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Pio XII, il Terzo «Reich» e gli ebrei
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Autore:
Pierre Blet S.I.
Contenuti:
Pio XII, il Terzo «Reich» e gli ebrei
Iª Parte
IIª Parte
«Il Papa sapeva»

Il Papa sapeva» è il ritornello che si ripete da quasi 40 anni: il Papa sapeva e ha taciuto di fronte alla persecuzione degli ebrei. Affermandolo oggi, si vuol far credere che il Papa sapesse tutto ciò che noi ora sappiamo sulla questione, che sapesse ciò che era avvenuto, ciò che avveniva e ciò che sarebbe avvenuto. Gli si attribuisce una specie d'infallibilità che va ben oltre quello che la definizione del Concilio Vaticano I attribuisce al Pontefice. Pio XII riceveva certamente informazioni, molte informazioni, presunte informazioni. Molte attraverso il canale dei Nunzi, dunque scritte; ne riceveva presumibilmente, ancora più, a voce dai visitatori, di cui non sapremo mai che egli le abbia ricevute, ancor meno ciò che si siano detti. Ricevere informazioni è una cosa, sapere è un'altra cosa; nelle informazioni ricevute occorre distinguere nettamente tra ciò che è verificabile e ciò di cui nulla assicura l'autenticità e la veridicità. A questo proposito è fatica sprecata reclamare urgentemente l'apertura degli Archivi Vaticani ancora chiusi.

Così, tramite mons. G. Burzio, incaricato di affari della Santa Sede in Slovacchia, erano giunti in Vaticano i primi rapporti sulla deportazione. Il 9 marzo 1942 egli spedì un telegramma urgente in cui rivelava come corresse voce di una deportazione imminente di ebrei, senza distinzione di sesso, età o confessione (Actes, v 8, 453 ). Un anno dopo il 7 aprile 1943 mons. Burzio era ricevuto dal ministro degli Esteri, A. Tuka: «Dopo che io ebbi esposto il motivo della mia visita - scrive al card. Maglione - egli [il ministro] si alterò visibilmente e disse seccato: "Monsignore, non comprendo che ha da vedere il Vaticano con gli ebrei della Slovacchia. Fate sapere alla Santa Sede che io respingo questo passo". La sua missione - diceva Tuka - era di sbarazzare il suo Paese "da questa peste, da questa banda di malfattori e di gangsters". Burzio fece notare che non era giusto trattare da malfattori le migliaia di donne e di fanciulli innocenti compresi nella deportazione precedente. "Vostra Eccellenza - aggiunse - è senza dubbio a conoscenza delle tristi notizie che corrono sulla sorte atroce degli ebrei deportati in Polonia e Ucraina. Tutto il mondo ne parla [...]". Tuka replicò che quei racconti di atrocità erano diffusi dalla propaganda ebraica, "che se risultassero veri non permetterei che un solo ebreo di più varcasse la frontiera slovacca [...]. Deploro che il Vaticano stesso non sia del tutto al riparo da simili influenze", concluse Tuka» (Actes, v 9, 248 s).

A Parigi, nell'agosto 1942 un segretario della Nunziatura incontra il primo ministro del Governo di Vichy, Pierre Laval, il quale è molto irritato per le dichiarazioni dell'arcivescovo di Tolosa contro gli arresti di ebrei e spiega di essere deciso a consegnare gli ebrei stranieri presenti sul territorio nazionale nelle mani dei tedeschi, che intendono creare per loro in Polonia «una specie di casa madre» (!) (Actes, v 8, p. 627).

Il 26 settembre 1942, durante la sua breve visita in Vaticano, Taylor consegna una richiesta ufficiale di informazioni. Secondo The Jewish Agency of Palestine diGinevra, la situazione degli ebrei della Polonia o lì deportati era disperata. La conclusione della deportazione era la morte. Ci si trovava di fronte a rapporti a cui si esitava a credere. La sola cosa certa era il silenzio dei deportati. Se ne dovevano trarre le ultime conclusioni? Bisognava lanciare proclami solenni, denunciando di fronte al mondo la persecuzione di cui gli ebrei erano vittime? Non se ne sapeva abbastanza per una condanna energica? Alcuni reclamavano dal Papa questa presa di posizione. Gli alleati, persuasi che essa poteva tornare loro utile, si facevano portavoce delle associazioni ebraiche. Il ministro britannico Osborne aveva portato a Pio XIΙ la dichiarazione degli alleati del 17 dicembre 1942 sui diritti dell'uomo, nella quale si denunciava, in termini forti ma generici, il trattamento inflitto agli ebrei, chiedendogli di confermarlo con un discorso pubblico. Pio XIΙ terminò il Messaggio di Natale esprimendo la speranza della fine dei combattimenti in favore di tutte le vittime della guerra, combattenti, vedove e orfani, esiliati: «Questo voto - egli disse - l'umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, e talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo deperimento» (Actes, v 7,166). Il termine ebrei non era espresso, ma i servizi segreti del Reich non sbagliarono: «Egli [Il Papa] accusa virtualmente il popolo tedesco d'ingiustizia verso gli ebrei e si fa portavoce degli ebrei, criminali di guerra».

