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Il tema è affascinante. Tutti coscientemente o incoscientemente tentiamo verso la piena realizzazione di noi stessi. Tale entusiasmo istintivo, però, si attenua appena si vuole approfondire il fenomeno della “maturità”; di essa è persino difficile dare una definizione sia da un punto di vista psicologico che spirituale. Di più: se cerchiamo di investigare il concetto di “maturità” in uno scrittore dell'antichità, il problema diviene ancora più complesso, dato che non sempre vi è coincidenza tra il nostro e il suo “concepire la maturità”. Proprio per questo mi sembra bene prima presentare una definizione di “maturità” quanto più possibile vicina al nostro modo di pensare e poi di confrontarla con il pensiero di Paolo. In tal modo, possiamo rilevare coincidenze e differenze tra il nostro modo di pensare la “maturità” in generale e la “maturità cristiana” in particolare. Solo dopo tale analisi, potremo approfondire il concetto particolare di “maturità cristiana” nell'insieme del pensiero di Paolo, l'apostolo del progetto di Dio per la costituzione dell'uomo nuovo nel Cristo Gesù. Tale progetto, negli scritti paolini, ha una duplice traiettoria: una dottrinale e una parenetica. La traiettoria dottrinale riguarda la nostra maturità come progetto voluto da Dio, realizzato nel Cristo e portato alla sua perfezione nell'opera dello Spirito in noi. La traiettoria parenetica, invece, delinea un comportamento di maturità basato sulle tre virtù teologali: fede, speranza e carità in vista della edificazione della comunità dei credenti, che nel Cristo formano l'uomo nuovo, voluto da Dio.
1) Maturità e perfezione in S. Paolo
L'enunciato del tema presenta un'oscillazione tra due termini, forse sinonimi tra loro, ma di sicuro di estrazione culturale diversa: maturità e perfezione; il primo è più comune in campo psico-sociologico, il secondo in campo religioso. Tale distinzione diviene più marcata se i due termini li si cerca all'interno del NT e in particolare in S. Paolo. L'apostolo non usa mai il termine “maturità”, ma ha una sua concezione della maturità; usa molto il termine “perfezione”, ma non sempre coincide con il nostro concetto di maturità. A noi, quindi, il compito di definire, per quanto ciò sia possibile, il nostro concetto di “maturità” e poi vedere se tale concetto coincide con il concetto di “perfezione” usato da Paolo.
a) Il nostro concetto di maturità
Nei vocabolari della lingua italiana, si possono trovare sia una definizione statica di maturità: “Raggiunta pienezza delle proprie capacità intellettuali e morali” (Garzanti), sia una definizione comportamentale: “Capacità di orientamento o di comportamento, fondata sull'acquisizione seria, completa e definitiva dei dati dell'esperienza” (Devoto-Oli), sia una definizione che unisce i due aspetti: “pieno sviluppo delle qualità intellettuali, morali, spirituali di un individuo; capacità di comportarsi, di agire, di giudicare in modo autonomo e adeguato alle circostanze” (De Mauro). In modo simile si esprimono i dizionari di psicologia. Così, Hans Joachim Engels definisce la maturità nel Dizionario di psicologia: “Stato di completa e stabilizzata differenziazione e integrazione somatica, psichica e mentale; attitudine a eseguire i compiti assegnati al singolo individuo e ad affrontare le esigenze della vita”. Più qualitativa mi sembra la definizione offerta da R. Zavalloni nel Dizionario di Spiritualità: “La «maturità umana» è la consapevole pienezza di tutte le proprie capacità fisiche, psichiche e spirituali, ben armonizzate e integrate tra loro”. Analizzando brevemente e senza alcuna pretesa di completezza queste definizioni, mi sembra che emergano due momenti essenziali del concetto di “maturità umana”: da una parte, la maturità è concepita come una “pienezza”, “raggiunta”, “completa” “stabilizzata”, “consapevole”, che fa supporre un cammino progressivo verso una meta, uno stato o condizione di essere che, una volta raggiunto, chiamiamo