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    www.veritatis-splendor.net/DocumentiVS/MagisteroChiesa.pdf

    Il Magistero della Chiesa
    Relatore: Prof. Don Mauro Gagliardi
    Ordinario di teologia dogmatica presso il Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum” di
    Roma
    4 marzo 2008 – Cappella del S. Rosario, largo S. Tommaso d’Aquino - Salerno
    Introduzione
    Prima di tutto diamo uno sguardo al contesto: oggi se ci guardiamo attorno notiamo che c’è una
    certa incertezza o genericità sul concetto di magistero della Chiesa anche da parte di noi cattolici.
    Un cattolico saprebbe rispondere alla domanda: che cos’è il magistero della Chiesa? Saprebbe darne
    una definizione anche non precisa, ma almeno attinente? Tanti cattolici preparati e colti sì, ma il
    cosiddetto “cattolico medio” forse no. Dunque a quest’ignoranza sono connessi, come ad ogni
    ignoranza, dei rischi. Nel caso dell’ignoranza su cos’è il magistero della Chiesa sono connessi
    almeno tre rischi:
    1 la possibilità di una sorta di massimalismo magisteriale (tutto ciò che il papa dice ha uguale
    valore), e a questo si collega qualche volta una forma di fideismo;
    2 il disinteresse o la relativizzazione di ciò che il magistero insegna, siccome non si ha un
    concetto chiaro di cosa sia il magistero;

    3 la strumentalizzazione: questa non viene fatta solo da tanti teologi (che per professione
    sanno benissimo cos’è il magistero e a volte lo strumentalizzano citandone solo alcune parti
    e non altre, oppure interpretando il magistero facendogli dire l’esatto contrario) ma
    possiamo trovare anche nella prassi dell’insegnamento e nella prassi pastorale una
    storpiatura, una forzatura o un concentrarsi su punti di dettaglio, dimenticandone altri.
    La parola latina magisterium indica l’azione del magister, e questo nel latino classico valeva non
    solo per l’insegnamento ma per qualsiasi forma di arte (maestro della nave, maestro fabbro, maestro
    di un’arte o di un mestiere). Nel Medioevo la parola magister comincia ad essere usata in senso più
    stretto riferita all’insegnamento: ad esempio Pietro Lombardo è il magister sententiarum, il
    “maestro delle sentenze”. Nell’epoca moderna, almeno in ambito cattolico, la parola magisterium
    viene ormai applicata in maniera specifica all’ufficio di insegnare nella Chiesa, quello che viene
    chiamato il munus docendi, la potestà d’insegnamento dei pastori della Chiesa.
    E la parola
    magisterium, sebbene faccia parte del latino classico, nel magistero della Chiesa entra in maniera
    ufficiale di recente: il primo ingresso lo troviamo nella Commissum divinitus di Gregorio XVI,
    testo del 1835.
    In essa si dice che il magistero è l’autorità d’insegnamento della Chiesa fondata sull’ordinazione
    sacramentale. Questo punto è qualificante: il munus docendi è indissolubilmente legato al
    sacramento dell’ordine episcopale.
    Pochi anni dopo, nel 1863, Pio IX, in un’importantissima lettera inviata al vescovo di Monaco
    intitolata Tuas libenter, applica quattro aggettivi alla parola magisterium: infallibile, authenticum,
    ordinarium, universale. Queste quattro parole, oggi, nel linguaggio teologico tecnico vengono usate
    2
    in maniera diversa rispetto a come le usava Pio IX nella Tuas libenter, ma ciò che importa è che sia
    stato lui ad aver canonizzato l’uso di queste aggettivazioni del termine, che sono aggettivazioni
    tecniche.
    Infine, altro dato molto importante, nel 1870, la Pastor Aeternus, costituzione dogmatica del
    Concilio Vaticano I, usa la parola magisterium addirittura all’interno del capitolo quarto, anche nel
    titolo, il capitolo dove c’è la definizione dogmatica dell’infallibilità del Romano Pontefice (De
    Romani Pontificis infallibili magisterio). È rilevante il fatto che una parola che ha solo trentacinque
    anni di vita per quel che riguarda l’uso che la Chiesa ne fa, dopo così breve tempo venga usata in
    una definizione dogmatica e conciliare.
    Vediamo ora la base biblica. Il fatto che la Chiesa proponga un insegnamento ufficiale non è
    invenzione dei vescovi o di qualche papa, ma è fondato sulla Rivelazione biblica, soprattutto sul
    Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento il magister in senso proprio è Gesù Cristo. “Mi
    chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono” (Gv 13,13). Dunque Gesù si è
    autoproclamato magister. Tuttavia il Nuovo Testamento indica anche che Cristo costituisce degli
    Apostoli e li delega ad insegnare nel mondo il suo Vangelo. Due versetti tra i tanti sono i più
    importanti rispetto a questo:
    “Andate dunque, ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19)
    “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16).
    Questo dato essenziale, che Cristo costituisca i Dodici e dica loro di insegnare, incontra però altri
    due punti fermi nel Nuovo Testamento:
    1. La sottolineatura molto forte nel Nuovo Testamento che esiste una Parola vera e una sana
    dottrina, che devono essere custodite e portate agli altri. Nella Lettera agli Efesini San Paolo
    dice: “Il Vangelo è la Parola della Verità” e nella Lettera a Timoteo chiama la dottrina
    apostolica la “sana dottrina”. Quindi dal Cristo che è la Verità (“Io sono la via, la verità e la
    vita” – Gv 14,6) si passa alla verità della dottrina degli Apostoli, la Verità che è la persona
    di Cristo viene veicolata attraverso la dottrina degli Apostoli che perciò è “sana dottrina”, è
    sana perché è bella nella misura in cui è vera. Questa sana dottrina è custodita nella Chiesa:
    ancora la Prima Lettera di San Paolo a Timoteo dice “La Chiesa è la colonna e il sostegno
    della Verità”. San Paolo, nel primo capitolo della Lettera a Tito dice che il Vescovo
    dev’essere attaccato alla dottrina sicura secondo l’insegnamento trasmesso perché sia in
    grado di esortare con la sua sana dottrina; nel secondo capitolo della stessa lettera dice “Tu
    insegna ciò che è secondo la sana dottrina”
    2. La struttura gerarchica della Chiesa: da Cristo il mandato passa agli Apostoli, dagli Apostoli
    il mandato passa ai primi collaboratori che sono i vescovi. Subito dopo la resurrezione di
    Gesù, il capitolo secondo degli Atti degli Apostoli parla della “dottrina degli Apostoli”:
    dunque la dottrina di Cristo proprio all’inizio degli Atti è diventata “dottrina degli
    Apostoli”. Gli Apostoli sono i canali della vera dottrina di Cristo. San Paolo nella Prima
    Lettera ai Corinzi dice “Che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Sono dei ministri
    attraverso i quali siete venuti alla fede”. La “dottrina degli Apostoli” non significa
    “inventata dagli Apostoli”, ma che gli Apostoli sono i ministri della Verità di Cristo, dunque
    la loro dottrina è la dottrina del Maestro.
    Gli Apostoli sono i testimoni oculari del Signore,
    la dottrina apostolica contiene la loro testimonianza oculare ed è il fondamento della fede
    della Chiesa. Cristo ha insegnato la Verità a tutta quanta la Chiesa e tuttavia il Signore non
    fa una comunicazione soprannaturale diretta e immediata a ciascuno dei battezzati, ma si
    serve della mediazione dell’intelletto. Prima di tutto il Signore si è servito della mediazione
    degli Apostoli, poi per tutte le altre epoche si serve della mediazione dei vescovi. Il Nuovo
    Testamento insegna che gli Apostoli costituiscono i vescovi come loro successori nella
    guida delle varie Chiese che venivano fondate e li costituiscono con il gesto
    dell’imposizione delle mani, e i vescovi hanno proprio il compito di custodire il deposito
    3
    della fede ricevuto dagli Apostoli che li hanno ordinati. Molto significativo l’addio che San
    Paolo fa agli anziani della Chiesa di Efeso (At 20): “Badate dunque a voi stessi, badate al
    gregge di cui lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi per pascere la Chiesa di Dio, acquistata
    da lui col proprio sangue. So infatti che, dopo la mia partenza, entreranno tra voi dei lupi
    rapaci, i quali non risparmieranno il gregge; e anche in mezzo a voi si leveranno su degli
    uomini a insegnare cose perverse, per trascinarsi dietro i discepoli”. Dunque San Paolo sa
    che sorgeranno sempre nella Chiesa coloro che “insegnano cose perverse”, persino tra i
    vescovi: nella storia vi sono anche vescovi eretici. Perciò dice ai vescovi di attenersi
    strettamente al deposito della fede che egli ha trasmesso loro. Il passaggio del munus
    docendi dagli Apostoli ai vescovi avviene con l’imposizione delle mani, che è l’ordinazione
    sacramentale. Tuttavia bisogna anche dire che c’è una differenza tra gli Apostoli e i vescovi,
    pur nella continuità. I vescovi non succedono agli Apostoli in tutto: gli Apostoli sono i
    testimoni oculari di Cristo mentre i vescovi non lo sono; gli Apostoli avevano il carisma
    dell’ispirazione biblica, le lettere pastorali che scrivevano gli Apostoli si trovano nella
    Bibbia e sono Rivelazione divina. Compito dei vescovi, come successori legittimi degli
    Apostoli, è dunque quello di ascoltare il deposito apostolico, custodirlo ed esporlo con
    fedeltà.
    Qual è dunque, alla luce di tutto, ciò la funzione specifica del magistero? La Dei Verbum del
    Concilio Vaticano II dice al capitolo 10 che il magistero della Chiesa ha il compito di interpretare
    autenticamente la Parola di Dio. “Autenticamente” nel linguaggio tecnico significa non solo “con
    verità”, ma “con autorità” (authenticum si usa nella teologia per indicare l’autorità apostolica).

    Inoltre, quando sentiamo l’espressione “Parola di Dio”, ci viene facilmente in mente la Sacra
    Scrittura, e certamente la Bibbia è Parola di Dio, ma non dobbiamo dimenticare che il concetto
    cattolico di “Parola di Dio” è la Sacra Scrittura e la tradizione orale degli Apostoli: il Concilio di
    Trento
    dice che la Parola di Dio si trova in libris scriptis et sine scripto traditionibus. Prendendo
    dunque questo insieme di Scrittura e Tradizione, il magistero ha il compito specifico di interpretare
    con autorità la Parola di Dio.
    La Dei Verbum, capitolo 10, in più precisa che il magistero non è al di
    sopra della Parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando solo quanto in essa vi è trasmesso, cioè solo
    quanto si trova nella Scrittura e nella Tradizione apostolica. La Dei Verbum sintetizza i compiti del
    magistero nella bella formula latina pie audit, sancte custodit, fideliter exponit. Il testo conclude:
    “Per questo la Scrittura, la Tradizione e il magistero sono realtà talmente interconnesse da non poter
    sussistere l’uno senza l’altro”. Questo è chiarissimo: il magistero senza la Parola di Dio (Scrittura e
    Tradizione) non serve assolutamente a nulla, perché il suo scopo è appunto la fedele trasmissione
    della Parola di Dio, ma d’altro canto essa senza il magistero non può essere trasmessa (tradita),
    perché mancherebbe l’autorità che la custodisce e la interpreta. Il magistero garantisce infatti la
    vitalità della trasmissione della Parola di Dio in tutte le epoche.
    Questo implica fra i compiti del Magistero un approfondimento continuo della Rivelazione,
    fatto
    non semplicemente con erudizione teologica o con la sapienza umana, ma alla luce dello Spirito
    Santo di cui parlava Gesù nel capitolo 16 di Giovanni: “Egli v’insegnerà tutta la Verità”. Questo
    non vuol dire che dopo Cristo ci sono altre verità da scoprire, ma vuol dire che quella Verità data da
    Cristo noi la comprendiamo sempre più profondamente e in maniera progressiva, e lo Spirito Santo
    ci aiuta proprio in questa direzione. La storicità di questo processo di comprensione progressiva
    operato dal magistero implica altre due cose che enuncio senza approfondire:
    1. La perfettibilità del linguaggio magisteriale e delle formule: il magistero si esprime con
    proprietà nell’insegnare la verità, ma il modo di esporre la dottrina può e deve essere
    sempre migliorato nella sua formulazione.

    2. Il progresso contenutistico del magistero, che cresce, non perché si aggiungano altre
    rivelazioni pubbliche, ma perché cresce la comprensione della Rivelazione.
    4
    Quali sono gli effetti dell’esercizio del magistero sulla vita della Chiesa? Naturalmente, grazie
    all’esercizio del magistero, la comunità dei fedeli rimane sempre ciò che essa è, permane
    immutabilmente nella sua identità, cioè non subisce cambiamenti sostanziali. E’ chiaro che la
    Chiesa nei suoi aspetti secondari subisce tanti cambiamenti, ma nell’essenziale rimane sempre
    identica a se stessa, e questo non rappresenta affatto una cristallizzazione, un’incapacità di
    evoluzione o peggio un’involuzione, ma al contrario, il fatto che la Chiesa pur mutando in aspetti
    secondari rimanga in ogni epoca se stessa, dice che la Chiesa rimane giovane in tutte le epoche.
    Anche il magistero ha un ruolo importante nella vita della Chiesa, perché illumina le coscienze,
    innanzitutto le coscienze dei fedeli, ma poi anche quelle di tutti gli altri uomini di buona volontà, e
    soprattutto è utilissimo il lavoro del magistero, soprattutto quando sorgono nuovi scottanti “casi
    morali” (in ambito sociale, sessuale, bioetica ecc.), perché nell’evolvere della storia spuntano
    sempre nuove problematiche e il magistero della Chiesa vi risponde in maniera autentica e
    autorevole, e soprattutto seda le controversie.

    Molto importante sottolineare che a volte si rimarca la differenza tra un Islam moderato e un Islam
    integralista e molti sostengono che il vero Islam è quello moderato. Purtroppo, questa frase non può
    dirla nessuno, perché il vero Islam non c’è, perché la dottrina islamica non prevede un
    insegnamento magisteriale o un’autorità interpretativa del Corano che valga per gli altri musulmani.
    Perciò tutte le interpretazioni, da quella più spirituale a quella più integralista, hanno uguale valore.
    Lo stesso problema si presenta nel protestantesimo (il libero esame della Sacra Scrittura).
    Naturalmente questo comporta una frammentazione enorme: quot capita, tot sententiae. Mentre la
    Chiesa Cattolica in duemila anni si è mantenuta unita, i Protestanti in meno di cinquecento anni di
    vita, si sono divisi in più di tremila denominazioni.
    Il magistero è un compito di carità, non di costrizione: correggere chi sbaglia è una delle opere di
    misericordia spirituale, e il magistero, oltre all’aspetto positivo di approfondimento e di custodia, ha
    anche quello di correzione che mantiene la Chiesa unita.

