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Addio CFA, benvenuto ECO: anche l’Africa vuole liberarsi dall’oppressione della BCE

Ultimo Aggiornamento: 24/04/2024 15:21
24/06/2019 15:53
 
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L’euro non va bene per l’Europa, eppure vincola a sé l’Africa tramite i due CFA, i franchi dell’Africa occidentale e centrale, ma questo sta per cessare. Come riportato anche da Affari Italiani, i 15 Paesi dall’ECOWAS, la comunità dell’Africa occidentale, hanno determinato un percorso che condurrà alla creazione di una nuova valuta dell’area, comune ai Paesi sia francofoni, che utilizzavano il CFA, sia anglofoni. La nuova valuta, l’ECO, avrà anche l’appoggio della Nigeria, prima estremamente riluttante al progetto perché temeva l’influenza dei Paesi europei nella sua esecuzione, nello specifico la Francia, che già controllava il cambio del CFA tramite la Banque de France. Per ottenere la partecipazione della Nigeria, che è anche la maggiore economia dell’area, si è dovuta assicurare la totale esclusione della Francia da ogni possibile influenza sul sistema, un colpo molto secco per Parigi. La nuova valuta si baserà su delle proprie regole di bilancio diverse da quelle europee, molto più rilassate e senza regola del debito. A quanto trapelato si parla di un rapporto deficit-PIL del 4% e della possibilità di monetizzare le spese tramite la Banca Centrale entro il limite del 10% delle entrate fiscali.

Quindi è molto probabile che tutto il deficit, comunque limitato, venga monetizzato. Inoltre si richiederà alla Banca Centrale di detenere riserve a valute di riferimento per far fronte eventualmente ai pagamenti per 3 mesi. Il nuovo ECO non sarò quindi più piegato all’euro, ma ad un basket di valute più ampio nel quale saranno presenti anche dollaro e yuan. Quindi, seguendo l’andamento di quest’ultima valuta, si presenterà più debole rispetto all’euro, che sarà libero di rivalutarsi trasmettendo solo parzialmente l’aumento di valore. Questo sarà molto utile per far acquisire competitività economica a quell’area e quindi far diminuire i flussi migratori. Inoltre la possibilità di monetizzare una parte del deficit aiuterà nell’effettuazione di quegli investimenti che attualmente sono così necessari, ma così negati dalla politica monetaria restrittiva. L’introduzione dello yuan nel futuro basket di riferimento è un’espressione della progressiva introduzione della Cina nell’economia africana, dove sta prendendo il posto della decadente influenza francese.

Fabio Lugano
24 giugno 2019
scenarieconomici.it/addio-cfa-benvenuto-eco-anche-lafrica-vuole-liberarsi-dalloppressione-della-bce/?fbclid=IwAR18GsziGlCgEeRA5OiysI6rS2y5WM3xBnlxwT4L7KV2lZ32FvG...
21/08/2020 19:34
 
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L’Africa si libera del franco CFA ma non del controllo francese

Con un astuto colpo di geopolitica monetaria, il 20 maggio il governo francese ha approvato un disegno di legge che potrebbe formalizzare la fine dell’ultima moneta coloniale ancora in vigore nel mondo: il franco CFA che circola nei paesi dell’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (UEMOA). Una riforma fortemente voluta dal Presidente Emmanuel Macron per mettere a tacere le crescenti critiche che piovono dall’Africa e dall’Europa (soprattutto da Germania e Italia). Ma, dai primi dettagli emersi, il progetto non sembra portare a un reale cambiamento di rotta negli squilibrati rapporti economico-monetari che continuano a sussistere tra la Francia e alcuni Paesi africani. Creata dal Generale Charles de Gaulle nel 1945, questa valuta spesso criticata lascerà spazio a una nuova moneta comune chiamata ECO, che circolerà inizialmente negli otto stati dell’UEMOA (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) per poi essere gradualmente estesa (almeno in teoria) a tutta l’area della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO), cioè i Paesi dell’UEMOA più Capo Verde, Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria, Sierra Leone. La riforma non interesserà invece gli Stati dell’Africa Centrale (Camerun, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon e Guinea Equatoriale), comunità economica gemella dove continuerà a circolare il franco CFA.

Per diventare pienamente operativo, però, l’accordo monetario con la Francia dovrà seguire un iter di revisioni parlamentari che in alcuni Paesi richiederà anche delicate revisioni costituzionali. Non è da escludere che su questo sensibile punto in alcuni stati dell’Africa Occidentale si possa concentrare il dissenso popolare della prossima stagione di lotte contro classi politiche accusate di servilismo e corruzione. I mezzi d’informazione, sia francesi sia africani, commentando la notizia si dividono tra toni entusiasti e dubitativi. Per quelli maggiormente allineati alla politica di Parigi si tratterebbe di “una notizia storica”, “un decisivo voltare pagina”, “la fine della Françafrique” (come piace ripetere anche a Macron). Per i più critici, invece, saremmo davanti a una “riorganizzazione di facciata della vecchia moneta coloniale”, "l’ennesimo gioco di prestigio del padre-padrone francese", una versione del mantra del Gattopardo “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima” in salsa neocoloniale.

Pilastri invariati
L’annuncio dell’approvazione del disegno di legge, che recepisce l’accordo raggiunto con i Paesi dell’UEMOA il 21 dicembre 2019 ad Abidjan, è stato affidato alla portavoce del governo francese Sibeth Ndiaye, di origine senegalese:“Un progetto di legge molto atteso da un certo numero di nostri partner africani”, ha detto correggendosi in fretta dopo un rocambolesco lapsus freudiano che l’aveva portata a dire i “nostri Paesi”. “Una fine simbolica che s’inscrive all’interno del rinnovamento delle relazioni tra la Francia e i Paesi africani”. Ndiaye, Segretaria di Stato del Premier, sembra quasi voler rassicurare la pancia velatamente imperialista dei francesi, quando aggiunge:“Questo accordo preserva naturalmente il cambio fisso della moneta comune con l’euro e il sostegno apportato dalla garanzia finanziaria della Francia”. Secondo diversi economisti ed esperti di geopolitica africani, a fronte di alcuni elementi di parziale evoluzione, i principali pilastri del dominio monetario della Francia sulle ex colonie resteranno invariati. Oltre al cambio di nome, la riforma del franco CFA prevede la cessazione del tanto discusso obbligo di depositare metà delle riserve di cambio dei Paesi dell’UEMOA al Tesoro e alla Banca di Francia, e il ritiro dei rappresentanti di Parigi dagli organi tecnici di controllo della Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (BCEAO), nello specifico dal Consiglio d’Amministrazione e dal Comitato di Politica Monetaria, oltre che dalla Commissione Bancaria dell’UEMOA.

Restano, invece, l’ancoraggio e il cambio fisso con l’euro, insieme alla tutela della Francia, che passa da “cogestionario” a “garante fiduciario” della valuta africana in caso di crisi monetaria. Le modalità di tale garanzia non sono ancora state chiarite, è emerso solo che Parigi esige come contropartita un accesso privilegiato alle informazioni macroeconomiche dei Paesi dell’UEMOA. Alla lista dei retaggi coloniali insiti nell’accordo va aggiunta anche la conferma del ruolo commerciale della Banca di Francia, che continuerà a stampare, trasportare e assicurare l’ECO. Un servizio offerto alla cifra di quasi 41 milioni di euro all’anno, pagati direttamente dalla BCEAO, come rivelato da Mediapart. Al di là dei tecnicismi economici, in Africa Occidentale il franco CFA ha un valore simbolico dirompente per l’immaginario collettivo, soprattutto quello giovanile, arrivando a catalizzare le istanze di emancipazione e il sempre più crescente sentimento antifrancese (da intendere come avversione alla politica estera di Parigi in Africa, non come odio generalizzato verso i francesi o, più in generale, “i bianchi”).

Gli argomenti della società civile contro il franco CFA sono stati abbracciati da molti attivisti africani che mirano a liberarsi da ogni tutela straniera per conquistare una piena sovranità economico-monetaria a oltre sessant’anni dalle indipendenze. “La fine del franco CFA non è che un pesce d’aprile della Francia”, accusa su YouTube Kemi Seba, celebre attivista del movimento antiCFA. Nell’agosto 2017, le immagini del leader del gruppo Urgences Panafricanistes che brucia un biglietto da cinquemila franchi CFA (circa 7,5 euro) in strada a Dakar hanno fatto il giro del continente. “La vera fine del franco CFA sarà quando anche i Paesi della CEDEAO, guidati da Nigeria e Ghana, daranno vita alla moneta ECO, agganciata a diverse valute con un tasso di cambio flessibile”, sostiene Kemi Seba nell’ultimo video, diventato virale (50mila visualizzazioni in tre giorni).

