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I nazisti «baluardo contro l’invasione bolscevica»

La battaglia di Stalingrado, terminata con la resa dell’intera Sesta Armata agli ordini del Feldmáresciallo Friedrich von Paulus ai primi di febbraio del 1943, segnò l’inizio della posizione difensiva dei nazisti. Rappresentò anche un’improvvisa svolta della propaganda nazista che da questo momento in poi concentrò i suoi sforzi sugli orrori che sarebbero derivati all’umanità se le orde Rosse si fossero riversate sull’Europa occidentale in Seguito alla sconfitta delle forze tedesche. Goebbels ricorda riel suo diario, in data 4 marzo: «La nostra propaganda sta ottenendo un successo enorme».

In contrasto con gli sforzi propagandistici al di fuori della Germania in questi ultimi anni di guerra, con i suoi appelli agli europei perché contribuissero a salvare il continente dal bolscevismo, Berlino non prese mai in seria considerazione l’ipotesi di sollecitare l’appoggio della Santa Sede. La suprema leadership nazista non manifesto mai l’intenzione di rivedere la sua politica antireligiosa. Si rimane colpiti dall’immobilismo della politica nazista, anche in quest’ora di pericolo. Il tema della difesa dell’Europa si limitava a perseguine intenti propagandistici all’estero ed una funzione di sostegno morale in patria. Quando Hitler e Mussolini si incontrarono in aprile, lo staff di Mussolini propose di fare un qualche proclama per sostenere il consenso. Propose di proclamare l’indipendenza della Polonia, degli stati baltici e dell’Ucraina e la fine della persecuzione razziale (cioè degli ebrei). Ma gli italiani ebbero modo di conoscere la dura intransigenza nazista, quando Ribbentrop disse loro che queste proposte erano inammissibili (26).

Nella Polonia cattolica che si opponeva al sovietici tanto per motivi politici che per motivi religiosi, le parole caddero nel vuoto. Il Governatore Generale, Hans Frank scrisse a Hitler il 19 giugno 1943 sollecitando una drastica revisione della politica polacca, che comprendesse un nuovo atteggiamento nei confronti della Chiesa. «Per ottenere l’appoggio polacco, egli scriveva, è necessario, se non proprio la cooperazione della Chiesa, almeno un atteggiamento legale» (27). Il suo appello non ottenne alcun riscontro pratico. Una lunga istruzione fatta uscire dal ministero per la Propaganda nel febbraio 1944 sul come organizzare una colossale campagna in Polonia per lanciare un «movimento popolare europeo contro il bolscevismo», non conteneva alcuna indicazione volta a sollecitare il sostegno della Chiesa e in generale non faceva alcuna menzione agli asseriti elementi religiosi della propaganda nazista. La campagna (dal nome di codice Aktion Bertha) non fu mai realizzata (28).

Insomma, durante la ritirata orientale del 1943-44, il regime nazista o non volle o non poté cambiare la sua politica. Non fece aperture o concessioni in nessuna direzione, né politica, né religiosa o umanitaria. Tra le altre cose, non era assolutamente disposto a fare concessioni al Vaticano. E qui, pertanto, su quali basi si poteva attribuire valore alla propaganda nazista? Nell’alta burocrazia tedesca c’erano poche persone che pensavano necessaria una politica di conciliazione. Il processo di Norimberga ci ha aiutato a identificarne alcune. Una era il generale delle SS Walter Schellenberg il quale era capo del servizio di informazione segreto nazista all’estero; un’altra era Wilhelm Hoettl, incaricato del servizi segreti del Partito in Italia; c’era poi il Lt. delle SS generale Karl Wolff; in genere quei tedeschi per la maggior parte nazisti, che lavoravano in Italia. Essi volevano una rapida conclusione della guerra e speravano di poter trovare una base per un appoggio da parte del Vaticano. Hoettl testimoniò a Norimberga a favore del suo ex capo, Ernst Kaltenbrunner, che, su sua (di Hoettl) pressione, nella primavera del 1943 aveva raccomandato ad Hitler di «addivenire ad un mutamento nella politica ecclesiastica, così da poter contare sul Vaticano come negoziatore di pace». Egli disse che Himmler si oppose violentemente a questo suggerimento. Un passo analogo di Weizsaecker, aggiunse, incontrò lo stesso destino (29).

Il barone Ernst von Weizsaecker si dimise da Segretario di Stato per divenire, nell’aprile del 1943, il nuovo ambasciatore del Reich in Vaticano, in sostituzione del malaticcio Diego von Bergen, il quale morì poco dopo. Egli ha scritto di aver cercato il posto in Vaticano poiché esso offriva la possibilità di lavorare per una rapida pace, attraverso i contatti internazionali che vi si potevano tenere (30). Molti di coloro che lo conobbero sono convinti che egli non avesse assolutamente nessuna simpatia per il sistema nazista. Tuttavia i suoi sentimenti antinazisti non assunsero mai una forma aperta ed egli rimase sino alla fine il rappresentante ufficiale del Reich. Tra i suoi obiettivi, forse condannato all’insuccesso sin dall’inizio, c’era quello di convincere Berlino della possibilità di conseguire la pace con Ia mediazione del Vaticano. Una base su cui fondare l’accordo, secondo Weizsaecker, era costituita dal pericolo comunista. I suoi dispacci riflettono questa strategia sin dal giorno in cui presentò le sue credenziali.

