edificazione della comunità dei credenti, che nel Cristo formano l'uomo nuovo, voluto da Dio.

1) Maturità e perfezione in S. Paolo

L'enunciato del tema presenta un'oscillazione tra due termini, forse sinonimi tra loro, ma di sicuro di estrazione culturale diversa: maturità e perfezione; il primo è più comune in campo psico-sociologico, il secondo in campo religioso. Tale distinzione diviene più marcata se i due termini li si cerca all'interno del NT e in particolare in S. Paolo. L'apostolo non usa mai il termine “maturità”, ma ha una sua concezione della maturità; usa molto il termine “perfezione”, ma non sempre coincide con il nostro concetto di maturità. A noi, quindi, il compito di definire, per quanto ciò sia possibile, il nostro concetto di “maturità” e poi vedere se tale concetto coincide con il concetto di “perfezione” usato da Paolo.

a) Il nostro concetto di maturità

Nei vocabolari della lingua italiana, si possono trovare sia una definizione statica di maturità: “Raggiunta pienezza delle proprie capacità intellettuali e morali” (Garzanti), sia una definizione comportamentale: “Capacità di orientamento o di comportamento, fondata sull'acquisizione seria, completa e definitiva dei dati dell'esperienza” (Devoto-Oli), sia una definizione che unisce i due aspetti: “pieno sviluppo delle qualità intellettuali, morali, spirituali di un individuo; capacità di comportarsi, di agire, di giudicare in modo autonomo e adeguato alle circostanze” (De Mauro). In modo simile si esprimono i dizionari di psicologia. Così, Hans Joachim Engels definisce la maturità nel Dizionario di psicologia: “Stato di completa e stabilizzata differenziazione e integrazione somatica, psichica e mentale; attitudine a eseguire i compiti assegnati al singolo individuo e ad affrontare le esigenze della vita”. Più qualitativa mi sembra la definizione offerta da R. Zavalloni nel Dizionario di Spiritualità: “La «maturità umana» è la consapevole pienezza di tutte le proprie capacità fisiche, psichiche e spirituali, ben armonizzate e integrate tra loro”. Analizzando brevemente e senza alcuna pretesa di completezza queste definizioni, mi sembra che emergano due momenti essenziali del concetto di “maturità umana”: da una parte, la maturità è concepita come una “pienezza”, “raggiunta”, “completa” “stabilizzata”, “consapevole”, che fa supporre un cammino progressivo verso una meta, uno stato o condizione di essere che, una volta raggiunto, chiamiamo maturità; essendo “stabile”, non dovrebbe mutare, ma mantenersi sempre tale; essendo “consapevole”, significa che chi la possiede ha piena coscienza del cammino fatto per acquisire una perfetta armonizzazione e integrazione di tutte le sue capacità fisiche, psichiche e spirituali. Tale individuo maturo è capace di un orientamento e comportamento adeguato “ad affrontare le esigenze della vita”, a giudicare i problemi con equilibrio e ad offrire soluzioni concrete e proporzionate a tali problemi. Tale concetto di “maturità umana” è un'astrazione, comoda come ideale da raggiungere; in concreto, ci accontentiamo molto di meno per definire qualcuno come una “persona matura”. In ogni caso, quel concetto ci è utile nella nostra ricerca e mi sembra che si avvicini molto a quello di “perfezione” della tradizione cristiana in generale e di quella paolina in particolare. In verità, già nel pensiero greco il termine “teleios”, “perfetto”, indica ciò che non ha più bisogno di alcun accrescimento nell'abilità o nella capacità di operare, che non manca di nulla per essere completo. Così, nella filosofia stoica, “l'uomo perfetto”, “l'adulto”, si distingue dal “bambino”, perché è colui che possiede tutte le qualità morali e agisce in conformità con le virtù. Tale “perfezione-maturità” si avvicina al nostro concetto moderno di “maturità”, ma si distingue da esso per la sua relazione a Dio o alla “virtù” da conseguire e da porre in atto nella propria vita. Per noi la “maturità” ha senso soggettivo e individualista: è “la capacità di comportarsi, di agire, di giudicare in modo autonomo e adeguato alle circostanze”; per il mondo greco, e per quello antico in genere, è un “concetto relazionale”: è un modo di comportarsi in maniera adulta all'interno della “polis” o del “cosmos”, rispettandone le leggi e gli obblighi assunti. “Vivere bene” e “agire bene” ha senso solo se mi fa vivere in perfetta comunione con gli altri. Il filosofo ebreo Filone, molto vicino agli stoici, ha scritto: la felicità consiste non tanto nel possedere la virtù, ma soprattutto nel praticarla; ma ciò non è possibile se Dio non la fa fruttificare Il testo è importante per noi: perché pone in rilievo il carattere personale, non soggettivo o individuale, della maturità: l'uomo è sempre in relazione con Dio e i suoi simili; inoltre, perché sottolinea il carattere concreto della maturità: non sono maturo perché posseggo tutte le virtù o le capacità operative, ma perché li pongo al servizio degli altri; infine, perché concepisce la maturità come partecipazione alla perfezione assoluta di Dio: solo Dio è perfetto, l'uomo lo è per partecipazione.