    Le forme di esercizio del magistero nella Chiesa Cattolica *
    Con l’ordinazione sacramentale, i vescovi della Chiesa cattolica ricevono la pienezza del ministero
    sacerdotale, che la teologia articola in munus docendi, regendi et sanctificandi (potere/ministero di
    insegnare, di governare e di santificare
    ). Il magistero nella Chiesa cattolica è l’espressione
    dell’esercizio da parte del collegio episcopale – il quale sussiste sempre cum Petro ed sub Petro –
    dell’autorità di insegnamento dottrinale in materia della fede e dei costumi rivelati, nonché di
    quanto è intimamente connesso alla rivelazione.

    In concreto, il magistero viene esercitato in modi distinti e quindi anche con una gradazione
    nell’impegno dell’autorità magisteriale. È nostro compito qui offrire una descrizione molto sintetica
    di queste distinte forme di esercizio del magistero ecclesiale.
    Due modalità fondamentali di magistero, un solo soggetto magisteriale
    Una prima distinzione utile è quella tra un esercizio «solenne o straordinario» del magistero e
    l’esercizio «non solenne o ordinario». Mediante la prima espressione, si fa riferimento a decisioni e
    dottrine particolarmente importanti, insegnate in forma definitiva; mentre con la seconda, si allude
    all’esercizio continuativo del munus docendi, senza che gli insegnamenti proposti implichino di per
    sé l’infallibilità e la definitività.
    Per procedere con ordine, dobbiamo ricordare innanzitutto che nella Chiesa cattolica vi è un solo
    soggetto di magistero, vale a dire il collegio dei vescovi in unione e sotto il successore di Pietro (cf.

    LG 22). Quest’unico soggetto può agire tuttavia in due modi distinti: o con una decisione
    manifestamente collegiale, oppure nella persona del capo del collegio episcopale, il Papa, che nel
    5
    pronunciarsi a livello magisteriale racchiude in sé anche l’intero collegio dei vescovi. In ogni caso,
    dunque, è sempre l’unico soggetto ad insegnare nella Chiesa, ma secondo una duplice modalità.
    Questa annotazione consente ora più agevolmente di ordinare le distinte forme di magistero
    all’interno della distinzione già proposta tra magistero «straordinario/solenne» e «ordinario/non
    solenne».
    Le distinte forme di magistero
    Nel magistero straordinario rientrano quegli insegnamenti che vengono proposti dall’autorità
    ecclesiastica come infallibili e quindi definitivi. Nel caso essi siano pronunciati dal solo capo del
    collegio, si tratta degli insegnamenti ex cathedra del Pontefice romano, ai quali il concilio Vaticano
    I riconosce l’infallibilità (cf. DS 3074). Nel caso in cui un insegnamento definitivo sia offerto
    dall’intero collegio, vi sono due tipi di insegnamento infallibile: quello proposto attraverso una
    definizione dogmatica di un concilio ecumenico; e quello che è contenuto nel cosiddetto «magistero
    ordinario universale»,
    sul quale torneremo.
    Se volgiamo ora lo sguardo al magistero ordinario, vedremo che in questa categoria rientrano le
    seguenti forme di esercizio del munus docendi: per quanto riguarda il Papa, si tratta qui del suo
    magistero ordinario, espresso in vari modi e con distinte gradazioni, ma tuttavia non proposto
    infallibilmente (non ex cathedra)1. Circa i vescovi, rientra nel loro magistero ordinario – che essi
    possono esercitare solo in comunione gerarchica col capo del collegio – sia un insegnamento
    promulgato in concilio ecumenico, ma non definito dogmaticamente, sia tutti gli insegnamenti che i
    vescovi impartiscono come singoli nelle proprie diocesi, o attraverso varie forme aggregative, nel
    loro quotidiano esercizio di magistero pastorale.
    Sarà utile a questo punto ricapitolare il tutto con un semplice schema:
    1.Magistero «straordinario/solenne»
    a. Definizioni dogmatiche del Papa ex cathedra
    b. Definizioni dogmatiche di concili ecumenici
    c. Magistero ordinario universale
    2. Magistero «ordinario/non solenne»
    a. Insegnamenti del Papa non proposti in maniera definitiva
    b. Insegnamenti dei concili ecumenici non proposti in maniera definitiva
    c. Insegnamenti ordinari dei vescovi
    Nello schema proposto si noterà un’inconsistenza, che finora abbiamo lasciato volutamente passare:
    nella serie di insegnamenti «straordinari/solenni» figura anche il «magistero ordinario universale»,
    il quale di certo non è straordinario, perché si chiama ordinario; e nemmeno è solenne, perché non
    viene di norma solennizzato in alcun modo (ad es. con una definizione dogmatica solenne). Cos’è il
    magistero ordinario universale? In questa categoria rientra ogni insegnamento costante di tutti i
    vescovi in comunione gerarchica col Papa, senza tuttavia che sia mai intervenuta una proclamazione
    solenne.
    Si tratta di insegnamenti, si potrebbe dire, attinenti a verità che la chiesa sempre e
    dovunque ha proposto a credere, anche se essi non sono mai stati formalmente definiti come dogmi.
    Nonostante ciò, si ritiene che queste dottrine vengano proposte infallibilmente da parte del
    magistero della Chiesa (cf. DS 2879; LG 25). Per questo, il magistero ordinario universale rientra
    nel gruppo delle forme di esercizio straordinarie, ovvero di quelle che fissano la dottrina in maniera
    incontrovertibile.
    Di qui, la nostra proposta: più che utilizzare le dizioni –seppur classiche e che
    perciò abbiamo mantenuto sin qui – di «magistero straordinario/solenne», e di «magistero
    1 Da questi insegnamenti ordinari del Papa vanno accuratamente distinti i suoi scritti personali, che non rientrano
    nell’esercizio del suo magistero. Per alcune riflessioni essenziali su questo punto, si può vedere: M. Gagliardi, «Il
    magistero può esprimersi in versi? Poesie del Papa ed epistemologia teologica», Vita Pastorale 4 (2003), pp. 80-83.
    6
    ordinario/non solenne», sarebbe preferibile distinguere in «magistero infallibile» e «magistero non
    infallibile». Questo accorgimento eliminerebbe ogni possibilità di confusione. È chiaro anche che
    simile categorizzazione non dovrebbe divenire occasione di strumentalizzazioni.
    Piste di approfondimento
    Attiriamo ora l’attenzione su alcuni punti particolari, non essendo qui possibile un approfondimento
    adeguato delle varie forme di esercizio del munus docendi.
    1. Per quanto riguarda il magistero infallibile ex cathedra del Sommo Pontefice, rientrano in questa
    categoria solo alcuni insegnamenti del Papa, che di norma non ricorre a questa forma
    particolarmente impegnativa della sua autorità magisteriale. Il concilio Vaticano I ha definito come
    dogma di fede che il Papa, quando insegna in questo modo, gode «di quella infallibilità di cui il
    divino Redentore ha voluto che fosse dotata la sua chiesa» (DS 3074). Perché vi sia effettivamente
    una definizione ex cathedra, sono necessarie alcune condizioni, ovvero: a) che il Papa parli a tutta la
    Chiesa, in qualità di pastore e dottore supremo di tutti i fedeli, con lo scopo di confermarli nella
    fede; b) che il Papa voglia impegnare tutta la sua autorità magisteriale; c) che manifesti, con un atto
    chiaro ed evidente, la sua volontà di insegnare la dottrina in modo definitivo; d) che la dottrina
    insegnata riguardi la materia di fede e di costumi. L’assenza anche di uno solo di questi requisiti
    impedisce di ritenere ex cathedra un dato insegnamento pontificio.
    2. Riguardo al magistero infallibile espresso in definizioni dogmatiche di concili ecumenici, bisogna
    annotare che, anche in questo caso, non solo deve essere manifesto il carattere di insegnamento
    definitivo, ma bisogna anche rilevare il carattere di ecumenicità del concilio stesso, affinché la
    definizione dottrinale sia valida. Qual è il criterio di ecumenicità di un concilio? La normativa
    vigente (cf. LG 22), prevede che i concili sono ecumenici quando vengono convocati, presieduti e
    confermati dal Sommo Pontefice. Tuttavia nella storia della Chiesa antica incontriamo numerose
    definizioni dogmatiche prodotte in concili non convocati né presieduti dal Papa. Pertanto, il criterio
    ultimo di discernimento della ecumenicità di un concilio risiede nel fatto che esso sia stato almeno
    confermato o accettato da un romano Pontefice. La stessa LG 22 afferma: «Concilium
    Oecumenicum numquam datur, quod a Successore Petri non sit ut tale confirmatum vel saltem
    receptum».
    Solo tale riconoscimento, infatti, manifesta la comunione gerarchica dei vescovi
    presenti ad un concilio con il capo del collegio, comunione senza la quale nessun insegnamento
    episcopale può essere ritenuto valido e tantomeno infallibile.
    3. Un caso più difficile è costituito dal magistero ordinario universale. Questo magistero è infallibile
    quando vi sia una convergenza esplicita su una dottrina che il collegio episcopale ritiene definitiva.
    Nella lettera Tuas libenter (21 dicembre 1863), Pio IX insegnava che l’atto di fede divina non deve
    essere limitato da parte del credente solo a quanto è stato esplicitamente definito dal Papa o dai
    concili ecumenici, ma deve essere effettuato «anche a quelle cose che per mezzo del magistero
    ordinario di tutta la Chiesa diffusa sulla terra, sono trasmesse come divinamente rivelate e quindi,
    per universale e costante consenso, sono considerate dai teologi cattolici come appartenenti alla
    fede» (DS 2879). Anche il concilio Vaticano II (cf. LG 25) ha fatto riferimento a questa forma di
    magistero.
    Un esempio recente di richiamo a questo tipo di magistero lo incontriamo nella Lettera
    apostolica Ordinatio sacerdotalis (22 maggio 1994) di Giovanni Paolo II, in cui il Papa affermava
    che «la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini» è «conservata
    dalla costante e universale tradizione della Chiesa» e dichiarava perciò che «la Chiesa non ha in
    alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve
    essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (EV/14, nn. 1347-1348)2. Il punto
    difficile sta nel reperire effettivamente il consenso del collegio episcopale e dei teologi su una
    2 Una successiva «Risposta» della Congregazione per la Dottrina della Fede (28 ottobre 1995: EV/14, n. 3271; si veda
    anche l’annesso commento: nn. 3274-3282) ha chiarito che questo insegnamento di Giovanni Paolo II rientra
    esattamente nella categoria del «magistero ordinario universale», per cui qui il Papa non ha fatto altro che prendere atto
    di ciò che da sempre fa parte della fede della Chiesa e lo ha riproposto con la sua autorità magisteriale ai nostri giorni.
    7
    dottrina di magistero ordinario universale. Per questo, riteniamo che di fatto solo il Papa sia nella
    posizione ed abbia l’autorità per poter effettivamente rilevare e dichiarare l’esistenza di simile
    convergenza magisteriale, convergenza operata dallo Spirito di verità, il quale non permette che la
    totalità dei fedeli (universitas fidelium) possa sbagliarsi nel credere (cf. LG 12).

    4. Infine, circa le varie forme di magistero non infallibile: di certo questi insegnamenti non vengono
    proposti come definitivi e sono pertanto perfezionabili. Tuttavia, bisogna partire dal presupposto
    (praesumptio) che di norma anche il magistero ordinario o non infallibile non sbagli nel guidare i
    fedeli alla conoscenza della verità. Sarebbe errato ritenere che l’azione ispiratrice dello Spirito
    Santo si verifichi solo in occasione di insegnamenti infallibili: ciò farebbe di tutte le altre forme di
    esercizio magisteriale un’iniziativa puramente umana
    . D’altro canto, l’indispensabile distinzione tra
    un magistero infallibile e uno non infallibile non dovrebbe essere strumentalizzata per fungere da
    fondamento per il dissenso teologico nei confronti dei pronunciamenti non infallibili dei pastori
    della Chiesa, insegnamenti che, d’altro canto, rappresentano la parte materialmente più ampia della
    dottrina ecclesiale.
    Il teologo può dare un notevole contributo alla vita ecclesiale anche facendo
    notare i margini di miglioramento di aspetti particolari del magistero autentico dei pastori, tuttavia
    tale collaborazione deve essere vissuta sempre in spirito ecclesiale e non in un dilacerante spirito di
    contestazione e di rivalsa3.
    Conclusione
    La differenziazione degli interventi magisteriali è indice della ricchezza e pluriformità che lo Spirito
    di Cristo suscita in tutti gli ambiti della Chiesa. D’altra parte, indica anche che la Chiesa cattolica,
    finché vive in questa terra, ne condivide anche la condizione di storicità pellegrinante. Infine,
    l’esistenza di diverse forme di esercizio del magistero, nonché la tendenza da parte dei pastori a
    utilizzare di rado le sue forme infallibili, denuncia come infondate le accuse di chi ritiene il
    magistero della Chiesa un negativo esempio di autoritarismo. Esso è, al contrario, esercizio di una
    vera autorità donata da Cristo a coloro che hanno la responsabilità di «ascoltare piamente, custodire
    fedelmente ed esporre santamente» (DV 10) il deposito della fede, per favorire la salvezza dei
    credenti e di tutti gli uomini di buona volontà.
    * Tratto dal numero di marzo-aprile 2007 di “Sacerdos”
    3 Su questo aspetto consigliamo la lettura del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum
    veritatis. Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990: EV/12, nn. 244-305. Si veda pure: Paolo
    VI, Paterna cum benevolentia, 8 dicembre 1974: EV/5, nn. 815-848.
    [Modificato da LiviaGloria 13/06/2010 17:44]
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    Il Papa
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    CAPITOLO II : UN CONCILIO DA RISCOPRIRE

    Due errori contrapposti

    Entrando nel vivo, il nostro discorso non poteva cominciare se non dall'evento straordinario il Concilio Ecumenico Vaticano II - del quale nel 1985 si celebrano i vent'anni dalla chiusura. Vent'anni che hanno cambiato la Chiesa cattolica ben più che due secoli.