Secondo quanto Weizsaecker riferì a Benlino circa la sua prima udienza papale, il Papa lo stette ad ascoltare per mezz’ora, senza tradire alcuna emozione. «Solo nel discutere sulla lotta contro il bolscevismo, le sue reazioni si tradussero nel riconoscimento di un interesse comune con il Reich» (31). Weizsaecker non cita alcuna parola del Papa. In verità, si trovano nei rapporti della missione vaticana una mezza dozzina di riferimenti in cui si fa cenno a una preoccupazione del Vaticano, cioè del Papa o di Maglione, per il pericolo bolscevico e a una fiducia del Vaticano nel baluardo che la Germania era ritenuta rappresentare contro questo pericolo. Ma nessuna di queste affermazioni dei pretesi sentimenti vaticani si avvale di una citazione diretta e di prima mano; alcune di queste affermazioni sono di terza mano o di natura generica, le rimanenti sono chiaramente interpretazioni a proprio uso e consumo che accentuano il preteso Alpdruck (incubo) del comunismo del Papa. Se il Papa disse tali cose ad altri, perché non le avrebbe dette all’unica persona alla quale sarebbero risuonate come una musica, vale a dire all’ambasciatore tedesco, colui che non avrebbe perso tempo nel riferirlo a Berlino? Ma Weizsaecker non attribuisce mai alcun sentimento del genere alle fonti ufficiali del Vaticano. Per di più, Weizsaecker neppure una volta fa menzione di una qualche mossa del Papa rivolta contro i nazisti, ma al contrario tenta di illustrare con quanta benevolenza il Papa trattasse i tedeschi.

Le storie infondate dell’interesse del Vaticano a mantenere la Germania unico baluardo contro il bolscevismo devono pertanto essere interpretate essenzialmente in funzione della propaganda anticomunista dri nazisti e in particolare della strategia personale dell’ambasciatore del Reich.

In una lettera personale indirizzata a me il 16 luglio 1964, Sigismund von Braun, già collaboratore di Weizsaecker in Vaticano e oggi osservatore della Repubblica Federale presso le Nazioni Unite, contesta questa interpretazione dei dispacci di Weizsaecker.

«I telegrammi di Weizsaecker, naturalmente, si riferiscono solo a ciò che il Vaticano pensava del comunismo. Non c’era alcun motivo di telegrafare a Berlino ciò che la Curia pensava del nazismo. Weizsaecker e i suoi interlocutori della Segreteria di Stato vaticana erano completamente d’accordo nel condannare il nazionalsocialismo. Del fatto che nulla di ciò traspaia dai telegrammi di Weizsaecker in patria, non si deve dedurre che non si dicesse nulla o che le opinioni drl Vaticano sul comunismo e sul nazismo fossero sbilanciate in favore del nazismo. Comunque Ia Curia, nel 1943, aveva riconosciuto benissimo i pericoli che minacciavano il mondo da parte dell’Unione Sovietica, e anche su questo punto il Papa e Weizsaecker erano d’accordo, sebbene si trovassero in un certo senso in campi apposti».

In altri termini, i rapporti di Weizsaecker erano calcolatamente unilaterali e incompleti. Ma, se è vero che Il vero giudizio del Papa sul regime nazista fu censurato e non poté venire alla luce, non potrebbe essere stato distorto e riferito fuori del suo contesto anche il giudizio sul comunismo? Weizsaecker, ad esempio, stese i suoi rapporti con li deliberato intento di destare a Berlino la speranza di una pace mediata dal Vaticano. In vera, lo zelo e l’ingenuità quasi patetici con cui raccoglieva e utilizzava le citazioni rende ancor più significativo il fatto che non abbia citato neanche una volta su questo punto un portavoce ufficiale del Vaticano (32).

Ci sono chiaramente molte cose da apprendere dagli ancora non disponibili documenti degli archivi vaticani relativamente al fatto se la mentalità di Pio XII e dei suoi collaboratori ufficiali sia adeguatamente rappresentata in questi insoddisfacenti dispacci di Weizsaecker, che in fondo sono rapporti studiati di un ambasciatore dalla posizione ambigua. Pio XII, come Winston Churchill, era pienamente consapevole dei pericoli di un’egemonia sovietica in Europa. Resta la questione di come egli concepisse il ruolo postbellico della Germania a questo proposito.