b) il concetto paolino di maturità

In Paolo, la terminologia della “perfezione” non è molto vasta: il sostantivo “telos” appare 12 volte e, se si esclude Rom 13,7, indica per lo più la meta verso cui l'uomo si dirige con le sue azioni (1Cor 10,11; 11,24; 2Cor 1,13): la morte (Rom 6,21; Fil 3,19; 1Tes 2,16) o la vita (Rom 6,22); ma soprattutto indica Cristo, che toglierà il velo dai nostri cuori per vedere le realtà eterne (2Cor 3,13), giudicherà ogni uomo secondo le sue opere (2Cor 11,15) che ci renderà giusti mediante la fede (Rom 10,4), santi e irreprensibili nel suo avvento glorioso (Rom 6,22). Anche il verbo “teleo”, “essere perfetti”, sottolinea questo andare verso il compimento. Così, Paolo, scoraggiato per la sua spina nel fianco, si sente dire: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente/è perfetta nella debolezza” (2Cor 12,9); tale perfezione, però, la si può raggiungere solo “se camminiamo secondo lo Spirito e non portiamo a compimento i desideri della carne” (Gal 5,16). Il sostantivo “telos” e il verbo “teleo” hanno una valenza escatologica: sottolineano il cammino del cristiano verso la meta che lo attende; anzi, la sua meta è Cristo che lo rinnova totalmente; la sua guida è lo Spirito che lo conduce alla “piena maturità di Cristo”. L'aggettivo “teleios”, “perfetto”, appare 8 volte e, come tutti gli aggettivi, qualifica una persona o un comportamento. Così, Paolo invita a “non conformarsi alla mentalità del mondo, ma a trasformarsi interiormente per discernere la volontà di Dio: ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2); per questo istruisce ogni uomo con ogni sapienza per rendere ciascuno perfetto in Cristo (Col 1,28); “ai perfetti” presenta non la sapienza di questo mondo, ma la sapienza di Dio (1Cor 2,6), che li aiuta ad essere “perfetti” nei giudizi (1Cor 14,20), a tendere nella fede e nella conoscenza allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13), ad avere i sentimenti di Cristo (Fil 3,15; cfr anche 2,1-5), ma soprattutto ad avere la carità, che è il vincolo della perfezione (Col 3,14); infine, egli esorta i cristiani a “conquistare” con tutta la potenza del loro amore “Cristo, lui che ci ha conquistato con la forza del suo amore” (Fil 3,12). Più che il sostantivo “telos” e il verbo “teleo”, l'aggettivo “teleios” sottolinea il senso della “maturità cristiana”. Essa non si basa solo sulle proprie capacità umane, ma soprattutto “sulla potenza di Cristo” (2Cor 12,9) e sulla “sapienza di Dio” (1Cor 2,6), che rinnova la mente del credente mediante la fede, lo spinge nel discernimento e nell'anelito, carico di speranza, ad unirsi totalmente a Cristo, lo rende perfetto e maturo in lui per amare Dio e i fratelli sotto l'azione dello Spirito. Ma Paolo non è solo un uomo dalle idee chiare, è anche un retore che ama esprimere le sue idee con dei contrasti forti, con dei chiaroscuri marcati. Per questo, nelle sue lettere, l'idea di maturità non è affidata solo ai termini analizzati, ma a delle antitesi che devono colpire il lettore o l'ascoltatore e smuoverne i sentimenti. In primo luogo, l'antitesi asimmetrica “bambini-perfetti”: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini perfetti/maturi quanto ai giudizi” (1Cor 14,20); “Tra i perfetti (= tra i maturi nella fede) parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla”; infatti, “quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor 13,10). A tale antitesi ne segue un'altra, l'antitesi esistenziale “carnale-spirituale”: “Dal momento che c'è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1Cor 3,3). Il cristiano, invece, deve comportarsi con santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza della carne ma con la grazia di Dio (2Cor 1,12); deve lottare “non con armi carnali”, ma “con la potenza di Dio” (1Cor 10,3-4), cioè “camminando secondo lo Spirito”

e così non soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). A tale proposito egli introduce l'antitesi personale “schiavi-liberi”: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito di figliolanza per mezzo del quale gridiamo: Abba! Padre” (Rom 8,15). In nessun momento il cristiano, se vuol essere perfetto/maturo, deve divenire schiavo della “carne”, cioè schiavo di tutto ciò che lo porta lontano da Dio e da Cristo, ma essere sempre “libero”, per realizzare la volontà di Dio e agire mediante lo Spirito da “figlio di Dio” (Gal 3,26-28; Rom 8,14-16). In ciò si determina la grande sintesi paolina: “essere uno in Cristo” (Gal 3,28) e “rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio e nella santità vera” (Ef 4,10), “rivestirsi di Cristo e così non seguire la carne nei suoi desideri” (Rom 13,14; Gal 5,17). Nel tempo escatologico, nel momento della prova, i credenti debbono essere persone mature: sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza, poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” (1Tes 5,8-10).

2) La maturità come progetto

Tale affermazione è fondamentale nel pensiero paolino. Per Paolo la maturità del credente non è opera umana, ma progetto divino sull'uomo e per l'uomo. Siamo destinati alla salvezza e per questo collaboriamo con Dio per realizzare la nostra maturità personale, umana e cristiana. Tale azione in sinergia, nel pensiero di Paolo, si sviluppa in tre momenti: l'iniziativa divina, il modello divino, la guida dello Spirito.

a) L'iniziativa divina: “scelti per essere santi e immacolati”