Tagliare il cordone ombelicale
Nigeria e Ghana, superpotenze economiche della regione e dell’intero continente, che pare vogliano aprire alla Cina e legare il futuro ECO allo yuan, insieme alla Guinea non vedono di buon occhio l’ingerenza della Francia nel progetto di moneta unica della CEDEAO. Un’idea che è alla base della comunità economica fin dalla sua creazione (nel 1975), introdotta in linea di principio dai 15 Stati nel 1983 e finora mai realizzata perché è mancata la volontà politica di mettersi d’accordo sui dettagli monetari e le procedure da adottare. Visto che la regione ha una popolazione totale di 356 milioni di persone e un PIL globale di più di 817 miliardi di dollari (di cui circa il 70 per cento riconducibile alla Nigeria), la sfida è decisiva. Secondo diverse stime, infatti, con l’avvento di una valuta comune, la CEDEAO diventerebbe la diciottesima potenza economica del mondo, scalzando paesi come Turchia, Svizzera e Arabia Saudita. Oggi invece nella regione continuano a circolare otto diverse monete, che minano l’originaria aspirazione all’integrazione economica e politica. Per far fronte a tale criticità, il 29 giugno 2019 i Capi di Stato della CEDEAO hanno proclamato la creazione “graduale” dell’unione monetaria. Durante gli intensi negoziati degli ultimi mesi, però, Nigeria e Ghana hanno ribadito la richiesta ai leader dei Paesi francofoni regionali (soprattutto ai più ricchi Costa d’Avorio e Senegal) di “tagliare il cordone ombelicale con la Francia”, condizione posta come necessaria per la creazione di una nuova valuta comune realmente indipendente. Il Presidente ivoriano Alassane Ouattara e l’omologo senegalese Macky Sall, invece, sono velocemente passati da ferventi difensori del franco CFA ad accorati testimonial dell’ECO in versione francese, anche se non vedrà la luce ancora per alcuni anni.

In un video visualizzato oltre 180mila volte, l’attivista svizzera camerunese Nathalie Yamb, invitata al forum economico Russia-Africa che si è svolto a Soči nell’ottobre 2019, ha affermato:“Noi vogliamo uscire dal franco CFA, ma Parigi, con la complicità dei suoi lacchè africani, lo vuole perpetuare sotto il nome di ECO”. Due mesi dopo è stata espulsa dalla Costa d’Avorio, dove ricopriva la carica di consigliera esecutiva di Mamadou Coulibaly, candidato alle prossime presidenziali contro Ouattara. Le critiche contro un “make-up di facciata” non si fermano alla dimensione economica e trascendono il simbolismo politico della “pseudoriforma”. L’economista e sociologo camerunese Martial Ze Belinga, tra gli autori di "Sortir l’Afrique de la servitude monétaire. A qui profite le franc cfa?" (Edizioni La Dispute, Parigi 2016), in cui un nutrito gruppo di esperti africani si fissa l’obiettivo di “liberare il continente dalla repressione monetaria e dalla trappola del franco CFA”, si sofferma sul cambio di nome della valuta:“A cosa rimanda il termine ECO nella vita quotidiana delle persone? A niente, assolutamente niente, se non a una forma di mimetismo rispetto all’euro. Esiste un vero problema di creatività: l’assenza di un immaginario africano”. Non manca d’immaginazione invece la Francia, che in epoca postcoloniale aveva mutato la dicitura da “franco delle colonie francesi in Africa” a “franco della comunità finanziaria africana”, senza nemmeno dover cambiare acronimo. Singolare come oggi il nome ECO sia stato preferito ad altri termini più endogeni per facilità di pronuncia in lingua francese e inglese.

Andrea de Georgio
28 maggio 2020
www.internazionale.it/notizie/andrea-de-georgio/2020/05/28/africa-fr...
21/08/2020 19:37
 
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Colpo di Stato in Mali: schiaffo alla Francia. Konaré:“Ora fermiamo l’immigrazione”

“La società civile maliana, accompagnata da giovani soldati, si è alzata. Stiamo lavorando per far finire l’immigrazione, perché l’unico modo per farla finire è ridare al popolo africano la propria libertà, permettendogli così di vivere in pace sulla propria terra”. Così Mohamed Konaré, esponente panafricanista, intervistato da MePiù, ha commentato il Colpo di Stato in Mali. "Multinazionali e governi occidentali, la Francia in particolare, mantengono l’Africa nella fame e nella miseria. E le ONG", ha specificato Konarè, "preferiscono prendere i giovani africani, metterli nelle navi e portarli verso l’Italia invece che aiutarli a tornare in Africa. Dovete capire che questa immigrazione è voluta dal sistema occidentale: per distrarvi da quello che vi stanno facendo e per cercare di creare una guerra tra poveri”. Non usa mezzi termini Konaré e distrugge così la retorica buonista.

Cosa è successo in Mali?
Ma cos’è successo davvero in Mali? Il Colonnello Assimi Goita è stato dichiarato Presidente dell’autoproclamato Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo (CNSP), dopo un riuscito colpo di mano. Goita fino ad oggi è stato responsabile delle forze speciali nel centro della Nazione africana, regione negli ultimi anni fortemente colpita da attacchi terroristici. E’ apparso in TV nella notte tra martedì e mercoledì, annunciando la presa del potere. Un ribaltone che ha colto molti analisti internazionali di sorpresa e su cui regnano ancora molte incertezze. Il CNSP ha fatto sapere di volere una “transizione politica civile” per condurre il Mali ad elezioni generali entro un lasso di “tempo ragionevole”. Dopo l’ammutinamento di gran parte dei militari, il Presidente Keita aveva poco prima comunicato la sua “decisione di lasciare tutte le sue funzioni”. Parole a cui hanno fatto eco quelle del Colonnello Maggiore Ismael Wagué:“Noi, le forze patriottiche riunite nel Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo (CNSP), abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità davanti al popolo e alla storia”, ha dichiarato Wagué. “La società civile e i movimenti socio-politici sono invitati a unirsi a noi per creare insieme le migliori condizioni per una transizione politica civile che porti a elezioni generali credibili per l’esercizio democratico, attraverso una tabella di marcia che getterà le basi di un nuovo Mali“, ha detto il Colonnello. Di primo acchito, sembrerebbe dunque l’ennesimo Colpo di Stato in una Nazione africana, condito da nobili intenzioni e promesse quasi sempre disattese.

La condanna internazionale
Nel frattempo è arrivata la condanna internazionale pressoché unanime, con il Mali che si ritrova isolato nel contesto continentale. La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) ha sospeso a Bamako tutti i flussi finanziari, invocando sanzioni contro “i golpisti e i loro collaboratori”. Dello stesso avviso l’Unione Africana, che ha chiesto pure la liberazione “immediata” dell’ormai ex Presidente Keita e dei suoi ministri. Mentre Angela Merkel ha assicurato che il golpe non ha avuto alcuna conseguenza sul dispiegamento dei caschi blu della missione ONU in Mali:“I soldati sono nelle loro caserme e sono molto lontani da Bamako”, ha detto la Cancelliera tedesca. Ma la reazione più attesa era ovviamente quella di Emmanuel Macron, arrivata puntuale:“Siamo estremamente attenti alla sicurezza dei nostri cittadini in Mali. Ho chiesto questa mattina al Consiglio di Difesa di fare tutto in questa direzione”, ha scritto il Presidente francese su Twitter. “La Francia e l’Unione Europea stanno lavorando al fianco della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale e dell’Unione Africana per trovare una soluzione alla crisi del Mali. Pace, stabilità e democrazia sono le nostre priorità. La Francia e i suoi partner sono impegnati in Mali e nella regione per la sicurezza delle popolazioni saheliane e su richiesta degli Stati saheliani”, ha detto Macron, insolitamente attendista.

Un problema per la Francia

Eppure questo Colpo di Stato non può che preoccupare in particolare proprio il governo di Parigi. In Mali, ex colonia francese indipendente dal 1960, ha sempre prevalso l’egida transalpina. Oggi però è una delle Nazioni più povere del mondo, fattore che ha determinato un dilagante attivismo dei jihadisti dell’ISIS e di al Qaeda. Proprio in funzione anti-terroristica, ma chiaramente l’intento è pure quello di non perdere il controllo di un’area geografica strategica, dal 2014 in Mali è presente l’Esercito Francese con l’Operazione Barkhane. Quest’ultima fu voluta da Hollande e rafforzata a febbraio scorso da Macron. Oggi le truppe di Parigi contano 5.100 effettivi nel Paese africano. La Francia necessita quindi della stabilità del Mali, che da mesi era messa in discussione da continue proteste contro il governo e ha subito un’impennata a luglio, quando le forze di sicurezza uccisero 11 manifestanti.

Il silenzio del governo italiano
Inutile dire però che mentre Macron e Merkel prendono posizione, Conte e Di Maio tacciono. D’altronde una Nazione chiave anche rispetto ai continui flussi migratori non è una discoteca da aprire o chiudere. L’unica nota italiana è così quella della Farnesina, piuttosto vaga:“Grande preoccupazione per quanto sta accadendo in Mali, con il sovvertimento violento dell’ordine costituzionale. L’Italia auspica un rapido ritorno al dialogo di tutte le forze rappresentative del Paese e riafferma il suo impegno per la pace, la stabilità, la tutela dello stato di diritto e la lotta al terrorismo in Mali e in tutta la regione del Sahel”. Non resta dunque che auspicare l’esito ventilato da Konaré. Che insomma i maliani facciano tutto da soli.