Nello stesso periodo, gli organi vaticani, la radio vaticana e l’Osservatore Romano non dissero nulla che potesse in qualche modo lasciar credere che la Germania, e implicitamente il sistema nazista, fossero considerati in quegli ambienti come il «baluardo» contro i bolscevichi.

Anzi, fu proprio quando i nazisti accampavano la pretesa di essere Ia sola speranza dell’Europa contro la invasione bolscevica, che le relazioni del Vaticano con Berlino registrarono la loro più profonda decadenza. In data 2 marzo 1943, il Cardinale Segretario di Stato Luigi Maglione mandò al ministro degli Esteri von Ribbentrop la più dura lettera di protesta che arrivò da Roma nel corso della guerra (33). Parlò delle disastrose condizioni dei cattolici tedeschi e polacchi nel Warthegau (popolazione di 10 milioni) e in altre regioni annesse o occupate dal Reich. Qui Martin Bormann e la Cancelleria del Partito avevano mano libera nel portare avanti la loro concezione di ciò che Ia religione avrebbe dovuto essere nel perfetto Stato nazionalsocialista. Precedentemente, in data 8 ottobre 1942, Maglione aveva scritto una protesta analoga, che si concludeva con la affermazione che se la situazione non fosse migliorata, la Santa Sede si sarebbe trovata costretta, seppure controvoglia, «ad abbandonare l’atteggiamento di riserbo sin qui tenuto» (34). Ma questa lettera non fu indirizzata a Ribbentrop bensì all’ambasciatore tedesco. Berlino rimbrottò il suo inviato a Roma per aver accettato la lettera papale, dato che essa trattava dell’argomento proibito dei territori orientali (35).

Proprio per questo motivo l’Ufficio degli Esteri respinse dopo pochi giorni la lettera del 2 marzo a Maglione, dichiarando che essa era irricevibile. Il 17 aprile Maglione scrisse al nunzio: «Il governo del Reich, pertanto, persiste nel cercare di rendere impossibile alla Santa Sede la cura degli interessi religiosi di paesi occupati, cerca cioè di impedirle il mandato divino che essa ha di salvaguardare i diritti di tutti i cattolici. Sua Eccellenza comprende quanto ciò offende l’Augusto Capo della Chiesa, e quanto profonda è la pena che gli procura. Io, pertanto, incarico Sua Eccellenza di informare il governo del Reich per iscritto: 1) che il gesto compiuto dal Ministero degli Esteri non è un gesto amichevole nei confronti della Santa Sede; 2) che la Santa Sede da parte sua, in considerazione del modo in cui la lettera sunnominata è stata consegnata e del tempo per il quale e stata trattenuta, ritiene tale documento regolarmente giunto a destinazione» (36).

Il Vaticano era a quel tempo preparato a veder Hitler interrompere i rapporti diplomatici, espellere il nunzio e ripudiare il concordato? Era .preparato, da parte sua, a prendere una simile iniziativa? Nel suo rapporto giornaliero del 17 marzo, col quale restituiva la lettera di Maglione, Weizsaecker affermava che «il nunzio ha finalmente accettato la lettera. Ha poi cambiato argomento e ha lasciato il mio ufficio con una considerazione malinconica, la quale potrebbe essere interpretata come espressiva della sua convinzione che i giorni della sua permanenza a Berlino sono contati» (37).

Il tipo di linguaggio usato nella corrispondenza può apparire del tutto sottomesso a chi non abbia consuetudine con lo stile vaticano. Ma nel 1904 una lettera diplomatica stesa in termini ancora più discreti aveva provocato la rottura dei rapporti diplomatici con la Francia e la denuncia di un concordato secolare. Molti si chiedono tuttavia perché di fatto, dopo questo genere di trattamento, non sia stato Pio XII stesso ad assumersi la responsabilità di una rottura aperta con Hitler e di una denuncia del concordato. In primo luogo, le aree a cui le lettere si riferivano erano precisamente quelle aree a cui non si applicava il concordato del 1933. Per quanto riguarda la Germania di prima del 1939, dove il concordato era ancora formalmente in vigore, Pio XII stesso diede una risposta a tale quesito. Nella sua allocuzione del 2 giugno 1945, immediatamente successiva alla capitolazione tedesca, egli dichiarò:
«Di fatto, malgrado tutte le violazioni subite, il concordato del 1933 dava ai cattolici un fondamento giuridico alla loro difesa, costituiva una roccaforte dietro la quale proteggersi nella loro opposizione — per quanto era possibile — alla crescente campagna di persecuzione». Per disprezzato che fosse dai nazisti, l’accordo rimaneva tecnicamente e formalmente in vigore e costituiva un elemento relativamente frenante nei confronti delle prevaricazioni naziste, soprattutto se si fa il confronto con le misure draconiane adottate contro la Chiesa nel Warthegau, dove l’accordo non veniva applicato.