In 1Tes 4,3, l'apostolo afferma con vigore: “Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione”. L'affermazione è chiara, ma non a sufficienza. Per la lingua italiana, il termine “volontà” è un termine astratto, che indica la capacità di volere qualcosa, la facoltà di decidere consapevolmente il proprio comportamento. Paolo usa, invece, il termine “telema”, che indica l'effetto del “volere”, il progetto di amore che Dio ha sull'uomo. Maturità, pertanto, è portare a compimento il progetto che Dio ha su ciascuno di noi. Anche il termine “santificazione”, essendo in italiano come in greco un termine di azione, va in questa linea progressiva della maturità cristiana. Portare a compimento il progetto di Dio, in cui si realizza la nostra maturità

personale cristiana, consiste nel “divenire santi”, nell' abbandonarci totalmente a Dio per partecipare alla sua santità. È Dio che ci santifica, perché nel Cristo e mediante Cristo “ci ha redenti e resi partecipi della sorte dei santi nella luce” (Col 1,13), e inoltre mediante l'azione perfezionatrice dello Spirito abbiamo accesso al Padre nella gloria (Ef 1,14; 2,18). Noi collaboriamo con Dio, perché egli “nel Cristo ci ha scelti per sé prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4). Un testo meraviglioso, che ci manifesta tutto il pathos dell'immedesimazione di Paolo al progetto di Dio per noi. “Ci ha scelti per sé”: noi traduciamo come possiamo, ma Paolo ha usato un solo termine, un parola che ricapitola tutto l'amore salvifico di Dio, il suo progetto di amore per noi dall'eternità, il suo interesse verso i suoi figli, che ha benedetto, predestinati, ai quali ha fatto grazia e ai quali ha manifestato il mistero del suo disegno di amore (Ef 1,4-10). La nostra salvezza ha origine dalla “eudokia” del Padre, dal “beneplacito della sua volontà”, da un atto del suo amore infinito per noi, che “siamo stati scelti per essere santi e immacolati”. Tale elezione, stando ad Ef 1,4, assume tre caratteristiche fondamentali. Ha una connotazione teologica: essa è stata stabilita da Dio “prima della fondazione del mondo”, procede dall'amore infinito di Dio (1,4) come progetto in favore dell'uomo, trova il suo compimento “dinanzi a lui” (1,4); ha, poi, una connotazione cristologica: l'elezione trova il suo compimento “nel Diletto” (1,6), “nel Cristo”, in cui tutto è ricapitolato e tutto tende verso l'unità (1,10); infine, ha un carattere escatologico, perché l'elezione è orientata “all'essere santi e immacolati” (1,4), in una parola alla santificazione, che è insieme partecipazione alla santità di Dio (cfr 1,14) e offerta santa e a lui gradita di tutto noi stessi (cfr 1,12).



Prof. Marcello Buscemi: “Verso la piena maturità di Cristo” (II parte)
( docenti -Prof. Padre A. M Buscemi - SBF Jerus et teologia - cristologia et teologia - biblica )

DEL PROF. MARCELLO BUSCEMI:

VERSO LA PIENA MATURITÀ DI CRISTO

Aspetti della perfezione cristiana in San Paolo

SECONDA PARTE

b) il modello divino: Cristo, l'uomo nuovo

Legato intimamente al tema della nostro “essere santi e immacolati”, Paolo pone il tema del nostro essere predestinati ad “essere figli” (Ef 1,4-7). L'elezione alla santità Dio l'ha concepita come un rapporto familiare tra Padre e figli, più precisamente come un nostro partecipare al rapporto che intercorre tra il Padre e il Figlio del suo amore. Siamo figli nel Figlio. Ed è in Cristo che il progetto di amore si concretizza in maniera dinamica e progressiva all'interno del “telema” divino. In lui, che è il Figlio in cui il Padre si compiace, noi siamo predestinati ad essere figli in cui risplende la santità a gloria della sua grazia (1,6). Tutta la vita del cristiano è orientata, destinata all'amore (1,4) e ha come modello l'amore stesso di Cristo (Ef 1,5; Rom 3,29; Fil 3,21): far risplendere nella propria esistenza la gloria del Padre (1,6), la ricchezza della sua grazia (1,7), la grandezza del suo amore infinito (1,5.11). Nessuno, però, può realizzare tale progetto divino con le proprie forze: l'autogiustificazione, come l'autorealizzazione, è fuori dallo schema teologico paolino. Per questo la nostra adozione a figli, nel progetto divino, avviene “per mezzo di Cristo” e avendo come modello Cristo (1,5), “l'uomo nuovo”, con il quale ogni credente deve confrontarsi e del quale deve portare l'immagine (Ef 2,15). Riprodurre gli stessi lineamenti di Cristo al punto di “essere “uno in lui” (Gal 3,28), perché solo “chi è in Cristo è una nuova creatura” (2Cor 5,17). Questo “uno” è “l'unico uomo Cristo Gesù” (Rom 5,15-17), l'Adamo escatologico, nel quale noi troviamo il dono della grazia sovrabbondante di Dio (Rom 5,15). L'uomo nuovo è Cristo, in cui tutti noi siamo riconciliati con Dio mediante la sua croce e formiamo un solo corpo (Ef 2,16), per avere in un solo spirito accesso al Padre (Ef 2,18). In lui non sono annullate le differenze, ma valorizzate in vista della “nuova creazione”, dell'“uomo nuovo”.