    Sull'importanza, la ricchezza, l'opportunità, l'imprescindibilità dei grandi documenti del Vaticano II nessuno che sia e voglia restare cattolico nutre né può nutrire - dubbi di sorta. A cominciare, naturalmente, dal Cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ricordarlo sembra più ridicolo che superfluo: succede invece che in alcuni commenti sconcertanti al preannuncio dei contenuti di quest'intervista, qualcuno sia sembrato avanzare dubbi in proposito.

    Eppure, non solo erano ben chiare le parole che riportavamo del card. Ratzinger a ferma difesa del Vaticano II e delle sue decisioni; ma quelle parole erano state da lui più e più volte ribadite in ogni sede.

    Tra gli innumerevoli esempi possibili, c'è un suo intervento in occasione dei dieci anni dalla chiusura del Concilio, nel 1975. A Bressanone gli ho riletto le parole di quell'intervento, sentendolo confermare che vi si riconosce ancora interamente.

    Scriveva dunque già dieci anni prima del nostro colloquio: "il Vaticano II sta oggi sotto una luce crepuscolare. Dalla cosiddetta ala "progressista", è ritenuto da tempo completamente superato e di conseguenza come un fatto del passato non più rilevante per il presente. Dalla parte opposta dall'ala "conservatrice", è ritenuto responsabile dell'attuale decadenza della Chiesa cattolica e persino giudicato apostasia rispetto al Concilio di Trento e al Vaticano I: tanto che qualcuno si è spinto al punto di chiederne un annullamento o una revisione che equivalga a un annullamento".

    Continuava: "Nei confronti di entrambe le posizioni contrapposte, va precisato innanzitutto che il Vaticano II è sorretto dalla stessa autorità del Vaticano I e del Tridentino: e cioè, il Papa e il collegio dei vescovi in comunione con lui. Dal punto di vista dei contenuti va poi ricordato che il Vaticano II si pone in stretta continuità con . i due Concili precedenti e li riprende letteralmente in punti decisivi".

    Da qui, Ratzinger derivava due conseguenze: "Primo: è impossibile per un cattolico prendere posizione in favore del Vaticano II e contro Trento o il Vaticano I.

    Chi accetta il Vaticano II, così come si è chiaramente espresso nella lettera e così come ha chiaramente inteso nello spirito, afferma al tempo stesso l'ininterrotta tradizione della Chiesa, in particolare anche i due Concili precedenti. E ciò valga per il cosiddetto "progressismo" almeno nelle sue forme estreme. Secondo: Allo stesso modo è impossibile decidersi a favore di Trento e del Vaticano I e contro il Vaticano II. Chi nega il Vaticano II nega l'autorità che regge gli altri due Concili e così li stacca dal loro fondamento. E ciò valga per il cosiddetto "tradizionalismo", anch'esso nelle sue forme estreme. Davanti al Vaticano II, ogni scelta di parte distrugge un tutto, la storia stessa della Chiesa, che può esistere solo come unità indivisibile".


    "Riscopriamo il Vaticano II vero"

    Non è dunque il Vaticano II e i suoi documenti (è appena il caso di ricordarlo) che fanno problema. Semmai, per molti - e Joseph Ratzinger è tra questi, non da ieri - il problema è costituito da molte interpretazioni di quei documenti che avrebbero condotto a certi frutti dell'epoca postconciliare.

    Da parecchio tempo, il giudizio di Ratzinger su questo periodo è netto: "è incontestabile che gli ultimi vent'anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di papa Giovanni XXIII e poi di Paolo VI. I cristiani sono di nuovo minoranza, più di quanto lo siano mai stati dalla fine dell'antichità".

    Spiega così il suo giudizio severo, che ci è stato ripetuto durante il colloquio: "I Papi e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che - per usare le parole di Paolo VI - è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione. Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto "spirito del Concilio" e in tal modo lo ha screditato".

    Dunque, già dieci anni fa concludeva: "Va affermato a chiare lettere che una reale riforma della Chiesa presuppone un inequivocabile abbandono delle vie sbagliate che hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative".

    Ha scritto una volta: "Il card. Julius Dópfner diceva che la Chiesa del dopo Concilio è un grande cantiere. Ma uno spirito critico ha aggiunto che è un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto. Il risultato è evidente".

    È però costante in lui la preoccupazione di ripetere con altrettanta chiarezza che "nelle sue espressioni ufficiali, nei suoi documenti autentici, il Vaticano II non può essere ritenuto responsabile di questa evoluzione che - al contrario - contraddice radicalmente sia la lettera che lo spirito dei Padri conciliari".

    Dice: "Sono convinto che i guasti cui siamo andati incontro in questi venti anni non siano dovuti al Concilio "vero" ma allo scatenarsi, all'interno della Chiesa, di forze latenti aggressive, centrifughe, magari irresponsabili oppure semplicemente ingenue, di facile ottimismo, di un'enfasi sulla modernità che ha scambiato il progresso tecnico odierno con un progresso autentico, integrale. E, all'esterno, all'impatto con una rivoluzione culturale: l'affermazione in Occidente del ceto medio-superiore, della nuova" "borghesia del terziario" con la sua ideologia liberal-radicale di stampo individualistico, razionalistico, edonistico".

    Dunque, la sua parola d'ordine, l'esortazione a tutti i cattolici che vogliano rimanere tali, non è certo un "tornare indietro"; bensì: "tornare ai testi autentici del Vaticano II autentico".

    Per lui, mi ripete, "difendere oggi la Tradizione vera della Chiesa significa difendere il Concilio. È anche colpa nostra se abbiamo dato talvolta il pretesto (sia alla "destra" che alla "sinistra") di pensare che il Vaticano II sia stato uno "strappo", una frattura, un abbandono della Tradizione. C'è invece una continuità che non permette né ritorni all'indietro né fughe in avanti; né nostalgie anacronistiche né impazienze ingiustificate. È all'oggi della Chiesa che dobbiamo restare fedeli, non allo ieri o al domani: e questo oggi della Chiesa sono i documenti del Vaticano II nella loro autenticità. Senza riserve che li amputino. E senza arbitrii che li sfigurino".

    Una ricetta contro l'anacronismo

    Critico a "sinistra", Ratzinger si mostra inequivocabilmente severo anche a "destra", verso quel tradizionalismo che è simboleggiato per lo più dal vecchio vescovo Marcel Lefebvre. Mi ha detto al proposito: "Non vedo alcun futuro per una posizione che si ostina in un rifiuto di principio del Vaticano II. Infatti essa è in se stessa illogica. Punto di partenza di questa tendenza è infatti la più rigida fedeltà all'insegnamento, in particolare di Pio IX e di Pio X e, ancor più a fondo, del Vaticano I e la sua definizione del primato del Papa. Ma perché i Papi sino a Pio XII e non oltre? Forse che l'obbedienza alla Santa Sede è divisibile secondo le annate o secondo la consonanza di un insegnamento alle proprie convinzioni già stabilite?".

    Resta però il fatto, osservo, che se da Roma si è intervenuti "a sinistra", non si è sinora intervenuti "a destra" con lo stesso vigore.

    Dice, per rispondere: "I seguaci di mons. Lefebvre affermano il contrario. Essi sostengono che, mentre si è intervenuti subito, con la pena severa della sospensione, nei confronti di un benemerito arcivescovo a riposo, si tollera in maniera incomprensibile ogni forma di deviazione dalla parte opposta. Non voglio qui impelagarmi in una polemica sulla maggiore o minore severità verso l'una o l'altra tendenza. Del resto i due tipi di opposizione presentano caratteristiche molto differenti. Le deviazioni "a sinistra" rappresentano senza dubbio una vasta corrente del pensiero e dell'iniziativa contemporanea nella Chiesa, tuttavia quasi da nessuna parte hanno trovato una forma comune giuridicamente definibile. Al contrario, il movimento dell'arcivescovo Lefebvre è probabilmente molto meno ampio dal punto di vista numerico, tuttavia è dotato di un ordinamento giuridico ben definito, di seminari, di istituzioni religiose, ecc. È chiaro che si deve fare tutto il possibile perché questo movimento non dia origine a uno scisma in senso proprio, che si avrebbe qualora mons. Lefebvre decidesse di consacrare un vescovo. Grazie a Dio finora egli non ha fatto ciò, nella speranza di una riconciliazione. Oggi, nell'ambito ecumenico, si deplora che nel passato non si sia fatto di più per impedire le divisioni via via emergenti attraverso una maggiore disponibilità alla riconciliazione e una comprensione per i diversi gruppi. Ebbene, ciò dovrebbe valere come massima di comportamento anche per noi nel tempo presente. Dobbiamo impegnarci per la riconciliazione, fin tanto che e per quanto essa è possibile, e usare tutte le opportunità concesseci a questo scopo".

    Ma Lefebvre, obietto, ha ordinato e continua a ordinare dei sacerdoti.

    "Per il diritto della Chiesa sono ordinazioni illecite ma non invalide. C'è da considerare anche l'aspetto umano di questi giovani che, per la Chiesa, sono preti "veri" anche se in una situazione irregolare. Il punto di partenza e l'orientamento dei singoli sono certamente differenziati. Alcuni sono stati fortemente, influenzati dalla loro situazione di famiglia e hanno accettato la decisione di questa. In altri giocano un certo ruolo delusioni nei confronti della Chiesa attuale, delusioni che li hanno spinti all'amarezza e alla negazione. Altri ancora desidererebbero collaborare pienamente alla normale attività pastorale della Chiesa, e tuttavia nella loro scelta si sono lasciati determinare dalla insoddisfacente situazione che si è venuta a creare nei seminari di alcuni paesi. Quindi: così come si trovano taluni che in qualche modo hanno subìto la divisione, vi sono anche molti che sperano nella riconciliazione e solo in tale speranza rimangono nella comunità sacerdotale di mons. Lefebvre".

    La sua ricetta per "smontare" il caso Lefebvre e altre resistenze anacronistiche sembra riecheggiare quella degli ultimi Papi, da Paolo VI a oggi: "Simili situazioni così assurde hanno potuto reggere sino ad ora proprio nutrendosi dell'arbitrarietà e dell'imprudenza di certe interpretazioni postconciliari di segno opposto. E un ulteriore impegno a mostrare il volto vero del Concilio: così si potranno troncare queste proteste false".

    Spirito e anti-spirito

    Ma, dico, quanto al Concilio "vero", i pareri sono discordi: a parte casi di quel "neo-trionfalismo" irresponsabile cui accennava e che si rifiuta di guardare la realtà, si è in generale d'accordo che la situazione attuale della Chiesa sia di difficoltà. Ma le opinioni si dividono sia per la diagnosi che per la terapia. La diagnosi di alcuni è che gli aspetti della difficoltà, se non della crisi, non sono che benefiche febbri di un periodo di crescita; per altri sono invece sintomi di una malattia grave. Quanto alla terapia, gli uni chiedono una maggiore applicazione del Vaticano II, anche al di là dei testi; gli altri una dose minore di riforme e cambiamenti. Come scegliere? A chi dare ragione?

    Risponde: "Come chiarirò ampiamente, la mia diagnosi è che si tratti di un'autentica crisi che va curata e guarita. Così, confermo che per questa guarigione il Vaticano II è una realtà da accettare in pieno. A condizione però che non sia considerato come un punto di partenza dal quale allontanarsi correndo, bensì come una base sulla quale saldamente costruire. Oggi, poi, stiamo scoprendo la sua funzione profetica: alcuni testi del Vaticano II al momento della loro proclamazione sembravano davvero in anticipo sui tempi che allora si vivevano. Sono venute poi rivoluzioni culturali e terremoti sociali che i Padri non potevano assolutamente prevedere ma che hanno mostrato come quelle loro risposte - allora anticipate - erano quelle che ci volevano in seguito. Ecco dunque che ritornare ai documenti è di particolare attualità: ci danno strumenti giusti per affrontare i problemi d'oggi. Siamo chiamati a ricostruire la Chiesa non malgrado, ma grazie al Concilio vero".

    A questo Concilio "vero" , stando ancora alla sua diagnosi, "già durante le sedute e poi via via sempre di più nel periodo successivo si contrappose un sedicente "spirito del Concilio" che in realtà ne è un vero "anti-spirito". Secondo questo pernicioso anti-spirito - Konzils-Ungeist per dirlo in tedesco - tutto ciò che è "nuovo" (o presunto tale: quante antiche eresie sono riapparse in questi anni, presentate come novità!) sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c'è stato o c'è. E l'anti-spirito secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da far cominciare dal Vaticano II, visto come una specie di punto zero".

    "Non rottura ma continuità"

    Su questo mi conferma che vuol essere ben preciso: "Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Non c'è una Chiesa "pre" o "post", conciliare: c'è una sola e unica Chiesa che cammina verso il Signore, approfondendo sempre di più e capendo sempre meglio il bagaglio di fede che Egli stesso le ha affidato. In questa storia non ci sono salti, non ci sono fratture, non c'è soluzione di continuità. Il Concilio non intendeva affatto introdurre una divisione del tempo della Chiesa". Continuando nella sua analisi, ricorda che "l'intenzione del Papa che prese l'iniziativa del Vaticano II, Giovanni XXIII, e di quello che lo continuò fedelmente, Paolo VI, non era affatto di mettere in discussione un depositum fidei che, anzi, entrambi davano per indiscusso, ormai messo al sicuro".

    Vuol forse, come alcuni fanno, sottolineare l'intenzione soprattutto pastorale più che dottrinale del Vaticano II?

    "Voglio dire che il Vaticano II non voleva di certo "cambiare" la fede, ma ripresentarla in modo efficace. Voglio dire inoltre che il dialogo con il mondo è possibile solo sulla base di una identità chiara: che ci si può, ci si deve "aprire", ma solo quando si è acquisita la propria identità e si ha quindi qualcosa da dire. L'identità ferma è condizione dell'apertura. Così intendevano i Papi e i Padri conciliari, alcuni dei quali certamente indulsero a un ottimismo che noi, a partire dalla nostra prospettiva attuale, giudicheremmo come poco critico e poco realistico. Ma se hanno pensato di potersi aprire con fiducia a quanto c'è di positivo nel mondo moderno, è proprio perché erano sicuri della loro identità, della loro fede. Mentre da parte di molti cattolici c'è stato in questi anni uno spalancarsi senza filtri e freni al mondo, cioè alla mentalità moderna dominante, mettendo nello stesso tempo in discussione le basi stesse del depositum fidei che per molti non erano più chiare".