L’opinione pubblica mondiale restò completamente all’oscuro di questa controversia sino alla fine della guerra, quando il Vaticano consegnò la corrispondenza ad esso relativa al Tribunale di Norimberga. È interessante fare delle considerazioni di ciò che avrebbe potuto accadere se ci fosse stata una fuga di notizie nel 1943. Il fatto che il Vaticano abbia deciso di tenere la bocca chiusa in quei frangenti, può far propendere alcuni ad interpretare la disputa come un battibecco familiare tra spiriti fondamentalmente compatibili. Altri potrebbero interpretare il silenzio del Vaticano come giustificato dal timore che, parlando apertamente, la difesa nazista contro il comunismo sarebbe risultata indebolita e l’Europa avrebbe corso maggiori pericoli. Io ritengo piuttosto che un’istituzione di antica data, con una lunga esperienza di rapporti con governi persecutori, abbia il diritto di aspettarsi spiegazioni più intelligenti e più penetranti della sua condotta. In ogni caso, la corrispondenza pubblicata aiuta a spiegare perché, nel 1943, con le spalle al muro, il regime nazista non abbia fatto un passo per sollecitare l’appoggio del Vaticano contro i Rossi.

Dall’occupazione di Roma alla capitolazione (quinta fase)

Il 4 giugno 1944 le truppe alleate entrarono in Roma e sottrassero il Papa al controllo dei nazisti. Nella stessa prima settimana di giugno si ebbe lo sbarco degli alleati in Normandia. La storia della liberazione di Roma e dei negoziati che portarono alla sua smilitarizzazione da parte del comando militare tedesco in Italia, e tutta quanta la storia dell’occupazione tedesca di Roma, è trattata più approfonditamente altrove. Una parte notevole di questa storia e gia stata scritta da mons. Alberto Giovannetti in Roma città aperta, Milano, 1962. Perché Hitler non abbia riservato a Roma lo stesso destino che aveva pensato di riservare a Parigi, e perché il Papa non sia stato rapito, come suggerivano alcuni nell’entourage del Führer, sono altri aspetti di questa fase della guerra che meritano un’attenzione separata, quale non si può qui riservare.

Con la presenza a Roma di nuove forze, la neutralità della Città del Vaticano e della Santa Sede doveva essere riaffermata. II 7 giugno, una dichiarazione autorevole dichiarava che dall’inizio della Guerra Mondiale la Santa Sede aveva mantenuto un atteggiamento di «stretta imparzialità» in ordine alla guerra. La dichiarazione continuava: «La chiara politica della Santa Sede è sempre stata quella di mantenere immutato questo atteggiamento di neutralità nei confronti di qualsiasi autorità militare abbia avuto il controllo effettivo della città di Roma. La Santa Sede confida di poter continuare questa attività spirituale nel mondo mediante regolari e liberi contatti con i suoi rappresentanti nelle varie nazioni e con l’episcopato della Chiesa cattolica di ogni paese» (38).

Nel chiedere la possibilità di mantenere i suoi collegamenti con tutti i paesi — come i tedeschi avevano permesso quando erano padroni a Roma — il Vaticano aveva particolarmente in mente la probabilità di un prossimo armistizio. Da questo momento, comunque, fu chiaro al Vaticano che il regime di Hitler era condannato e che i negoziati con Berlino, qualora ci fossero stati, avrebbero dovuto necessariamente prendere in considerazione il decesso del regime nazista. Pochi giorni prima della liberazione, nella sua allocuzione annuale del 2 giugno ai Cardinali in occasione del suo onomastico, Pio XII sollevò moltissime critiche nei paesi alleati poiché le sue parole furono interpretate come una mossa in favore di una «pace morbida» con la Germania. Infatti, dopo aver sottolineato le difficoltà materiali e la situazione di indigenza di Roma e dintorni, e prevedendo chiaramente una disfatta tedesca, egli deprecò lo spirito di vendetta e scoraggiò l’idea di una «completa vittoria» o di una «completa distruzione». Ciò, egli riteneva, avrebbe solo prolungato la guerra, sarebbe costato inutilmente altre vite umane da entrambe le parti e avrebbe creato le premesse di un altro conflitto mondiale.

Pio XII dubitava della saggezza della formula di Resa Incondizionata di Casablanca (gennaio 1943), tanto più che essa non era stata ben definita. Egli era assai più favorevole ad una pace politica o negoziata che ad una stabilita esclusivamente dalla decisione delle armi. in questa conclusione egli non era naturalmente solo. Molti leaders alleati non approvavano questa formula e molti credevano, a ragione o a torto, che essa costituisse un approccio errato al problema della pace. Gli sforzi del Papa per utilizzare i suoi contatti ora quasi quotidiani con i leaders alleati che passavano da Roma (compreso Winston Churchill che ebbe un’udienza di 35 minuti il 23 agosto) si scontrarono con l’inflessibile determinazione alleata di portare avanti la guerra sino alla resa completa, senza altri negoziati che non fossero quelli finalizzati alla capitolazione militare.

