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CVII

Ultimo Aggiornamento: 29/01/2011 16:03
29/01/2011 16:01
 
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Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso [del sacro patrimonio di verità ricevuto dai Padri], come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da venti secoli [...] per un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze [. . .] studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno [. . .]. Altra è la sostanza dell’antica dottrina del «depositum fidei», e altra la formulazione del suo rivestimento.
In conclusione Papa Giovanni indicava al Concilio la via di un magistero a carattere prevalentemente pastorale [... .] e (capace di) far fronte ai bisogni di oggi mostrando la validità della dottrina (della Chiesa) piuttosto che rinnovando condanne.
Così non sanzioni, ma usando piuttosto «la medicina della misericordia». E perciò il primato su tutto della carità: della carità più dilatata, abbracciante
l’unità dei cattolici fra di loro solidissima ed edificante; l’unità dei cristiani appartenenti alle varie confessioni dei credenti in Cristo [. . .] e l’unità degli appartenenti alle varie famiglie religiose non cristiane, che rappresentano la porzione più notevole di creature umane, redente anch’esse dal sangue di Cristo, ma non aventi ancora la partecipazione alla grazia e alla Chiesa di Gesù, di tutti Salvatore.
La sera di quello stesso giorno Papa Giovanni si affaccia sulla piazza di 5. Pietro e, alla folla che si è riunita festosa per solennizzare l’inizio del Concilio, effonde il suo animo pieno di una carità universale, si direbbe cosmica, come la lode di qualche salmo (per esempio il Salmo 147, 2-4) (8).

La mia voce è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui di fatto tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera. Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo. Gli è che noi chiudiamo una grande giornata di pace; sì, di pace: Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà! Occorre spesso ripetere questo augurio. Soprattutto quando possiamo notare che veramente il raggio e la dolcezza del Signore ci uniscono e ci prendono, noi diciamo: Ecco qui un pregustamento di quella che dovrebbe essere la vita di sempre, di tutti i secoli, e della vita che ci attende per l’eternità.

5 / Ecco dunque come il cuore di Papa Giovanni ha concepito, ha pensato, ha voluto il Concilio: non tanto come un’assise normativa, ma piuttosto come uno spettacolo cosmico, un evento, un’anticipazione dell’eterna e universale liturgia, un grande atto di culto, di rendimento di grazie a Dio e di implorazione per tutti: per i fratelli in Cristo e per l’universa umanità.
Ma non così l’aveva riottosamente accettato e pensato la Curia: ma piuttosto come un’occasione di semplice conferma della sua autorità centrale e di indirizzi fissisti, con qualche variazione di minori modalità tecniche (secondo una formula espressa e ripetuta).
Perciò le molte decine di schemi preparatori elaborate dalle commissioni preconciliari e dalla commissione centrale preparatoria, durante quasi quattro anni, e comunicati solo in minima parte e negli ultimissimi mesi ai Padri (nonostante le sollecitazioni del Papa al riguardo), non potevano né corrispondere alle finalità fissate dal Papa per il Concilio, né al gradimento della maggioranza dei Padri conciiari.
Di qui un certo disorientamento iniziale dell’assemblea e la conseguenza che la prima sessione finì senza che nessuno schema venisse approvato.
Ma intanto i Padri ebbero modo di conoscersi, di responsabilizzarsi e di organizzarsi in raggruppamenti, avviando il processo più importante e più duraturo del Vaticano Il, la formazione cioè di una coscienza assembleare e collegiale e facendo uscire il vescovo medio dagli orizzonti ristretti ai quali era assuefatto per sentirsi effettivamente coinvolto nel servizio della Chiesa universale (9).
E d’altra parte il Papa, per conto suo, provvedeva con vari suoi atti alla concentrazione dei troppi schemi preparatori in venti argomenti, alla disciplina del lavoro durante l’intersessione, alla nomina per questo di una commissione permanente di coordinamento, a disporre un Ordo agendorum per il futuro e a ribadire i punti centrali della sua Allocuzione inaugurale. Il che consentì al Concilio di continuare ordinatamente i suoi lavori anche dopo la morte del Papa e la successione di Paolo VI: conservando, per quanto era possibile, l’ispirazione iniziale giovannea, e così restando, sia pure non in tutto e non sempre con piena coerenza, fedele al grande balzo in avanti (auspicato dalla Gaudet Mater Ecclesia) che doveva portare la Chiesa fuori dell’epoca tridentina e avviarla per nuove vie più conformi alle istanze ecclesiali, espresse e coltivate negli ultimi decenni, soprattutto dal movimento biblico, dal movimento liturgico e da quello ecumenico: e con questo rendere il sacro deposito sempre più efficace rispetto ai nuovi problemi e ai nuovi bisogni.