    Continua: "Il Vaticano II aveva ragione di auspicare una revisione dei rapporti tra Chiesa e mondo. Ci sono infatti dei valori che, anche se nati fuori della Chiesa, possono trovare il loro posto - purché vagliati e corretti - nella sua visione. In questi anni si è adempiuto a questo compito. Ma mostrerebbe di non conoscere né la Chiesa né il mondo chi pensasse che queste due realtà possono incontrarsi senza conflitto o addirittura identificarsi".

    Sta forse proponendo di ritornare alla vecchia spiritualità di "opposizione al mondo"?

    "Non sono i cristiani che si oppongono al mondo. È il mondo che si oppone a loro quando è proclamata la verità su Dio, su Cristo, sull'uomo. Il mondo si rivolta quando il peccato e la grazia sono chiamati con il loro nome. Dopo la fase delle "aperture" indiscriminate, è tempo che il cristiano ritrovi la consapevolezza di appartenere a una minoranza e di essere spesso in contrasto con ciò che è ovvio, logico, naturale per quello che il Nuovo Testamento chiama - e non certo in senso positivo - "lo spirito mondano". E' tempo di ritrovare il coraggio dell'anticonformismo, la capacità di opporsi, di denunciare molte delle tendenze della cultura circostante, rinunciando a certa euforica solidarietà postconciliare".

    Restaurazione?

    A questo punto - anche qui, come durante tutto il colloquio, il registratore frusciava nel silenzio della stanza sul giardino del seminario - ho posto al card. Ratzinger la domanda la cui risposta ha suscitato reazioni vivacissime nel mondo intero. Reazioni dovute anche ai modi incompleti con cui è stata spesso riferita e al contenuto emotivo della parola in gioco ("restaurazione") che rinvia a epoche storiche certamente non ripetibili né - a nostro avviso, almeno - neppure auspicabili.

    Ho chiesto dunque al Prefetto della Fede: ma allora, riguardando quanto lei dice, sembrerebbero non avere torto coloro che affermano che la gerarchia della Chiesa intenderebbe chiudere la prima fase del dopo Concilio; e che (seppure ritornando non certo al pre-Concilio ma ai documenti "autentici" del Vaticano II) la stessa gerarchia intenderebbe procedere a una sorta di "restaurazione".

    Ecco la risposta testuale del Cardinale: "Se per restaurazione, si intende un tornare indietro, allora nessuna restaurazione è possibile. La Chiesa va avanti verso il compimento della storia, guarda innanzi al Signore che viene. No: indietro non si torna né si può tornare. Nessuna "restaurazione", dunque, in questo senso. Ma se per "restaurazione" intendiamo la ricerca di un nuovo equilibrio (die Suche auf ein neues Gleichgewicht) dopo le esagerazioni di un'apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo; ebbene, allora una "restaurazione" intesa in questo senso (un rinnovato equilibrio, cioè, degli orientamenti e dei valori all'interno della totalità cattolica) è del tutto auspicabile ed è del resto già in atto nella Chiesa. In questo senso si può dire che è chiusa la prima fase dopo il Vaticano II" (1).

    Effetti imprevisti

    E che per lui, come mi spiega, "la situazione è cambiata, il clima è molto peggiorato rispetto a quello che sorreggeva una euforia i cui frutti stanno davanti a noi, ammonendoci. Il cristiano è tenuto a quel realismo che non è che attenzione completa ai segni del tempo. Per questo escludo che si possa pensare (irrealisticamente) di riprendere la strada come se il Vaticano II non ci fosse mai stato. Molti degli effetti concreti quali li vediamo ora non corrispondono alle intenzioni dei Padri conciliari, ma non possiamo certo dire: "Sarebbe stato meglio che non ci fosse stato". Il card. John Henry Newman, lo storico dei concili, il grande studioso passato dall'anglicanesimo al cattolicesimo, diceva che il concilio è sempre un rischio per la Chiesa, che bisogna dunque convocarlo solo per poche cose e non protrarlo troppo a lungo. È vero che le riforme esigono tempo, pazienza, espongono a dei rischi, ma non è lecito neppure dire: "Non facciamole perché sono pericolose". Credo anzi che il tempo vero del Vaticano II non sia ancora venuto, che la sua ricezione autentica non sia ancora cominciata: i suoi documenti sono stati subito sepolti da un cumulo di pubblicazioni spesso superficiali o francamente inesatte. La rilettura della lettera dei documenti potrà farci riscoprire il loro vero spirito. Se riscoperti così nella loro verità, quei grandi testi potranno permetterci di capire ciò che è successo e di reagire con nuovo vigore. Lo ripeto: il cattolico che con lucidità, e dunque con sofferenza, vede i guasti prodotti nella sua Chiesa dalle deformazioni del Vaticano II, in quello stesso Vaticano II deve trovare la possibilità della ripresa. Il Concilio è suo, non è di coloro che vogliono continuare su una strada i cui esiti sono stati catastrofici; non è di coloro che non a caso non sanno più che farsene del Vaticano II al quale guardano come a un "fossile dell'era clericale"".

    È stato osservato, dico, che il Vaticano II è un unicum anche perché è forse il primo Concilio della storia convocato non sotto la spinta di esigenze pressanti, di crisi, ma in un momento che sembrava di tranquillità per la vita ecclesiale. Le crisi sono venute dopo, e non solo nella Chiesa, ma nella società tutta intera. Non crede si possa dire che la Chiesa avrebbe dovuto fronteggiare in ogni caso quelle rivoluzioni culturali ma che, senza il Concilio, la sua struttura sarebbe stata più rigida e i danni avrebbero potuto essere più gravi? La sua struttura postconciliare più flessibile, elastica, non ha forse potuto meglio assorbire l'impatto, pur pagando uno scotto comunque necessario? "impossibile dirlo - risponde -. La storia, soprattutto la storia della Chiesa, che Dio guida attraverso percorsi misteriosi, non si fa con i "se", dobbiamo accettarla così come essa è. In quell'inizio degli anni Sessanta stava per apparire sulla scena la generazione del dopoguerra, quella che non aveva partecipato direttamente alla ricostruzione, che trovava un mondo già ricostruito e cercava dunque altrove motivi di impegno, di rinnovamento. C'era un'atmosfera generale di ottimismo, di fiducia nel progresso. Tutti poi, nella Chiesa, condividevano l'attesa di un'evoluzione tranquilla della sua dottrina. Non bisogna dimenticare che anche il mio predecessore al S. Uffizio, card. Ottaviani, appoggiava il progetto di un Concilio ecumenico. Dopo l'annuncio della sua convocazione, dato da Papa Giovanni, la Curia romana lavorò insieme ai rappresentanti più stimati dell'episcopato mondiale a preparare quegli schemi che poi furono accantonati dai Padri conciliari come "troppo teorici, manualistici e troppo poco pastorali". Papa Giovanni non aveva messo in conto la possibilità di un rifiuto: si attendeva una votazione rapida e senza difficoltà di questi progetti che egli aveva letti e accolti tutti con favore. È chiaro che nessuno di quei testi voleva cambiare la dottrina; si trattava piuttosto di ripresentarla, al più di giungere a un chiarimento in qualche punto non ancora precisamente definito e in tal modo di svilupparla ulteriormente. Anche il rifiuto di questi testi da parte dei Padri conciliari non riguardava la dottrina come tale, ma piuttosto il modo insufficiente della sua presentazione e certamente anche alcune definizioni che non si erano mai avute fino a quel momento e che anche ora non si ritengono necessarie. Bisogna dunque riconoscere che il Vaticano II sin da subito non prese la piega che Giovanni XXIII prevedeva (si ricordi che Paesi come l'Olanda, la Svizzera, gli Stati Uniti erano vere roccaforti del tradizionalismo e della fedeltà a Roma!). E bisogna anche riconoscere che - almeno sinora - non è stata esaudita la preghiera di Papa Giovanni perché il Concilio significasse per la Chiesa un nuovo balzo in avanti, una vita e un'unità rinnovate".

    La speranza dei "movimenti"

    Ma, chiedo inquieto, la sua immagine negativa della realtà della Chiesa del dopo Concilio non lascia spazio a qualche elemento positivo?

    "Paradossalmente - risponde - è proprio il negativo che può trasformarsi in positivo. Molti cattolici, in questi anni, hanno fatto l'esperienza dell'esodo, hanno vissuto i risultati del conformismo alle ideologie, hanno provato che significhi attendersi dal mondo redenzione, libertà, speranza. Che aspetto avesse una vita senza Dio, un mondo senza Dio, finora lo si era saputo solo in teoria. Ora lo si è constatato nella realtà. È a partire da questo vuoto che noi possiamo nuovamente scoprire la ricchezza della fede, la sua indispensabilità. Per molti, questi anni sono stati come un'ardua purificazione, quasi una via attraverso il fuoco che ha aperto la possibilità nuova di una fede più profonda".

    "Non dimenticando mai - continua - che ogni concilio è prima di tutto una riforma dal vertice che deve poi espandersi alla base. Ogni concilio, cioè, per dare davvero frutto, deve essere seguito da un'ondata di santità. Così è stato dopo Trento che proprio grazie a questo raggiunse il suo scopo di vera riforma. La salvezza per la Chiesa viene dal suo interno, ma non è affatto detto che venga dai decreti della gerarchia. Dipenderà da tutti i cattolici, chiamati a dargli vita, se il Vaticano II e i suoi esiti saranno considerati un periodo luminoso per la storia della Chiesa. Come ha ripetuto di frequente Giovanni ,Paolo II: "La Chiesa di oggi non ha bisogno di nuovi riformatori. La Chiesa ha bisogno di nuovi santi"".

    Non vede dunque, insisto, altri segni positivi oltre a quelli che vengono dal negativo di questo periodo della storia ecclesiale?

    "Certamente ne vedo. Non mi soffermo qui a parlare dello slancio delle giovani chiese (come quella della Corea del Sud) o della vitalità delle chiese perseguitate, perché ciò non può essere ricondotto immediatamente al Vaticano II; così come non possono essere direttamente attribuiti a esso i fenomeni di crisi. Ciò che apre alla speranza a livello di Chiesa universale - e ciò avviene proprio nel cuore della crisi della Chiesa nel mondo occidentale - è il sorgere di nuovi movimenti, che nessuno ha progettato, ma che sono scaturiti spontaneamente dalla vitalità interiore della fede stessa. Si manifesta in essi - per quanto sommessamente - qualcosa come una stagione di pentecoste nella Chiesa".

    A che pensa in particolare?

    "Mi riferise o al Movimento carismatico, ai Cursillos, al Movimento dei Focolari, alle Comunità neocatecumenali, a Comunione e Liberazione, ecc. Certamente tutti questi movimenti sollevano anche qualche problema; comportano anche, in misura maggiore o minore, dei pericoli. Ma questo accade per ogni realtà vitale. In numero crescente, mi capita ora di incontrare gruppi di giovani, nei quali c'è una cordiale adesione a tutta la fede della Chiesa. Giovani che vogliono vivere pienamente questa fede e che portano in loro un grande slancio missionario. Tutta l'intensa vita di fede presente in questi movimenti non implica una fuga nell'intimismo o un riflusso nel privato, ma semplicemente una piena e integrale cattolicità. La gioia della fede che vi si sperimenta ha in sé qualcosa di contagioso. E qui crescono ora in maniera spontanea nuove vocazioni al sacerdozio ministeriale e alla vita religiosa".

    Nessuno ignora però che tra i problemi suscitati da questi nuovi movimenti c'è anche il loro inserimento nella pastorale generale. La sua risposta è pronta: "Ciò che stupisce è che tutto questo fervore non è stato elaborato da alcun ufficio di programmazione pastorale, ma è apparso in qualche modo da solo. Questo dato di fatto ha come conseguenza che gli uffici di programmazione - proprio quando vogliono essere molto "progressisti" - non sanno che cosa fare con loro: essi non rientrano nel loro piano. Così, mentre sorgono tensioni nell'inserimento dei movimenti all'interno delle istituzioni attuali, non vi è assolutamente nessuna tensione con la Chiesa gerarchica come tale".

    Un giudizio il suo, dunque, pieno di simpatia. Il cardinale lo conferma: "Emerge qui una nuova generazione della Chiesa, a cui guardo con grande speranza. Trovo meraviglioso che lo Spirito sia ancora una volta più forte dei nostri programmi e valorizzi ben altro da ciò che noi ci eravamo immaginati.

    In questo senso il rinnovamento è sommessamente ma efficacemente in cammino. Vecchie forme, che si erano arenate nell'auto-contraddizione e nel gusto della negazione, escono di scena e il nuovo sta già facendosi strada. Naturalmente esso non ha ancora piena voce nel grande dibattito delle idee dominanti. Cresce nel silenzio. Il nostro compito - in quanto incaricati di un ministero nella Chiesa e in quanto teologi - è quello di tenergli aperte le porte di preparargli lo spazio. Infatti le tendenze, che attualmente sono ancora prevalenti, si muovono in tutt'altra direzione. Se si guarda proprio a questa "situazione meteorologica generale" dello Spirito, si deve parlare, come facevamo prima, di una crisi della fede e della Chiesa. Solo se noi ci poniamo davanti ad essa senza pregiudizi, potremo anche superarla".



    (1) In molti commenti giornalistici a questa risposta, il termine "restaurazione" non è stato colto con tutte le precisazioni necessarie qui riportate. Pertanto, interpellato da un giornale, il card. Ratzinger dichiarava con una lettera quanto segue:

    "Innanzitutto voglio semplicemente ricordare quel che ho detto veramente: non si dà nessun ritorno al passato, una restaurazione così intesa non solo è impossibile, ma non è neppure auspicabile. La Chiesa va avanti verso il compimento della storia, guarda innanzi al Signore che viene. Se però il termine "restaurazione" si intende secondo il suo contenuto semantico, vale a dire come recupero di valori perduti all'interno di una nuova totalità, allora direi che è proprio questo il compito che si impone oggi, nel secondo periodo del post-concilio. Tuttavia la parola "restaurazione" per noi uomini contemporanei è determinata linguisticamente in modo tale che risulta difficile attribuirle questo significato. Essa in realtà vuol letteralmente dire la stessa cosa della parola "riforma", termine quest'ultimo che per noi suona dei tutto diverso.