maturità; essendo “stabile”, non dovrebbe mutare, ma mantenersi sempre tale; essendo “consapevole”, significa che chi la possiede ha piena coscienza del cammino fatto per acquisire una perfetta armonizzazione e integrazione di tutte le sue capacità fisiche, psichiche e spirituali. Tale individuo maturo è capace di un orientamento e comportamento adeguato “ad affrontare le esigenze della vita”, a giudicare i problemi con equilibrio e ad offrire soluzioni concrete e proporzionate a tali problemi. Tale concetto di “maturità umana” è un'astrazione, comoda come ideale da raggiungere; in concreto, ci accontentiamo molto di meno per definire qualcuno come una “persona matura”. In ogni caso, quel concetto ci è utile nella nostra ricerca e mi sembra che si avvicini molto a quello di “perfezione” della tradizione cristiana in generale e di quella paolina in particolare. In verità, già nel pensiero greco il termine “teleios”, “perfetto”, indica ciò che non ha più bisogno di alcun accrescimento nell'abilità o nella capacità di operare, che non manca di nulla per essere completo. Così, nella filosofia stoica, “l'uomo perfetto”, “l'adulto”, si distingue dal “bambino”, perché è colui che possiede tutte le qualità morali e agisce in conformità con le virtù. Tale “perfezione-maturità” si avvicina al nostro concetto moderno di “maturità”, ma si distingue da esso per la sua relazione a Dio o alla “virtù” da conseguire e da porre in atto nella propria vita. Per noi la “maturità” ha senso soggettivo e individualista: è “la capacità di comportarsi, di agire, di giudicare in modo autonomo e adeguato alle circostanze”; per il mondo greco, e per quello antico in genere, è un “concetto relazionale”: è un modo di comportarsi in maniera adulta all'interno della “polis” o del “cosmos”, rispettandone le leggi e gli obblighi assunti. “Vivere bene” e “agire bene” ha senso solo se mi fa vivere in perfetta comunione con gli altri. Il filosofo ebreo Filone, molto vicino agli stoici, ha scritto: la felicità consiste non tanto nel possedere la virtù, ma soprattutto nel praticarla; ma ciò non è possibile se Dio non la fa fruttificare Il testo è importante per noi: perché pone in rilievo il carattere personale, non soggettivo o individuale, della maturità: l'uomo è sempre in relazione con Dio e i suoi simili; inoltre, perché sottolinea il carattere concreto della maturità: non sono maturo perché posseggo tutte le virtù o le capacità operative, ma perché li pongo al servizio degli altri; infine, perché concepisce la maturità come partecipazione alla perfezione assoluta di Dio: solo Dio è perfetto, l'uomo lo è per partecipazione.
b) il concetto paolino di maturità
In Paolo, la terminologia della “perfezione” non è molto vasta: il sostantivo “telos” appare 12 volte e, se si esclude Rom 13,7, indica per lo più la meta verso cui l'uomo si dirige con le sue azioni (1Cor 10,11; 11,24; 2Cor 1,13): la morte (Rom 6,21; Fil 3,19; 1Tes 2,16) o la vita (Rom 6,22); ma soprattutto indica Cristo, che toglierà il velo dai nostri cuori per vedere le realtà eterne (2Cor 3,13), giudicherà ogni uomo secondo le sue opere (2Cor 11,15) che ci renderà giusti mediante la fede (Rom 10,4), santi e irreprensibili nel suo avvento glorioso (Rom 6,22). Anche il verbo “teleo”, “essere perfetti”, sottolinea questo andare verso il compimento. Così, Paolo, scoraggiato per la sua spina nel fianco, si sente dire: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente/è perfetta nella debolezza” (2Cor 12,9); tale perfezione, però, la si può raggiungere solo “se camminiamo secondo lo Spirito e non portiamo a compimento i desideri della carne” (Gal 5,16). Il sostantivo “telos” e il verbo “teleo” hanno una valenza escatologica: sottolineano il cammino del cristiano verso la meta che lo attende; anzi, la sua meta è Cristo che lo rinnova totalmente; la sua guida è lo Spirito che lo conduce alla “piena maturità di Cristo”. L'aggettivo “teleios”, “perfetto”, appare 8 volte e, come tutti gli