Eugenio Palazzini
20 agosto 2020
www.ilprimatonazionale.it/esteri/colpo-stato-mali-schiaffo-francia-konare-ora-fermiamo-immigrazione...
22/08/2020 03:32
 
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Colpo di Stato in Mali, Konarè:"È solo l'inizio! Faremo finire l'immigrazione!"

www.youtube.com/watch?v=NxyWYqMn0y0&feature=emb_title
28/05/2021 20:10
 
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Mali - Il Capo della Giunta Militare si proclama Presidente

Il Colonnello Assimi Goïta, Capo della Giunta Militare che ha guidato i colpi di Stato avvenuti in Mali lo scorso agosto e all'inizio di questa settimana, si è dichiarato Presidente di Transizione del Paese, come riporta la BBC. Goïta ha fatto l'annuncio dopo aver privato dei loro poteri il Presidente ad interim Bah Ndaw e il Primo Ministro Moctar Ouane, liberati oggi dal loro arresto scattato lunedì, giornata in cui era stato comunicato il rimpasto di governo per cui il Colonnello ha lamentato di non essere stato consultato. Goïta aveva detto in precedenza che il Presidente e il Premier avevano mancato ai loro doveri e stavano cercando di sabotare la transizione del Mali. Entrambi ieri si sono dimessi, mentre il Colonnello martedì ha confermato le elezioni nel 2022. Il rilascio degli ex leader è stato richiesto dall'ONU, dall'Unione Africana (UA), dalla Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS), dall'Unione Europea (UE) e dagli Stati Uniti.

27 maggio 2021
www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/05/27/mali-il-capo-della-giunta-militare-si-proclama-presidente_847f4ef2-07f6-4788-a072-8a81b19b4...
07/09/2021 17:18
 
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Mali - Nasce la carta per abolire i retaggi della schiavitù

Una carta di convivenza pacifica è stata elaborata nei giorni scorsi al termine di un forum di comprensione sociale tra le comunità della regione di Kayes, nel sud del Mali, per trovare soluzioni alla pratica della ‘schiavitù per discendenza’, che è stata ereditata da alcune famiglie nella zona. Come riferisce la stampa maliana, il forum, iniziato il 16 agosto, ha visto la partecipazione di autorità locali, capi villaggio, capi di quartiere, organizzazioni della società civile e dei diritti umani, nonché rappresentanti delle autorità tradizionali, leader religiosi, autorità amministrative e attivisti antischiavisti della regione e della diaspora. “Questa carta verrà utilizzata per abolire alcuni termini come ‘djon’, utilizzato per designare uno ‘schiavo’ con lo scopo di sminuire, umiliare o minare la dignità dell’altro”, ha detto il governatore della regione, il Colonnello Moussa Soumaré. I partecipanti hanno anche convenuto di proibire l’obbligatorietà e il carattere vincolante di certi lavori e pratiche culturali nelle relazioni quotidiane, come il lavoro nei campi, la macellazione di animali, lo sfruttamento di giovani ragazze considerate come “schiave” a lungo termine al servizio di nuove spose considerate come “nobili”, ha aggiunto la stessa fonte. Moussa Soumaré ha anche annunciato che la popolazione si impegna ad “evitare ogni atto di esclusione legato alla pratica della schiavitù e a promuovere l’inclusione nelle attività e nelle cerimonie comunitarie”, e a garantire l’accesso di tutti ai luoghi di culto, ai centri sanitari, alle scuole, ai luoghi di svago o a qualsiasi spazio pubblico. La carta prevede anche l’istituzione di un quadro di consultazione e di dialoghi inclusivi da intraprendere sotto la guida dei capi villaggio e delle autorità amministrative e politiche, “per promuovere il ritorno degli sfollati, il perdono e la riconciliazione”. Le medesime fonti ricordano che la pratica della schiavitù rimane diffusa nella regione di Kayes, anche se il Mali ha abolito la schiavitù nel 1905.

23 agosto 2021
www.africarivista.it/mali-nasce-la-carta-per-abolire-i-retaggi-della-schiavitu...
07/09/2021 17:19
 
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Mali - Corruzione, arrestati ex Premier ed ex Ministra Economia

Sono stati posti in arresto, ieri, dalla Camera d’Accusa della Corte Suprema, l’ex Primo Ministro maliano Soumeylou Boubèye Maiga e l’ex Ministra dell’Economia e delle Finanze del Mali, Bouaré Fily Sissoko. Come riferiscono concordanti fonti di stampa locale e internazionale, i due ministri in carica sotto il regime dell’ex Presidente Ibrahim Boubacar Keita, rovesciato da un colpo di stato il 18 agosto 2020, sono stati incriminati e messi sotto sequestro in seguito alla loro citazione a comparire davanti alla Sezione Giudiziaria della Corte Suprema, nell’ambito di due casi che risalgono al 2014: l’acquisto dell’aereo presidenziale e i contratti di equipaggiamento militare. RFI riferisce che i rapporti della Corte dei Conti e del Revisore Generale avevano allora individuato una sovrafatturazione e numerose anomalie. Tali dossier sono però stati chiusi senza azione nel 2018 e poi riaperti l’anno scorso per portare all’accusa ufficiale della Corte Suprema di ieri. L’agenzia Anadolu, ricostruendo i fatti, precisa che nel suo rapporto 2013-2014, il Revisore Generale aveva notato la scomparsa di più di 153 miliardi di franchi CFA (274 milioni di dollari) e lo sperpero di più di 20 miliardi di franchi CFA (36 milioni di dollari) nell’acquisto dell’aereo presidenziale e delle attrezzature militari. Gli audit della Corte Suprema e dell’Ufficio del Revisore Generale sono stati condotti e resi pubblici su richiesta del Fondo Monetario Internazionale (FMI). I rapporti delle indagini ufficiali hanno stabilito 40 miliardi di CFA (72 milioni di dollari) di sovrafatturazione. RFI fa sapere che Soumeylou Boubeye Maiga deve rispondere di cinque accuse: falsificazione, corruzione, favoritismo, violazione della fiducia e traffico di influenza. Quanto alla ex Ministra Bouaré Fily Sissoko, è accusata di reati contro il patrimonio pubblico, falsificazione, favoritismo, nepotismo e corruzione. Anadolu precisa che Soumeylou Boubeye Maiga è stato portato nella prigione centrale di Bamako, mentre Fily Sissoko è stata portata nella prigione femminile di Bollé, secondo una guardia carceraria che ha parlato a condizione di anonimato ed è stata contattata telefonicamente dall’agenzia turca.

27 agosto 2021
www.africarivista.it/mali-corruzione-arrestati-ex-premier-ed-ex-ministra-economia...
22/09/2021 02:20
 
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Il duro colpo inflitto al terrorismo con la morte di Al Sahrawi



Un colpo forse per far avvertire ancora la sua presenza nel Sahel, area in cui la propria tradizionale influenza è sempre più messa in discussione. Ma anche un colpo per avvisare i partner internazionali della volontà di proseguire verso i propri obiettivi. A prescindere però dalla valenza politica dell’azione, la Francia nelle scorse ore è riuscita ad assestare una sonora botta allo Stato Islamico del Grande Sahara, ossia la filiale nel Sahel dell’ISIS. Un raid delle forze transalpine in Mali ha ucciso infatti il leader del gruppo, Abou Walid Al-Sahrawi. Su di lui pendeva una taglia da cinque milioni di dollari e per i servizi segreti occidentali era uno dei terroristi più pericolosi al mondo. Del resto, la sua organizzazione, dal G5 del Sahel era ritenuta la più grave minaccia alla stabilità della regione.

Il raid in Mali
Tra i primi a confermare il successo dell’operazione è stato lo stesso Presidente francese Emmanuel Macron:“Si tratta di un altro grande successo nella nostra lotta contro i gruppi terroristici nel Sahel”, ha scritto su Twitter il Capo dell’Eliseo. Già da mesi, secondo poi quanto appreso da fonti francesi, Al Sahrawi era nel mirino delle forze speciali. Una volta avuta certezza del suo nascondiglio, i militari sono entrati in azione. Il blitz è avvenuto nel nord del Mali, Paese dove la Francia è presente con l’operazione Barkhane, prossima però ad essere conclusa. Si tratta della missione inaugurata nel 2013, dopo l’intervento di Parigi a sostegno del governo di Bamako volto a contrastare i califfati islamici insediatisi nelle aree settentrionali. Macron nei mesi scorsi ha parlato di fine delle operazioni nel Paese africano, anche se ha tenuto a ribadire il non disimpegno totale francese nell’area. L’operazione contro Al Sahrawi è arrivata quindi in un momento cruciale. Alla Francia ha dato infatti la possibilità di ribadire la sua presenza non solo in Mali, ma anche in Niger e in tutti i Paesi della regione un tempo sotto il proprio dominio coloniale. Una boccata d’ossigeno anche per la reputazione di Parigi nella lotta al terrorismo. L’eliminazione del Capo dello Stato Islamico del Grande Sahara è uno dei colpi più duri inflitto al jihadismo africano, considerato oramai il vero epicentro dell’islamismo internazionale. Anche perché l’uccisione di Al Sahrawi non è l’unica eccellente avvenuta in Sahel negli ultimi mesi. Sempre in Mali, a partire dalla fine del 2020, sono stati eliminati altri leader sia dell’ISIS che di al-Qaeda.

