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Storia e sviluppo dell’ideologia del genere
La parola “genere” è utilizzata principalmente nei seguenti modi:
1. per teorizzare la differenza tra il sesso biologico (genetico, anatomico, gonadico, ormonale...) da un lato, e il sesso psicologico e sociale (ruolo di genere) dall’altro. tale distinzione, tra sesso e “genere”, cioè tra il sesso e il modo in cui viene vissuto e percepito il proprio sesso, giustificherebbe quelle che tuttora si configurano come disforie di genere, ovvero i vari fenomeni di transessualismo e i disturbi dell’identità di genere, definiti ancora oggi come tali dalla psichiatria moderna. La possibilità che vi sia un “genere” psicologico in contraddizione, o leggermente differente, dal sesso biologico ha monopolizzato la ricerca scientifica della psicologia sociale americana durante gli anni ‘70-’80. Questo filone riconduceva le differenze tra maschi e femmine a “costruzioni sociali”: gli stereotipi di genere potrebbero allora essere contrastati e rimossi attraverso un’apposita rieducazione.
2. come un eufemismo, dall’inglese gender, usato al posto della parola sesso come termine che la sostituisce completamente. negli anni novanta il vocabolo è entrato nei documenti ufficiali di importanti istituzioni internazionali con una voluta ambiguità circa la sua declinazione e traduzione. La “decostruzione” del genere vuole arrivare a negare la differenza radicale dell’umano: la condizione di maschio o femmina in un corpo sessuato. Per questo motivo questo nuovo paradigma filosofico e sociologico si pone come ideologia. È un ideologia, propriamente parlando, perché non esprime un’opinione su un aspetto dell’uomo, della famiglia, ma si impone come idea che viola la realtà, che la nega e la sovverte, intendendo riscrivere sulla base del desiderio i fondamenti stessi dell’identità personale, familiare e sociale.

# 1.1 L’origine della distinzione tra sesso e genere: la sessuologia moderna.
L’ideologia del genere non è che l’ultima versione di un movimento di presunta liberazione dell’uomo, che da secoli vuole sciogliere l’uomo dai legami che lo costituiscono. L’obiettivo presunto di tale affermazione assoluta dell’uomo è la libertà, la speranza di renderlo libero; l’effetto è invece quello di renderlo più solo, perché privo di legami, privo di punti di riferimento, e dunque non solo perduto a se stesso, ma anche più facilmente manipolabile. È stata la battaglia del secolarismo, contro la religione, del marxismo e del comunismo, contro la proprietà privata, e oggi dell’ideologia di genere, che mira a liberare l’uomo dalla definizione sessuale di sé, per vederlo finalmente libero di autodefinirsi sotto ogni aspetto. Alla promessa di libertà si aggiunge quella di una definitiva uguaglianza: con l’eliminazione della differenza sessuale si andrebbero infatti ad abolire tutte le differenze di genere, intese come ingiustizia anziché come ricchezza. Questa lotta per l’abolizione della differenza sessuale passa attraverso l’affermazione del concetto di genere. L’archeologia del “genere” si può notare già agli inizi del 1900, quando Magnus Hirschfeld, un medico berlinese, pubblicò nel 1910 Die Trasvestiten, inaugurando la categoria del travestitismo. egli ipotizzava già allora di sostituire la “fittizia” divisione binaria dei sessi con una serie di sfumature mascoline e femminine che andavano intese lungo un continuum. La prima operazione chirurgica di riattribuzione di sesso è stata svolta proprio sotto gli occhi di Hirschfeld:
il caso fu un pittore danese trasformato in donna grazie a cinque interventi in due anni. Ad onor del vero il quarto intervento, l’impianto di ovaie, fallì a causa del rigetto d’organo e l’ultima operazione, il tentativo di un trapianto d’utero, si concluse con il rigetto e la morte della paziente. dopo la seconda guerra mondiale, in America, il dott. david Cauldwell si interessò al fenomeno dei travestitismi, mentre nel 1953 Harry Benjamin pubblicò un lavoro dal titolo Transvestitism and Transsexualism, inaugurando quella che sarebbe diventata una nuova categoria clinica, il transessualismo negli stessi anni Kinsey, un entomologo considerato il padre della sessuologia moderna, pubblicava i due rapporti sul comportamento sessuale dell’uomo e della donna. egli teorizzava che ogni attrazione sessuale (non solo l’omosessualità, ma anche la pedofilia, la zoofilia ecc.) non fosse perversione ma variante normale della sessualità umana. egli aveva infatti ridotto il comportamento sessuale ad una reazione a stimoli, scindendolo completamente dalla globalità della persona, al punto da affermare che il comportamento sessuale non possa essere detto in sé giusto o sbagliato, bensì semplicemente normale in ogni sua forma. un suo discepolo, l’endocrinologo John Money, tristemente noto per la tragica storia dei gemelli Brian e david reimer, studioso dei casi di ermafroditismo, fondò la Gender Identity Clinic e introdusse nella letteratura scientifica il termine “genere”.