Sei mesi più tardi, Pio XII prese la parola ancora una volta. Nel discorso de12 giugno 1943 ai cardinali, cioè un mese dopo la redazione del memorandum, Pio XIΙ lasciò intendere qualcosa del suo pensiero relativamente alle deportazioni. Il discorso riguardava anzitutto i polacchi, ma, senza pronunciarne il nome, menzionava anche gli ebrei: «Non Vi meraviglierete, Venerabili Fratelli e diletti Figli, se l'animo nostro risponde con sollecitudine particolarmente premurosa e commossa alle preghiere di coloro che a Noi si rivolgono, con occhi di implorazione ansiosa, travagliati come sono, per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe, da maggiori sciagure e da acuti e gravi dolori, e destinati talora, anche senza colpa propria, a costrizioni sterminatrici»13.

Perché senza precisarne il nome? Per simpatia per il Terzo Reich? Abbiamo visto che cosa pensare di questa spiegazione. Ma egli stesso si è chiaramente espresso. Già il 13 maggio 1940, nel ricevere l'ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, D. Alfieri, in udienza di congedo, disse che gli italiani «sanno sicuramente e completamente le orribili cose che avvengono in Polonia. Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e

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solo ci trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura» (Actes, v. 1, 455).

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Più tardi la questione di una protesta contro ciò che avveniva in Polonia si pose a Pio XII e ai suoi collaboratori. Bisognava lanciare una solenne protesta di fronte al mondo? Mons. Tardini respinse come inopportuna una manifestazione del genere. «Date le circostanze attuali, una pubblica condanna della

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Santa Sede sarebbe ampiamente sfruttata a scopi politici da una delle parti in conflitto

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. Di più, il Governo tedesco, sentendosi colpito, farebbe senza dubbio due cose: inasprirebbe ancora la persecuzione contro il cattolicesimo in Polonia e impedirebbe in tutti i modi che la Santa Sede abbia contatti, comunque, con l'episcopato polacco ed eserciti quell'opera caritativa che ora, per quanto in forma ridotta, può compiere. Sicché, in definitiva, una dichiarazione pubblica della Santa Sede verrebbe ad essere snaturata in se stessa e

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sfruttata a finalità persecutrici» (Actes, v. 3**, 570).

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Il Comitato della Croce Rossa aveva organizzato a Ginevra, il 12 febbraio 1943, una riunione con rappresentanti di diverse organizzazioni internazionali. La sig.na Ferrière spiegò l'atteggiamento del Comitato circa il problema ebraico: «Ci si meraviglia che il Comitato Internazionale non protesti presso i Governi. In primo luogo, le proteste non servono a nulla;

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inoltre possono rendere un pessimo servizio a coloro che si vorrebbero aiutare» (Actes, v. 9, 138 s).

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E il 2 giugno 1943, dopo avere denunciato senza ambiguità la persecuzione degli ebrei, Pio XII aveva spiegato la sua discrezione: «Ogni parola, da Noi rivolta a questo scopo alle competenti autorità, e ogni nostro pubblico accenno, dovevano essere da noi seriamente ponderati e misurati nell'interesse dei sofferenti stessi, per non rendere, pur senza volerlo, più grave e insopportabile la loro situazíone»14.