    "Forse posso chiarire la cosa con un esempio tratto dalla storia. Per me Carlo Borromeo è l'espressione classica di una vera riforma, cioè di un rinnovamento che conduce in avanti proprio perché insegna a vivere in modo nuovo i valori permanenti, tenendo presente la totalità del fatto cristiano e la totalità dell'uomo. Si può certo dire che Carlo ha ricostruito ("restaurato") la Chiesa cattolica, la quale anche dalle parti di Milano era ormai pressoché distrutta, senza per questo esser ritornato al medioevo; al contrario egli ha creato una forma moderna di Chiesa. Quanto poco "restauratrice" fosse una tale "riforma" lo si vede ad esempio dal fatto che Carlo soppresse un ordine religioso ormai al tramonto ed assegnò i suoi beni a nuove comunità vive. Chi oggi possiede un coraggio simile, da dichiarare definitivamente appartenente al passato ciò che è interiormente morto (e continua a vivere solo esteriormente) e da affidarlo con chiarezza alle energie del tempo nuovo? Spesso nuovi fenomeni di risveglio cristiano vengono osteggiati proprio da parte di sedicenti riformatori, i quali a loro volta difendono spasmodicamente delle istituzioni che continuano ad esistere ormai solo in contraddizione con se stesse.

    "In Carlo Borromeo si può dunque vedere quel che io ho inteso dire con "riforma" o "restaurazione" nel suo significato originario: vivere protesi verso una totalità, vivere di un "sì" che riconduce all'unità le forze reciprocamente in conflitto dell'esistenza umana; un "sì", che conferisce loro un senso positivo all'interno della totalità. In Carlo si può anche vedere qual è il presupposto essenziale per un simile rinnovamento. Carlo poté convincere altri perché lui stesso era un uomo convinto. Poté resistere con la sua certezza in mezzo alle contraddizioni del suo tempo perché egli stesso le viveva. E le poteva vivere perché era cristiano nel più profondo senso della parola, cioè era totalmente centrato su Cristo. Ristabilire questa integrale relazione a Cristo è quel che veramente conta. Di questa relazione integrale a Cristo non si può convincere nessuno solo argomentando; la si può però vivere e attraverso ciò renderla credibile agli altri, invitare gli altri a condividerla".
    [Modificato da LiviaGloria 13/06/2010 18:14]
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    00 08/06/2010 18:02
    Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione generale 123.a

    È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: « Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute ». In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:

    «Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.

    «Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica».

    Per mandato dell'autorità superiore viene comunicata ai Padri una nota esplicativa previa circa i « modi » concernenti il capo terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota.




    Paolo VI definì, in un discorso del 12 gennaio 1966, il Magistero dell'ultimo Concilio come 'Magistero ordinario supremo'. Ebbene, il Magistero ordinario universale (se non si vorrà riconoscere come tale quello del Concilio si dovrà farlo rispetto al Magistero di tutti i vescovi sparsi per il mondo in unione con il Papa che da quarant'anni ha per oggetto le dottrine del Vaticano II), laddove proponga dottrine fondate sulla divina Rivelazione, è totalmente vincolante. Lo afferma il Concilio Vaticano I:

    "Con fede divina e cattolica deve credersi tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e che è proposto dalla chiesa come divinamente rivelato sia con giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario universale".

    Dunque, come accade ad es. per la dottrina riguardante la libertà religiosa contenuta nella dichiarazione Dignitatis Humanae (I, 2), da parte del fedele vi è l'obbligo di credere, di esercitare l'atto di Fede e non solamente l'obbligo di avere per essa profondo rispetto.

    A meno che non si voglia mettere in dubbio anche il concilio vaticanoI....

    Quindi:



    «magistero ordinario universale»,
    il quale di certo non è straordinario, perché si chiama ordinario; e nemmeno è solenne, perché non
    viene di norma solennizzato in alcun modo (ad es. con una definizione dogmatica solenne). Cos’è il
    magistero ordinario universale? In questa categoria rientra ogni insegnamento costante di tutti i
    vescovi in comunione gerarchica col Papa, senza tuttavia che sia mai intervenuta una proclamazione
    solenne. Si tratta di insegnamenti, si potrebbe dire, attinenti a verità che la chiesa sempre e
    dovunque ha proposto a credere, anche se essi non sono mai stati formalmente definiti come dogmi.
    Nonostante ciò, si ritiene che queste dottrine vengano proposte infallibilmente da parte del
    magistero della Chiesa (cf. DS 2879; LG 25). Per questo, il magistero ordinario universale rientra
    nel gruppo delle forme di esercizio straordinarie, ovvero di quelle che fissano la dottrina in maniera
    incontrovertibile.



    2. Il Magistero conciliare va accolto non solo senza riserve, ma come un autentico dono di Dio.
    È Magistero straordinario. La Chiesa in quel momento aveva la consapevolezza di agire in comunione con lo Spirito Santo, nello stesso modo in cui la Chiesa primitiva poteva dire: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” (At 11,28).
    Tutti i documenti del Concilio infatti si concludono così: “ Tutte e singole le cose, stabilite in questo decreto, sono piaciute ai Padri del Sacro Concilio. E Noi, in virtù della Potestà apostolica conferitaCi da Cristo, unitamente ai Venerabili Padri, nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e stabiliamo: e quanto è stato così sinodalmente stabilito, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio”.
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    00 10/06/2010 10:50

    Mettere i PUNTINI sulle "I"


    Premessa:
    S.Pio V abolì tutti i riti che non eran in vigore almeno da 200 anni ,ma Paolo VI non abolì NULLA

    Leggere attentamente


    Pio V non poteva vincolare l’autorità dei suoi successori (che non era inferiore alla sua!), ma solo minacciare scomuniche ecc. a chi violasse le sue disposizioni FINCHé RESTAVANO IN VIGORE. Anche i papi del medioevo e della Controriforma emanavano nuove disposizioni con la formula “nonostante qualsiasi disposizione in contrario dei nostri predecessori”. Se un papa potesse “bloccare” la volontà dei suoi successori non ci sarebbe più il “potere delle chiavi”. Per lo stesso motivo nessun papa può designare il proprio successore. Solo il canone della Scrittura è immodificabile.

    non si tratta di un dogma o di dottrina irreformabile, quindi il Papa non comanda ai suoi successori. Ed era pertanto vano appellarsi alla bolla Quo Primum Tempore per celebrare la messa tridentina prima o a prescindere dall'Ecclesia Dei o del Summorum Pontificum



    "Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa. "


    Tuttavia la bolla di S. Pio V Quo primum non rientra nella fattispecie, poiché codifica una consuetudine immemorabile della chiesa di Roma che durerà ancora per 400 anni fino al messale di Paolo VI.

    Ora il can. 28 del CIC afferma: «...la consuetudine, sia contro sia al di fuori della legge, è revocata per mezzo di una consuetudine o di una legge contraria (è il caso dell'istituzione del nuovo messale); ma, se non se ne fa espressa menzione, la legge non revoca le consuetudini centenarie o immemorabili, né la legge universale revoca le consuetudini particolari».

    Bugnini cercò di ottenere un'esplicita abrogazione del messale tridentino, per stroncare ogni velleità dei tradizionalisti, ma Paolo VI non arrivò mai a tanto, forse un lume dello Spirito lo ispirò.

    Ma, accettato il fatto che una costituzione possa esser annullata da un Papa successivo, resta l’altro fatto che se si può abrogare una Costituzione ed un rito, non si può abolire un USO IMMEMORABILE, salvo farne espressa menzione nell’atto di abrogazione. Le clausole finali di Paolo VI parlano di Costituzioni ed ordinamenti dei nostri predecessori ecc. ma non accennano mai né all’USO precedente l’entrata in vigore del Messale Romano (che era quello in uso nella Curia già prima di S.Pio V) né all’USO dei secoli successivi.
    Ciò perché l’USO di ininterrotta consuetudine, nel Diritto ecclesiastico e nella teologia, ha forza di Legge, essendo una Legge non scritta.

    Pertanto Paolo VI, che non ricorse ai canonisti eccelsi che erano a sua disposizione, a cominciar da Ottaviani, combinò un pasticcio giuridico e non abrogò proprio niente.

    La Commissione Cardinalizia istituita ad hoc da Giov. Paolo II nel 1986 dichiarò che il Messale di S. Pio V mai era stato abrogato e che doveva esser considerato ancora in vigore e doveva aver un posto d’onore perché non lo si poteva considerare come un rito inferiore al nuovo.
    A questo proposito si legga: “Risposte del Cardinale Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei a certi requisiti” del 218 ottobre 2008 (www.ecclesiadei-commissio.org). Il cardinal Castrillon riassume il verbale della Commissione soprattutto soffermandosi sui suggerimenti offerti al papa per la liberalizzazione della messa, che costituiscono la base e l’anima del Motu proprio.
    Il cardinale non riporta esattamente le motivazioni giuridiche per cui il Messale Romano era dichiarato non abrogato (v’è solo l’affermazione), ma riporta un passo molto interessante, lì dove si pronuncia: “… si è ribadita la necessità di assicurare l’evidenza della logica linearità evolutiva dei documenti della Chiesa e della libera opzione tra i due messali e si proposto che essi non possono esse considerati se non l’uno come sviluppo dell’altro giacché LE NORME LITURGICHE, NON ESSENDO DELLE VERE E PROPRIE LEGGI, NON POSSONO ESSERE ABROGATE MA SURROGATE: LE PRECEDENTI NELLE SUCCESSIVE”.

    In sostanza Paolo VI poteva creare un nuovo rito ma non poteva abrogare l’antico che era ed è ancora in vigore ed ha pieno diritto di esistenza e celebrazione.



    Sulla "Quo Primum": è chiaro che Paolo VI NON HA abrogato la suddetta bolla (se l'avesse abrogata, non ci sarebbero stati né l'indulto di Giovanni Paolo II né il motu proprio di Benedetto XVI).
    Ma è altrettanto chiaro che, se avesse voluto abrogarla, avrebbe potuto farlo. La clausola finale della Quo Primum significa che nessuno, AL DI FUORI DEL PAPA, può apporre modifiche o abolire il Messale.


    Paolo Vi non poteva abrogar il rito antico, giusta il canone 30 del Diritto Canonico di allora sull'USO immemorabile.



    Il Papa può abrogare una legge o una costituzione dei predecessori e l'oggetto di quella legge o costituzione, quindi anche un rito.
    S.Pio V abolì tutti i riti che non eran in vigore almeno da 200 anni per evitare che qualcuno di essi contenesse qualche errore teologico ricavato dalle premesse e dalle realizzazioni del protestantesimo e lasciò in vita quelli più antichi perché sicuramente ortodossi.
    I canonisti han parlato chiaramente sul problema dell'impossibilità di abrogare un USO immemorabile, per cui si vedano i cann. 23-28.


    E questo è perchè tu abbia certezza,così da non praticare ribellione:

    Abbiamo visto come l'Arianesimo contagiò quasi tutti i vescovi e la debolezza, se non proprio la complicità, di Liberio. Ebbero ragione i pochi vescovi rimasti fedeli alla Verità intorno ad Atanasio. E alla fine la Verità trionfò.

    Quindi è evidente che Paolo VI non cambio proprio nulla,infatti ci sono due messali,ed è anche Chiaro che in passato furono abrogate altri messali,adirittura duecento,questo a riprova che prima di dare dell eretico ad un Papa,sarebbe meglio ascoltare bene TUTTE le voci e non solo di alcuni teologi di parte...siano essi di QUALUNQUE parte.
    Per questo,alla fine,con tutti questi teologi,bisogna stare stretti stretti alla Chiesa perchè è Lui che poi opera discernimento tramite l aiuto dello Spirito Santo.

    Spero avrai letto bene.
    Per questo dico,non bisogna massimizzare,specialmente nelle cose ecclesiastiche che sono immense...meglio un giusto silenzio che un urlo sbagliato,sopratutto nelle cose di Dio ..."renderete conto per ogni parola detta" e sono le cose che escono dalla bocca che contaminano il cuore dell uomo.

    Spero Ghergon,che basti anche a tè...sopratutto perchè non sono io ha mettere sempre in mezzo il CVII o i conservatori....ma prendo atto e rispondo.
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    00 13/06/2010 16:10

    CHE COSA IL CONCILIO AVEVA STABILITO IN MATERIA LITURGICA

    Tutto presse dil blog "messainlatino.it"

    La costituzione del Concilio Vaticano II sulla liturgia, intitolata Sacrosanctum Concilium (per il testo integrale, nella versione in italiano dal sito del Vaticano, clicca qui), stabilisce (SC 4) che i riti esistenti vanno conservati e in ogni modo favoriti e che “dove sia necessario, essi siano riveduti con cautela nell’integrità e nello spirito della sana tradizione”. Il Concilio, quindi, raccomanda cautela, prudenza, rispetto della tradizione per ogni innovazione che si rendesse necessaria.

    Si dice al (SC 14) che i fedeli devono essere condotti ad una piena, conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche. Ora, questa actuosa participatio (attiva partecipazione) è ricorrente anche nel Magistero anteriore: S. Pio X, nel motu proprio Tra le sollecitudini sulla musica sacra, si serve del concetto per raccomandare che i fedeli cantino in gregoriano. Lo stesso concetto fu ribadito da Pio XI nella lettera apostolica Divini Cultus; Pio XII, nellaMediator Dei, utilizza ancora l’espressione di partecipazione attiva nel senso di canto comunitario del gregoriano (in tal senso è chiarissima l’Istruzione 3.9.1958 della Congregazione dei Riti: “Nella Messa solenne l’attiva partecipazione dei fedeli può essere di tre gradi: [..] quando tutti i fedeli danno cantando le risposte liturgiche [..] quando tutti i fedeli cantano anche le parti dell’ordinario della Messa [..] quando tutti i presenti siano talmente preparati da poter cantare anche le parti del proprio della Messa”).