Date queste premesse – che ritenevo necessarie, e forse ancora insufficienti, per inquadrare minimamente gli esiti del Vaticano II – passiamo ora ad esaminare la portata intrinseca di qualcuno dei frutti che a me sembrano più rilevanti e più duraturi.
1) La riaffermazione anzitutto della dottrina trinitaria: non in modo semplicemente ripetitivo e tralatizio, ma con una formulazione originale, tanto compiuta e dispiegata che si può dire che, dopo i primi quattro Concili, non se ne può trovare un’altra pari. Nemmeno al Concilio di Unione di
Ferrara-Firenze. A questo riguardo si possono fare le seguenti osservazioni.
a) L’insistenza di questa riaffermazione è tanto più significativa perché il Vaticano II poteva facilmente dispensarsene, non volendo programmaticamente essere un Concilio dogmatico.
b) I loci propri di questa riaffermazione sono i preamboli di quasi tutti i documenti maggiori del Vaticano II: in qualcheduno, per esempio la Costituzione De Sacra Liturgia, n. 3 e 5-6 e la Costituzione De divina Revelatione, n. 2, in modo più sintetico; in qualche altro documento, per esempio la Costituzione De Ecclesia, n. 2-4, in modo più esteso e determinato; e infine in altro ancora, cioè il decreto Ad Gentes sull’attività missionaria, n. 2-4, in modo ancora più approfondito e maturo.
c) La ripresa trinitaria non è occasionale o solo rituale, ma è intenzionalmente voluta come premessa e fonte di tutto lo sviluppo impresso ad ogni documento: per il De Ecclesia in particolare è suggellata dalla conclusione, derivata da S. Cipriano (10), che la Chiesa universale si presenta come «un popolo adunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».
d) Non è condotta su argomenti speculativi, ma svolta quasi esclusivamente su dati scritturistici tra loro sapientemente coordinati, sì da delineare lo schema di una rivelazione trinitaria corrispondente alla storia della salvezza: parlando prima del disegno salvifico del Padre, e poi della missione del Figlio, e poi dell’opera santificatrice dello Spirito Santo.
e) Perciò in particolare il dogma triitario è strettamente ed espressamente connesso con l’altro capitale oggetto della nostra fede, cioè l’incarnazione del Figlio di Dio, egli stesso Dio preesistente ed eterno (Ad Gentes, n. 3).
f) Per lo Spirito Santo, è usata non l’attuale formula del Credo occidentale («lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio»), ma la formula dei greci accolta al Concilio di Firenze, e cioè che «lo Spirito Santo procede dal Padre per Filium» (ibidem, n. 2) (11).
Orbene, questa affermazione conciliare della fede trinitaria così ripetuta, compatta, fontale per tutto il resto delle affermazioni del Vaticano II, appare non solo opportuna per arginare riduzioni erronee serpeggianti anche in campo cattolico (12) ma dimostra la sua attualità e vitalità per concepire tutto l’essere e l’agire del Cristo, della Chiesa, del cristiano. A prescindere da essa o eliminandone o riducendone la portata, non si può più parlare di fede cristiana in Gesù di Nazareth, né di Chiesa cristiana, né di cristiano.
2) Direi quindi che un frutto del Concilio sono state le importantissime innovazioni introdotte nella dottrina dell’esegesi cattolica dalla Costituzione Dei Verbum sulla Rivelazione.
Anzitutto l’introduzione del capitolo I De ipsa Revelatione, da tutti riconosciuto come l’insegnamento più innovatore e più riuscito del Vaticano II al riguardo: “Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà” (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre, e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione, infatti, Dio invisibile (Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo immenso amore, parla agli uomini come ad amici (Es 33,11; Gv 15,14-15) e si
intrattiene con essi (Bar 5,38), per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé (DV, n. 2).
In secondo luogo il Concilio ha messo in rilievo i due caratteri fondamentali di questa Rivelazione: cioè l’interpersonalità (rapporto complesso di comunione, di conoscenza e di amore tra Dio e l’uomo) e a un tempo la storicità della rivelazione stessa.