L'incaricato di affari di Roosevelt in Vaticano, H. H. Tittmann, ha riportato nel 1959 le risposte che Pio XII diede alla richiesta, che gli rivolgevano i diplomatici alleati, di denunciare, facendone il nome, Hitler e i nazisti: «Pensavamo - racconta il diplomatico statunitense - che tale dichiarazione avrebbe avuto un effetto profondo sui 300 milioni di cattolici sparsi nel mondo, e avrebbe aiutato materialmente gli alleati a vincere la guerra. Pensavamo che il Santo Padre alla fine avrebbe esaudito la nostra richiesta, perché sapevamo che egli detestava l'ideologia nazista e tutto ciò che la favoriva. Ma egli non lo fece mai. Abbiamo insistito per un certo tempo ed egli ci disse un giorno un po' spazientito: "Ma perché volete che punti il dito e faccia nomi? Ho già dichiarato in tre consecutivi Messaggi di Natale che i principi totalitari antireligiosi sono iniqui, e sono i principi dei nazisti, come ogni bambino può vedere". Allora abbiamo detto: "Ma i vostri Messaggi sono troppo vaghi, sono suscettibili di parecchie interpretazioni. Abbiamo bisogno di qualcosa di ρίù esplicito". Il Papa allora ha spiegato: "Bene, mi rincresce, ma non posso farlo, e per la seguente ragione: [...] ci sono più di 40 milioni di cattolici che parlano tedesco. Se denunciassi i nazisti con il loro nome, come voi volete, e la Germania perdesse la guerra, ogni tedesco avrebbe l'impressione che io ho contribuito alla disfatta, non solo dei nazisti, ma della stessa Germania"». Tittmann concludeva che avevano dovuto rassegnarsi a non insistere più, e aggiungeva che in materia di affari esteri la Santa Sede pensava in termini di decenni, di generazioni e anche di secoli15.

Ma, mentre osservava in pubblico questa prudente riserva, in segreto, attraverso Nunzi e ambasciatori il Papa interveniva efficacemente là dove la sua parola poteva ancora essere efficace, nel tentativo di recare aiuto alle vittime della persecuzione. Inizialmente il piano dei dirigenti del Terzo Reich era di eliminare gli ebrei dal territorio nazionale. Un rapporto alla Segreteria di Stato citava un discorso di Rosenberg, in cui si dichiarava che per la Germania il problema ebraico non sarebbe stato risolto se non quando l'ultimo ebreo avesse lasciato il territorio del Grande Reich. In tale prospettiva aiutare gli ebrei - e in primo luogo gli ebrei battezzati che avevano perso il sostegno dei loro fratelli di razza - significava facilitarne l'emigrazione e trovare loro una terra di accoglienza. A ciò si adoperò anzitutto la Santa Sede con l'aiuto dell'Opera di San Raffaele, ancor prima della guerra. Soltanto per procurare i 3.000 visti promessi dal Presidente del Brasile, la Santa Sede mise in movimento Nunzi e ambasciatori, con risultati limitati.

Nel corso degli anni 1941-42 le misure contro gli ebrei avevano assunto un carattere di particolare violenza. L'inizio della campagna di Russia era stato segnato da massacri, alla luce del sole, di popolazioni ebraiche. Nella primavera del 1942 era cominciata la realizzazione di ciò che i documenti segreti del Terzo Reich chiamavano già «la soluzione finale». Le possibilità di emigrazione furono completamente bloccate, e apparve un fenomeno nuovo: la deportazione fuori della Germania, verso ignota destinazione.

Nel Grande Reich ogni intervento a favore di ebrei era inutile, anzi pericoloso. Il 20 luglio 1942 C. Orsenigo, nunzio in Germania, in seguito a un suo intervento presso il Ministero degli Esteri, a favore di ebrei tedeschi, ripeteva che gli avevano fatto intendere più di una volta che meno parlava degli ebrei, meglio sarebbe stato (cfr Actes, v 8, 603 s). Perciò Pio XII lasciò ai vescovi la decisione di agire sul posto nella misura del possibile. Li spinse a proteggere i propri fedeli, in particolare la gioventù, dalle dottrine di violenza. C'erano però Stati che, pur trovandosi in una sorta di sudditanza nei confronti del Grande Reich, potevano essere sensibili alla voce del Papa, comunicata attraverso i Nunzi: Romania, Slovacchia, Ungheria e Croazia. Quattro volumi dei citati Actes et documents du Saint Siège sono pieni di telegrammi o di lettere che ordinavano ai rappresentanti della Santa Sede d'intervenire presso i Governi di quei Paesi per protestare contro le deportazioni, e presso gli episcopati per invitarli a esercitare allo stesso scopo tutta la loro influenza. A queste istruzioni ai Nunzi e ai delegati si aggiungevano le note diplomatiche consegnate ai rappresentanti di questi stessi Governi presso la Santa Sede per esprimere le proteste del Papa. Si trova persino un telegramma inviato direttamente da Pio XII all'ammiraglio M. Horthy, reggente di Ungheria, telegramma che bloccò momentaneamente le deportazioni.