Dal Polisario all’ISIS: chi era Al-Sahrawi
Era noto come Adnane Abou Walid Al-Sahrawi, ma il suo vero nome era Lehbib Ould Abdi Ould Said Ould El Bachir. La carriera criminale nel mondo islamista è arrivata in una seconda fase della sua vita. Nato a Tindouf, la località algerina dove hanno sede i campi profughi, Saharawi e le rappresentanze del Fronte Indipendentista del Polisario, è proprio in quest’ultimo gruppo che è avvenuta la sua principale formazione militare. Arruolatosi subito dopo gli studi, Al Sahrawi è rimasto a lungo fedele ai miliziani in lotta con il Marocco. Poi per almeno un decennio la sua storia è stata “assorbita” dalla guerra civile algerina. Nel Paese nordafricano è rimasto per circa un decennio durante il conflitto con i gruppi islamisti e, terminati i combattimenti, il suo nome è iniziato a circolare negli ambienti islamisti. In primo luogo al fianco di Abdelhamid Abou Zeid, terrorista algerino tra i leader di Aqim (al-Qaeda nel Magreb Islamico), subito dopo all’interno del gruppo Mourabitoune, formazione guidata dall’altro jihadista algerino Mokhtar Belmokhtar. C’è la mano di Al Sahrawi dietro i rapimenti di numerosi occidentali nel Sahel, a volte finiti nel sangue. Così come è conclamata la sua responsabilità in numerosi attacchi terroristici che hanno insanguinato la regione. Grazie ai soldi ricavati dai riscatti pagati dagli Stati europei per i cittadini rapiti, Al Sahrawi ha iniziato ad avere una propria importante influenza all’interno del panorama jihadista africano. Tanto da essere nominato nel 2015, su esplicita richiesta di Abu Bakr Al Baghdadi, Emiro dello Stato Islamico del Grande Sahara. In tal modo è diventato il vero leader islamista del Sahel. Secondo i servizi segreti del Marocco e di alcuni Paesi occidentali, Al Sahrawi ha mantenuto stabili contatti con i vertici del Fronte del Polisario, circostanza che ha destato ulteriore allarme in tutta la regione. Per gli USA il terrorista è responsabile diretto della morte di quattro propri soldati in Niger nel 2017, da qui la taglia di cinque milioni di dollari sulla sua testa. Non è un caso che, oltre alla Francia, ad esprimere soddisfazione per l’eliminazione del leader islamista sono stati proprio gli Stati Uniti e il Marocco. Anche a livello simbolico la sua fine potrebbe aver rappresentato un colpo molto difficile per le sigle jihadiste del Sahel e per le velleità dei gruppi integralisti attivi nella vasta area che va dalla Libia fino alla Nigeria.

Mauro Indelicato
19 settembre 2021
it.insideover.com/terrorismo/il-duro-colpo-inflitto-al-terrorismo-con-la-morte-di-al-sahra...
19/10/2021 17:25
 
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Il Mali si affida ai mercenari russi

Il Governo del Mali ha chiesto l'aiuto della società di sicurezza privata russa Wagner nella lotta contro il terrorismo. Lo ha annunciato sabato il Ministero della Difesa russo. Il capo della diplomazia di Mosca, Sergei Lavrov, ha detto che il Governo russo non è coinvolto in questo accordo e non ha nessun legame con la società Wagner. "Le autorità del Mali si sono rivolte a una società militare privata russa perché, se ho capito bene, la Francia vuole ridurre drasticamente il suo contingente che doveva combattere il terrorismo nel nord", ha detto il capo della diplomazia russa. "Ma loro (i francesi) non hanno fatto nulla e sono i terroristi che dirigono le danze", ha detto Lavrov a margine dell'Assemblea Generale dell'ONU. Una settimana fa il Ministro della Difesa francese Florence Parly aveva cercato di dissuadere l'esecutivo maliano dall'invocare l'aiuto dei mercenari russi, avvertendo che un tale accordo sarebbe incompatibile con il mantenimento della presenza francese in Mali.

26 settembre 2021
www.rsi.ch/news/mondo/Il-Mali-si-affida-ai-mercenari-russi-14749...
10/12/2021 21:49
 
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Mali, gli USA restituiscono 900 oggetti archeologici

Gli Stati Uniti hanno restituito più di 900 oggetti archeologici ed etnografici al Mali, ha annunciato l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Mali, Dennis Hankins, al primo Ministro del Mali Choguel Maiga, nel corso di una cerimonia tenutasi al Museo Nazionale. Nel ricevere i manufatti, il Capo del Governo maliano ha ricordato che il Paese deve rimediare al saccheggio dei suoi oggetti archeologici ed etnografici:“Il nostro patrimonio culturale non deve rimanere intrappolato nei musei di altri Paesi. I nostri giovani vogliono accedere alla creatività e alla spiritualità di un’epoca lontana”. Tra gli oggetti restituiti vi sono sei grandi urne funerarie, databili dal 900 al 1.700 d. C., un contenitore a doppio taglio in slip rosso stampato, databile dall’800 al 1.500 a. C., e 913 pietre e teste d’ascia del periodo neolitico. C’è anche un vaso policromo a collo alto datato tra il 1.100 e il 1.400 a. C.

10 dicembre 2021
www.africarivista.it/mali-gli-usa-restituiscono-900-oggetti-archeologici...
16/01/2022 13:44
 
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La Cina suona la ritirata in Africa e chiude i rubinetti dei prestiti

La si potrebbe chiamare ritirata strategica, giusto per non usare il termine, decisamente più negativo, di disfatta. La Cina fa fagotto e lascia a secco una parte dell’Africa, dopo aver inondato il continente di prestiti-trappola, dalle clausole oscure. Una questione di cui Formiche.net si è occupata più volte, svelando la vera natura dei finanziamenti delle banche cinesi alle economie in via di sviluppo. L’ultimo caso, forse il più emblematico, è quello dell’Uganda, il cui aeroporto internazionale di Entebbe, l’unico del Paese, è finito espropriato dalle banche cinesi a causa del mancato rimborso di un prestito alla Exim Bank. Ora però qualcosa sembra essere cambiato nello scacchiere africano di Pechino. A dire il vero, nell’orbita dei cosiddetti prestiti muscolari cinesi non è finita solo l’Africa, ma anche Paesi come il Pakistan, lo Sri Lanka (proprio pochi giorni fa il governo del Paese ha chiesto alla Cina la ristrutturazione del debito), il Laos e persino la Nuova Zelanda. Un passato che forse non tornerà, dal momento che le banche cinesi avrebbero deciso di concentrare le loro attenzioni esclusivamente su alcuni Paesi, definiti strategici o ricchi di risorse, tra cui Angola, Gibuti, Etiopia, Kenya e Zambia, lasciando il restante campo. Una ritirata che a dire il vero sarebbe cominciata già da qualche tempo, ma di cui se ne ha notizia solo adesso. Come rivelato dal Financial Times, i prestiti hanno raggiunto il loro picco massimo nel 2016, con uno stock di quasi 30 miliardi, per poi scendere nel 2019 a 7,6 miliardi di dollari. Il fatto è che dopo essersi tuffati a capofitto nel Continente per impadronirsi di industrie, infrastrutture, asset, gli istituti di credito cinesi sono diventati più cauti. Motivo? Molti Paesi hanno raggiunto il limite della loro capacità di indebitamento, con la seria prospettiva di un default. E non hanno sufficienti asset da ipotecare o cedere a titolo di risarcimento. E per le banche del Dragone non c’è più nulla da chiedere o pretendere. La campagna cinese in Africa a suon di prestiti opachi ha dunque avuto come unico risultato quello di mettere in ginocchio molte economie e spingere Pechino a togliere le tende. Il tutto accade mentre dietro le mura di casa propria la Cina prova a evitare in extremis un effetto domino nel disastrato comparto immobiliare, che vale il 25% del PIL cinese. Dopo l’esplosione dell’ennesimo bubbone, quello di Shimao, il governo ha deciso di rendere più facili le fusioni pilotate tra colossi, intervenendo in caso di quasi-default. In particolare, qualora un grande gruppo dovesse andare in soccorso di un altro, la spesa sostenuta per l’acquisizione non verrà conteggiata nel debito, lasciando dunque il livello di indebitamento dell’azienda sana invariato. Funzionerà?

Gianluca Zapponini
11/01/2022
formiche.net/2022/01/cina-africa-prestiti-via-della-seta/?fbclid=IwAR0hMclH0wTqePL2T1DCRhdHAstbLArTELTD1P88P5DXyvVSUvD...
19/01/2022 16:19
 
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Mali vs ECOWAS: Bamako può contare sul sostegno internazionale

Nella situazione di stallo che attualmente oppone Mali e Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), è improbabile che le autorità maliane cedano, poiché possono contare su un certo sostegno africano e internazionale. Ma anche sul sostegno popolare interno e l’ampia simpatia della società civile panafricana. Molti osservatori hanno notato che le sanzioni imposte dall’ECOWAS alle autorità maliane sono solo la logica conseguenza delle pressioni e intimidazioni esercitate da Parigi su Bamako a seguito del riavvicinamento strategico del Mali alla Russia. Allo stesso tempo, continua l’effetto domino della fine dell’influenza del sistema neocoloniale franco-africano. Molti africani parlano addirittura di un semplice lavoro per procura della ECOWAS a favore degli interessi dell’Eliseo. Una cosa è certa: da mesi Parigi utilizza i suoi ascari nella regione per aumentare la pressione sul Mali per le sue scelte strategiche, anche se così i regimi interessati vanno contro il risentimento dei propri concittadini, come si osservava in particolare in Niger, dove si erano svolte manifestazioni contro la presenza militare francese, con vittime tra i manifestanti. Questa tesi è tanto più confermata poiché, quasi subito dopo l’annuncio dell’ECOWAS di imporre sanzioni al Mali, la diplomazia francese cercò di convincere l’ONU ad adottare un testo a sostegno di tali sanzioni. Invano, perché Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, bloccavano il suddetto testo, confermando ancora una volta la reciproca solidarietà internazionale e non permettendo alle manovre elisiane all’ONU di raggiungere l’obiettivo. Nonostante tale netto fallimento, i media francesi e occidentali cercavano di mantenere, insieme alla dirigenza politica interessata, l’idea che il Mali sia isolato dalla comunità internazionale, sebbene ciò appaia chiaramente una cosa ridicola. Perché, oltre ad avere il sostegno aperto di Mosca e Pechino, e quindi di due delle tre maggiori potenze mondiali, Bamako può contare anche sul sostegno, più o meno aperto, di diversi attori africani, in particolare regionali.