aggettivi, qualifica una persona o un comportamento. Così, Paolo invita a “non conformarsi alla mentalità del mondo, ma a trasformarsi interiormente per discernere la volontà di Dio: ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2); per questo istruisce ogni uomo con ogni sapienza per rendere ciascuno perfetto in Cristo (Col 1,28); “ai perfetti” presenta non la sapienza di questo mondo, ma la sapienza di Dio (1Cor 2,6), che li aiuta ad essere “perfetti” nei giudizi (1Cor 14,20), a tendere nella fede e nella conoscenza allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13), ad avere i sentimenti di Cristo (Fil 3,15; cfr anche 2,1-5), ma soprattutto ad avere la carità, che è il vincolo della perfezione (Col 3,14); infine, egli esorta i cristiani a “conquistare” con tutta la potenza del loro amore “Cristo, lui che ci ha conquistato con la forza del suo amore” (Fil 3,12). Più che il sostantivo “telos” e il verbo “teleo”, l'aggettivo “teleios” sottolinea il senso della “maturità cristiana”. Essa non si basa solo sulle proprie capacità umane, ma soprattutto “sulla potenza di Cristo” (2Cor 12,9) e sulla “sapienza di Dio” (1Cor 2,6), che rinnova la mente del credente mediante la fede, lo spinge nel discernimento e nell'anelito, carico di speranza, ad unirsi totalmente a Cristo, lo rende perfetto e maturo in lui per amare Dio e i fratelli sotto l'azione dello Spirito. Ma Paolo non è solo un uomo dalle idee chiare, è anche un retore che ama esprimere le sue idee con dei contrasti forti, con dei chiaroscuri marcati. Per questo, nelle sue lettere, l'idea di maturità non è affidata solo ai termini analizzati, ma a delle antitesi che devono colpire il lettore o l'ascoltatore e smuoverne i sentimenti. In primo luogo, l'antitesi asimmetrica “bambini-perfetti”: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini perfetti/maturi quanto ai giudizi” (1Cor 14,20); “Tra i perfetti (= tra i maturi nella fede) parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla”; infatti, “quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor 13,10). A tale antitesi ne segue un'altra, l'antitesi esistenziale “carnale-spirituale”: “Dal momento che c'è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1Cor 3,3). Il cristiano, invece, deve comportarsi con santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza della carne ma con la grazia di Dio (2Cor 1,12); deve lottare “non con armi carnali”, ma “con la potenza di Dio” (1Cor 10,3-4), cioè “camminando secondo lo Spirito”
e così non soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). A tale proposito egli introduce l'antitesi personale “schiavi-liberi”: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito di figliolanza per mezzo del quale gridiamo: Abba! Padre” (Rom 8,15). In nessun momento il cristiano, se vuol essere perfetto/maturo, deve divenire schiavo della “carne”, cioè schiavo di tutto ciò che lo porta lontano da Dio e da Cristo, ma essere sempre “libero”, per realizzare la volontà di Dio e agire mediante lo Spirito da “figlio di Dio” (Gal 3,26-28; Rom 8,14-16). In ciò si determina la grande sintesi paolina: “essere uno in Cristo” (Gal 3,28) e “rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio e nella santità vera” (Ef 4,10), “rivestirsi di Cristo e così non seguire la carne nei suoi desideri” (Rom 13,14; Gal 5,17). Nel tempo escatologico, nel momento della prova, i credenti debbono essere persone mature: sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza, poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” (1Tes 5,8-10).
2) La maturità come progetto
Tale affermazione è fondamentale nel pensiero paolino. Per Paolo la maturità del credente non è opera umana, ma progetto divino sull'uomo e per l'uomo. Siamo destinati alla salvezza e per questo collaboriamo con Dio per realizzare la nostra maturità personale, umana e cristiana. Tale azione in sinergia, nel pensiero di Paolo, si sviluppa in tre momenti: l'iniziativa divina, il modello divino, la guida dello Spirito.