Fu in questi intensi mesi compresi tra il giugno 1944 e il giugno 1945 – un lungo anno pieno di eventi drammatici – che la minaccia di una spaccatura tra gli Alleati interessava in modo costante americani ed inglesi. Una pace separata sia con gli angloamericani che con i sovietici rientrava naturalmente nei desideri del nazisti. Nell’aprile del 1944, Goebbels aveva già inviato a Hitler un memorandum di 41 pagine nel quale sosteneva che sé una pace con Churchill era impossibile, un accordo con Stalin era invece possibile (39). Sembra che questa sua «soluzione orientale» fosse condivisa da Martin Bormann. Altri tedeschi vedevano la via d’uscita in un accordo con l’occidente. In tale accordo era implicita l’esclusione dei sovietici dall’Europa, se non una conversione di fatto del fronte contro i sovietici.

Per quanti aderiscono alla teoria dell’«ossessione» anticomunista, considerandola la chiave interpretativa delle relazioni del Vaticano con il Reich tedesco, i piani per rivolgere il fronte contro 1’URSS avrebbero dovuto avere una speciale attrattiva, la quale avrebbe dovuto tradursi in un’azione concreta. Altri leaders politici come Franco in Spagna e alcuni politici balcanici filooccidentali caldeggiavano questa soluzione. Il generale Lt. delle SS Karl Wolff, che propose la capitolazione delle forze tedesche nel nord Italia, riteneva che gli Alleati avrebbero potuto fare la pace con Hitler, assegnando come contropartita al Führer il compito di condurre la lotta contro i bolscevichi. Tuttavia non esiste alcuna indicazione che Wolff sia stato mai incoraggiato in questa direzione o in altra analoga da Pio XII. Inoltre, in questo momento dell’ultimo anno di guerra, si diffuse la voce di un possibile accordo tra il Vaticano e il Cremlino, senza alcuna recisa smentita da parte del Vaticano.

Nel febbraio del 1945 Ribbentrop mandò all’ambasciata presso il Vaticano quella che Weizsaecker definì la sua ultima istruzione politica. In un lungo telegramma, il ministrò degli esteri del Reich chiese a Weizsaecker di far passare l’idea di una pace separata con l’Occidente, da far seguire da un’azione contro i sovietici. Egli propose che gli Alleati permettessero alla guerra di esaurirsi in Occidente, per terra e per aria; se non avessero accettato, Hitler avrebbe rovesciato la sua politica e avrebbe portato la Germania ad una deliberata bolscevizzazione. «L’intera proposta, che io ero incaricato di portare avanti — scrive Weizsaecker nelle sue memorie — era completamente irrealistica» (40). Weizsaecker non ci dice se ventilò questa proposta al Vaticano. Se lo fece, la reazione non poté che essere completamente negativa, dato che nella risposta dell’ambasciatore a Ribbentrop egli asseriva che nessuna pace del genere era realistica senza «un ricambio di persone» nel Reich.

Assistenza umanitaria nella zone occupare dai nazisti

In tempo di guerra, chi è in posizione di neutralità ha l’opportunità di assistere le vittime della guerra in un modo che e impossibile ai belligeranti all’interno de sui mezzi limitati, e secondo le sue lunghe tradizioni, la Santa Sede cercò sin dai primi giorni di alleviare le sofferenze del feriti e dei prigionieri; programmò anche interventi in favore delle popolazioni civili delle aree devastate dalla guerra. Cercò in particolare di dare un segno visibile del suo interessamento e della sua compassione attraverso le visite del rappresentanti del Papa ai campi dei prigionieri di guerra. Nella maggior parte dei casi, gli Alleati collaborarono permettendo la trasmissione di cibo, indumenti e messaggi. Notevole fu la loro prontezza nell’accogliere i rappresentanti pontifici e nel fornire garanzie che gli aiuti avrebbero raggiunto i loro destinatari.
br> L’esperienza del Vaticano con i nazionalsocialisti fu invece quasi dappertutto negativa. Nel gennaio del 1941, il nunzio pontificio Mons. Orsenigo visitò un campo vicino a Monaco dove diverse centinaia di preti e di studenti di teologia francesi erano raccolti in qualità di prigionieri di guerra. Ma anche questo tipo di prigionieri era sotto il controllo dell’autorità militare e così questa visita fu definita un’eccezione alla regola che proibiva ai membri del corpo diplomatico accreditato a Berlino di visitare i campi. Richieste di visitare Sachsenhausen e Dachau, dov’erano incarcerati preti tedeschi e polacchi, furono respinte. Il punto di vista nazista era che i campi di concentramento erano un affare interno e non interessavano le poténze straniere o le organizzazioni internazionali. Solo negli ultimi mesi della guerra, agli inizi del 1945, la Croce Rossa Internazionale poté prendere contatti con i capi dei vari campi di concentramento. Tra questi c’era il famigerato capo di Auschwitz, Rudolf Hoess, il quale naturalmente non lasciò trapelare alcun sospetto circa la vera natura del suo campo.