c) la crescita: sotto la guida dello Spirito

La nostra perfezione/maturità è opera di Dio, che la porta a compimento nel tempo sotto l'azione incessante e perfezionatrice dello Spirito. La nostra “santificazione”, proprio perché è un progetto, si matura “nel tempo”, meglio “nell'amministrazione dei tempi” (Ef 1,10) voluti da Dio, che li porta avanti e li guida verso la loro pienezza, perché raggiungano lo scopo per cui sono stati stabiliti. Sono tappe di grazia e di benedizione, segnate dalla benevolenza divina, nelle quali si realizza il progetto di Dio a nostro favore. Il tempo scorre, ma è nelle mani di Dio, che lo guida per le sue vie, lo porta al compimento attraverso i momenti della sua grazia per raggiungere “la pienezza del tempo” (cfr Gal 4,4). In questo scorrere del tempo e attraverso i tempi, il credente deve rimanere in sintonia con Dio mediante lo Spirito: “Non spegnete lo Spirito” (1Tes 5,19). Lo Spirito Santo, infatti, è in azione nella vita del cristiano sin dall'inizio della “vita nuova in Cristo”, sin dal battesimo. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 3,3: “Dopo aver cominciato mediante lo Spirito, ora volete essere condotti alla perfezione mediante la carne?”. Nel battesimo il credente, dopo “essersi lasciato crocifiggere con Cristo” (Gal 2,19-20), ha ricevuto lo Spirito (Gal 3,3) e lo Spirito abita in lui (Rom 8,9-11). Ha inizio “la vita nuova in Cristo” e il cristiano la vive “mediante lo Spirito”. “In lui anche voi, dopo aver udito la parola della verità, il Vangelo della nostra salvezza, dopo aver creduto, siete stati contrassegnati con lo Spirito della promessa” (Ef 1,13-14). Lo Spirito, in primo luogo, agisce nel cuore dei credenti. Egli, infatti, è stato inviato da Dio nei nostri cuori (Gal 4,6) e “ci ha segnati col suo sigillo e ha posto la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2Cor 1,21-22). E tale avvento ha un primo effetto descritto da Rom 5,5: “La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato”. Sta qui tutta la vita del cristiano: mediante la fede espressa nel battesimo abbiamo ricevuto il dono dello Spirito; ricevuto lo Spirito bisogna “camminare secondo lo Spirito”, attendere “la speranza della giustificazione” (Gal 5,5), vivere la fede agente mediante l'amore. E l'amore è libertà dalla legge (5,18), da un'esistenza egoista (5,24), dal peccato (Gal 3,22) e dal dominio minaccioso del mondo presente (Gal 1,4; 6,14). È vivere da creature nuove (Gal 6,15), da figli di Dio (Gal 4,5-7). Ma l'azione potente dello Spirito ci plasma interiormente, solo “se realmente viviamo secondo lo Spirito, per conformarci allo Spirito” (Gal 5,25). Notate la condizionale della realtà: quel “se realmente” prende di mira tutti i nostri “se”, “ma”, in una parola tutti i nostri contorcimenti mentali e compromessi comportamentali da “persone immature”. Non si può giocare con lo Spirito, non lo si può prendere per il naso (Gal 6,7). Bisogna decidersi costantemente per una lotta senza concessioni alla carne, al nostro egoismo, in modo che lo Spirito divenga l'orizzonte interiore del nostro vivere in Cristo e la forza determinante della nostra crescita spirituale. “Non spegnere lo Spirito” (1Tes 5,19), ma seguirne sempre e con obbedienza le sollecitazioni interiori. Solo allora si divieni liberi e persone mature in Cristo, perché si abbandona il comportamento da bambini e si adempie perfettamente da adulti la legge di Dio, l'amore.

3) La maturità cristiana tra presente e futuro

Paolo in 2Cor 4,18 afferma: “L'uomo interiore si rinnova di giorno in giorno”. È un'affermazione

poderosa che mette in giusto rilievo la dinamicità e la progressività del “vivere in Cristo”. L'opzione che il cristiano ha fatto nel momento del battesimo non è solo un atto momentaneo e isolato che introduce il credente nella vita cristiana, ma è insieme inizio e sviluppo progressivo (Fil 1,25), “di fede in fede” (Rom 1, 17), del vivere sotto l'azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro “essere e vivere in Cristo” nella speranza, del nostro “camminare secondo lo Spirito” lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia e operare nell'amore in risposta al progetto di Dio su di noi. Solo una vita segnata dalle tre virtù teologale può formare giorno per giorno la nostra personalità cristiana e la nostra maturità in Cristo.

a) maturità e fede: forti nella fede

Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine “credere”, dato che il verbo in se stesso indica l'azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco “pistis”, che noi traduciamo con “fede”. Nella lingua greca è un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma esprime un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, un “correre per afferrare Cristo, che prima ci ha afferrato” (Fil 3,12), un “correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), “un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3). In breve: per Paolo la fede è vita, e “il mio vivere è Cristo” (Fil 1,21).Tale visione dinamica della fede investe e determina tutta l'esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l'uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: “io credo in Gesù Cristo”, egli esprime una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa, demoniaca, che afferra le profondità dell'animo umano, rendendolo un “bambino senza giudizio e senza discernimento”, schiavo della cattiveria, dell'impurità, dell'empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20). In tale proclamazione, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5,22; Fil 4,4-7), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presente acquista senso e si apre ad un compimento più grande: il divenire adulti in Cristo. L'essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamento incessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria (Col 2,4).

b) Maturità e speranza: costanti nella speranza

Pascal, riflettendo sulla fede, l'ha definita “un salto nel buio”, una “scommessa” per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l'uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con Dio. Parlare, invece, di “coraggio della fede” per chi ha già scelto di “vivere nell'obbedienza della fede” e nella speranza che attende il compimento può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivere ogni giorno la propria fede e rimanere saldi nella speranza ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede e della speranza: per il credente ogni momento della sua vita è “decisione per Dio”. Una decisione dell'intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l'ago della bussola verso il Nord. Tale orientamento, per Paolo, è possibile solo se il cristiano si lascia penetrare e guidare dallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (Gal 3,2.5) come fonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare nella speranza: “Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tende lo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia” (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all'intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: “Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali” (1Cor 2,12-13); incita la volontà del credente a camminare in maniera degna di Cristo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze” (Gal 5,24-25), per produrre “il frutto dello Spirito, l'amore” (Gal 5,22-23); muove il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: “Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre!” (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche operatore e donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, la scintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazie allo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all'uomo perfetto, alla misura della pienezza della maturità di Cristo” (Ef 4,13).