a) L'iniziativa divina: “scelti per essere santi e immacolati”
In 1Tes 4,3, l'apostolo afferma con vigore: “Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione”. L'affermazione è chiara, ma non a sufficienza. Per la lingua italiana, il termine “volontà” è un termine astratto, che indica la capacità di volere qualcosa, la facoltà di decidere consapevolmente il proprio comportamento. Paolo usa, invece, il termine “telema”, che indica l'effetto del “volere”, il progetto di amore che Dio ha sull'uomo. Maturità, pertanto, è portare a compimento il progetto che Dio ha su ciascuno di noi. Anche il termine “santificazione”, essendo in italiano come in greco un termine di azione, va in questa linea progressiva della maturità cristiana. Portare a compimento il progetto di Dio, in cui si realizza la nostra maturità
personale cristiana, consiste nel “divenire santi”, nell' abbandonarci totalmente a Dio per partecipare alla sua santità. È Dio che ci santifica, perché nel Cristo e mediante Cristo “ci ha redenti e resi partecipi della sorte dei santi nella luce” (Col 1,13), e inoltre mediante l'azione perfezionatrice dello Spirito abbiamo accesso al Padre nella gloria (Ef 1,14; 2,18). Noi collaboriamo con Dio, perché egli “nel Cristo ci ha scelti per sé prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4). Un testo meraviglioso, che ci manifesta tutto il pathos dell'immedesimazione di Paolo al progetto di Dio per noi. “Ci ha scelti per sé”: noi traduciamo come possiamo, ma Paolo ha usato un solo termine, un parola che ricapitola tutto l'amore salvifico di Dio, il suo progetto di amore per noi dall'eternità, il suo interesse verso i suoi figli, che ha benedetto, predestinati, ai quali ha fatto grazia e ai quali ha manifestato il mistero del suo disegno di amore (Ef 1,4-10). La nostra salvezza ha origine dalla “eudokia” del Padre, dal “beneplacito della sua volontà”, da un atto del suo amore infinito per noi, che “siamo stati scelti per essere santi e immacolati”. Tale elezione, stando ad Ef 1,4, assume tre caratteristiche fondamentali. Ha una connotazione teologica: essa è stata stabilita da Dio “prima della fondazione del mondo”, procede dall'amore infinito di Dio (1,4) come progetto in favore dell'uomo, trova il suo compimento “dinanzi a lui” (1,4); ha, poi, una connotazione cristologica: l'elezione trova il suo compimento “nel Diletto” (1,6), “nel Cristo”, in cui tutto è ricapitolato e tutto tende verso l'unità (1,10); infine, ha un carattere escatologico, perché l'elezione è orientata “all'essere santi e immacolati” (1,4), in una parola alla santificazione, che è insieme partecipazione alla santità di Dio (cfr 1,14) e offerta santa e a lui gradita di tutto noi stessi (cfr 1,12).
Prof. Marcello Buscemi: “Verso la piena maturità di Cristo” (II parte)
( docenti -Prof. Padre A. M Buscemi - SBF Jerus et teologia - cristologia et teologia - biblica )
DEL PROF. MARCELLO BUSCEMI:
VERSO LA PIENA MATURITÀ DI CRISTO
Aspetti della perfezione cristiana in San Paolo
SECONDA PARTE
b) il modello divino: Cristo, l'uomo nuovo
Legato intimamente al tema della nostro “essere santi e immacolati”, Paolo pone il tema del nostro essere predestinati ad “essere figli” (Ef 1,4-7). L'elezione alla santità Dio l'ha concepita come un rapporto familiare tra Padre e figli, più precisamente come un nostro partecipare al rapporto che intercorre tra il Padre e il Figlio del suo amore. Siamo figli nel Figlio. Ed è in Cristo che il progetto di amore si concretizza in maniera dinamica e progressiva all'interno del “telema” divino. In lui, che è il Figlio in cui il Padre si compiace, noi siamo predestinati ad essere figli in cui risplende la santità a gloria della sua grazia (1,6). Tutta la vita del cristiano è orientata, destinata all'amore (1,4) e ha come modello l'amore stesso di Cristo (Ef 1,5; Rom 3,29; Fil 3,21): far risplendere nella propria esistenza la gloria del Padre (1,6), la ricchezza della sua grazia (1,7), la grandezza del suo amore infinito (1,5.11). Nessuno, però, può realizzare tale progetto divino con le proprie forze: l'autogiustificazione, come l'autorealizzazione, è fuori dallo schema teologico paolino. Per questo la nostra adozione a figli, nel progetto divino, avviene “per mezzo di Cristo” e avendo come modello Cristo (1,5), “l'uomo nuovo”, con il quale ogni credente deve confrontarsi e del quale deve portare l'immagine (Ef 2,15). Riprodurre gli stessi lineamenti di Cristo al punto di “essere “uno in lui” (Gal 3,28), perché solo “chi è in Cristo è una nuova creatura” (2Cor 5,17). Questo “uno” è “l'unico uomo Cristo Gesù” (Rom 5,15-17), l'Adamo escatologico, nel quale noi troviamo il dono della grazia sovrabbondante di Dio (Rom 5,15). L'uomo nuovo è Cristo, in cui tutti noi siamo riconciliati con Dio mediante la sua croce e formiamo un solo corpo (Ef 2,16), per avere in un solo spirito accesso al Padre (Ef 2,18). In lui non sono annullate le differenze, ma valorizzate in vista della “nuova creazione”, dell'“uomo nuovo”.