Un analogo disprezzo dell’interessamento benefico del Papa ebbe modo di manifestarsi quando il Vaticano cercò di aiutare i tedeschi e di placare il dolore e ’incertezza delle famiglie tedesche coinvolte nella tragedia della guerra. Sia la Gestapo che il Ministero per la Propaganda rifiutarono al Vaticano il permesso di far giungere messaggi alle famiglie dei prigionieri internati nei campi alleati. Persino gli elenchi dei prigionieri di guerra trasmessi per radio, che avrebbero portato ai parenti Ila notizia che i loro cari erano per lo meno vivi, non erano graditi alle autorità naziste. Queste affermarono che il popolo tedesco non aveva bisogno di ricevere benevolenza da mani straniere e che le madri e le mogli tedesche erano abbastanza eroiche da sopportare l’incertezza del destino toccato ai loro figli e ai loro mariti. Al Papa non fu permesso di mandare in Germania le migliaia di cartoline e di biglietti che gli erano giunti attraverso le nunziature e le delegazioni in Inghilterra, Nord America, Nord Africa, Medio Oriente, India e Australia. Anche durante l’occupazione tedesca di Roma, non fu concessa alcuna facilitazione per la trasmissione di questi messaggi mediante trasporto militare. Gli elenchi, pertanto, si accumularono inevasi nei magazzini vaticani. Solo all’inizio del 1945 fu permesso alla Radio vaticana di trasmettere tali messaggi in Germania.

Questo è un esempio di durezza di cuore che a suo tempo non poté essere pubblicizzato, per timore di pregiudicare un possibile futuro ammorbidimento della linea politica. Ancor oggi l’arbitrario rifiuto da parte nazista dei tentativi di recare sollievo compiuti dal Papa, è poco conosciuto. Fino agli ultimi mesi della guerra, la politica dei nazisti fu deliberatamente ispirata alla ruvidezza che, si pensava, garantiva la condiscendenza al governo nazista, mentre la compassione era solo un invito all’indisciplina e alla rivolta. Un rapporto della Croce Rossa Internazionale relativo all’ultimo periodo (marzo 1945) afferma che i negoziati a Berlino confermavano l’esistenza di due correnti che si scontravano costantemente. Il primo gruppo sosteneva una politica di trattamento umano e corretto come prescritto dagli accordi internazionali, e in particolare era favorevole alla collaborazione con la Croce Rossa. L’altro gruppo credeva che fosse necessario avere cuori e nervi di acciaio per combattere sino all’ultimo senza alcuna considerazione per i sentimenti umani e senza fare alcuna concessione alla propaganda straniera o a qualsiasi ideologia umanitaria. Al primo gruppo, afferma la Croce Rossa, apparteneva il generale delle SS Walter Schellenberg, il quale esercitava influenza su Himmler; ma a capo dei «duri» c’erano Hitler e Bormann (41). E fu la linea di Hitler e Bormann a caratterizzare la politica nazista per la maggior parte della guerra.

Le note diplomatiche ora requisite a Bonn sono mute testimonianze dei vari tentativi da parte vaticana tramite il nunzio Orsenigo di ottenere grazia per i condannati a morte, libertà per i prigionieri, o altre concessioni umanitarie. Gli appelli per le vittime della guerra, come le proteste per la persecuzione e per le violazioni del concordato, rimasero senza risposta. Weizsaecker ci disse di aver deliberatamente régistrato ogni appello a titolo di testimonianza, anche se sapeva che non ne sarebbe venuto fuori niente e che l’informazione richiesta, da cui tanto dipendeva, non avrebbe avuto seguito.

Alle udienze del processo di Norimberga vari testimoni sottolinearono l’atteggiamento inflessibile che regnava a Berlino e nella Cancelleria del Reich di Hitler a proposito di queste proteste. Le candide affermazioni del Ministro degli esteri von Ribbentrop fatte nel corso del suo interrogatorio preprocessuale del 5 ottobre 1945, appaiono del tutto credibili alla luce degli altri documenti trovati negli archivi, con la loro descrizione dell’intransigenza di Hitler, spinta sino al fanatismo, nei confronti di tutte le lamentele provenienti dal Vaticano. Alcuni estratti possono fare il punto meglio di un riassunto (42).