I censori di Pio XII condannano oggi questa diplomazia e proclamano perentoriamente: se il Papa avesse parlato chiaro e forte, avrebbe salvato gli ebrei, ne avrebbe salvato di più. Questi critici sono davvero più sicuri di Pio XII e dei suoi consiglieri nel valutare la situazione, giudicare la portata di un discorso pubblico, valutarne le conseguenze? I collaboratori ρίù vicini a Papa Pacelli la pensavano come lui. Mons. Montini, uno dei suoi più stretti collaboratori, lo spiegò pίù tardi, quando iniziò la campagna contro Pio XII, organizzata attorno a un lavoro teatrale: se avesse parlato chiaro e forte, quanti oggi gli rimproverano il suo silenzio lo accuserebbero di aver provocato, con discorsi imprudenti, la morte di migliaia di innocenti. Viene quasi da ridere nel vedere una «storica» di oltreatlantico dichiarare con sicurezza: «Montini si sbaglia». I vescovi polacchi rifugiati a Londra reclamavano quei discorsi di fuoco. I loro colleghi rimasti in Polonia chiedevano invece il silenzio, e della stessa opinione era la Croce Rossa. R. M. W Kempner, procuratore a Norimberga, ha detto dopo la guerra: «Ogni tentativo di propaganda della Chiesa cattolica contro il Reich di Hitler sarebbe stato non solo un suicidio provocato - come ha dichiarato recentemente Rosenberg -, ma avrebbe affrettato l'esecuzione di un numero ancora maggiore di ebrei e di preti»16. Alle ragioni di prudenza, c'è chi replica: con simili precauzioni non si ottiene nulla. Il Papa aveva il dovere di parlare; tacendo ha fallito la sua missione profetica. Se Pio XII avesse ragionato come i nostri teologi da rotocalchi, e se la sua parola, come è più verosimile, avesse scatenato persecuzioni ancora più violente e raddoppiato il numero delle vittime, i nostri critici di oggi lo accuserebbero di una leggerezza incredibile o di un orgoglio insensato per essersi pronunciato senza considerare le circostanze di tempo, come forse avrebbe fatto un Pontefice del Medioevo.



Attestati di riconoscenza


Dell'efficacia dell'azione silenziosa recano testimonianza le innumerevoli espressioni di gratitudine provenienti da parte dei capi e delle organizzazioni ebraiche durante e dopo la guerra. Già nel febbraio 1943 il nunzio a Bucarest, mons. A. Cassulo, aveva trasmesso i ringraziamenti del Presidente della comunità ebraica di Romania: «Il Presidente della comunità israelita di Romania [...] è venuto a ringraziarmi già due volte per l'assistenza e la protezione della Santa Sede a favore dei suoi correligionari, pregandomi di trasmettere al Santo Padre l'espressione della gratitudine di tutta la sua comunità, che in questi difficili tempi aveva avuto nella Nunziatura un efficace sostegno». E lo stesso Cassulo comunicava 15 giorni dopo che proprio il giorno prima il dott. Safran, gran Rabbino di Bucarest, era andato a trovarlo per pregarlo «di trasmettere al Santo Padre l'omaggio di devozione e gli auguri sinceri e deferenti dell'intera comunità, che sa di essere oggetto di tanta paterna sollecitudine da parte dell'augusto Pontefice» (Actes, v 9, cít., 128 e 163).

Nello stesso periodo dom G. R. Marcone, rappresentante della Santa Sede in Croazia, scriveva nel medesimo senso: «Il Rabbino maggiore di Zagabria mi ha pregato di esprimere i suoi vivissimi ringraziamenti alla Santa Sede per l'aiuto efficace da essa prestato nel trasferimento di un gruppo di ragazzi ebrei da Zagabria in Turchia» (ivi, 139). Il Delegato Apostolico in Turchia, mons. A. G. Roncalli, scriveva il 22 maggio 1943:«Oggi stesso il segretario dell'Agenzia Giudaica per la Palestina, Ch. Barlas, venne a ringraziarmi e a ringraziare la Santa Sede per il felicissimo successo delle sue pratiche a favore degli israeliti di Slovacchia» (ivi, 307).