c) maturità e carità: operosi nella carità

Esiste un intimo rapporto tra fede, speranza e agire credente. È vero: Paolo spesso definisce la vita cristiana come un “rimanere saldi nella fede, nel Signore” (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Ma attenzione: bisogna “rimanere saldi” nella concretezza della nostra vita. In tal senso, il “rimanere saldo” non è semplice attesa della “speranza della giustificazione” (Gal 5,5), ma concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, una fede agente per mezzo della carità (Gal 5,6), un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il “rimanere saldi nella fede” è un'esistenza fondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell'adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell'amore secondo la radicalità di Dio espressa nella “legge di Cristo” (Gal 6,2). Il cristiano non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé “la legge di Cristo”, meglio: “la legge che è Cristo”. Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende “conforme a sé” (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della “legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù”. Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un'altra, né di compiere questa o quell'altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l'esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell'amore, “la legge di Cristo”, che per primo “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Gal 2,20). E “l'opera della fede”, di cui parla Paolo in 1Tes 1,3 e 2Tes 1,11, è l'amore che anima la fede. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: “ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità”. Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non una fede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell'amore. Così, fede e amore non possono essere

separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l'amore la rende viva per la potenza dello Spirito Santo, sotto la cui guida diveniamo maturi in Cristo, fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.

d) maturi nella Chiesa e per la Chiesa

Raggiungiamo, così, la dimensione comunitaria della maturità cristiana sotto l'azione perfezionatrice dello Spirito. La sua azione non è diretta solo a formare l'individuo, il cristiano secondo lo Spirito, ma attraverso la formazione dei singoli credenti tende soprattutto ad edificare la comunità ecclesiale, il “corpo di Cristo”. “E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, sia Giudei sia Greci, sia servi, sia liberi; tutti ci siamo abbeverati in un solo Spirito” (1Cor 12,13). Attraverso l'azione dell'unico Spirito si costituiscono le membra dell'unico corpo di Cristo. Come all'inizio della prima creazione, nel soffio dello Spirito si forma la Chiesa, corpo di Cristo (cfr Col 2,18a). Per mezzo della fede siamo tutti divenuti figli di Dio e nel battesimo ci siamo rivestiti di Cristo e “non c'è più né Giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo e donna, ma tutti voi siete uno nel Cristo Gesù” (Gal 3,26-28). La morte di Cristo ha annullato le differenze e per tutti i popoli la benedizione di Abramo è divenuta una realtà, perché tutti abbiamo ricevuto lo Spirito promesso (Gal 3,13-14). Ed è lo Spirito Santo che crea la comunità, la fa divenire un corpo solo, un solo “uomo nuovo”. Egli realizza, attualizza e manifesta il nostro “essere uno in Cristo”, in modo che noi siamo nel Cristo e Cristo è in noi (Gal 2,20). Nello Spirito diveniamo una comunità viva, afferrata da Cristo Signore nel più profondo della nostra esistenza (Gal 2,20), efficace nella potenza dei carismi che il Padre ci elargisce (Gal 3,5). Per questo Paolo può scrivere in 1Cor 12,4-11: “Vi sono diversità di carismi, ma identico è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma lo stesso è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma lo stesso è Iddio che opera tutto in tutti. A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune”. Tale testo è importante: 1º) perché mette in evidenza che è Dio che opera tutto in tutti, elargendoci lo Spirito e i doni dello Spirito (cfr Gal 3,5). 2º) Tutto deriva dall'unico Spirito: nella vita cristiana la cosa più importante non è possedere questo o quell'altro carisma; i carismi sono manifestazioni dell'unico Spirito e pertanto ciò che conta è “ricevere lo Spirito” ed essere fedeli e obbedienti a lui, in modo da produrre sotto la sua guida il frutto dello Spirito: l'amore. 3º) Ogni manifestazione dello Spirito è per il bene comune: ciascuno deve operare come membro dell'unico corpo, che, pur nella diversità dei carismi e della propria storia personale, deve divenire “uno in Cristo” (Gal 3,28) e contribuire ad edificare l'uomo nuovo “nel Cristo Gesù” (Ef 2,14-16): “in lui l'intero edificio, ben compaginato, cresce in tempio santo nel Signore; in lui anche voi, insieme con gli altri, venite costruiti per divenire abitazione di Dio in virtù dello Spirito” (Ef 2,21-22). Tutti i carismi sono dati per l'edificazione della Chiesa di Dio nella carità, “in maniera che perveniamo tutti alla perfetta unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all'uomo perfetto, alla misura della piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).



Benedetto XVI: superare il dualismo tra esegesi e teologia
( BIBLICA (sugli studi di) et PAPA BENEDETTO XVI E SAN PAOLO et TEOLOGIA et teologia - biblica )

dal sito:

www.zenit.org/article-15823?l=italian

Benedetto XVI: superare il dualismo tra esegesi e teologia

Intervento al Sinodo dei Vescovi

CITTA' DEL VATICANO, domenica, 19 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento che Benedetto XVI ha pronunciato martedì 14 ottobre durante la Quattordicesima Congregazione Generale della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Il testo è stato in seguito trascritto e pubblicato questo sabato dalla Sala Stampa della Santa Sede.

* * *

Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l'occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall'esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi. La Dei Verbum 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico. In primo luogo, conferma la necessità dell'uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali. Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Gv 1, 14 Verbum caro factum est. Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.