Tra questi Paesi va citata l’Algeria, che mantiene rapporti cordiali con le autorità maliane. La Guinea, anch’essa vicina del Mali, mostrava solidarietà a Bamako e annunciava che “i confini terrestri, aerei e marittimi rimarranno aperti al Mali”, a seguito delle sanzioni annunciate dall’ECOWAS. Sarebbe certamente giusto citare la Mauritania, in buoni rapporti con Bamako. Senza dimenticare il Marocco, che pur mantenendo stretti rapporti con Parigi e Washington, ha una presenza economica capillare sul suolo maliano, essendo il Mali la terza destinazione del regno per investimenti in Africa, come ricorda Maroc Diplomatique. Più in generale, tutti i Paesi interessati, oltre ai rispettivi interessi, ci guadagnerebbero solo se la situazione della sicurezza nel Sahel andasse verso un reale miglioramento. Da qui l’importanza di sostenere gli sforzi delle autorità maliane. Ma al di là del sostegno regionale e internazionale, la cosa principale da ricordare è che le autorità maliane possono contare sul sostegno popolare di massa, sia dalla popolazione del Mali, sia di molti cittadini di altri Paesi africani. Compresi quelli i cui capi di Stato rimangono al servizio degli interessi di Parigi. E questo, anche le principali voci filo-occidentali sono costrette a riconoscerlo. Jeune Afrique, uno dei principali tedofori mediatici degli interessi franco-africani, parla addirittura di “sentimento antifrancese esacerbato” dopo le sanzioni dell’ECOWAS, a conferma di una realtà che abbiamo già e in più occasioni affrontato. In prospettiva, va detto che l’effetto domino dei fallimenti della dirigenza elisiana e occidentale continuerà sicuramente oltre il Mali. L’arroganza e la totale incapacità di adattarsi anche un pò intelligentemente alle regole internazionali dell’era multipolare, infatti, non faranno che esacerbare ulteriormente i sentimenti ostili di molte popolazioni, soprattutto africane, nei confronti della dirigenza occidentale. Una cosa è certa: il merito delle autorità e del popolo del Mali è innegabile. La determinazione patriottica e sovranista prende il sopravvento sull’arroganza neocoloniale, diventando un’ulteriore fonte di ispirazione per altre Nazioni. Quanto a Russia e Cina, dimostrano ancora una volta che, al di là della ferma solidarietà negli affari mondiali, la nozione di comunità internazionale è tutt’altro che quella promossa e ripetuta ogni giorno dalla dirigenza politico-mediatica dell’occidente.

Mikhail Gamandij-Egorov
Fonte: www.observateurcontinental.fr/?module=articles&action=view...

Traduzione: Alessandro Lattanzio
17 gennaio 2022
aurorasito.altervista.org/?p=22163
29/01/2022 16:00
 
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In Burkina Faso scuole chiuse e cortei pro-golpe. La Francia accusa

“Le scuole dovranno restare chiuse in tutto il Paese almeno fino a sabato; qui a Kaya speriamo per il meglio, anche per i ragazzi arrivati dalle zone dove ci sono stati attentati e violenze”: padre Emile Sawadogo, preside di un istituto diocesano del Burkina Faso che accoglie 300 studenti, parla con l’agenzia Dire dopo il golpe di lunedì. La sua voce arriva da una cittadina del centro-nord del Paese investita da una crisi militare e umanitaria, che dal 2015, secondo stime dell’ONU, ha costretto circa un milione e mezzo di persone a lasciare le proprie case. Negli ultimi mesi ci sono state manifestazioni di protesta contro l’insicurezza crescente, attribuita a gruppi armati di matrice islamista, sia nella capitale Ouagadougou che a Bobo-Dioulasso e in altre città. Proprio in coincidenza con una di queste iniziative, convocata per sabato ma non autorizzata dal governo, sono cominciati disordini in alcune caserme. Lunedì sono stati poi confermati l’arresto del Presidente Roch Marc Christian Kaboré e la costituzione di una giunta militare. A guidare l’organismo è un Tenente-Colonnello di 41 anni, Paul-Henri Sandaogo Damiba, scelto da un auto-proclamato Mouvement Patriotique pour la Sauvegarde et la Restauration (MPSR). Secondo analisti e giornalisti al lavoro a Ouagadougou, a segnare il destino di Kaboré sono stati gli insuccessi nei tentativi di garantire la sicurezza. “L’assalto a Solhan, dove sono state uccise fino a 150 persone, è stato il punto di svolta che ha accelerato la caduta del Presidente”, ha scritto Kalidou Sy, cronista dell’emittente France 24. Il riferimento è a un raid risalente al giugno scorso, del quale sono stati accusati militanti che sarebbero giunti dal Mali. Nonostante le motivazioni legate all’offensiva dei ribelli e alla crisi umanitaria, a livello internazionale è stato espresso allarme per i fatti di lunedì. “Ho avuto i primi scambi con i dirigenti della regione e ne avrò altri nei prossimi giorni”, ha detto Emmanuel Macron, il Presidente della Francia, ex potenza coloniale in Burkina Faso. "Chiaramente, siamo al fianco della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale nella condanna di questo golpe militare". Ancora ieri manifestazioni a sostegno della giunta si sono tenute nel centro di Ouagadougou, in Place de la Nation. Secondo testimonianze rilanciate da cronisti e attivisti locali, alcuni dimostranti hanno sventolato bandiere russe invocando un aiuto di Mosca; allo stesso tempo avrebbero inneggiato ai militari che hanno preso il potere nel 2020 nel vicino Mali dopo aver arrestato l’allora Presidente Ibrahim Boubacar Keita.

Vincenzo Giardina
26 gennaio 2022
www.dire.it/26-01-2022/702090-in-burkina-faso-scuole-chiuse-e-cortei-pro-golpe-la-francia...
29/01/2022 16:15
 
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Di golpe in golpe, fallisce lo schema di Parigi nel Sahel

Alle 17.30 di lunedì una delegazione del neonato MPSR (Movimento Patriottico per la Salvezza e la Restaurazione) si è presentata sugli schermi della televisione nazionale del Burkina Faso per annunciare di aver deposto il Presidente in carica Roch Marc Christian Kaboré. Sospesa la costituzione e dissolto il parlamento, la giunta ha chiuso le frontiere del Paese fino a nuovo ordine. Affiancato dai reparti fedeli della gendarmeria, lo stesso Presidente Kaboré sarebbe sfuggito a un tentativo di assassinio, negoziando la propria vita. Il golpe in Burkina Faso era solo una questione di tempo. Nel Paese si parlava infatti apertamente del rischio di un putsch almeno da novembre scorso, quando la rabbia di esercito e opinione pubblica aveva raggiunto il proprio apice a seguito del massacro di Inata nel Nord Est del paese: combattenti affiliati ad al-Qaeda avevano attaccato un accampamento militare, uccidendo 53 soldati lasciati praticamente privi di vettovagliamento, armi e sostegno logistico. Un primo tentativo di colpo di stato era stato inoltre sventato solo poche settimane fa, l’8 gennaio. Oltre a non essere una sorpresa, la presa di potere del Tenente-Colonnello Sandaogo Damiba, diplomato della Scuola Militare di Parigi e promosso a capo del reggimento dell’esercito responsabile per la sicurezza della capitale Ouagadougou nel dicembre scorso, si inserisce all’interno di dinamiche nazionali e regionali più vaste, in cui la guerra contro i gruppi jihadisti condotta dai Paesi europei nell’area ha avuto un peso centrale. Da un lato, il golpe interrompe sette anni di esercizio del potere da parte dei civili, in un Paese che è stato governato da militari per più di quattro decenni. Proprio Kaboré era giunto al potere a seguito delle proteste che nel 2014 erano riuscite ad abbattere la trentennale dittatura di Blaise Compaoré, il compagno d’armi che aveva tradito e ucciso Thomas Sankara nel 1987. Dopo essere stato nel 2015 tra quei giovani ufficiali che si erano opposti al tentativo dei fedeli di Compaoré di riprendersi il potere con le armi, Damiba si è fatto oggi esecutore della volontà di un esercito, cui Kaboré aveva provato a tagliare fondi e sottrarre potere, non fidandosi appieno delle proprie forze armate.