6 / Questa economia della rivelazione avviene per mezzo di gesti e di parole intrinsecamente connessi, cosicché le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e confermano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il
mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione (DV, n. 2).
Questo consente e insieme impone di superare una concezione ancora intellettualistica della Rivelazione come comunicazione di asserti astratti, a vantaggio, invece, di una concezione più completa, fatta di parole e di eventi, e culminante nell’evento unico e nella Parola unica di Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, nella sua vita, morte e risurrezione, e nell’invio del suo Spirito di verità: nella sua storia tra noi, con noi, in noi (v. anche DV, n. 4).
Quindi sottomettersi alla storicità della Rivelazione e aderire pienamente al metodo storico non vuol dire solo attenersi alla storicità dei singoli fatti e alla tipologia dei vari testi della Scrittura come documento canonico della Rivelazione, ma vuol dire anche, inevitabilmente, riconoscere la singolarità irripetibile dell’evento di Cristo: Gesù Cristo diventa la misura valutativa suprema di tutti i grandi criteri attraverso i quali si cerca di comprendere le singole verità rivelate. E finalmente si deve e si può cercare Lui come ultima chiave ermeneutica, nell’intersezione a un tempo tra la Scrittura, i sacramenti e la vita della Chiesa.
Ancora e soprattutto il Concilio ha messo fortemente in evidenza la parte dello Spirito Santo, non solo nella ispirazione delle Sacre Scritture, ma anche in quelli che si possono dire i loro analoghi precedenti e i loro analoghi susseguenti (13).
La fede, in quanto risposta alla Rivelazione di Dio, è impossibile senza una mozione dello Spirito Santo:
A Dio che rivela, è dovuta l’obbedienza della fede [. . .]. Perché si possa prestare questa fede è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere (ibidem, n. 5).
Così, nella dinamica della tradizione, lo Spirito Santo sorregge i diversi fattori storici progressivamente attualizzanti la Rivelazione.
Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione apostolica hanno ricevuto un carisma sicuro di verità
(ibidem, n. 8).
Anzi, è lo Spirito Santo che introduce i credenti dentro tutt’intera la verità rivelata: Lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, introduce i credenti dentro tutt’intera la verità, e in essi fa risiedere la Parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (ibidem).
Perciò quanto all’interpretazione della Scrittura, dopo avere ancora ribadito e chiarito che l’interprete deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi in realtà hanno inteso significare – quindi tener conto fra l’altro dei generi letterari (come già prescriveva l’enciclica di Pio XII, Divino Afflante Spiritu del 30 settembre 1943) – contestualmente, nello stesso paragrafo, la Dei Verbum dichiara.