c) la crescita: sotto la guida dello Spirito
La nostra perfezione/maturità è opera di Dio, che la porta a compimento nel tempo sotto l'azione incessante e perfezionatrice dello Spirito. La nostra “santificazione”, proprio perché è un progetto, si matura “nel tempo”, meglio “nell'amministrazione dei tempi” (Ef 1,10) voluti da Dio, che li porta avanti e li guida verso la loro pienezza, perché raggiungano lo scopo per cui sono stati stabiliti. Sono tappe di grazia e di benedizione, segnate dalla benevolenza divina, nelle quali si realizza il progetto di Dio a nostro favore. Il tempo scorre, ma è nelle mani di Dio, che lo guida per le sue vie, lo porta al compimento attraverso i momenti della sua grazia per raggiungere “la pienezza del tempo” (cfr Gal 4,4). In questo scorrere del tempo e attraverso i tempi, il credente deve rimanere in sintonia con Dio mediante lo Spirito: “Non spegnete lo Spirito” (1Tes 5,19). Lo Spirito Santo, infatti, è in azione nella vita del cristiano sin dall'inizio della “vita nuova in Cristo”, sin dal battesimo. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 3,3: “Dopo aver cominciato mediante lo Spirito, ora volete essere condotti alla perfezione mediante la carne?”. Nel battesimo il credente, dopo “essersi lasciato crocifiggere con Cristo” (Gal 2,19-20), ha ricevuto lo Spirito (Gal 3,3) e lo Spirito abita in lui (Rom 8,9-11). Ha inizio “la vita nuova in Cristo” e il cristiano la vive “mediante lo Spirito”. “In lui anche voi, dopo aver udito la parola della verità, il Vangelo della nostra salvezza, dopo aver creduto, siete stati contrassegnati con lo Spirito della promessa” (Ef 1,13-14). Lo Spirito, in primo luogo, agisce nel cuore dei credenti. Egli, infatti, è stato inviato da Dio nei nostri cuori (Gal 4,6) e “ci ha segnati col suo sigillo e ha posto la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2Cor 1,21-22). E tale avvento ha un primo effetto descritto da Rom 5,5: “La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato”. Sta qui tutta la vita del cristiano: mediante la fede espressa nel battesimo abbiamo ricevuto il dono dello Spirito; ricevuto lo Spirito bisogna “camminare secondo lo Spirito”, attendere “la speranza della giustificazione” (Gal 5,5), vivere la fede agente mediante l'amore. E l'amore è libertà dalla legge (5,18), da un'esistenza egoista (5,24), dal peccato (Gal 3,22) e dal dominio minaccioso del mondo presente (Gal 1,4; 6,14). È vivere da creature nuove (Gal 6,15), da figli di Dio (Gal 4,5-7). Ma l'azione potente dello Spirito ci plasma interiormente, solo “se realmente viviamo secondo lo Spirito, per conformarci allo Spirito” (Gal 5,25). Notate la condizionale della realtà: quel “se realmente” prende di mira tutti i nostri “se”, “ma”, in una parola tutti i nostri contorcimenti mentali e compromessi comportamentali da “persone immature”. Non si può giocare con lo Spirito, non lo si può prendere per il naso (Gal 6,7). Bisogna decidersi costantemente per una lotta senza concessioni alla carne, al nostro egoismo, in modo che lo Spirito divenga l'orizzonte interiore del nostro vivere in Cristo e la forza determinante della nostra crescita spirituale. “Non spegnere lo Spirito” (1Tes 5,19), ma seguirne sempre e con obbedienza le sollecitazioni interiori. Solo allora si divieni liberi e persone mature in Cristo, perché si abbandona il comportamento da bambini e si adempie perfettamente da adulti la legge di Dio, l'amore.