Dall’altro lato, quello in Burkina Faso è il quarto colpo di stato militare andato a buon fine nella regione del Sahel nel corso dell’ultimo anno, dopo Mali, Ciad e Guinea. E proprio questo prepotente ritorno dei militari sulla scena politica regionale interroga direttamente le strategie perseguite nell’area dalla Francia e dai suoi alleati europei, Italia compresa, sempre più coinvolti sul terreno. Nel nome della guerra al terrorismo e del contenimento delle migrazioni transitanti da questa regione africana, nel corso degli ultimi dieci anni le potenze europee hanno favorito l’elaborazione di una soluzione principalmente, se non prettamente, securitaria alla crisi del Sahel, militarizzandone le frontiere e puntando soprattutto sull’espansione delle capacità militari di regimi solitamente fragili e corrotti. Uno schema così costruito ha finito in primo luogo col delegittimare profondamente anche quei regimi civili e almeno parzialmente democratici, come è il caso del Burkina di Kaboré, non direttamente accusabili di abusi nei confronti dei civili, ma incapaci comunque di ricostruire un patto sociale credibile con la propria popolazione. In secondo luogo, ha permesso il rafforzarsi di uno spirito di corpo e di una cultura di impunità all’interno di eserciti storicamente abituati ad esercitare direttamente il potere e a non riconoscere l’autorità civile. Nonostante la pronta condanna da parte della comunità internazionale, e la richiesta giunta al Burkina Faso da Unione Africana, Unione Europea e Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO) di ristabilire prontamente l’ordine costituzionale e democratico nel Paese, il contesto regionale sembra andare in tutt’altra direzione. In Mali in particolare, la giunta ha imbracciato una linea nazionalista che va alla prova di forza, disattendendo la road map concordata con la comunità internazionale dopo il golpe, con posticipo delle elezioni di 5 anni, apertura delle porte ai mercenari russi, revisione degli accordi militari con la Francia e disponibilità al dialogo con i jihadisti. Democrazia, rispetto della costituzione e del controllo civile sui militari non sono più linee rosse che le potenze europee, combattute tra i timori di caos regionale e penetrazione di altri attori, sono in grado di far rispettare. A capitalizzare sul sentimento anti-francese e anti-occidentale sono soprattutto Russia e Turchia, che stanno affermando in maniera sempre più evidente la propria presenza nell’area saheliana.

Edoardo Baldaro
26.01.2022
ilmanifesto.it/di-golpe-in-golpe-fallisce-lo-schema-di-parigi-ne...
05/02/2022 19:25
 
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Bamako espelle l’ambasciatore francese: via dal Mali anche i danesi

E’ ufficiale. Il governo maliano ha dichiarato l’ambasciatore francese persona non grata e ha intimato a Joël Meyer, rappresentante di Parigi accreditato a Bamako, di lasciare il Paese entro le prossime 72 ore. La Francia ne ha preso atto e ha richiamato in patria il proprio ambasciatore. Il Ministero degli Esteri di Parigi ha specificato di essere vicino ai partner europei nel Paese, in particolare ai danesi, i cui militari, che hanno partecipato al contingente Takuba, sono stati mandati via dal governo militare di Bamako pochi giorni fa. L’espulsione dell’ambasciatore francese è stata ufficializzata il 31 gennaio tramite un comunicato ripreso dalla TV di Stato del Mali. “Il governo della Repubblica del Mali informa l’opinione nazionale e internazionale che l’ambasciatore francese a Bamako, Sua Eccellenza Joël Meyer, è stato convocato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. In tale occasione gli è stata notificato l’ordine del governo di lasciare il territorio nazionale entro 72 ore”. Le autorità maliane hanno precisato di essere disponibili al dialogo e di voler proseguire la cooperazione con tutti i partner internazionali, compresa la Francia, ma “nel rispetto reciproco e sulla base del principio di non interferenza”. Bamako non ha apprezzato dichiarazioni rilasciate dal Ministro della Difesa francese, Florence Parly. In particolare quella del 25 gennaio:“La giunta al potere in Mali sta moltiplicando provocazioni su provocazioni”, e quelle del Ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, che ha apostrofato la giunta al potere in Mali come “illegittima”, e “le sue decisioni sono irresponsabili”, parole pronunciate dopo l’espulsione dal Mali delle truppe danesi della Task Force Takuba. Ma Le Drian ritiene altresì che i mercenari del gruppo Wagner presenti sul territorio maliano, anche se mai confermato dal Governo di Bamako, proteggano le autorità solamente in cambio dello sfruttamento delle ricchezze minerarie del Mali, come succede d’altronde da anni in Centrafrica.

Partire definitivamente o restare? Ecco la domanda che si pone la Francia in questo momento. Farsi mettere alla porta e lasciare in mano molte zone ai terroristi e permettere ai russi, in particolare ai mercenari del gruppo Wagner, di installarsi come hanno fatto in Centrafrica (altra ex colonia francese)? La posta in gioco è alta. Dal 2013, con l’operazione Several, per contrastare il terrorismo dapprima nel solo Mali, poi in tutto il Sahel, sostituita nel 2014 con Barkhane, Parigi ha lasciato sul campo 53 uomini. Dopo l’espulsione dell’ambasciatore, il Ministro degli Esteri di Parigi, Jean-Yves Le Drian ha dichiarato:“Per ora restiamo, entro due settimane prenderemo una decisione”. Anche i partner della Francia, impegnati con il contingente Takuba, guidato dai militari di Barkhane, vogliono vederci chiaro. In particolare il Ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha chiesto che venga rivista la presenza delle forze europee in Mali. In una sua intervista al Süddeutsche Zeitung, ha dichiarato:“Alla luce delle ultime misure messe in campo da Bamako, dobbiamo chiederci onestamente se ci sono ancora le condizioni per il nostro impegno comune”. Le relazioni tra Bamako e Parigi hanno proseguito a deteriorarsi in seguito al golpe militare dell’agosto 2020 e si sono aggravate ulteriormente nel maggio 2021, dopo un nuovo colpo di Stato, perpetrato dagli stessi colonnelli, per rafforzare il proprio potere. Da tempo la popolazione stessa ha espresso il suo malcontento nei confronti della presenza francese e della Missione di Pace dell’ONU. Già durante le manifestazioni di protesta contro l’allora Presidente Ibrahim Boubacar Keïta, deposto dai militari nel 2020 e deceduto poco più di due settimane fa, i manifestanti urlavano slogan come “Barkhane e MINUSMA, andate via da casa nostra”.

03 febbraio 2022
www.africa-express.info/2022/02/03/bamako-espelle-lambasciatore-francese-via-dal-mali-anche-i...
24/02/2022 15:07
 
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Africa: Macron espulso dal Sahel dopo aver arruolato l'Italia. Avanti Putin-Xi

Un tempo era un'ancora di salvezza e di speranza. Oggi una zavorra che rischia di tirare giù tutto. La Francia non è più quella che era un tempo in Africa. Continua a perdere pezzi di popolarità, di presenza, di infuenza. Così come gli Stati Uniti hanno lasciato spazio in Afghanistan, la Francia sta lasciando spazio in Africa, un tempo suo "giardino di casa" nel quale Parigi poteva continuare a sentirsi grande potenza. Ora tutto sta cambiando. Il cerchio rosso da mettere sulla mappa è quello relativo al Mali. Nei prossimi mesi la Francia metterà fine, insieme ai partner europei, le operazioni antiterrorismo nel Paese chiave dell'area del Sahel. La conferma è arrivata, annunciata, in coda a mesi di polemiche diplomatiche tra Parigi e Bamako. "A causa dei molteplici impedimenti delle autorità transitorie maliane, il Canada e gli Stati europei che operano a fianco dell'Operazione Barkhane e all'interno della Task Force Takuba ritengono che non siano più soddisfatte le condizioni politiche, operative e giuridiche per perseguire efficacemente il loro attuale impegno militare nella lotta al terrorismo in Mali e hanno quindi deciso di avviare il ritiro coordinato dal territorio maliano delle rispettive risorse militari dedicate a tali operazioni", si legge nella dichiarazione sottoscritta da 25 Stati, tra cui l'Italia. E dire che la Francia aveva dispiegato 4.300 soldati nel Sahel per contribuire alla lotta anti-terrorismo. Tutto è cambiato però negli scorsi mesi. Il golpe militare ha ribaltato i rapporti con Parigi, dando peraltro sfogo a un malcontento generale. Al culmine delle tensioni con Parigi, l'ambasciatore francese a Bamako è stato espulso dal Paese, mentre alla Danimarca è stato chiesto di ritirare le proprie truppe.

Africa, l'erosione dell'influenza della Francia
Ma la débacle francese nell'area parte da più lontano. Nel 2021, l'uccisione di Idriss Déby in Ciad ha lasciato il segno in tutti i governi dell'area. Déby, uomo forte del Ciad appoggiato dai francesi, è morto lo scorso aprile a poche ore dalla pubblicazione dei risultati delle elezioni presidenziali. Il Capo di Stato ciadiano non è sopravvissuto alle ferite riportate da un attacco condotto durante l'avanzata del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT). Un forte colpo alla reputazione della Francia di agente di sicurezza, nonostante Parigi si sia impegnata nei mesi successivi, anche con l'aiuto dell'Italia, a colpire i gruppi jihadisti presenti nel quadrilatero Niger-Ciad-Mali-Burkina Faso. Non abbastanza. Ora la ritirata francese rischia di avere ripercussioni anche sull'Italia, che peraltro proprio di recente ha confermato e anche irrobustito le sue missioni militari nel Sahel. Area considerata cruciale, come testimoniano anche le ripetute visite di ministri chiave del governo italiano come Lorenzo Guerini e Luigi Di Maio. Non è un caso che del tema Sahel abbiano parlato a lungo Mario Draghi ed Emmanuel Macron durante l'incontro di ieri. La relazione del COPASIR sull'argomento spiega bene la prospettiva di interesse dell'Italia sulla regione:"Il Sahel è l'area di maggiore espansione del terrorismo islamico, terra di conquista dello jihadismo" e "negli ultimi anni l'Italia ha accresciuto la propria presenza" in questa zona dell'Africa. L'Italia, prosegue il report, ha accresciuto la sua presenza "nell'ambito di un approccio multidimensionale che ha puntato sull'intensificazione del dialogo politico, sull'aumento del contributo alla sicurezza, sul rafforzamento delle istituzioni statuali e sullo sviluppo sostenibile. Ne sono prova il rafforzamento della rete diplomatica italiana nella regione e l'avvio, nel 2018, della prima missione militare italiana di formazione e assistenza in Niger (MISIN), che ha consentito di addestrare circa 5.000 unità delle Forze Armate nigerine nel contrasto al terrorismo e nel controllo delle frontiere, nonché il recente accordo, siglato proprio in Italia, tra il governo del Mali e i gruppi del Nord".

