00 21/01/2014 00:41
Primavera araba: fine di una favola orientale?



Dopo l’inizio trionfale nel 2011-2012, recentemente il “fiore all’occhiello” delle rivolte arabe, il movimento islamico dei Fratelli musulmani sponsorizzato dal Qatar, ha perso terreno praticamente in tutta la regione, di fatto primo segnale della decadenza della promettente favola orientale chiamata Primavera Araba. Innanzitutto, in Libia il blocco dei partiti islamici ha perso con l’unione delle forze politiche laiche del Paese nelle elezioni parlamentari del 2012. Dopo di che, vi fu il fallimento in Mali, dove la Francia riuscì ad impedire la formazione dello Stato islamico indipendente dell’Azawad guidato dall’odioso gruppo pro-Qatar Ansar al-Din, nella parte settentrionale del Paese. Poi con il fallimento in Siria e il colpo di Stato militare in Egitto, seguito dalla messa al bando dei Fratelli musulmani nel Paese, sembrano essere stati abbattuti i principali “capofila” del piano d’integrazione islamista regionale. Di conseguenza, lo scorso autunno, l’ex-”inconciliabile” emiro del Qatar shaiq Tamim bin Qalifa al-Thani inviava al presidente della Repubblica araba siriana Bashar al-Assad la sensazionale proposta di ripristinare le relazioni diplomatiche tra Doha e Damasco, rotte su iniziativa del Qatar dopo gli scontri scoppiati in Siria.

Il regime del Qatar è sempre stato caratterizzato da un istinto politico appassionato. A quanto pare, Doha era pronto a continuare a sostenere le “rivoluzioni”, nonostante la sua lotta fallimentare contro le eccessive ambizioni regionali della Francia nel vicinato meridionale degli europei e i i problemi politici in Qatar. Tuttavia, il cambiamento nelle priorità della politica statunitense in Medio Oriente, in primo luogo il riavvicinamento tra Washington e Teheran, è pari a una ritirata. Naturalmente, la Casa Bianca può essere compresa. Il miglioramento delle relazioni con Teheran permetterà a Barack Obama di utilizzare l’Iran come contrappeso alla potenziale crescita d’influenza dei taliban dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Inoltre, consentirà all’attuale leader degli Stati Uniti di sbarazzarsi finalmente della politica dei neoconservatori che invoca la “democratizzazione del Grande Medio Oriente”, che Obama ha ereditato dalla precedente amministrazione, e concentrarsi sulla soluzione dei problemi interni.

Tuttavia, mentre il più flessibile Qatar ha “capito” la situazione, un altro sponsor della Primavera araba, il lento regime “gerontocratico” saudita sembra non riuscire a cogliere le nuove tendenze geopolitiche. Pertanto, deve ora fare una scelta difficile: o continuare ad attaccarsi ostinatamente alla sua linea, esprimendo la propria insoddisfazione per la recente “politica traditrice” dell’alleato chiave d’oltre-atlantico ad ogni occasione o, come Doha, accettare il ruolo “extra” degli Stati Uniti nel nuovo scenario mediorientale. Per il momento, è evidente che la testardaggine prevale. In particolare, ciò è testimoniato dal rifiuto di Riyadh nel divenire membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Inoltre, la dichiarazione del capo dell’intelligence saudita, principe Bandar bin Sultan, durante un incontro con diplomatici occidentali, è eloquente in tal senso. Ha detto che il suo Paese avrebbe presto “cambiato significativamente politica estera”, riconsiderando le relazioni con gli Stati Uniti. Una delle persone più influenti del regno ha spiegato che tale decisione è dovuta alle differenze sugli approcci verso le principali questioni mediorientali. Prima di tutto, la questione siriana, dove la Casa Bianca ha deciso di astenersi dall’utilizzare metodi radicali, dopo aver finalmente capito che il regime siriano attuale potrebbe essere sostituito da gruppi islamisti folli. Inoltre, in particolare, i sauditi sono irritati dal processo di normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Iran, principale rivale del regno saudita nella regione. Tale processo è iniziato nella seconda metà dello scorso anno. Naturalmente, Riyadh spera che l’amicizia tra Washington e Teheran sia temporanea, e che presto tutto torni alla normalità. Tuttavia, iniziano a capire sempre più che l’attuale leadership degli Stati Uniti ha davvero perso interesse nel piano della primavera araba, e che gli statunitensi sembrano aver deciso di andare nella direzione opposta, concentrandosi sul “grande gioco anti-cinese”.

Ciò significa che il piano wahhabita, avviatosi con la “guerra lampo” tunisino-egiziana tra fine 2010 e inizio 2011, sia ora in decadenza. Il piano era volto ad integrare l’”ecumene arabo” sotto l’egida delle monarchie arabe del Golfo (principalmente Qatar e Arabia Saudita) soggiogando i moderatamente severi regimi autoritari paramilitari laici, soprattutto in Egitto, Siria, Libia e Tunisia. Dopo aver effettivamente trasformato la Lega Araba nel “potere esecutivo” del Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo, in pieno entusiasmo “rivoluzionario”, Doha e Riyadh riuscirono a trarre il pilastro della futura integrazione “di un’UE araba” da tutto ciò. Lo scontro di interessi geopolitici con la Francia in Nord Africa, i cambiamenti degli appetiti regionali nella politica estera statunitense, e infine il “tradimento” del Qatar seguito dal rapido raffreddamento dei rapporti tra Doha e Riyadh, hanno fatto sì che ora l’Arabia Saudita sia l’unico Paese che ancora ostinatamente promuove l’idea della primavera araba. Ovviamente, Riyadh spera ancora che l’attuale sentimento filo-iraniano presto sparisca a Washington. In caso contrario, dovrebbe sperare che la Primavera araba diventi interesse del prossimo inquilino della Casa Bianca.

Vitalij Bilan, dottorato in storia, esperto di Medio Oriente, in esclusiva per la rivista online “New Oriental Outlook“

20/21/2014
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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