Il Gran Rabbino di Gerusalemme, I. Herzog, esprimeva in una lettera del 19 luglio al Segretario di Stato la sua riconoscenza verso il Papa, i cui sforzi in favore dei rifugiati «hanno suscitato un sentimento di gratitudine nel cuore di milioni di uomini» (ivi, 403 e 575).E in uria forma sostanzialmente identica alcune comunità ebraiche del Sud America, Cile, Uruguay, Bolivia, scrissero ai rappresentanti della Santa Sede per esprimere la loro riconoscenza al Papa.

Assai significativo è anche l'articolo, apparso il 27 settembre 1944 sul quotidiano Mantuirea a firma del rabbino Safran. Il titolo da solo diceva tutto: «Il nunzio apostolico ha ottenuto che si rinunciasse alla deportazione degli ebrei in Transnistria. Dio lo ricompensi per ciò che ha fatto». Ecco altre testimonianze ancora più convincenti, perché non ispirate dalla necessità di nuovi aiuti: quella del Gran Rabbino di Roma, Zolli, che si converte al cattolicesimo assumendo come nome di battesimo Eugenio, per riconoscenza verso Eugenio Pacelli17; il senatore Isaia Levi, che lascia alla Santa Sede la sua villa «Giorgina», così chiamata dal nome della figlia morta in tenera età; villa circondata da un parco con alberi rari, fontane, reperti antichi, oggi sede della Nunziatura in Italia. È nota la dichiarazione di Golda Meir, ministro degli Esteri dello Stato d'Israele alla morte di Pio XII: «Durante il decennio del terrore nazista, quando il nostro popolo era sottoposto a un terribile martirio, la voce del Papa si è levata per condannare i persecutori e per esprimere compassione per le vittime».

Oggi il rabbino di New York, D. G. Dalie, si è levato contro questo «abuso dell'Olocausto» da parte di coloro che se ne servono contro la Chiesa. E ricorda una serie di ringraziamenti rivolti a Pio XIΙ da personalità ebraiche particolarmente autorevoli: quello di A. Einstein, in un articolo del dicembre 1940 sul Times Magazine; di C. Weizmann, nel 1943, che fu poi primo presidente d'Israele; di M. Sharett, secondo primo ministro dello Stato d'Israele, che, dopo avere incontrato Pio XII poco dopo la guerra, dichiarò: «Gli ho detto che il mio primo dovere era di ringraziarlo, e in lui la Chiesa cattolica, in nome della comunità ebraica, per quanto aveva fatto in diversi luoghi per soccorrere gli ebrei». Nel febbraio 1944, il Rabbino capo d'Israele inviava un messaggio: «Il popolo d'Israele non dimenticherà mai ciò che fa Sua Santità, e che i Suoi illustri delegati fanno per i nostri infelici fratelli e sorelle nell'ora più tragica della loro storia». Nel settembre 1945 L. Kubowsky, segretario generale del World Jewish Congress ringraziava personalmente il Papa, e il World Jewish Congress donava alla Santa Sede 20.000 dollari «come riconoscenza per l'opera della Santa Sede nel salvare gli ebrei dalla persecuzione fascista e nazista». Nel 1955, mentre l'Italia celebra il decimo anniversario della Liberazione, l'Unione delle Comunità ebraiche d'Italia proclama il 17 aprile giornata di gratitudine per l'assistenza del Papa durante la guerra. E ricorda poi che il 26 maggio successivo «un'Orchestra Filarmonica di artisti ebrei appartenenti a 14 diverse nazioni avevano sollecitato vivamente di poter eseguire alla presenza del Sommo Pontefice qualche saggio per rinnovare, ancora una volta, "un omaggio di riconoscenza e di gratitudine per l'immensa opera di assistenza umana prodigata da Sua Santità per salvare un gran numero di ebrei durante la seconda guerra mondiale"». Nella Sala del Concistoro, essi eseguirono il secondo tempo della VII Sinfonia di Beethoven, sotto la direzione di P. Kletzki di Montreux18.

E il rabbino D. G. Dalin aggiunge che si potrebbero citare centinala di altri esempi. E protesta contro un libro che definisce «persone dalla testa sfasata (wrong-headed), male informate e anzi sviate» i sopravvissuti dell'olocausto che danno queste testimonianze in favore del Papa, senza rendersi conto - egli sottolinea - che questo significa negare nello stesso tempo la credibilità della loro testimonianza sull'Olocausto stesso. E conclude: «Nessun Papa è stato così ampiamente lodato dagli ebrei, ed essi non si sbagliano»19. Inutile dire che la nostra stampa e le nostre radio hanno trattato con la massima discrezione l'articolo di D. G. Dalin.