Tuttavia, questa storia ha un'altra dimensione, quella dell'azione divina. Di conseguenza la Dei Verbum parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina. Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia: si deve cioè 1) interpretare il testo tenendo presente l'unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l'unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l'analogia della fede. Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica - di una esegesi adeguata a questo Libro. Mentre circa il primo livello l'attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l'altro livello. Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze piuttosto gravi.La prima conseguenza dell'assenza di questo secondo livello metodologico

è che la Bibbia diventa un libro solo del passato. Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l'esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura. Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato. C'è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l'ermeneutica della fede indicata dalla Dei Verbum, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un'ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all'elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini. Oggi il cosiddetto mainstream dell'esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba. La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica. Questo avviene perché manca un'ermeneutica della fede: si afferma allora un'ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell'ingresso e della presenza reale del Divino nella storia. La conseguenza dell'assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina. Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie. Dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.

Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia. La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un'unica realtà, che chiamiamo teologia. Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni si parli della necessità di tener presenti nell'esegesi i due livelli metodologici indicati dalla Dei Verbum 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica. Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.



LiviaGloria
00martedì 13 gennaio 2009 11:29
LiviaGloria
00venerdì 27 febbraio 2009 12:20
lapaginadisanpaolo.unblog.fr/tag/padri-della-chiesa/santa...

DOMENICA 22 FEBBRAIO 2009 - VII SETTIMANA DEL T.O.

Seconda Lettura 2 Cor 1, 18-22
Gesù non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì».

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no». Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria.
È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.

DAL SITO BIBLE SERVICE:

2 Corinthiens 1,18-22
La force de ce texte est à la mesure de l'enjeu dramatique qui est engagé. Il s'agit de savoir si nous disons ” oui ” ou ” non ” à Dieu qui, une fois de plus, propose son alliance dans l'eucharistie d'aujourd'hui.

” Le Fils de Dieu, le Christ Jésus… n'a pas été à la fois “oui” et “non” ; il n'a jamais été que “oui”. ” La vie spirituelle de chacun d'entre nous, mais aussi l'avenir de l'humanité dépend de la réponse. En vérité, la réponse est déjà engagée : nous avons déjà dit ” oui “, nous sommes déjà ” consacrés ” et ” marqués ” par le baptême et la confirmation réactualisés en chaque sacrement, mais le ” oui ” de maintenant a aussi une fécondité infinie, et c'est maintenant qu'il faut encore dire ” oui “.


2Cor 1, 18-22

La forza di questo testo si trova nel gioco drammatico in cui è coinvolto. La questione è di sapere se noi diciamo “si” o “no” a Dio che, ancora una volta, offre la sua alleanza nell'eucarestia di oggi.

“Il Figlio di Dio, Gesù Cristo…non è stato nello stesso tempo “si” e “no”; egli è stato sempre “si”. La vita spirituale di ciascuno di noi, ma anche il futuro dell'umanità, dipende dalla risposta. In verità, la risposta è già intrapresa: abbiamo già detto 'sì', noi siamo già “consacrati” e “segnati” dal battesimo che la cresima attualizza di nuovo in ogni sacramento, ma “sì” di ora ha ancora una fecondità infinità, ed è per questo che di deve dire ancora, sempre “si”.

PRIMI VESPRI

Lettura breve Eb 13, 20-21
Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un'alleanza eterna (cfr. Zc 9, 11 gr.; Is 55, 3), il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che a lui è gradito per mezzo di Gesù Cristo, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

UFFICIO DELLE LETTURE - SECONDA LETTURA A SCELTA

Dal «Trattato sulla prima lettera di san Giovanni» di sant'Agostino, vescovo (VII, 1. 7. 9; PL 35, 2029. 2032. 2033. 2034)

Se non vuole morire bevete la carità
Questo mondo appare a tutti i fedeli, che sono in cammino verso la patria, come appariva il deserto al popolo d'Israele. Se ne andavano vagabondi alla ricerca della patria; ma non potevano smarrirsi perché erano sotto la guida di Dio.
La strada per loro fu il comando di Dio.
Furono raminghi per quarant'anni, ma il loro viaggio si sarebbe potuto compiere in pochissime tappe, tutti lo sappiamo. Veniva rallentata la loro marcia, perché erano messi alla prova, non perché fossero abbandonati.
Quello che Dio ci promette, è una dolcezza ineffabile, un bene, come dice la Scrittura e come sovente udiste dalle nostre parole, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d'uomo (cfr. 1 Cor 2, 9; Is 64, 4).
Siamo messi alla prova dagli affanni terreni e riceviamo esperienza dalle tentazioni della vita presente. Ma se non vogliamo morire assetati in questo deserto, beviamo la carità. E' la sorgente che il Signore volle far sgorgare quaggiù, perché non venissimo meno lungo la strada: ad essa attingeremo con maggiore abbondanza, quando saremo giunti alla patria.«In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi» (1 Gv 4, 9).
Siamo esortati ad amare Dio. Lo potremmo amare, se egli non ci avesse amati per primo? Se fummo pigri nell'intraprendere l'amore, non siamo pigri nel ricambiare l'amore! Egli ci ha amato per primo e in un modo tale come neppure noi sappiamo amare noi stessi.
Amò dei peccatori, ma tolse il loro peccato: sì, amò dei peccatori, ma non li radunò in una comunità di peccato. Amò degli ammalati, ma li visitò per guarirli.
«Dio, dunque, è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (1 Gv 4, 8. 9).
Allo stesso modo il Signore disse: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13); e, in quella circostanza, fu verificato l'amore di Cristo verso di noi, perché egli morì per noi.
Ma l'amore del Padre verso di noi, in quale cosa ebbe la sua verifica? Nel fatto che mandò l'unico suo Figlio a morire per noi. L'Apostolo dice appunto: «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8, 32).