Spiegò di aver preso a prestito dalla grammatica il concetto di “genere” per poter avere un “terza” categoria in cui includere le persone con genitali ambigui: nell’inglese esistono infatti i generi maschile, femminile e neutro. Poco dopo, lo psichiatra psicoanalista americano robert Stoller, che lavorava con i pazienti transessuali, nel suo Sex and Gender.
The Development of Masculinity and Feminility (1968) teorizza la distinzione tra sesso e genere, cioè tra il “substrato” biologico (sesso) e il genere che sarebbe il grado di mascolinità o femminilità presente in un individuo. Così è nato il concetto d’identità di genere (core gender identity), che si riferisce all’appartenenza soggettiva ad uno dei due sessi. Al contrario, il rifiuto di appartenere al proprio sesso biologico e quindi il desiderio di cambiare di sesso (transessualismo) è stato definito a partire dagli anni ottanta come disturbo dell’Identità di genere (o Gender Identity Disorder), considerato tuttora dall’ultima revisione del dSM v (manuale psichiatrico dell’American Psychology Association) nella categoria nosografica gender diphoria. dagli anni Settanta la divulgazione del gender in ambito scientifico è stata amplificata dalle filosofie femministe, mentre negli anni novanta il concetto di genere è stato recuperato dai militanti omosessuali e transessuali riuniti sotto la sigla LgBt oggi le combinazioni di identità ed orientamenti di genere contano fino a venti e più auto-descrizioni, che tendono letteralmente all’infinito, puntando alla condizione di “libera scelta del sesso”, una trasformazione di sé secondo il proprio piacere da realizzare più volte e in più modi nel corso della vita.

# 1.2 Il movimento femminista sponsorizza il gender
Il termine genere è nato nell’ambito della sessuologia ma è stato divulgato con il femminismo. Il movimento femminista non è stato infatti un blocco monolitico, bensì un terreno fertile attraverso il quale hanno avuto corso diverse battaglie. Si possono osservare tre fasi, corrispondenti ad alcune date storicamente significative:
– 1848: anno di grandi trasformazioni: moti carbonari e insurrezioni in tutta europa;
– 1968: anno che inaugura le proteste studentesche e la cosiddetta “rivoluzione sessuale”;
– 1989: anno dell’abbattimento del muro di Berlino e fine della guerra Fredda.
La prima fase del movimento, detta anche femminismo emancipatorio, si batteva per l’uguaglianza e la conquista di pari diritti civili da parte delle donne;
si costituisce formalmente nella seconda metà dell’ottocento, anche se le sue basi risalgano all’Illuminismo e alla rivoluzione Francese. Il passaggio dalle suffragette alla rivoluzione sessuale avviene durante le contestazioni del Sessantotto, quando le donne hanno iniziato a mettere pantaloni e jeans cercando di omologarsi anche nell’abbigliamento al modello maschile.
Simone de Beauvoir in Secondo Sesso, ancora nel 1949, tracciava un manifesto su come farsi spazio in un mondo maschilista. La seconda ondata del movimento femminista aveva infatti l’obiettivo di eliminare l’ostacolo della maternità per avere pari possibilità di carriera e di lavoro rispetto agli uomini; è così che in vari paesi vengono portate avanti leggi e misure per la legalizzazione del divorzio e dell’aborto. negli anni ottanta si sviluppa il “pensiero della differenza”, un filone filosofico interno al movimento femminista che si rifaceva ai contributi di Luce Irigaray.