3) La maturità cristiana tra presente e futuro
Paolo in 2Cor 4,18 afferma: “L'uomo interiore si rinnova di giorno in giorno”. È un'affermazione
poderosa che mette in giusto rilievo la dinamicità e la progressività del “vivere in Cristo”. L'opzione che il cristiano ha fatto nel momento del battesimo non è solo un atto momentaneo e isolato che introduce il credente nella vita cristiana, ma è insieme inizio e sviluppo progressivo (Fil 1,25), “di fede in fede” (Rom 1, 17), del vivere sotto l'azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro “essere e vivere in Cristo” nella speranza, del nostro “camminare secondo lo Spirito” lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia e operare nell'amore in risposta al progetto di Dio su di noi. Solo una vita segnata dalle tre virtù teologale può formare giorno per giorno la nostra personalità cristiana e la nostra maturità in Cristo.
a) maturità e fede: forti nella fede
Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine “credere”, dato che il verbo in se stesso indica l'azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco “pistis”, che noi traduciamo con “fede”. Nella lingua greca è un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma esprime un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, un “correre per afferrare Cristo, che prima ci ha afferrato” (Fil 3,12), un “correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), “un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3). In breve: per Paolo la fede è vita, e “il mio vivere è Cristo” (Fil 1,21).Tale visione dinamica della fede investe e determina tutta l'esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l'uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: “io credo in Gesù Cristo”, egli esprime una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa, demoniaca, che afferra le profondità dell'animo umano, rendendolo un “bambino senza giudizio e senza discernimento”, schiavo della cattiveria, dell'impurità, dell'empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20). In tale proclamazione, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5,22; Fil 4,4-7), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presente acquista senso e si apre ad un compimento più grande: il divenire adulti in Cristo. L'essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamento incessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria (Col 2,4).
b) Maturità e speranza: costanti nella speranza
Pascal, riflettendo sulla fede, l'ha definita “un salto nel buio”, una “scommessa” per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l'uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con Dio. Parlare, invece, di “coraggio della fede” per chi ha già scelto di “vivere nell'obbedienza della fede” e nella speranza che attende il compimento può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivere ogni giorno la propria fede e rimanere saldi nella speranza ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede e della speranza: per il credente ogni momento della sua vita è “decisione per Dio”. Una decisione dell'intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l'ago della bussola verso il Nord. Tale orientamento, per Paolo, è possibile solo se il cristiano si lascia penetrare e guidare dallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (Gal 3,2.5) come fonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare nella speranza: “Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tende lo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia” (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all'intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: “Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali” (1Cor 2,12-13); incita la volontà del credente a camminare in maniera degna di Cristo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze” (Gal 5,24-25), per produrre “il frutto dello Spirito, l'amore” (Gal 5,22-23); muove il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: “Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre!” (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche operatore e donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, la scintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazie allo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all'uomo perfetto, alla misura della pienezza della maturità di Cristo” (Ef 4,13).
c) maturità e carità: operosi nella carità
Esiste un intimo rapporto tra fede, speranza e agire credente. È vero: Paolo spesso definisce la vita cristiana come un “rimanere saldi nella fede, nel Signore” (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Ma attenzione: bisogna “rimanere saldi” nella concretezza della nostra vita. In tal senso, il “rimanere saldo” non è semplice attesa della “speranza della giustificazione” (Gal 5,5), ma concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, una fede agente per mezzo della carità (Gal 5,6), un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il “rimanere saldi nella fede” è un'esistenza fondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell'adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell'amore secondo la radicalità di Dio espressa nella “legge di Cristo” (Gal 6,2). Il cristiano non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé “la legge di Cristo”, meglio: “la legge che è Cristo”. Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende “conforme a sé” (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della “legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù”. Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un'altra, né di compiere questa o quell'altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l'esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell'amore, “la legge di Cristo”, che per primo “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Gal 2,20). E “l'opera della fede”, di cui parla Paolo in 1Tes 1,3 e 2Tes 1,11, è l'amore che anima la fede. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: “ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità”. Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non una fede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell'amore. Così, fede e amore non possono essere
separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l'amore la rende viva per la potenza dello Spirito Santo, sotto la cui guida diveniamo maturi in Cristo, fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.