«Egli ha mandato il suo Figlio, come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4, 10), quindi come espiatore, come sacrificatore. Offrì un sacrificio per i nostri peccati. Dove trovò l'offerta, dove trovò la vittima pura che voleva immolare? Non trovò altri all'infuori di sé, e si offerse.
«Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4, 11).
Però, fratelli miei, quando parliamo di carità vicendevole dobbiamo guardarci dall'identificarla con la pusillanimità o con un'inerte passività. Avere la carità non significa certo essere imbelli e corrivi. Non pensate che la carità possa esistere senza una certa bontà o addirittura senza alcuna bontà. La carità autentica non è certo questo.
Non credere di amare il tuo domestico unicamente per il fatto che gli risparmi la meritata punizione, o che vuoi bene a tuo figlio solo perché lo lasci in balia di se stesso, o che porti amore al prossimo solo perché non gli fai nessuna correzione. Questa non è carità, ma mollezza.
La carità è una forza che sollecita a correggere ed elevare gli altri. La carità si diletta della buona condotta e si sforza di emendare quella cattiva. Non amare l'errore, ma l'uomo. L'uomo è da Dio, l'errore dall'uomo. Ama ciò che ha fatto Dio, non ciò che ha fatto l'uomo. Se ami veramente l'uomo lo correggi. Anche se talvolta devi mostrarti alquanto duro, fallo proprio per amore del maggior bene del prossimo.
LiviaGloria
00martedì 2 giugno 2009 12:28
La giustificazione per fede
www.letterepaoline.it/node/122

La giustificazione per mezzo della fede

* Letture
* zona4

Autore articolo:
di Joachim Jeremias | 25 maggio 2009

Testo tratto da J. Jeremias, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, trad. it. Paideia, Brescia 1968 (ed. or. Stuttgart 1962), pp. 57-81. La Redazione di letterepaoline.it si impegna a rimuovere il testo, qualora la sua presenza nel sito non fosse gradita agli aventi diritto.

1. Il significato della formula
2. Giustificazione e nuova creazione
3. L’origine della dottrina paolina della giustificazione

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1. Il significato della formula

Ci domandiamo: che cosa si intende con a) essere giustificati, b) dalla fede, c) per grazia? Come il verbo ebraico tzadhaq, il dikaioûn dei LXX appartiene alla terminologia legale. Nella forma attiva esso significa “far giustizia ad uno”, “dichiarare uno innocente”, “assolvere un imputato”. Conformemente, il significato passivo è “vincere in tribunale”, “esser dichiarato innocente”, “essere assolto”.

In questo senso dikaioûn è usato anche nel Nuovo Testamento, cf. Mt 12,37, che si riferisce al giudizio finale: «Poiché dalle tue parole sarai giustificato (dikaiōthēsē-i) e dalle tue parole sarai condannato». Lo stesso contrasto “assolvere” – “condannare” ricorre anche in Rm 8,33 s., che è una citazione da Is 50,8: «È Dio che giustifica (theòs ho dikaiôn): chi li condannerà?». Tutto ciò si può leggere in ogni lessico. Tuttavia, si deve notare che il verbo dikaioûn / dikaioûsthai aveva subito un’estensione del suo significato in particolare allorché veniva usato a proposito dell’azione di Dio. La nuova sfumatura di significato si trova per la prima volta nel Deutero-Isaia. Is 45,25 dice nei LXX:

Dal Signore saranno giustificati (dikaiōthēsetai)
e da Dio saranno glorificati
tutti i discendenti di Israele.

In questa frase, è chiaro che il Deutero-Isaia esce dai limiti dell’uso forense. Il parallelismo tra “essere giustificato” ed “essere glorificato” dimostra che dikaioûsthai qui assume il significato di “trovare salvezza”.

Per quanto ne so, non è ancor stato notato che quest’uso sopravvisse nell’ebraismo post-biblico. Almeno due esempi se ne possono addurre. Nelle Antichità Bibliche dello Pseudo-Filone (scritte dopo il 70 d.C.) “esser giustificati” appare come parallelo all’elezione di Dio (49,4) e similmente nel IV Esdra (scritto nel 94 d.C.) “trovare grazia”, “essere giustificati” e “essere esauditi nella preghiera” vengono usati come sinonimi (12,7). L’ultimo passo menzionato è l’inizio di una preghiera. Essa dice:

O altissimo Signore,
se io ho trovato grazia ai tuoi occhi
e se sono stato giustificato alla tua presenza dinanzi a molti
e se la mia preghiera sale sicuramente al tuo cospetto...

Le tre ultime linee sono in parallelismo. Nella prima e seconda “trovar grazia” si alterna con “essere giustificato” senza nessun mutamento apparente di significato. Quindi la traduzione letterale, “esser giustificato”, è troppo ristretta e non rivela il senso intimo dell’espressione. Piuttosto, ecco ciò che il testo intende:

Se io ho trovato grazia ai tuoi occhi
e se ho trovato benevolenza alla tua presenza dinanzi a molti...

Il punto importante, qui, è che l’idea di un giudizio in tribunale è stata abbandonata. “Essere giustificato”, come espressione applicata a un atto di Dio e parallela a “trovare grazia”, non ha il senso ristretto di “essere assolto”, ma piuttosto quello più esteso di “trovare benevolenza”. Questo è confermato dalla terza linea parallela, che indica come la grazia di Dio, la sua benevolenza, si esprime: essa consiste nell’esaudire la preghiera.