Queste testimonianze formano una convergenza impressionante con i documenti che dimostrano l'attività di Pio XII per salvare quelli che potevano essere salvati. Di fronte a tali documenti e testimonianze, l'idea del «silenzio» di Pio XII è un mito che riceve credito nell'assordante ripetizione dei mass media, iquali in molti casi soffocano riflessione e spirito critico.

In una Nota del 24 maggio 1937 inviata all'ambasciatore D. von Bergen, il card. Pacelli denunciava le ingiurie infamanti e le calunnie disgustose che apparivano un giorno dopo l'altro sui quotidiani tedeschi, sui periodici e nei discorsi di personalità contro la Chiesa e le istituzioni ecclesiastiche, contro il Papa e i cardinali [Pacelli, in primo luogo] e i vescovi20. Il regime nazista, che gestiva questa propaganda, è crollato. Mala lezione di Goebbels e dei suoi servizi di propaganda non è andata perduta: rovesciando l'accusa che faceva di Pacelli un nemico della Germania, certa propaganda ha fatto di Pio XII un amico del Terzo Reich, complice, con il suo silenzio, dei crimini perpetrati dai nazisti. Oggi, sotto una maschera liberale, forze anonime ripetono ininterrottamente gli stessi attacchi contro Pio XII, e attraverso il suo personaggio storico lavorano per minare il Papato e la Chiesa cattolica.



Note

(1) D. ALBRECHT, Der Notenwechsel zwischen dem hl. Stuhl und der deutschen Reichsregierung, Bd. I, Mainz, M. Grünewald, 1965, 265.

(2) Cfr A. MARTINI, «Il cardinale Faulhaber e l'enciclica "Mit brennender Sorge"», in Archivum Historiae Pontaficiae 2 (1962) 303-320.

(3) Cfr PIO XI, Lettera enciclica Mit hrennender Sorge (14 marzo 1937), in AAS 29 (1937) 145-167 e in Civ. Catt. 1937 II 193-216.

(4) Ivi, 195.

(5) Ivi, 197.

(6) Ivi, 199 s.

(7) Cfr D. ALBRECHT, Der Notenwechsel..., t. II, cit., 1-5.

(8) Cfr Foreign Office, 800.318, 12 gennaio 1940.

(9) Archives de l'Ambassade de France auprès du Saint-Siège. Diplomatic. Paris n. 332.

(10) Ivi, n. 337.

(11) London. Archives of Foreign Office. 371/2438 (4995) fº 406, 6 maggio 1940: «The Vatican expects a German Offensive in the West to begin this week. But they have had si­milar expectation befor, so I do not attach particular faith to their prediction. They say that it may include not only the Maginot line and Holland and Belgium but even Switzerland».

(12) Cfr Actes et Documenta de Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, vol. 5, Città del Vaticano, Tip. Poliglotta Vaticana, 1969, 5.9-11.184. Per brevità, nel riferirci a questa raccolta di documenti in 11 volumi e 12 tomi, indicheremo semplicemente Ac­tes, volume e numero di pagina.

(13) PIO XII, Discorsi e Raìiomessaggi, Città del Vaticano, Tip. Poliglotta Vaticana, vol. 5, 1955, 76; e in Civ. Catt. 1943 II 330.

(14) ID., «Al Sacro Collegio nel giorno onomastico di Sua Santità» (2 giugno 1943), in ID., Discorsi..., cit., 77; e in Civ. Catt. 1943 II 331.

(15) Cfr H. H. TITTMANN, «Speech at Saint Louis University, at the University Gymnasium, on Monday, November 23, 1959», in News from St. Louis University.

(16) R. M. W KEMPNER, «Formely U. S. Deputy Chief of Council to the Nuremberg War Crimes Trial», in R. A. GRAHAM, Pius XII'S Defense of Jews and others: 1944-1945, Milwaukee, Catholic League for religious & civil rights, s.d.

(17) Cfr J. CABAUD, Il rabbino che si arrese a Cristo. La storia di Eugenio Zolli, rabbino capo a Roma durante la seconìa guerra mondiale, Milano, San Paolo, 2002.

(18) Cfr Oss. Rom., 27 maggio 1955, 1.

(19) D. G. DALILA, «Pius XII and the Jews», in The weekly Standard Magazine, February 2001.

(20) Cfr D. ALBRECHT, Der Notenwechsel..., cit., Bd. II, 1969, 22.

Fonte: La Civiltà Cattolica, 2002 III, 117-131, quaderno 3650