Come era previsto
LONDRA - L'Islanda ha detto di no nel modo più risoluto alla legge che prevedeva il rimborso di quasi 4 miliardi di euro di debiti a Gran Bretagna e Olanda. Ma sul tavolo delle trattative fra i tre paesi, mentre gli islandesi ieri andavano alle urne nel referendum sul debito, c'era già un'altra proposta di ripagamento del debito, con termini più vantaggiosi per il governo di Reykjavik. Il voto dunque non chiude bensì riapre il negoziato, limitandosi a esprimere una sonora protesta a livello politico: la rabbia della gente per il modo in cui banchieri, speculatori e un capitalismo senza regole hanno messo in pericolo e poi messo in ginocchio un intero paese.
Il referendum chiedeva di pronunciarsi su un piano, approvato dal governo dell'Islanda, per restituire ai governi di Regno Unito e Olanda una somma complessiva di 3,9 miliardi di euro. Era l'equivalente dei risparmi di centinaia di migliaia di cittadini britannici e olandesi che avevano tenuto i loro soldi nelle maggiori banche islandesi, fallite nel giro di pochi giorni, nel 2008, all'apice della crisi finanziaria globale. Il governo britannico, così come quello olandese, avevano immediatamente garantito i propri risparmiatori, indennizzandoli per le somme perdute nel fallimento delle banche islandesi; ma poi sia Londra che l'Aia hanno chiesto indietro quei soldi all'Islanda.
Facile a dirsi, più difficile a farsi. Grande un terzo dell'Italia, ma semidisabitata, per l'Islanda quel debito di 4 miliardi di euro corrisponde al 40 per cento del prodotto interno lordo ovvero a 15 mila euro di debito a testa per ciascuno dei suoi 317 mila abitanti. Ripagarlo, subito e in concomitanza con una crisi economica che ha portato la disoccupazione all'8 per cento, il debito esterno al 300 per cento e la corona islandese, la moneta nazionale, a perdere in due anni la metà del suo valore, sarebbe a giudizio di molti una spesa insostenibile. Per questo il presidente della repubblica islandese, Olaf Ragnar Grimsson, è stato il primo a dire di no alla proposta di legge sul rimborso, rifiutandosi di firmarla. Diventando così il portavoce di un diffuso malcontento popolare: durante le operazione di voto, sabato, molti hanno esposto cartelli con slogan come "salviamo il paese, non le banche" e "no al capitalismo strozzino".
I risultati preliminari indicano che il 93 per cento dei partecipanti hanno votato no alla proposta di restituire il debito, solo l'1,7 per cento ha votato sì e il resto delle schede sono state annullate o erano bianche. "Non è una sorpresa", ha commentato il primo ministro Johanna Sigurdartottir, osservando che il referendum è comunque servito a spingere Gran Bretagna e Olanda a fare offerte migliori all'Islanda e che i negoziati dunque continueranno. Dello stesso parere il ministro del Tesoro britannico, Alistair Darling: "Il punto fondamentale per noi è riavere indietro quei soldi, ma i termini e le condizioni per riaverli sono negoziabili, su quello siamo flessibili. Non è nel nostro interesse mettere in ulteriore difficoltà l'Islanda, vogliamo che sia parte del processo di integrazione europeo. Non puoi andare da una piccola nazione che ha la popolazione di Wolverhampton (una città inglese di medie dimensioni, ndr.) e pretendere che ripaghi immediatamente tutti i suoi debiti, stiamo cercando di essere ragionevoli".
In gioco, a questo punto, non c'è solo il rimborso a Gran Bretagna e Olanda, ma anche il possibile ingresso dell'Islanda nell'Unione Europea: in passato orgogliosamente contraria a entrare nella Ue, all'indomani del crack finanziario mondiale del 2008 l'isola al limitare del mar glaciale artico aveva guardato con improvviso entusiasmo alla prospettiva di un'adesione all'Europa dei 27. Bruxelles l'ha messa in una sorta di corsia preferenziale che prevede la possibilità di accesso, insieme alla Croazia, forse già nel 2012. Ma i negoziati sul debito con Londra e l'Aia, l'impressione di essere ancora una volta sfruttati da banche e banchieri, ha fatto cambiare umore a molti islandesi e ora i sondaggi dicono che circa metà della popolazione è di nuovo contraria all'adesione.
Nel frattempo è in dubbio anche la sopravvivenza del governo di centro-sinistra di Reykiavik, che potrebbe diventare la prima vittima del referendum. Questo sarebbe il male minore: per decenni, in Islanda, destra e sinistra hanno governato armoniosamente insieme in accordi di coalizione. Non a caso appena tre anni or sono l'Islanda era indicata nella graduatorie internazionale come "il paese più felice della terra", tra boom economico, omogeneità sociale, eguaglianza uomo-donna e giustizia sociale. Oggi, come dimostra il risultato del referendum, vincerebbe probabilmente il titolo di "paese più arrabbiato della terra".
Tutto è inutile contro qualsiasi forma di crimine, imbroglio, inganno, vizio o trucco se sono protetti dal segreto.
Descrivete la miseria dei lori principi, ridicolizzateli di fronte a tutti e si scioglieranno come neve al sole.