L'impegno dell'Italia e l'incognita per i militari nel Sahel
L'Italia ha anche aperto diverse ambasciate nell'area, mostrando la volontà di una presenza non solo militare ma anche diplomatica. Il problema, riconosce anche il COPASIR, è il crescente sentimento antifrancese che pervade la regione. "Occorre poi considerare che in questa regione si registra il nuovo protagonismo di potenze non occidentali che stanno approfittando delle difficoltà della Francia, come dimostra il caso emblematico del Mali, Stato considerato centrale per la stabilizzazione del Sahel. Questo scenario problematico, a fronte di una situazione caratterizzata dalla presenza di gruppi jihadisti che operano travalicando le frontiere, anche sfruttando le crisi politiche presenti nei Paesi saheliani, potrebbe infatti provocare un effetto domino sugli Stati vicini con conseguenze anche sui flussi migratori e sui traffici illegali".

Africa, così si fanno spazio Russia e Cina
Il primo esempio delle nuove o vecchie potenze che si espandono in Africa porta alla Russia. Tradizionalmente, il legame tra Russia e Africa è stato più che altro di natura militare. Ancor prima della sua dissoluzione, l'Unione Sovietica ha partecipato all'addestramento di circa 250mila soldati africani provenienti da diversi Paesi, in particolare Zimbabwe, Guinea e Madagascar. A livello commerciale, invece, Mosca parte da una posizione di netto svantaggio rispetto agli altri attori presenti nel continente. Ma mentre l'interscambio commerciale di alcuni di questi sta diminuendo, quello russo è in deciso aumento. Basti vedere a quanto successo nel decennio 2006-2016, durante il quale, secondo il report del Brookings Institution, l'export degli Stati Uniti è diminuito del 66%, così come quello del Brasile, mentre quello di Mosca è aumentato del 168%, pur mantenendosi su livelli totali ancora molto minori. La presenza russa si spinge anche nel cuore dell'Africa. In particolare nella Repubblica Centrafricana, Paese già dilaniato da una lunga serie di conflitti interni. E' qui che la presenza russa in Africa si fa più evidente. Dopo un incontro tra il Presidente di Bangui, Touadéra e il potente Ministro degli Esteri Sergej Lavrov, Mosca ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU una deroga sull'embargo delle armi per la Repubblica Centrafricana, in vigore dal 2013. Dopo la concessione della deroga, la Russia ha cominciato non solo a esportare armi nel Paese ma anche a mandare nel Paese proprie forze speciali, che hanno rafforzato la guardia presidenziale, e istruttori militari. In cambio, il governo di Bangui ha garantito l'accesso ad alcuni dei suoi giacimenti minerari a delle società russe, alcune ancora una volta riconducibili a Prigozhin. A proposito di risorse naturali, la Russia partecipa a progetti di estrazione anche in altri Paesi africani, come per esempio Sudafrica, Guinea e Zimbabwe. Ma nella Repubblica Centrafricana Mosca sta provando a esercitare anche il proprio soft power attraverso, tra le altre cose, l'apertura di un istituto di cultura e persino l'organizzazione di concorsi di bellezza.

L'influenza della Cina in Africa
C'è poi, ovviamente, anche la Cina. Non è un caso che il Ministro degli Esteri cinese abbia iniziato il suo 2022 in tour in tre Paesi africani (Eritrea, Kenya e Comore), come antica tradizione della diplomazia cinese, che dura da quasi 60 anni. Durante il tour sono stati firmati diversi accordi bilaterali. D'altronde, nei primi 9 mesi del 2021, l'interscambio Cina-Africa ha raggiunto 185,2 miliardi di dollari, con un aumento del 38,2% su base annua, stabilendo un nuovo record. Tutto si unisce ai recenti dati della presenza cinese in Africa pubblicati dal China-Africa Business Council. Ebbene, nonostante il Covid 19, gli investimenti di Pechino nel continente sono cresciuti, raggiungendo i 3 miliardi di dollari nel solo 2020. I due settori con le cifre maggiori sono le infrastrutture e l'estrazione mineraria. I tanti accordi nel settore della telecomunicazione aiutano anche Pechino a estendere la sua sfera di influenza sul continente. Intanto è entrata in funzione una mega miniera in Congo che produrrà fino a 800mila tonnellate di rame all'anno per il mercato cinese, con la prima spedizione partita nelle scorse settimane. Malgrado il ritiro dal Mali, Francia e partner europei si impegnano comunque a continuare a combattere il terrorismo rilocalizzandosi su altri Paesi dell'area, in particolare il Niger. E provano ad allargare anche il portafoglio. Nel vertice UE-Africa di questi giorni, Bruxelles ha promesso nuovi ingenti finanziamenti al continente africano. Si lavora a una serie di progetti ambiziosi, che 'Politico' individua in piani per migliorare la connettività digitale, costruire nuovi collegamenti di trasporto e accelerare il passaggio a fonti di energia a basso contenuto di carbonio. Il tutto all'interno della più ampia strategia Global Gateway, percepita come una risposta (tutta da verificare ancora) alla Belt and Road di Pechino. Per ora, comunque, Europa e Francia fanno un passo indietro dall'Africa. Che siano poi in grado di farne due avanti resta da vedere.

Lorenzo Lamperti
17 febbraio 2022
www.affaritaliani.it/esteri/africa-europa-francia-sahel-macron-draghi-780...
30/03/2022 10:10
 
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Mali - Morto a 68 anni l’ex Premier Soumeylou Boubeye Maiga



L’ex Premier maliano Soumeylou Boubeye Maiga è morto questa mattina in una clinica di Bamako, dove era ricoverato da circa tre mesi. La sua morte è stata confermata all’emittente “RFI” da parenti e familiari dell’ex Primo Ministro. Maiga, 68 anni, è stato alla guida del governo dal 30 dicembre 2017 al 18 aprile 2019 prima di essere arrestato e successivamente rinviato a giudizio lo scorso agosto nell’ambito di un’indagine anticorruzione, legata in particolare a contratti di equipaggiamento militare. Il suo stato di salute era gravemente peggiorato a causa delle sue condizioni di detenzione, secondo quanto denunciato dai suoi legali e dalla sua famiglia: dopo il suo ricovero, infatti, le autorità di transizione del Mali non hanno mai autorizzato la sua evacuazione medica nonostante le raccomandazioni mediche. Prima di essere nominato Primo Ministro dal defunto Ibrahim Boubacar Keita, a sua volta destituito dal colpo di Stato del 18 agosto 2020, era stato suo Ministro della Difesa dal 2013 al 2014. In precedenza Maiga aveva ricoperto l’incarico di Ministro degli Esteri sotto la Presidenza di Amadou Toumani Touré dal 2011 fino all’altro colpo di Stato che lo rovesciò nel marzo 2012. In quel frangente fu anche arrestato insieme ad altri funzionari di governo.

21 marzo 2022
www.agenzianova.com/news/mali-morto-a-68-anni-lex-premier-soumeylou-boubey...
30/03/2022 10:15
 
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Mali, il governo di transizione sospende RFI e France24

Il governo di transizione del Mali ha sospeso le trasmissioni di Radio France Internationale (RFI) e France24 in tutto il Paese fino a nuovo ordine. Lo si apprende da un comunicato della giunta emesso ieri sera. La decisione segue la diffusione di accuse di abusi da parte delle forze armate maliane (FAMA) effettuate, viene specificato nella nota, dall’Organizzazione Human Rights Watch (HRW), da RFI e da Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo. Nel documento il governo maliano respinge “categoricamente queste false accuse contro le FAMA”, annunciando di aver “avviato una procedura per sospendere fino a nuovo ordine le trasmissioni di RfI e France24 su tutto il suo territorio”. Il portavoce del governo di transizione Abdoulaye Maiga ha condannato il ruolo di questi canali francesi, che ha accusato di aver “militato per la destabilizzazione della transizione, seminando il panico tra la popolazione pacifica”. Inoltre, il Governo del Mali ritiene che “le azioni di RFI e France24 assomigliano, nel recente passato, alle pratiche e al ruolo infame della stazione radio +Mille Collines, che ha incoraggiato il genocidio in Ruanda nel 1994. Human Rights Watch (HRW) ha denunciato pochi giorni fa che almeno 107 civili nel Mali centrale e sudoccidentale sarebbero stati uccisi, dal dicembre 2021, dall’Esercito del Mali e dai gruppi islamisti armati. HRW ha quindi precisato in una nota che “entrambe le parti dovrebbero porre fine agli abusi e garantire il rispetto delle leggi di guerra, che sono applicabili al conflitto armato del Mali”.