7 / Però [sed], dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavarne con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza [non minus diligenter] al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e della analogia della fede (DV, n. 12).
Parole, queste, di immensa importanza, perché aprivano la via alla legittimazione della ricerca oltre il senso storico, anche del senso spirituale, in conformità alla migliore e pìu genuina ed equilibrata esegesi patristica.
Tale legittimazione del senso spirituale delle Scritture – contestato lungamente da molti per un monolitismo ermeneutico che insisteva al di là del debito sul senso storico letterale – ha raggiunto la sua pienezza nel recente documento della P. Commissione biblica del 15 aprile 1993, che è il primo in assoluto tutto dedicato alla interpretazione della Scrittura. Esso passa in rassegna in modo sistematico oltre che il metodo storico-critico (del quale conferma la validità e la necessità, ma anche dichiara l’insufficienza e la necessità di integrarlo con altri metodi) anche l’approccio semiotico, quello sociologico, quello antropologico-culturale, e quello psicologico e psicanalitico: cioè si apre con favore alle più recenti scienze del linguaggio e ad alcune nuove ermeneutiche
filosofiche, che affermano la polisemia dei testi scritti. E perciò giunge a evidenziare, a certe condizioni, non solo la legittimità ma la rilevanza significativa del senso spirituale della Scrittura.
Non possiamo abbandonare questo argomento senza rilevare la grande insistenza con la quale la Dei Verbum attribuisce una massima importanza alla Scrittura rispetto a tutte le scienze teologiche, e raccomanda la conoscenza abituale e la pia lettura della Bibbia a tutti i cristiani (14).
5. 3) Un terzo esito importante del Concilio è stata la revisione di tutta la materia liturgica e l’avviamento di una riforma organica e generale che si è esplicata negli anni immediatamente successivi. Può essere, però, che nella valutazione comune dei risultati in questo campo, non ci si metta dal punto di vista giusto. Come è accaduto anche nel sinodo straordinario celebrativo del Vaticano II, il sinodo cioè del 1985, sotto l’ottimismo ufficiale – che parla ancora del rinnovamento liturgico come del «frutto più appariscente di tutta l’opera conciliare» – il sinodo stesso deve constatare che si nascondono tuttora valutazioni e tensioni in vari sensi. Da una parte un certo immobilismo e conservatorismo, che produce una recezione delle riforme ancora solo esteriore; e dall’altra la persuasione che le riforme introdotte siano state del tutto insufficienti, e quindi l’urgere di tentativi nuovi o di riforme arbitrarie da parte di singoli gruppi o di comunità locali o nazionali.
In effetti, la Costituzione della liturgia è stata quella più remotamente preparata da decenni del movimento liturgico internazionale, ma anche è stata quella discussa per prima dal Concilio (appena uscito dalla crisi iniziale), e perciò la sua anticipata discussione fu una scelta non gradita agli uomini che avevano guidato la preparazione preconciliare, ma che risultò il migliore raccordo possibile tra i fermenti di rinnovamento presenti da decenni nel cattolicesimo e le resistenze dei tradizionalisti. Queste resistenze ebbero modo di farsi sentire in Concilio durante tutta la fase conciliare della discussione liturgica, e ancor più dopo, nella fase post-conciliare di esecuzione della riforma.
Di qui le indubbie timidezze della riforma stessa e le evidenti sue carenze e contraddizioni, e ancora una certa permanente incompletezza.

8 / Ma non si possono negare certi risultati concreti, come ad esempio quello, ben evidente a tutti, del passaggio dall’esclusivismo della lingua latina all’uso delle lingue volgari; quello della parte ben più ampia fatta, nella Messa e nell’Ufficio divino, alla Parola di Dio; quello della promozione di una attiva partecipazione comunitaria di tutti i fedeli; e quello ancora della ammissione – almeno in linea di principio – di possibili ulteriori progressi e sviluppi nell’adattamento delle forme liturgiche all’indole e alle culture dei vari popoli; oltre che alla ripulitura di ogni aspetto liturgico (negli edifici, nelle espressioni artistiche, nei canti, ecc.) dalle peggiori stratificazioni barocche o devozionali.
Ma soprattutto si deve rendere giustizia al Concilio di avere realizzato – al di là di tutti i risultati singoli, anche rilevanti – un risultato globale: quello di avere, con decisa volontà, aperto un grande varco di principio nella situazione liturgica immobile da secoli. E cioè di avere posto inizio a una dinamica di rinnovamento che, contro ogni ben prevedibile resistenza, non poteva e non potrà essere arrestata per il futuro, se il Signore conserverà alle Chiese ed alle comunità un giusto equilibrio tra saggezza e aspirazioni ad una maggiore autenticità e freschezza delle forme liturgiche.
E c’è ancora qualche cosa di più: la Costituzione della liturgia, oltre alle sue conquiste particolari, ha rivelato, in certi punti, soprattutto la possibilità di una nuova organica teologia e di una nuova spiritualità del mistero liturgico, in connessione vitale col mistero di Cristo e col mistero della Chiesa.
Ci sono almeno tre punti che devono essere considerati dei capisaldi fondamentali per sempre:
a) il primato dato al mistero pasquale, cioè al mistero della beata passione [di Cristo], risurrezione da morte e gloriosa ascensione, col quale «morendo, ha distrutto la morte, e risorgendo ci ha ridonato la vita». Infatti, dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa (SC, n. 5).
Oggi la locuzione «mistero pasquale», in questo senso denso e intimamente collegato al mistero di tutta la Chiesa, è diventata di uso comune, ma prima del Concilio è stata introdotta solo da un libro, poi divenuto famoso, di Louis Bouyer. È merito del Concilio averlo formalmente ripreso, esplicato, divulgato, e soprattutto averlo collegato con la sua ecclesiologia.
b) L’enunciato che per quanto la liturgia non esaurisca tutta l’azione della Chiesa … .] nondimeno essa è il culmine verso il quale tende l’azione della
Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù (ibidem, n. 9-10).
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