    Che cosa intendevano quindi i Padri conciliari raccomandando l’actuosa participatio? Si limitavano a richiedere, come già i Papi Pio X, XI e XII, una corale partecipazione dei fedeli al canto gregoriano in latino? Il documento citato prosegue col dire che al fine di conseguire quella piena, conscia e attiva partecipazione, i pastori d’anime devono tendere con zelo a tale effetto per mezzo della necessaria educazione del popolo dei fedeli. Una raccomandazione che sarebbe superflua, se si fosse pensato ad una riforma della liturgia come poi avvenne di fatto, in cui il linguaggio è quello quotidiano e la musica ancor più ordinaria. Tanto meno la partecipazione attiva deve necessariamente consistere in una... attività. Come ha chiarito molto bene, tra gli altri, Giovanni Paolo II, “la partecipazione attiva non preclude la attiva passività [bellissimo ossimoro, n.d.r.] del silenzio, della compostezza e dell’ascolto: anzi, la richiede perfino. I fedeli non sono passivi, ad esempio, quando ascoltano le letture o l’omelia, o seguono le preghiere del celebrante e i canti e la musica della liturgia. Queste sono esperienze di silenzio e di immobilità, ma sono nel loro modo profondamente attive” (Giovanni Paolo II, Discorso ai vescovi della conf. episcopale Stati Un. America 9.10.1998, riportata qui, trad. e sottolin. nostra).

    I Padri conciliari non richiesero quindi una riforma liturgica che portasse ad una facile e immediata comprensione dei gesti e dei testi della S. Messa da parte dei fedeli; al contrario chiesero che il rito, per natura avvolto di sacralità e di mistero, fosse reso accessibile e partecipato tramite l’educazione religiosa dei fedeli. Poiché è forma di consapevole e attiva partecipazione anche la semplice reverente assistenza al rito.

    In questo senso, troviamo la chiave di interpretazione dell’intera Sacra Costituzione al n. 23: “non vi deve essere alcuna innovazione a meno che non lo richieda il vero e accertato bene della Chiesa”. Non solo: il medesimo articolo continua dicendo che “occorre aver cura che ogni nuova forma [liturgica] adottata cresca in qualche modo organicamente dalle forme già esistenti”. Ecco quindi sancito (vanamente, purtroppo) un duplice vincolo ad ogni innovazione: essa dev’essere veramente utile e opportuna, perché la regola è la conservazione dell’esistente, e in ogni caso quell’innovazione di cui sia accertata la sicura utilità dev’essere tale che si inserisca in un’evoluzione organica (quindi senza cesure, invenzioni, ritorni a forme arcaicizzanti) della liturgia come la vivevano i Padri conciliari (siamo nel 1963!).

    Il Concilio Vaticano II non si è limitato a enunciare questi condivisibilissimi orientamenti generali di cauta riforma nel solco di un’evoluzione organica, ma ha anche normativamente stabilito quali fossero tali opportune riforme, elencandole in nove punti. Eccoli (SC 50 ss.):

    1. Semplificare i riti, “conservando fedelmente la sostanza”, togliendo le duplicazioni e aggiunte superflue accumulate nel corso dei secoli e ripristinando elementi perduti.
    2. Aprire maggiormente il tesoro della Bibbia ai fedeli
    3. Considerare l’omelia come parte della liturgia specie domenicale
    4. Reintrodurre la preghiera dei fedeli.
    5. Nelle messe celebrate col popolo, una parte della liturgia può essere svolta nella lingua vernacolare. Quale parte? Precisa la Sacrosanctum Concilium: le letture e la preghiera dei fedeli; ma anche, se lo richiedessero le condizioni locali, quelle parti che pertengono al popolo. “Tuttavia” precisa subito il documento “occorre fare in modo che i fedeli siano in grado di rispondere o cantare le parti dell’ordinario della Messa che pertengono a loro”, ovviamente in latino. Poiché almeno tutto l’ordinario, nelle intenzioni dei Padri, doveva restare in latino, salvo casi affatto speciali (ad es. in terra di missione)! Anche al n. 36 leggiamo: “L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme esposte nei capitoli seguenti per i singoli casi”. Maggiore spazio alla lingua volgare è concesso (ma non concerne la Messa) per sacramenti e sacramentali; mentre per l’ufficio divino è disposto (SC101) “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina. L'ordinario tuttavia potrà concedere l'uso della versione in lingua nazionale [..] in casi singoli, a quei chierici per i quali l'uso della lingua latina costituisce un grave impedimento alla recita dell'ufficio nel modo dovuto”. Come si vede, per i Padri conciliari il latino è sempre e deve restare la regola, la lingua nazionale l’eccezione.
    6. Se possibile, per la comunione ai fedeli siano adoperate ostie consacrate nella messa cui hanno partecipato. E’ anche introdotta la possibilità di comunione sotto le due specie, ma per casi ben delimitati, come al neo presbitero nella messa di ordinazione, al neo professo nella messa in cui prende i voti, al catecumeno nella messa che segue il suo battesimo.
    7. Si precisa che la Messa si compone di una Liturgia della Parola e di una Liturgia eucaristica e che anche la prima è importante e va seguita (visto l’andazzo di molti che all’epoca entravano in chiesa solo dall’offertorio).
    8. Si permette la concelebrazione in casi particolari e precisamente indicati ed elencati, dichiarando comunque lecito il rifiuto di concelebrare.
    9. Si stabilisce che dev’essere fissato un nuovo rito per la concelebrazione.

    Queste, e soltanto queste, le riforme volute dal Concilio.

    Al n. 112, dedicato alla musica liturgica, i Padri dichiarano: “La tradizione musicale della Chiesa universale è un tesoro di inestimabile valore, più grande persino di quello di ogni altra arte” (più, quindi, delle grandiose architetture delle cattedrali, dei crocifissi dipinti di Giotto e Cimabue, della Pietà o del Mosè di Michelangelo...). E questo perché “come sacro canto unito alle parole, essa forma una parte necessaria o integrale della solenne liturgia”, che è tanto più sacra quanto più è connessa con l’azione liturgica. E ora viene il punto clou, che tanti sedicenti “conciliari” (purtroppo anche mitrati), si fanno un punto d’onore d’ignorare: “il tesoro della musica sacra dev’essere preservato e incrementato con grande cura” (SC 114) e soprattutto: “La Chiesa riconosce che il canto gregoriano è particolarmente adatto alla liturgia romana. Pertanto, a parità di condizione, ad esso deve riconoscersi il primo posto nei servizi liturgici” (SC 116). E il secondo posto, attenzione, non è per le canzonette: bensì, prosegue il testo conciliare, per la polifonia! L’art. 117 raccomanda anche di pubblicare edizioni tipiche di canto gregoriano ed anche una versione semplificata per le chiese più piccole.

    Per essere veramente “conciliari”, quindi, occorre cantare la Messa in gregoriano e in latino!

    Perché tanta importanza per il canto gregoriano? Non solo perché è magnifico; ma anche perché le sue dirette origini sono nel canto del Tempio e delle Sinagoghe ai tempi di Gesù: si chiama gregoriano perché Papa Gregorio Magno (VI sec. d.C.) lo codificò e raccolse, non perché lo inventò; le sue origini risalgono invece ai secoli prima di Cristo e cantavano in gregoriano, ante litteram, San Giuseppe, San Gioachimo e gli Apostoli nella sinagoga quando, appunto, salmodiavano, ossia cantavano i salmi di Re Davide.

    Anche per l’organo i Padri conciliari hanno parole quasi commosse di apprezzamento (SC 120): “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti”

    In definitiva, le due più significative raccomandazioni del Concilio, sono state: L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (SC36) e “La Chiesa riconosce che il canto gregoriano è particolarmente adatto alla liturgia romana. Pertanto, a parità di condizione, ad esso deve riconoscersi il primo posto nei servizi liturgici” (SC116). Tutti sappiamo quel che è stato di tali intenzioni del Concilio.

    Ma altrettanto importanti sono anche le cose che il Concilio NON ha detto. Ne facciamo un rapido (e non esaustivo) elenco:

    1) Non ha detto che la celebrazione debba o possa effettuarsi rivolti al popolo anziché rivolti verso il Signore, come è sempre stato dai tempi apostolici, e non dal medioevo come spesso si ripete (cfr. LANG, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, 2006, passim, citato favorevolmente da S.S. Benedetto XVI nella prefazione al vol. XI della sua Opera omnia, Herder, 2009). E aggiungiamo: non solo non si dice nulla dell’orientamento del celebrante nella Sacrosanctum Concilium; non se ne parla nemmeno nei documenti preparatori: ‘girare gli altari’ è proprio questione aliena del tutto dal pensiero dei Padri conciliari.
    2) Non ha detto che il Tabernacolo dovesse o potesse spostarsi dalla sua posizione centrale nel presbiterio; e men che meno che al suo posto dovesse intronizzarsi il celebrante ponendovi il suo seggio.
    3) Non ha detto che la comunione possa riceversi in piedi, e ancor meno sulle mani anziché, come è sempre stato almeno dal VI secolo in poi, in ginocchio e sulla lingua
    4) Non ha detto che si debbano, o anche solo che si possano rimuovere le balaustre del presbiterio, o che si debba o possa spostare l’altare in mezzo ai fedeli.
    5) Non ha detto che si debbano o possano comporre nuovi canoni di consacrazione eucaristica o anche solo modificare il canone romano (attuale canone I). Di fatto, invece, dopo il Concilio fu modificato in parte il canone romano (e nella traduzione in italiano e in altre lingue, in modo molto evidente, traducendo infedelmente “pro multis”, riferito al sangue versato da Gesù, con “per tutti”); furono aggiunte altre preci eucaristiche: la II, la più breve e quindi la più usata, detta di S. Ippolito ma in realtà solo molto liberamente ispirata all’anafora di quest’ultimo, risalente al terzo secolo; la III, interamente di nuova fabbricazione; il canone IV, basato su un’anafora copta; nonché vari canoni locali, o per fanciulli, e così via.
    6) Non ha detto che si dovessero limitare o eliminare devozioni tradizionali come processioni, adorazioni eucaristiche, rosario (in Italia, per fortuna, non abbiamo avuto su questo punto la furia iconoclasta di altri paesi, in particolare Francia, Olanda e Germania).
    7) Non ha detto che vanno rimossi dalle chiese gli inginocchiatoi.

    Anzi a ben vedere tutte queste cose sono state condannate genericamente e in via preventiva dal Concilio stesso, quando ha disposto che ogni riforma sia non solo cauta e risponda ad esigenze vere e accertate, ma soprattutto rappresenti uno sviluppo organico dall’esistente (SC 23). Cosa che, all’evidenza, non può dirsi di tali innovazioni.

    E ancora, ha condannato in partenza (ma con ben poca efficacia) ogni creatività di celebranti e liturgisti, riservando alla gerarchia della Chiesa la regolazione della liturgia: “assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (SC 22 §. 3).

    Si comprendono allora queste parole accorate dell’allora card. Ratzinger in una conferenza del 24 Ottobre 1998: “Il Concilio non ha, per se stesso, riformato (nel senso di inventare) i libri liturgici, ma ha disposto la loro revisione, e a tal fine ha dato alcune norme fondamentali. Prima di ogni altra cosa, il Concilio ha dato una definizione di cosa sia la liturgia, e tale definizione costituisce il termine di paragone per ogni celebrazione liturgica. Dove si scansano tali norme e si mettono da parte le normae generales che si trovano ai numeri 34 - 36 della Constitutio De Sacra Liturgia (Sacrosanctum Concilium), in tal caso certamente ci si rende colpevoli di disobbedienza al Concilio!” (in Notiziario Una Voce, 126-127).

    Infine, vorremmo aggiungere due parole sulla luminosa figura di Papa Giovanni XXIII, che la vulgata progressista (capitanata dalla Scuola di Bologna di Dossetti e Alberigo, la quale ha monopolizzato fino a tempi recenti l’interpretazione del Concilio, inteso come “discontinuità” rispetto a prima) dipinge come un pontefice “profetico”, nel senso che aperse la porta della Chiesa alle mille innovazioni che i progressisti hanno imposto o vogliono ancora imporre; un novatore, uno spirito di apertura e di modernizzazione. Per contro Paolo VI, sempre secondo la Scuola di Bologna, assume l’antipatico compito di soffocatore di buona parte degli aneliti conciliari e di cattivo interprete dello Spirito del Concilio: si cita in particolare l’enciclica Humanae Vitae sul divieto degli anticoncezionali.

    Orbene, quel che è vero è che Papa Giovanni aveva un temperamento e un physique du rôle di giovialità contadina, nonché la parola spontanea e diretta, tali da attirargli l’umana simpatia delle folle; laddove Paolo VI era un intellettuale più introverso ed a tratti tormentato ed amletico (anche per il difficile periodo che dovette affrontare). Sicché viene naturale, per i modernisti, appioppare al primo il ruolo di ‘buono’ e al secondo quello di ‘cattivo’ (o timido, o timoroso, od ostaggio di una curia reazionaria).

    Ma la realtà è che Papa Giovanni XXIII, e molto più di Papa Paolo VI, fu un papa assolutamente conservatore (e usiamo questo aggettivo - che per i gregari della Scuola di Bologna è un insulto - poiché tale lo definì il cardinale Oddi). Cercatene qualche fotografia in internet: lo troverete assiso sulla sedia gestatoria tra i flabelli e la guardia nobile, o con la tiara o il camauro in testa (tutte cose abolite o disusate da Paolo VI); pensate forse che dovette subire controvoglia tanto sfoggio di sfarzo medioevale un Pontefice di quella tempra, che ebbe il coraggio di convocare il Concilio, o di modificare il canone intoccato da un millennio, inserendovi il nome di S. Giuseppe (altra mossa che imbestialì i progressisti filo-protestanti)?

    E per passare dagli orpelli ai suoi atti, Papa Roncalli fu colui che a proposito della lingua latina scrisse (nella costituzione apostolica Veterum Sapientia): “abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l'antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e, se in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata [..] I medesimi Vescovi e Superiori Generali degli Ordini religiosi, mossi da paterna sollecitudine, vigileranno affinché nessuno dei loro soggetti, smanioso di novità, scriva contro l’uso della lingua latinanell’insegnamento delle sacre discipline e nei sacri riti della Liturgia e, con opinioni preconcette, si permetta di estenuare la volontà della Sede Apostolica in materia e di interpretarla erroneamente”.