D. Ricevette dal Vaticano una comunicazione in data 2 marzo 1943 che richiamava la sua attenzione su un lungo elenco di persecuzioni di vescovi e di preti, quali imprigionamenti ed esecuzioni, e altri impedimenti del diritto di libertà religiosa?
Ribbentrop: In questo momento non lo ricordo con precisione, ma so che avevamo un intero cassetto pieno di proteste del Vaticano.
D. Fece un’indagine per accertare se erano vere?
Ribbentrop: Francamente, mi era impossibile affrontare il Führer sull’argomento del Vaticano.
Esso andò così lontano che io posso dire questo: quando nel 1941 fu creato il Ministero per l’est, il Führer dispose che tutte le questioni vaticane relative ai territori dell’est non fossero più esaminate da noi; per cui avvicinare il Führer con una di queste proteste era assolutamente inutile. Esse arrivarono continuamente al Führer e ai consigli del Partito, ma avvicinare il Führer su qualcuna di queste faccende era del tutto impossibile, ed egli mi disse una o due volte «Questa è una faccenda meramente interna che non è di vostro interesse». Ripetutamente.
D. Lei rispose alle proteste papali?
Ribbentrop: Penso che a molte non risposi. Un buon numero.
D. Vuol dire che non poteva nemmeno discutere col Führer le relazioni con il Vaticano, nonostante l’importanza che queste avevano per gli affari esteri e per il resto del mondo?
Ribbentrop: Devo dirlo, assolutamente, al cento per cento. No…

Il barone Steengracht von Moyland, successore di Weizsaecker come Segretario di Stato, disse che un giorno in cui ad Hitler vennero presentate delle proteste papali, egli dichiarò semplicemente «Sono tutte una ottusa menzogna», e le mise da parte (43).

Il punto morto esistente nelle relazioni nazi-vaticane registrò dei peggioramenti man mano che la guerra si sviluppò, sia che i nazisti avessero dei successi, sia che fossero sconfitti. La maggior parte delle proteste, degli appelli e degli interventi documentati negli archivi riguardano personalità e pubblicazioni cattoliche. Altri trattano di individui per i quali erano stati fatti al Papa degli appelli speciali. Ciò non deve sorprendere, dal momento che degli appelli in favore di altri possono essere facilmente ignorati, senza che il provvedimento sia passibile d’inchiesta, riguardando questioni interne e andando oltre la competenza del Vaticano. In quest’ultima fattispecie rientrerebbe la posizione degli ebrei.

Le note relative alle proteste papali, conservate con tanta cura da Weizsaecker, alle quali facciamo riferimento, citano poche volte del casi di ebrei. Ciò sta a significare che non furono fatti appelli o, forse, che Weizsaecker preferì non lasciare alcuna testimonianza scritta di questi interventi? Questo è uno di quei casi che le testimonianze ancora inedite del Vaticano potrebbero contribuire a risolvere. In considerazione del documentato e riconosciuto sostegno dato dal Vaticano ai rifugiati degli altri paesi antisemiti europei, sembra strano che in questo caso non si abbiano segni di un qualche intervento papale.

Tenendo conto della generale non-collaborazione dei nazisti di fronte agli appelli del Vaticano in favore dei suoi vescovi e dei suoi preti, non dovrebbe sorprendere che i nazisti abbiano ancor meno prestato orecchio all’intercessione vaticana in favore degli ebrei. Orsenigo fece l’esperienza di essere duramente ripreso per essersi intromesso in faccende che agli occhi dei nazisti non lo riguardavano. Ciò comunque non gli impedì completamente di presentare, dietro istruzioni del suo capo a Roma, istanze umanitarie nelle quali la posizione degli ebrei era citata, in termini diplomatici ma, non di meno, chiari. Ad esempio, un memorandum del barone Adolf Steengracht von Moyland, in data 19 luglio 1944, ci informa che gli Stati Uniti avevano scongiurato il Vaticano di chiedere ai nazisti di trattare gli internati nei campi di concentramento tedeschi e dei paesi occupati secondo le norme della convenzione di Ginevra, cioè di concedere loro di ricevere pacchi e comunicazioni, ecc. Steengracht ricorda che espresse la sua meraviglia per il fatto che il Vaticano si fosse permesso d’essere strumentalizzato dalla propaganda americana. Il nunzio, egli aggiunge, replicò che «l’intervento riguardava ovviamente quelle persone che erano state tratte in arresto a causa della loro razza, della loro religione o dei loro principi politici» (44).

Nulla lascia credere che questa richiesta abbia sortito un esito più favorevole delle precedenti, fossero esse in favore di ebrei o di cattolici. In realtà, può destare meraviglia il fatto stesso che si sia compiuto questo tentativo dell’ultima ora, se non si tiene conto che questo era il momento in cui Pio XII stava usando la sua influenza — con successo, visti i risultati — con l’Ammiraglio Horthy a Budapest per bloccare la deportazione imminente degli ebrei ungheresi (45). In effetti, il Vaticano ebbe miglior fortuna intervenendo in favore degli ebrei con i regimi satelliti, attraverso i suoi rappresentanti diplomatici a Vichy, Budapest, Bratislava, Bucarest e altrove. Ma questa è una faccenda che va oltre i limiti del presente studio.