Tutto ciò ci conduce a un detto evangelico, e precisamente a Lc 18,14, in cui Gesù dice del pubblicano: «Io vi dico, quest’uomo se ne tornò giustificato a casa sua, e non quell’altro». Anche qui il riferimento forense è stato abbandonato. Anche qui “essere giustificato” ha piuttosto il significato di “trovare benevolenza presso Dio”. Anche qui questa benevolenza di Dio si manifesta nel fatto che egli ascolta le preghiere. Lc 18,14, quindi, dev’essere reso conseguentemente: «Io vi dico, quest’uomo se ne tornò a casa come chi ha trovato benevolenza presso Dio, e non quell’altro». Potremmo spingerci sino a tradurre: «Io vi dico, quest’uomo se ne tornò a casa come uno la cui preghiera è stata esaudita da Dio, e non quell’altro».

Ci siamo così imbattuti in un uso di dikaioûsthai in cui il riferimento forense sembra esser stato diluito od anche completamente abbandonato. Vorrei chiamare quest’uso, per distinguerlo da quello forense, “soteriologico”.

È ovvio che in Paolo, pure, l’uso di “giustificare” (o “essere giustificato”) va molto oltre la sfera legale. Benché l’aspetto forense non manchi del tutto – abbiamo già menzionato il finale simile a un inno di Rm 8, in cui Paolo (nei vv. 33 s.) usa l’immagine del processo giudiziario, citando Is 50,8: «È Dio che assolve (dikaioûn); chi condannerà?» – il riferimento soteriologico domina il suo discorso. Per Paolo, l’attivo dikaioûn significa “concedere grazia e beneficio”, il passivo dikaioûsthai “trovare grazia e benevolenza”. Che l’immagine della procedura giudiziaria sia lontana appare particolarmente evidente là dove Paolo parla di una giustificazione appartenente al passato, come ad esempio in Rm 4,2: «Se Abramo trovò grazia (edikaiōthē) in virtù delle opere».

A proposito della storia della fede di Abramo non possiamo parlare di vicende giudiziarie, ma piuttosto di concessione di grazia divina. Lo stesso è vero a proposito di 5,1: «Così dunque, avendo trovato grazia (dikaiōthéntes) in virtù della fede, noi siamo in pace con Dio»; e di 5,9: «Poiché abbiamo trovato grazia (dikaiōthéntes) nel suo sangue». La giustificazione di Dio è un’effusione di grazia, che eccede di gran lunga la sfera legale.

Per quanto riguarda il sostantivo dikaiosynē (toû) theoû, l’aspetto soteriologico è stato notato molto tempo fa; il primo che lo rilevò fu, a mia conoscenza, James Hardy Ropes all’inizio di questo secolo [1]. Nei Salmi e nel Deutero-Isaia sidhqath Jahwe, “giustizia di Dio”, è usata alternativamente con “salvezza di Dio”, “grazia di Dio”. Questo è precisamente l’uso di Paolo (con l’eccezione di Rm 3,5, in cui, tuttavia, egli non sta parlando in proprio, bensì riporta un’obiezione). Così, per esempio, Rm 1,17 non dev’essere tradotto: «Nel Vangelo la giustizia di Dio è rivelata», ma «Nel Vangelo la salvezza di Dio è rivelata».

Riassumendo: come nelle epistole paoline dikaiosynē (toû) theoû dev’essere tradotto “la salvezza di Dio”, così dikaioûsthai dev’essere reso con “trovare grazia presso Dio”.

Ora possiamo rivolgerci alle parole pístei, ek písteōs, dià písteōs, “per fede”. Ogni volta che Paolo parla della dikaiosynē di Dio, della salvezza di Dio, e di dikaioûn di Dio, la concessione da parte di Dio della sua grazia, egli concentra tutta l’attenzione su Dio. Ogni cosa è concentrata sull’unica questione vitale se Dio sia benevolmente disposto o no, se egli conceda il suo beneplacito o no, se egli mi dica “Sì” oppure “No”. Quand’è che Iddio dice “Sì”?

Paolo risponde: un uomo è giustificato, trova grazia, mediante la fede […]. In tal modo la fede sostituisce le opere [della Legge]. Ma nasce la domanda: se la giustificazione è data per la fede, non ci troviamo nuovamente di fronte a una conquista che determina la benevolenza di Dio? La risposta qui è: sì! Noi stiamo di fatto di fronte ad una conquista. Dio concede effettivamente la sua grazia in base a una conquista. Ma qui non si tratta di una mia conquista, bensì dell’impresa compiuta da Cristo sulla croce. La fede non è in se stessa una conquista, ma è piuttosto la mano che afferra l’opera di Cristo e la porge a Dio. La fede dice: «Questa è la vera conquista: Cristo è morto per me sulla croce» (Gal 2,20). Questa fede è l’unico modo per ottenere la grazia di Dio.

Che Iddio conceda la sua benevolenza al credente è contro ogni regola della legge umana. Ciò diviene chiaro se si considera chi è giustificato: l’empio (Rm 4,5), che merita la morte perché porta la maledizione di Dio (Gal 3,10). A lui è offerta la benevolenza di Dio «per grazia» (Rm 4,4; 5,17), come dono gratuito (Rm 3,24). Questa grazia non conosce restrizioni; essendo indipendente dalla legge mosaica, essa può anche includere i Gentili.

In Rm 4,6-8 abbiamo in nuce ciò che comporta questo trovare benevolenza presso Dio sola gratia: «Davide pronuncia una benedizione sopra l’uomo al quale Iddio rende giustizia prescindendo dalle opere: “Benedetti sono coloro le cui iniquità sono perdonate, e i cui peccati sono coperti; benedetto è l’uomo cui il Signore non imputerà il suo peccato”».

La giustificazione è il perdono, null’altro che il perdono per amore di Cristo. Ma questa affermazione richiede di essere ulteriormente chiarita.
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