    Vi immaginate se mai avrebbe potuto approvare una riforma che, pochi anni dopo, ha di fatto eliminato l’uso del latino “nei sacri riti della Liturgia”? O che cosa avrebbe detto degli altari girati al popolo, egli che nel suo diario privato, quand’era nunzio a Parigi, annotava: “Assistetti alla Messa a S. Severino. Presi freddo e mi nocque. Musica assai migliorata ma la Messa face au peuple [=verso il popolo]una contraddizione grave alle leggi liturgiche. Tutto il Canone pronunciato a voce alta e non in secreto come prescrive il Messale […]Oh! Che pena con queste teste ardenti e un po’ bislacche” (cit. in MARCO RONCALLI, Giovanni XXIII, Mondatori, 2006, p. 679 nota 107)?

    Ma non solo: sotto l’aspetto del governo ecclesiale, prese misure molto chiare in senso contrario alle attese dei progressisti. Non soltanto si scelse come Prefetto del S. Uffizio un cardinale tradizionalista come Ottaviani; ma pure emanò nel 1959 una condanna per i comunisti (anche per i semplici elettori, e financo per il voto alle comunali, e per i simpatizzanti), più dura perfino di quella di Pio XII nel 1947; e nell’enciclica Mater et Magistra sferzò addirittura i socialdemocratici (“Tra comunismo e cristianesimo, il Pontefice ribadisce che l’opposizione è radicale, e precisa che non è da ammettersi in alcun modo che i cattolici aderiscano al socialismo moderato”, cap. 22). E’ vero che riceverà un delegato dell’URSS, ma si racconta dietro consiglio, tra gli altri, di uno come il card. Siri (non certo un progressista), che gli disse: “Lo riceva, Santità: quando questa gente cerca noi preti, vuol dire che sentono la fine vicina”.

    Ancora: vietò al clero di Roma di andare al cinema o allo stadio, di viaggiare in auto con una donna o di dismettere la talare. Condannò severamente (e peggio ne disse) l’idolo dei progressisti, quel don Milani (suoi gli slogan: Non bocciare! e L’obbedienza non è più una virtù) cui si ispireranno, negli anni a venire, le riforme eversive della scuola fino ad allora meritocratica e seria. E fulminò pure con una monizione del giugno 1962 le opere del teologo Teilhard de Chardin (deceduto nel 1955), che diventerà poi una figura di bandiera del post-concilio.

    Egli fu davvero un “Papa buono”. Ma non nel senso in cui l’intendono i modernisti: per citare il vaticanista Aldo Maria Valli (coautore insieme al progressista vescovo emerito di Ivrea, mons. Luigi Bettazzi, di Difendere il Concilio, Ed. San Paolo, 2008), “Papa Giovanni XXIII, non ha affatto il contorno di un rivoluzionario,quanto di un parroco tridentino legato a San Carlo Borromeo. Ma nell’immaginario lo si dipinge molto diversamente” (intervista 17.11.08 a Pontifex.Roma).

    Questo non significa che il successore, Paolo VI, sia stato un cattivo pontefice. Egli però si trovò a gestire una situazione ecclesiale impazzita, poiché le attese millenaristiche suscitate dal Concilio (certo oltre la volontà di Giovanni XXIII), congiunte con la contestazione del Sessantotto, resero la Chiesaingovernabile ed i suoi membri agitati dall’insana smania di gettare a mare tutto quel che li aveva preceduti, per creare l’uomo nuovo e la Chiesa nuova, e portare “l’immaginazione al potere”, secondo gli slogan allora in voga. Paolo VI ritenne prioritario di salvare da quel diluvio universale la sostanza dottrinale (ad esempio imponendo la revisione dell’eretico catechismo olandese pubblicato dalla Conferenza episcopale di quel paese, o pubblicando documenti comela Humanae Vitae in campo morale, o il Credo del Popolo di Dio in campo dogmatico); ma in contropartita a tutto ciò e per placare i novatori, e in parte anche perché convintone, accettò gravi concessioni in ambito liturgico (pur sforzandosi di ridurle: ad es. reintroducendo nella messa l’Orate fratres ed il concetto stesso di sacrificio accanto a quello, prettamente protestante, di ‘cena del Signore’).

    In tal modo però Paolo VI, credendo di salvare la dottrina sacrificando la liturgia, finì col sottostimare l’antico adagio per cui v’è diretta corrispondenza tra la lex orandi e la lex credendi; sicché, demolito l’antico edificio liturgico per costruirne uno totalmente nuovo (l’espressione è di RATZINGER, La mia vita, citato nella nostra pagina dedicata ai suoi scritti), era inevitabile che, a lungo andare, la percezione della millenaria fede cristiana venisse gravemente intaccata (oggi, ad es., 67% dei – pochi – praticanti francesi non credono più alla presenza reale, e un quarto nemmeno alla resurrezione: sondaggi de La Croix, quotidiano legato alla Conf. Episcop. franc.).

    Paolo VI ebbe la lucidità di accorgersi, troppo tardi, del dramma e in una celebre omelia dichiarò: “da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. [..] Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. [..] Crediamo in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé” (omelia del 29.6.1972,riportata qui). Secondo la testimonianza del filosofo Jean Guitton, avrebbe perfino detto “C'è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra? Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri” (JEAN GUITTON, Paolo VI segreto, Ed. Paoline, 1985, p. 152). E per citare don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione: “Era stato Paolo VI che, con tutta buona fede, aveva visto favorevolmente una certa evoluzione della Chiesa. Ma tanta era la verità del suo amore alla Chiesa che, a un certo punto, dovette accorgersi del disastro cui la dinamica delle cose – pur [da lui] approvate – portava” (citato nel sito di Magister a questo link).






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    00 13/06/2010 16:37

    Pio XII: il Papa più citato nel Concilio Vaticano II

    Il cardinale Siri, nell’Aula sinodale in Vaticano, alla presenza di Giovanni Paolo II, l’8 ottobre 1983, affermò: «Se si studiano gli indici del Vaticano II, si può agevolmente rilevare che, dopo quelle tratte dalla Sacra Scrittura, le citazioni più numerose sono quelle ricavate dagli scritti di questo Pontefice»

    del cardinale Fiorenzo Angelini



    Il tema sul quale sono stato invitato a condividere alcune riflessioni può essere affrontato sotto diversi aspetti: tanti quanti sono stati i temi e i problemi che il Concilio ha esaminato e sui quali si è pronunciato. Mi limiterò, tuttavia, a richiamare l’attenzione su due soltanto di questi aspetti: l’uno, che direi storico; l’altro che chiamerei teologico-spirituale.
    L’aspetto storico attiene allo stretto rapporto tra l’evento del Concilio Vaticano II e il contributo dato da Pio XII alla sua preparazione; l’aspetto teologico-spirituale mette in luce, a mio giudizio, come nel suo impegno finalisticamente indirizzato alla celebrazione del Concilio, Pio XII abbia offerto un’ulteriore prova della sua figura non soltanto di grande pontefice, ma di uomo di Dio, di santo pontefice.
    Lo stretto rapporto tra i due aspetti è confermato dal fatto che fu lo stesso Paolo VI, a Concilio aperto, a dare inizio alla causa di beatificazione e canonizzazione di Pio XII.

    Eugenio Pacelli, nato a Roma il 2 marzo 1876, eletto Papa il 2 marzo del 1939 col nome di Pio XII, morto a Castel Gandolfo il 9 ottobre 1958

    Il contributo di Pio XII alla preparazione del Concilio Vaticano II
    Potrei iniziare e concludere questo mio intervento sul tema “Pio XII e il Concilio Vaticano II” limitandomi a riportare una affermazione del cardinale Giuseppe Siri, pronunciata nell’Aula sinodale in Vaticano, alla presenza di Giovanni Paolo II, l’8 ottobre 1983, nel venticinquesimo anniversario della morte di papa Pacelli. Disse l’allora arcivescovo di Genova: «Se si studiano gli indici del Vaticano II, si può agevolmente rilevare che, dopo quelle tratte dalla Sacra Scrittura, le citazioni più numerose sono quelle ricavate dagli scritti di questo Pontefice»1.

    In realtà, mentre giustamente si considerano la convocazione e la celebrazione del Concilio ecumenico Vaticano II come una felice e straordinaria iniziativa per il rinnovamento della vita della Chiesa del nostro tempo da parte di Giovanni XXIII, troppo spesso si ignora o si tralascia di sottolineare che il Concilio Vaticano II fu attentamente e diligentemente preparato da Pio XII sin dall’indomani della sua elezione. Ecco perché gli stessi documenti definitivi del Concilio contengono 201 citazioni o riferimenti a 92 atti del magistero del suo pontificato2. Nella sola costituzione dogmatica Lumen gentium si contano 58 citazioni che rinviano al magistero di Pio XII.
    Il compianto e carissimo amico padre Giovanni Caprile s.i., nella sua monumentale opera dedicata al Concilio Vaticano II, scrive che «anche sotto il pontificato di Pio XII riaffiorò l’idea di convocare un Concilio, e si compirono diversi passi nella preparazione di esso»3. Di questi passi il padre Caprile cita i documenti, alcuni dei quali, in quel momento, del tutto inediti4.
    Per me che ho partecipato a tutte le sessioni del Concilio Vaticano II, dopo che sotto il pontificato di Pio XII ebbi l’onore e la responsabilità di svolgere compiti che mi portarono ad avere contatti con lui, il legame tra il magistero di Pio XII e i documenti approvati dal Concilio Vaticano II è sempre parso fuori discussione, a conferma di una chiara continuità magisteriale.
    Lo ribadì anche Giovanni Paolo II nel quarantesimo anniversario dell’elezione a pontefice di Pio XII. Infatti, all’Angelus del 18 marzo 1979, ricordando il suo predecessore, disse: «In questo quarantesimo anniversario dall’inizio di quel significativo pontificato, non possiamo dimenticare quanto Pio XII contribuì alla preparazione teologica del Concilio Vaticano II, soprattutto per quanto riguarda la dottrina circa la Chiesa, le prime riforme liturgiche, il nuovo impulso dato agli studi biblici, la grande attenzione ai problemi del mondo contemporaneo»5.
    A parte, infatti, i riferimenti sopra ricordati, l’esemplificazione è ridondante ed è estendibile a molti altri documenti conciliari.
    È abbastanza consueto, per esempio, parlare della costituzione pastorale Gaudium et spes come del documento conciliare più aperto al dialogo con il mondo contemporaneo. Si ignora o si dimentica che già nel 1950 era pronto il testo di una Concilii oecumenici declaratio authentica, che deve considerarsi un documento precursore dei contenuti del futuro schema 13 approdato alla Gaudium et spes6.
    È sufficiente leggerlo per rendersene conto7. Peraltro, quanto ad attenzione verso temi e problemi della società contemporanea, Pio XII, con particolari iniziative, valorizzò la Pontificia Accademia delle Scienze, fondata il 28 ottobre 1936 da Pio XI. Essa costituisce l’unica Accademia di scienze a carattere sovranazionale e a classe unica esistente nel mondo. Gli accademici pontifici sono scelti senza discriminazione fra gli insigni studiosi di scienze matematiche e sperimentali di ogni Paese. E tra essi, anche ai tempi di Pio XII, vi erano illustri studiosi ebrei.
    Nel suo magistero, Pio XII volle eliminare affermazioni di incompatibilità tra la fede e la scienza. Non si tenne congresso scientifico di alto e altissimo livello al quale egli non abbia dedicato un discorso perfettamente informato, illuminante al punto di meravigliare gli illustri esponenti della scienza. Discorsi che scriveva personalmente e che preparava cominciando per alcuni, come quelli per il Santo Natale, anche mesi prima, dopo aver chiesto che gli fossero fornite la bibliografia e tutte le informazioni più aggiornate sulla materia da trattare. A volte, quando doveva affrontare argomenti attinenti, ad esempio, alla medicina, alla fisica, all’astronomia e ad altre tematiche di carattere altamente scientifico, redatto il discorso, invitava una persona di sua fiducia, maestro nella materia trattata, e la pregava di trattenersi in una stanza attigua al suo studio per esaminare e correggere il testo da lui preparato e si dispiaceva se non venivano apportate delle correzioni. Personalmente ho potuto toccare con mano queste particolari circostanze.
    Quando, all’indomani della sua scomparsa, raccolsi e pubblicai in volume i Discorsi ai medici di Pio XII8, fu da ogni parte riconosciuto che il Papa aveva affrontato con scrupolosa diligenza, grande saggezza, e acuto senso di anticipazione dei tempi i più gravi problemi attinenti alla medicina e alla morale.
    I Discorsi ai medici di Pio XII sono un vero e proprio manuale, che si confermò, per me e i miei collaboratori, fondamentale al momento di redigere, trent’anni più tardi, la prima Carta degli Operatori sanitari9.