Il dibattito in quegli anni ruotava intorno all’amletica domanda: uguali o diverse? negli anni novanta Judith Butler inaugura una nuova stagione del femminismo, criticando alle precedenti teorizzazioni di Beauvoir e Irigaray l’errore di aver ri-confermato di fatto la differenza binaria. È quest’ultima ad entrare nel mirino: le femministe secondo Butler dovrebbero scegliere orientamenti di genere non conformi, il lesbismo per esempio, per spezzare il dominio maschile stabilito dalla “società eteronormativa”.
Il femminismo post-moderno in questo senso porta a compimento la battaglia iniziale contro gli ostacoli biologici (come la maternità) che – a detta delle attiviste – discriminano la donna. La lotta di classe si trasforma in lotta di genere contro le strutture di potere stabilite dal desiderio sessuale a cui occorrerebbe ribellarsi con scelte identitarie alternative che si rifanno al un nuovo paradigma queer. Affrontiamo questi passaggi più nello specifico: dalla costruzione alla decostruzione del genere.

# 1.3 La costruzione del genere
Al principio degli anni settanta, la distinzione sesso-genere è passata
dalla medicina (sessuologia moderna) alle scienze sociali e storiche. Il riferimento a robert Stoller è esplicito nel lavoro di Ann oakley, Sex, Gender and Society (1972), che segna la ripresa del genere da parte del femminismo accademico. Questo femminismo accademico è il momento in cui il femminismo (la “seconda ondata”) ricerca una legittimazione accademica e scientifica: appaiano nelle università americane i dipartimenti dedicati ai Women studies o Feminist studies – diventati oggi Gender Studies, un cambiamento giustificato dalla necessità di studiare non solo le donne stesse, ma uomini e donne, nelle loro relazioni e rispettive differenze. La distinzione tra sesso e genere sembra così perfettamente adatta ad esprimere l’idea famosa di Simone de Beauvoir, “donna non si nasce: si diventa” finita in Le deuxième sexe (1949). Il sesso è determinato dalla natura, mentre il genere viene costruito socialmente dalla cultura, a prescindere dal dato sessuale da cui la persona è invece globalmente caratterizzata. negli anni ’70-’80 molte ricercatrici di ispirazione femminista si sono così dedicate a studiare sistematicamente come le varie società, attraverso stereotipi e ruoli sociali, costruiscono la differenza tra i sessi:
cosa una società particolare si aspetta nei confronti dei suoi membri femminili? Quali compiti sono assegnati alle donne? Quali tratti del temperamento (per adottare un concetto proposto dal lavoro dell’antropologa Margaret Mead sulla differenziazione sessuale in oceania) sono considerati specifici delle donne? ecc. tutti questi lavori – storici, sociologici, antropologici – miravano a sottolineare la distanza, il divario, tra il dato biologico (sesso) e il ruolo sociale (il genere).
Ciò produce un effetto potente di relativizzazione: conducono a considerare artificiale, innaturale, non spontaneo, il modo in cui i ruoli e i caratteri rispettivi degli uomini e delle donne sono stati concepiti. Questa relativizzazione a sua volta porta ad un effetto militante: giacché il genere è contingente, è possibile e generalmente auspicabile promuovere il suo sviluppo nella direzione di una maggiore uguaglianza tra uomo e donna. Il lavoro della storica femminista americana Joan W. Scott ripresenta una pietra miliare nella storia di questo concetto. In Le genre: une catégorie utile d’analyse historique (Il genere: una categoria utile di analisi storica; 1986), afferma che il genere è “un elemento costitutivo delle relazioni sociali basate sulle differenze percepite tra i sessi”.
Joan Scott aggiunge che il genere è sempre un modo di “significare relazioni di potere”. Cioè, secondo una buona logica femminista, si sostiene che qualsiasi organizzazione sociale “di genere” è basata sulla sottomissione delle donne agli uomini: questo è un luogo comune del discorso femminista per screditare qualsiasi discorso di complementarietà, interpretata unicamente come un modo per addolcire e nascondere la dominazione maschile. Il femminismo, volendo eliminare gli stereotipi, si ritrova invece a crearne di nuovi: il maschio sempre “violento” e “dominatore”.
Questa idea del genere come strumento di potere, e dunque come fattore da liberalizzare, è ormai imperante nelle scienze sociali e nella cultura comune. ed è in base a questo concetto che si è introdotta la “sensibilizzazione al genere” nel campo dell’educazione, come un mezzo per lottare contro le disuguaglianze uomo-donna, optando per l’eliminazione del “sex” a favore dell’“unisex”.