d) maturi nella Chiesa e per la Chiesa
Raggiungiamo, così, la dimensione comunitaria della maturità cristiana sotto l'azione perfezionatrice dello Spirito. La sua azione non è diretta solo a formare l'individuo, il cristiano secondo lo Spirito, ma attraverso la formazione dei singoli credenti tende soprattutto ad edificare la comunità ecclesiale, il “corpo di Cristo”. “E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, sia Giudei sia Greci, sia servi, sia liberi; tutti ci siamo abbeverati in un solo Spirito” (1Cor 12,13). Attraverso l'azione dell'unico Spirito si costituiscono le membra dell'unico corpo di Cristo. Come all'inizio della prima creazione, nel soffio dello Spirito si forma la Chiesa, corpo di Cristo (cfr Col 2,18a). Per mezzo della fede siamo tutti divenuti figli di Dio e nel battesimo ci siamo rivestiti di Cristo e “non c'è più né Giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo e donna, ma tutti voi siete uno nel Cristo Gesù” (Gal 3,26-28). La morte di Cristo ha annullato le differenze e per tutti i popoli la benedizione di Abramo è divenuta una realtà, perché tutti abbiamo ricevuto lo Spirito promesso (Gal 3,13-14). Ed è lo Spirito Santo che crea la comunità, la fa divenire un corpo solo, un solo “uomo nuovo”. Egli realizza, attualizza e manifesta il nostro “essere uno in Cristo”, in modo che noi siamo nel Cristo e Cristo è in noi (Gal 2,20). Nello Spirito diveniamo una comunità viva, afferrata da Cristo Signore nel più profondo della nostra esistenza (Gal 2,20), efficace nella potenza dei carismi che il Padre ci elargisce (Gal 3,5). Per questo Paolo può scrivere in 1Cor 12,4-11: “Vi sono diversità di carismi, ma identico è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma lo stesso è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma lo stesso è Iddio che opera tutto in tutti. A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune”. Tale testo è importante: 1º) perché mette in evidenza che è Dio che opera tutto in tutti, elargendoci lo Spirito e i doni dello Spirito (cfr Gal 3,5). 2º) Tutto deriva dall'unico Spirito: nella vita cristiana la cosa più importante non è possedere questo o quell'altro carisma; i carismi sono manifestazioni dell'unico Spirito e pertanto ciò che conta è “ricevere lo Spirito” ed essere fedeli e obbedienti a lui, in modo da produrre sotto la sua guida il frutto dello Spirito: l'amore. 3º) Ogni manifestazione dello Spirito è per il bene comune: ciascuno deve operare come membro dell'unico corpo, che, pur nella diversità dei carismi e della propria storia personale, deve divenire “uno in Cristo” (Gal 3,28) e contribuire ad edificare l'uomo nuovo “nel Cristo Gesù” (Ef 2,14-16): “in lui l'intero edificio, ben compaginato, cresce in tempio santo nel Signore; in lui anche voi, insieme con gli altri, venite costruiti per divenire abitazione di Dio in virtù dello Spirito” (Ef 2,21-22). Tutti i carismi sono dati per l'edificazione della Chiesa di Dio nella carità, “in maniera che perveniamo tutti alla perfetta unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all'uomo perfetto, alla misura della piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).
Benedetto XVI: superare il dualismo tra esegesi e teologia
( BIBLICA (sugli studi di) et PAPA BENEDETTO XVI E SAN PAOLO et TEOLOGIA et teologia - biblica )
dal sito:
www.zenit.org/article-15823?l=italian
Benedetto XVI: superare il dualismo tra esegesi e teologia
Intervento al Sinodo dei Vescovi
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 19 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento che Benedetto XVI ha pronunciato martedì 14 ottobre durante la Quattordicesima Congregazione Generale della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Il testo è stato in seguito trascritto e pubblicato questo sabato dalla Sala Stampa della Santa Sede.
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Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l'occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall'esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi. La Dei Verbum 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico. In primo luogo, conferma la necessità dell'uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali. Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Gv 1, 14 Verbum caro factum est. Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un'altra dimensione, quella dell'azione divina. Di conseguenza la Dei Verbum parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina. Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia: si deve cioè 1) interpretare il testo tenendo presente l'unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l'unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l'analogia della fede. Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica - di una esegesi adeguata a questo Libro. Mentre circa il primo livello l'attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l'altro livello. Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze piuttosto gravi.La prima conseguenza dell'assenza di questo secondo livello metodologico
è che la Bibbia diventa un libro solo del passato. Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l'esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura. Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato. C'è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l'ermeneutica della fede indicata dalla Dei Verbum, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un'ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all'elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini. Oggi il cosiddetto mainstream dell'esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba. La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica. Questo avviene perché manca un'ermeneutica della fede: si afferma allora un'ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell'ingresso e della presenza reale del Divino nella storia. La conseguenza dell'assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina. Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie. Dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia. La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un'unica realtà, che chiamiamo teologia. Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni si parli della necessità di tener presenti nell'esegesi i due livelli metodologici indicati dalla Dei Verbum 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica. Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.