17 marzo 2022
www.africarivista.it/mali-il-governo-di-transizione-sospende-rfi-e-france24...
13/05/2022 19:51
 
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Il Mali ha annunciato la fine dei propri accordi militari con la Francia

Lunedì, con una decisione che peggiora ulteriormente i rapporti tra i due Paesi, la giunta militare che governa il Mali ha annunciato la fine degli accordi militari stretti con la Francia nel 2014 per combattere il terrorismo jihadista nella regione. Gli accordi prevedevano l’addestramento e l’assistenza delle forze locali da parte dell’Esercito Francese, che aveva comunque già iniziato a ritirarsi dal Paese lo scorso febbraio. L’interruzione degli accordi era attesa e prevedibile, e formalizza processi in corso da tempo: Macron aveva già annunciato la sospensione della cooperazione militare con il governo maliano a giugno del 2021, sostenendo che non ci fossero più le condizioni per continuare le operazioni sul territorio. Il governo maliano, da parte sua, aveva già chiesto di rivedere gli accordi pochi mesi fa, definendoli «squilibrati» e non paritari. I rapporti tra Mali e Francia sono peggiorati soprattutto dopo i due colpi di Stato del 2020 e del 2021 (guidati dallo stesso colonnello, Assimi Goïta) per una serie di ragioni: l’eredità del passato coloniale francese in Mali, ma anche il progressivo avvicinamento del Mali alla Russia. Di fatto, le forze occidentali sono state in parte sostituite dai mercenari del gruppo Wagner, la cui presenza si è intensificata soprattutto a partire dallo scorso dicembre.

03 maggio 2022
www.ilpost.it/2022/05/03/mali-accordi-militari-francia/
17/05/2022 12:05
 
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Burkina Faso: la portata storica della sentenza del “processo Sankara”

6 aprile 2022. A Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, è un torrido mercoledì della stagione secca e la sala banchetti di Ouaga 2000, quartiere delle istituzioni politico-finanziare del Paese, è insolitamente gremita. Fuori, decine di uomini, donne e bambini, in maggioranza semplici cittadini burkinabé, cercano di forzare l’entrata per ascoltare il verdetto della giuria militare chiamata a pronunciarsi sull’assassinio di Thomas Noël Isidore Sankara, il padre della Rivoluzione del Burkina Faso (1983-1987). Dopo 34 anni dai fatti giudicati, sei mesi di processo-fiume, un centinaio di testimoni ascoltati e due perizie scientifiche effettuate sul luogo del crimine e sui resti delle vittime, per la prima volta un tribunale nazionale mette nero su bianco, in un dossier di oltre 20mila pagine, ciò che durante la dittatura di Blaise Compaoré (durata 27 anni, dal 1987 al 2014) è sempre stato un segreto di Pulcinella: l’8 ottobre 1987 l’allora Presidente Thomas Sankara, insieme a dodici fedeli compagni, fu assassinato da un commando di militari putchisti inviato al Consiglio Nazionale della Rivoluzione di Ouagadougou dal delfino e “fratello d’armi" Blaise Compaoré per prenderne il posto. Compaoré affidò l’operazione a due quadri del proprio entourage, Hyacinthe Kafando e Gilbert Diendéré: il primo, guardia del corpo personale di Compaoré, faceva parte del gruppo di fuoco; il secondo, Capo di Stato Maggiore dell’ancien régime, diresse l’azione sul terreno. Dei tre illustri imputati, però, il solo fisicamente presente a ricevere la condanna all’ergastolo decisa dalla Corte Militare di Ouagadougou è il Generale Diendéré, già in carcere da fine 2019, dove sconta una pena di vent’anni per il tentato colpo di Stato del settembre 2015. Fin dall’apertura del processo, ad ottobre 2021, Blaise Compaoré, che si è sempre dichiarato innocente ed estraneo ai fatti, si è rifiutato di presentarsi davanti ai giudici, invocando l’immunità presidenziale contro un processo definito dai suoi legali “un linciaggio politico”, “un simulacro di giustizia”.

Accusato in contumacia (come Kafando, in fuga dal 2016) di “attentato alla sicurezza nazionale”, “complicità d’assassinio” e “occultamento di cadavere”, l’ex-dittatore (invecchiato e, secondo persone a lui vicine, gravemente malato) vive in una villa sulla laguna di Abidjan, ospite dell’amico di lunga data Alassane Ouattara, Presidente della Costa d’Avorio e alleato della Francia. Nel 2016, per proteggerlo dal mandato di arresto internazionale e dalla richiesta di estradizione del Tribunale Militare del Burkina Faso, Ouattara gli ha concesso la nazionalità ivoriana. Quando l’insurrezione popolare burkinabé dell’ottobre 2014 ha costretto Compaoré alla fuga, è stato un elicottero delle forze speciali francesi a prelevarlo da Ouagadougou per portarlo ad Abidjan, sottraendolo così alla giustizia del suo Paese. Ma la tenacia e la perseveranza dei familiari di Sankara (su tutti la vedova Mariam, rientrata in Burkina Faso nel 2015 dopo decenni di esilio) ha permesso lo svolgimento di questo storico processo, il primo in cui un ex-dittatore africano viene giudicato e condannato da un tribunale nazionale. Nel lungo e accidentato iter giudiziario che ha portato dalla denuncia, depositata dalla famiglia Sankara il 27 settembre 1997, con Compaoré al potere, e registrata coraggiosamente dal tribunale militare il 3 ottobre dello stesso anno, pochi giorni prima della prescrizione, al recente epilogo, sono stati accompagnati dalla Campagna Internazionale Giustizia per Sankara (Campagne Internationale Justice pour Thomas Sankara - CIJS), formato da una quindicina di avvocati internazionali. Il CIJS, che nel 2002 ha portato il caso davanti al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, in occasione del verdetto del “processo Sankara”, ha diramato un comunicato in cui si felicita del risultato ottenuto, sottolineando però la necessità di aprire parallelamente un procedimento sulle responsabilità internazionali nella vicenda. Il giudice François Yaméogo, incaricato del dossier Sankara a Ouagadougou, ha deciso a ottobre 2020 di disgiungere le due procedure per far avanzare almeno la parte relativa agli imputati burkinabé, cioè Compaoré, Kafando, Diendéré e altri undici militari giudicati ad aprile (otto condannati a pene dai 3 ai 20 anni di prigione, tre assolti).

In primis la Francia di François Mitterrand, Jacques Foccart e Jacques Chirac, ma anche gli Stati Uniti di Ronald Reagan, la Costa d’Avorio di Félix Houphouët-Boigny, il Togo di Gnassingbé Eyadema, la Liberia di Charles Taylor e la Libia di Muhammar Gheddafi sono accusati di aver partecipato ad un complotto internazionale per eliminare lo scomodo e controcorrente Sankara, apertamente antimperialista e astro nascente, all’epoca, del panafricanismo. I documenti necessari per aprire un processo contro tali eventuali crimini politici sono, però, ancora protetti dal segreto di Stato francese. Il Presidente Emmanuel Macron, in occasione della visita in Burkina Faso del novembre 2017, rispondendo alla domanda di una studentessa dell’università Norbert Zongo di Ouagadougou, aveva promesso di declassificare e trasmettere tali fascicoli alle autorità giudiziarie burkinabé. Tre primi plichi sono stati inviati a novembre 2018, gennaio 2019 e aprile 2020, poi più nulla. Elementi insufficienti, ancora, per chiudere l’istruttoria sulle complicità internazionali nell’omicidio del Capitano Sankara. Nonostante persistano ancora diverse zone d’ombra, come ad esempio il ruolo del Colonnello-Maggiore Jean-Pierre Palm, ex capo dei Servizi Segreti di Compaoré, accusato di aver aiutato alcuni ufficiali francesi a distruggere, all’indomani del golpe dell’ottobre 1987, delle registrazioni della gendarmeria di Ouagadougou, e condannato a dieci anni ad aprile, Mariam Sankara si è detta soddisfatta della sentenza, soprattutto per il suo carattere esemplare:“Il nostro obiettivo era quello di porre fine alle violenze politiche in Burkina Faso.

Questo verdetto darà da pensare a molte persone”. L’alto valore simbolico e la risonanza nazionale, regionale ed internazionale, amplificata dalla profonda crisi politico-securitaria che il Paese (come, del resto, l’intero Sahel centrale) sta recentemente vivendo, fanno di questo processo un evento dall’indiscutibile portata storica. Un’inaspettata ventata di speranza in un contesto umanitario e politico destabilizzato dall’espansionismo neo-jihadista saheliano (le cellule legate al gruppo Stato Islamico nel Grande Sahara sono sempre più distruttive e radicate nel nord-est del Burkina Faso) e dal golpe del 24 gennaio 2022, che ha portato al potere il Tenente-Colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Al netto di un tale contesto d’insicurezza e incertezza, tanto nazionale quanto regionale, la data del 6 aprile 2022 rimarrà senza dubbio impressa nel ricordo dell’intero continente africano come il giorno in cui, per la prima volta, un dittatore si è trovato spogliato della maschera dell’impunità di fronte alla sete di giustizia e verità di un intero popolo. In Burkina Faso, come in gran parte del Sahel, se non si conoscono le circostanze della morte di un individuo non si può organizzare il suo funerale, né tantomeno il tradizionale lutto. Ora Mariam, la famiglia Sankara, i parenti dei dodici compagni caduti quel tragico 8 ottobre 1987, insieme a un’intera Nazione, potranno finalmente piangere il padre del “Paese degli uomini integri”.

Andrea de Georgio
04 maggio 2022
www.ispionline.it/it/pubblicazione/burkina-faso-la-portata-storica-della-sentenza-del-processo-sanka...
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