Osservazioni conclusive

In questo studio, ho cercato di tracciare le linee principali della politica vaticana nei confronti del regime nazista nei vari periodi della guerra, assumendo come punto di partenza la dichiarata neutralità ufficiale del Vaticano. Alcune conclusioni illuminanti — io credo — si possono tirare dal modello emergente dai drastici cambiamenti intervenuti in questi sei anni nella scena politica. Se per caso la Santa Sede ebbe una simpatia latente per il nazismo o lo considerò un alleato in qualche modo attendibile contro il bolscevismo, va quanto meno detto che riuscì mirabilmente a confondere lo storico. Quando le fortune naziste erano all’apogeo, la Santa Sede insisteva ne sottolineare la sua neutralità. Neanche nelle ore della massima prosperità nazista ci fu il minimo segno che il Vaticano accettasse, o ancor meno salutasse con favore, una vittoria di Hitler. Quando più tardi l’esca dell’anticomunismo fu fatta cinicamente ciondolare davanti a tutta l’Europa, Ia pretesa ossessione anticomunista del Vaticano rispose decisamente poco alle attese. Quando la Germania si pose, dopo Stalingrado, come l’unico baluardo della civiltà occidentale contro le avanzanti orde rosse, il Vaticano mantenne la sua linea. Sollecitato a dare una mano nel dividere gli Alleati così che il fronte potesse essere rivolto, con i nazisti, contro l’Unione Sovietica, ancora una volta il Vaticano restò sordo. Il rifiuto opposto dal Papa alla richiesta di Hitler che il Vaticano riconoscesse le annessioni tedesche è ancor più significativo in quanto comportava la rinuncia alla possibilità di intervenire nella vita della Chiesa di quelle regioni.

Alcuni affermano che il Papa agì con questa cautela poiché ebbe l’intelligenza di nascondere i suoi veri sentimenti, o che era un realista e sapeva che Hitler non avrebbe vinto. Siffatte spiegazioni semplicistiche di problemi tanto complessi non soddisfano lo storico.

La coerente neutralità del Vaticano non era dettata da opportunismo, ma era di principio. Né si trattava semplicemente di seguire la linea di minore resistenza, poiché ciò richiedeva un coraggio straordinario e una eccezionale fermezza da parte di Pio XII nel mantenere un atteggiamento coerente contro le tremende tempeste che in quegli anni si rovesciarono sulla Chiesa. Gli episodi riferiti nelle pagine precedenti danno un’idea del tipo di pressioni che venivano esercitate sul Papa da tutte le direzioni.

Per il Vaticano, la neutralità ufficiale non significava indifferenza morale per le tragedie e i crimini che si accompagnavano alla guerra. Vi sono alcuni che sostengono che il Papa, in virtù della sua autoproclamata autorità religiosa e morale, avrebbe dovuto esprimersi più apertamente, decisamente e concretamente su alcune delle maggiori atrocità della guerra, avrebbe cioè dovuto uscire dal suo «silenzio». Essi lo condannano, di fatto, per non aver gettato il peso della sua autorità nel giudicare apertamente l’aggressore e lo sterminatore. In altre parole, nessuno, e particolarmente un leader morale, aveva il diritto di essere neutrale in quel tragici giorni. Questa è una posizione teoricamente legittima, anche se discutibile. Chi scrive ha pubblicato altrove Ia sua opinione in materia, per quanto riguarda Pio XII. Qui, in un testo a carattere eminentemente storico, credo mi sia lecito rinviare tali questioni etiche e di principio ad una altra sede. Vorrei solo osservare che la neutralità gode di uno status rispettabile e consolidato nel diritto internazionale. Nei duri e crudeli tempi di guerra, la comunità umana ha bisogno di alcuni centri di calma, di alcuni angeli di misericordia, in grado di servire gli afflitti di entrambe le parti senza essere imperiosamente costretti dall’una o dall’altra parte a costituirsi giudici morali delle nazioni. Nel restare, come fece, al di fuori del conflitto tra le parti contendenti, il Vaticano poteva legittimamente appellarsi non solo alla legislazione internazionale ma ancor più alle sue consolidate tradizioni.

La neutralità era, di conseguenza, necessaria alla Santa Sede non come un mezzo per evitare responsabilità o per sottrarsi a decisioni difficili, quanto piuttosto come la condizione indispensabile per portare avanti la sua specifica missione religiosa e morale, almeno come essa la concepiva. Nella sua opera di valutazione del ruolo del Vaticano durante Ia guerra, lo storico deve porsi nella stessa ottica che il Vaticano aveva assunto durante la guerra. Ciò e indubbiamente difficile per lo storico medio non avvezzo a valutare la funzione della religione nelle questioni di carattere pubblico, ma lo sforzo va fatto, nell’intento di raggiungere un giudizio storicamente onesto ed equilibrato sugli uomini e sulle politiche.