# 1.4 La decostruzione del genere: il momento “post-strutturalista”
Il lavoro di Joan Scott sopradescritto (assieme a quello di denise riley, gayle rubin e altri) è il collegamento tra due mondi: quello delle scienze sociali più o meno convenzionali, e quello degli studi letterari che, negli Stati uniti, erano il luogo di elezione della teoria francese, che risentivano del pensiero di autori come Michel Foucault, Jacques Lacan, Jacques derrida, Louis Althusser, ecc., che vengono solitamente catalogati come “strutturalisti” non è un caso che le istanze del post-strutturalismo provengano proprio dall’America, in particolare da Judith Butler che nel 1990 scrisse Gender Trouble. Butler ha dedicato tutta la sua energia intellettuale a sovvertire il genere e tutti i riferimenti apparentemente stabili, quali il sesso o l’identità stessa.
Butler inaugura un nuovo pensiero: il queer, un “paradigma” in cui l’individuo può autorappresentarsi attraverso una serie di maschere e artifici, a volte lesbica, altre volte drag, altre ancora transgender, ecc. nella fase precedente (strutturalista) delle gender theories, il riferimento rimaneva il dimorfismo sessuale: si trattava essenzialmente di mettere in discussione l’organizzazione sociale dei rapporti tra i due sessi. nella fase “post-strutturalista”, la sfida si sposta in modo significativo. non si tratta più di utilizzare il genere per cambiare il rapporto tra i sessi, ma piuttosto come uno strumento di critica radicale del dimorfismo sessuale in sé e delle sue conseguenze ritenute disastrose: “eteronormatività”, cioè il “privilegio” socialmente concesso all’eterosessualità. da lì provengono le due direzioni principali del pensiero queer: la valutazione di tutte le infinite combinazioni di orientamenti “alternativi” come varianti legittime quanto l’eterosessualità.
Anzi, in un certo modo, il lesbismo o la posizione drag diventano le uniche modalità di espressione del femminismo post-strutturalista che si ribella all’eteronormatività uscendo dagli schemi di dominio imposti dal desiderio fallico. Per quanto sia difficile identificare una tesi nei libri di J. Butler (che costantemente corregge e contraddice, in un relativismo assoluto contraddistinto da un’evoluzione perpetua del pensiero), si potrebbe riassumere una sorta di postulato: “il genere è performativo e precede il sesso”. Lo precede, lo “costruisce” attraverso il linguaggio che gli dona un’apparente esistenza, e come tale allora può essere “de-costruito”. Si intravede un nominalismo radicale: è importante rilevare che la “decostruzione” del genere per Butler è essenzialmente retorica, cioè, verbale. Attraverso complessi virtuosismi retorici Butler estremizza i contributi di Lacan facendo compiere al femminismo un giro di 360 gradi che arriva a negare la stessa categoria di “donna”.

# 1.5 Oltre il genere
Se inizialmente gli studi di Money furono utilizzati dalle femministe come base per provare la costruzione sociale dei ruoli di genere, negli ultimi anni essi sono stati accantonati dalle stesse femministe de-costruzioniste, anche in seguito alla scoperta che la sua ricerca lodata da “Science” nel 1972 fu in realtà una frode scientifica. nel 1998 Alice domurat dreger pubblicava Hermaphrodithes and the medical invention of Sex: secondo il nuovo paradigma decostruzionista il transessuale che richiede l’operazione di “riattribuzione del sesso” sarebbe in realtà vittima di un sistema di pensiero omofobo, basato su una società caratterizzata dalla differenza binaria dei sessi. Il vero atteggiamento rivoluzionario è il queer, il transgender, la maschera drag, il gender fluid. rosy Braidotti, coniugando il cyber-femminismo di donna Haraway e il soggetto eccentrico di de Lauretis, invita ad abbandonare ogni confine: non solo la dicotomia maschio/femmina, ma anche quella corpo/macchina, umano/animale, naturale/artificiale. Il pensiero queer, teorizzato da Judith Butler, non è certamente un pensiero sul “genere”, ma punta al suo superamento: il genere una volta decostruito non serve più, l’obiettivo è andare oltre! La sfida sta nel superare ogni confine/limite imposto dall’esterno, dal corpo o dalla natura. È qui estremamente evidente ed esplicito il carattere ideologico di tali posizioni, che influenza in modo significativo ogni uso del termine “genere”.