    La Basilica di San Pietro durante il Concilio ecumenico Vaticano II
    Sebbene temi come l’anestesiologia, la chirurgia dei trapianti, la regolazione lecita delle nascite, l’eutanasia e la stessa ingegneria genetica non avessero intorno agli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento la risonanza di oggi, i principi morali dettati da Pio XII al riguardo restano insuperati10.
    Si riconosce giustamente, perciò, che con la Humani generis11 Pio XII gettò un ponte di straordinaria efficacia per l’incontro tra scienza e fede. Tale enciclica, infatti, non soltanto spaziò contro gravi errori, ma rappresentò una forte affermazione di rispetto pieno non solo per la luce che la verità attinge dalla Rivelazione, ma anche per l’apporto insostituibile della ragione umana12. Come ha scritto il cardinale Siri, «l’enciclica Humani generis rappresenta una “Summa” che deve essere tenuta presente”: una “Summa” che fece dire a Giovanni XXIII che “Pio XII aveva compiuto, nel suo pontificato, un’enciclopedia teologica”».
    Anche sensibilità e problematiche sociali affrontate dalla Gaudium et spes avevano trovato puntuale riscontro nel magistero e nel ministero di Pio XII.
    Sul dovere dei cristiani di impegnarsi per la soluzione della questione sociale, Pio XII aveva parlato sin dagli inizi del suo pontificato, nel Radiomessaggio del 1° giugno 1941 in commemorazione del cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Rerum novarum di Leone XIII13.
    Non mi soffermo sulle Acli, le quali, a partire dal primo incontro che ebbero con Pio XII l’11 marzo 1945 fino all’indimenticabile 1° maggio 1955 in piazza San Pietro, trovarono nel Papa una guida forte e vigile, sollecita soprattutto di una solida formazione dell’operaio cattolico14.
    Mi limito, invece, sempre in tema di sensibilità di Pio XII per i problemi sociali, a ricordare due particolari15.
    Nel corso della costruzione della chiesa e delle strutture parrocchiali di San Leone Magno a Roma, nel 1952, ci fu comunicato il desiderio del Papa di incontrare le maestranze impegnate nell’opera. Volle riceverci in Vaticano il 12 marzo 1952, anniversario della sua incoronazione a pontefice, e la conferma dell’udienza ci colse impreparati. Giungemmo quasi con affanno nella Sala del Trono: gli operai erano nei loro abiti di lavoro, polverosi e rappezzati, con in testa i cappelli ricavati da giornali. Il Papa fu di una straordinaria affabilità, confondendosi in mezzo agli operai e dialogando con tutti16.
    Ma, a proposito della sensibilità sociale di Pio XII, voglio ricordare anche un altro particolare. La lettera pastorale collettiva pubblicata nel 1962 dall’episcopato cileno, Il dovere sociale e politico nell’ora presente, recava come testo base queste parole di Pio XII: «La pace non ha niente in comune con l’aggrapparsi duramente e ostinatamente, con tenace e infantile caparbietà, a quanto più non esiste… Per un cristiano consapevole della propria responsabilità anche verso il più piccolo dei suoi fratelli, non esiste né la tranquillità indolente né la fuga, bensì la lotta, il lavoro contro ogni inattività e diserzione, nella grande contesa spirituale che vede messa in pericolo la costruzione, anzi la stessa anima, della società futura»17.
    A nessuno può sfuggire la preveggente intuizione di Pio XII sui gravi problemi che stavano emergendo nel sud del mondo. Peraltro, i suoi interventi in materia sociale occupano vasto spazio nelle raccolte dei documenti sociali dei Papi del nostro tempo18.
    Quando nel 1943 venne pubblicata l’enciclica Divino afflante Spiritu19 sul rinnovamento degli studi biblici, le direttive pontificie apparvero addirittura ardite. Poiché, pochi mesi prima, il 29 giugno, il Papa aveva pubblicato l’enciclica Mystici Corporis, non mancò chi manifestò meraviglia che, nel pieno del secondo conflitto mondiale, il Papa desse tanto risalto a problemi che potevano apparire astratti. In realtà quelle due encicliche furono profetiche e a esse si richiamarono, poi, con singolare frequenza, i documenti del Concilio Vaticano II.
    Per quanto attiene all’ecumenismo, come ebbe a dire il cardinale Agostino Bea, sia in riferimento all’enciclica Mystici Corporis20, sia ad altri documenti di Pio XII, «ci sarebbero da dire tante cose belle che molti forse non sospettano»21.
    Un’ultima annotazione voglio riservare alla sollecitudine di Pio XII per la struttura interna della Chiesa.
    Una certa abitudine invalsa a motivo di una disattenzione non encomiabile verso i meriti di Pio XII porta a ignorare, ad esempio, che fu proprio lui, dieci anni prima dell’inizio del Concilio, a volere che, anche in Italia, fosse costituita la Conferenza episcopale. Il ritardo dell’Italia in questo campo aveva molteplici motivazioni, quasi tutte riconducibili alle conseguenze della fine dello Stato pontificio e dei difficili rapporti, fino alla Conciliazione, tra la Santa Sede e lo Stato italiano.
    Con lodevole iniziativa, L’Osservatore Romano, in data 20 maggio 2002, ha pubblicato come supplemento il testo della conferenza tenuta presso l’Istituto Patristico Augustinianum dal professor Andrea Riccardi sui cinquant’anni della Cei22. La ricostruzione mette in luce come sia stato proprio Pio XII a volere la costituzione della Conferenza episcopale italiana23.
    Tra le più grandi innovazioni del Vaticano II si annovera la riforma liturgica. Oggi si riconosce che i suoi capisaldi furono gettati nel 1947 da Pio XII con l’enciclica Mediator Dei24. Lo stesso deve dirsi circa l’internazionalizzazione della Curia romana e del Collegio cardinalizio, e della semplificazione degli abiti dei vari gradi di prelati.
    Pio XII; sullo sfondo, le prime pagine de L’Osservatore Romano dedicate alle encicliche Mystici Corporis, firmata il 29 giugno 1943, e Divino afflante Spiritu, firmata il 30 settembre 1943

    Qualcuno ha scritto che Pio XII, in un periodo in cui le vocazioni abbondavano, aveva anche previsto la crisi di vocazioni sacerdotali e religiose che sarebbe avvenuta da partire dal postconcilio. È vero. Da oltre trent’anni la Chiesa, soprattutto nei Paesi a plurisecolare tradizione cristiana, soffre di una grave crisi di vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata. Vorrei ricordare che già nel 1950 Pio XII, con l’esortazione apostolica Menti nostrae, pur non parlando di imminente crisi di vocazioni, era andato al cuore del problema, dicendo senza mezzi termini che a garantire il fiorire di vocazioni non poteva essere il ricorso alla preghiera. In un periodo in cui i seminari minori e maggiori e i collegi religiosi ridondavano di candidati, il Papa – con grande realismo e apertura d’animo – insisteva sulla necessità «di curare in modo particolare la formazione del carattere del ragazzo, sviluppando in esso il senso di responsabilità, la capacità di giudizio, lo spirito di iniziativa». Invitava i responsabili della formazione a «ricorrere con moderazione ai mezzi coercitivi, alleggerendo, man mano che i giovani crescono di età, il sistema della rigorosa sorveglianza e delle restrizioni, avviando i giovani stessi a guidarsi da sé e a sentire la responsabilità delle proprie azioni». Infine disponeva che i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa conseguissero i titoli di studio pubblici affinché non avesse ad accadere che la loro perseveranza fosse dovuta al timore che, abbandonando, perché non vocati, il seminario, si trovassero nella condizione ricordata dal Vangelo: «Fodere non valeo, mendicare erubesco»: «Non sono capace di lavorare la terra, ma mi vergogno di andare all’elemosina» (Lc 16, 3)25.
    Queste direttive, purtroppo, furono largamente disattese; se, invece, fossero state tenute nel debito conto, forse si sarebbe evitata la dolorosa emorragia verificatasi successivamente26. Vorrei poi notare che questo documento – che avrebbe avuto l’onore di un quarto delle 48 citazioni contenute nel decreto conciliare Optatam totius, sulla formazione sacerdotale – usciva in un anno che non andrebbe ricordato soltanto per il Giubileo e la definizione dogmatica dell’Assunzione corporea di Maria al cielo, ma per alcuni eventi gravissimi che colpivano al cuore la Chiesa nell’Est europeo in via di sovietizzazione: iniziava l’era della “Chiesa del silenzio”; avveniva la soppressione dei seminari e degli istituti religiosi e l’incameramento dei loro beni; infieriva la persecuzione contro i pastori; si faceva spietata la detenzione del primate di Ungheria cardinale József Mindszenty, arrestato il 27 dicembre 1948; identica e più spietata sorte attendeva l’arcivescovo di Zagabria cardinale Alojzije Stepinac.
    In Occidente prevaleva l’ottimismo della ricostruzione postbellica, ma Pio XII, nel 1952, lanciava da Roma – purtroppo anche stavolta non sufficientemente ascoltato – una missione di rinnovamento che doveva investire, partendo dal centro della cristianità, tutta la Chiesa.
    Il grande Pontefice presentiva che l’ondata di laicismo, di secolarizzazione, di esasperato individualismo, di crescente edonismo e consumismo che investiva l’Occidente avrebbe colpito al suo interno anche la Chiesa.
    Né va dimenticato che Pio XII comprese e valorizzò al massimo, nel suo tempo, i mezzi di comunicazione di massa. Se dalla prudenza manifestata da Pio XI con l’enciclica Vigilanti cura (29 giugno 1936) si passò alla posizione interamente a favore e costruttiva dell’enciclica Miranda prorsus (8 settembre 1957), preparando il decreto conciliare Inter mirifica, ciò si dovette soprattutto all’importanza data da Pio XII all’utilizzazione – ai fini dell’evangelizzazione – dei mezzi di comunicazione di massa.
    I Radiomessaggi di Pio XII, che a partire dalla sua elezione divennero lo strumento del suo magistero universale, costituirono – negli anni della guerra – il più instancabile richiamo alla pace e, negli anni successivi, un decisivo orientamento al formarsi delle moderne democrazie. Senza dire della loro rilevanza per la guida della Chiesa e il servizio alla sua unità. Si tenga presente, infatti, che non esistevano ancora le Conferenze episcopali né si celebravano le assemblee dei Sinodi dei vescovi.


    Paolo VI con il libro dei Vangeli durante il Concilio ecumenico Vaticano II
    Il pontificato di un uomo di Dio
    Vi è un dato che lega l’intera attività, tutto il magistero e il ministero di Pio XII e che spiega la sua fermezza nei confronti dell’errore, la sua carità smisurata verso i deboli, i perseguitati e i bisognosi, la sua attenzione a tutti i problemi della società moderna. Questo elemento unificatore era dato dalla consapevolezza forte e insieme sofferta della dimensione spirituale del suo pontificato.
    La santità di Pio XII è ciò che di questo Pontefice non ha bisogno di essere difeso, bensì di essere conosciuto.
    La figura ieratica di Pio XII era lo specchio del suo profilo interiore e spirituale. Non soltanto fu un grande uomo; fu un grande uomo di Dio.
    La sua condanna degli errori che provocavano sciagure sul piano politico e sociale muoveva dal desiderio irresistibile di mettere in guardia dai pericoli dell’ateismo, convinto che, senza Dio, non può aversi né libertà né giustizia né pace. Della stessa persecuzione subita dalla Chiesa nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Europa orientale lo feriva ed era motivo di indicibile sofferenza prima di tutto e soprattutto l’ateismo che l’ispirava. I suoi riferimenti al materialismo e al comunismo sono sempre accompagnati dalla qualifica di ateo.
    Mi limito a un particolare che considero emblematico. Quando si parla, soprattutto da parte della grande stampa, di Giovanni XXIII, si richiama come sua distinzione innovatrice quella che egli era solito ripetere: la distinzione, cioè, tra errore ed errante: da condannare l’errore, da avvicinare, capire, perdonare l’errante. Posizione ovviamente ineccepibile. Ebbene, nel 1952, in un momento in cui lo scontro con il comunismo ateo era durissimo, Pio XII pubblicò una lettera apostolica indirizzata ai «carissimi popoli della Russia» nella quale, proprio in riferimento al comunismo ateo, ribadiva la suddetta distinzione e lo faceva, secondo il suo solito, con una chiarezza straordinaria. Dice il documento: «Come richiede la consapevolezza dei doveri del nostro ufficio, abbiamo certamente condannato e respinto gli errori sostenuti dai fautori del comunismo ateo e che essi tentano in ogni modo di diffondere con enorme danno dei cittadini e con somma creazione di divisione; quanto agli erranti, invece, non solo non li respingiamo, ma desideriamo ardentemente che essi ritornino alla verità e alla retta condotta»27.
    Uomo di Dio, si nutriva della preghiera. Quando pregava, a volte restava tanto assorto da non sentire chiunque lo chiamasse e da non avvertire neppure il familiare canarino che si posava e squittiva sulle sue mani giunte. Fu, quella della preghiera, una caratteristica che lo distinse sin da giovane, come attesta un testimone non sospetto come Ernesto Buonaiuti28.
    Pio XII, inoltre, fu un grande asceta. Uomo di acutissima intelligenza, di severa preparazione maturata in anni in cui ricoprì delicatissime responsabilità, egli raggiunse un equilibrio interiore che fu certamente frutto di un lungo tirocinio.
    Lavoratore instancabile, si sottoponeva a una disciplina rigorosa. Si intratteneva al tavolo di lavoro fino a notte inoltrata. Le sue pause dal lavoro erano pause di preghiera. Il suo ascetismo si trasferiva nel suo parlare, nel suo gestire, nell’attenzione che sapeva prestare a tutto e a tutti e nel bisogno di conoscere, in ogni evento e situazione, la verità da difendere e l’errore da combattere.
    La disciplina interiore era maturata in lui attraverso la formazione di una coscienza integerrima che si rifletteva nella serietà e proprietà del linguaggio, che aborriva qualsivoglia forma di ambiguità.
    Fu asceta perché amante della penitenza nel significato spirituale e mistico del termine.
    Infine, Pio XII fu un vero e grande pastore. Il gesuita padre Agostino Bea, che fu suo confessore e fu creato cardinale da Giovanni XXIII, scrisse: «Forse ci vorranno decenni, probabilmente secoli, per misurare la grandezza di Pio XII e il suo influsso sulla Chiesa e, diciamolo pure, sulla storia dell’umanità»29. Affermazione certamente iperbolica per quanto riguarda i tempi, ma chiara per esprimere la grandezza non comune del Pontefice veramente sommo, e assai indicativa per sostenere che la figura e l’opera di Pio XII sono una ricca miniera per i tesori naturali e soprannaturali contenuti.
    Da grande pastore Pio XII, aprendosi con grandi encicliche, come la Humani generis, alle istanze della cultura moderna, chiuse, di fatto, la fase tormentata del movimento modernista.
    Con la definizione del dogma dell’Assunzione corporea di Maria e con l’impulso dato alla pietà mariana, ridiede onore alla mariologia e al culto mariano.
    Grandi personaggi che hanno avvicinato Pio XII, lo hanno paragonato a Leone Magno, a Gregorio VII, a Leone XIII. Senza dubbio egli ha contribuito, come pochi, a dare alla Chiesa un prestigio morale fortemente incrinato sin dai tempi della Rivoluzione francese e dell’affermarsi dei sistemi liberali del XIX secolo.
    Non mi soffermo, poi, su Pio XII uomo della carità, intesa come anima e sostegno della giustizia. Mi limiterò a segnalare un libro, certamente non dei più diffusi, di don Primo Mazzolari che, anche sotto Pio XII, qualcuno si ostina a ritenere fosse bersaglio di incomprensioni e ostilità che si vorrebbero far risalire allo stesso Pontefice30.
    Nel 1956, don Mazzolari – che già nel 1934 era stato rimproverato dal Sant’Uffizio per il suo commento alla parabola del Figliuol prodigo La grande avventura – accettò l’invito rivoltogli da monsignor Ferdinando Baldelli, presidente della Pontificia Opera di Assistenza, a descrivere il ministero di carità di Pio XII.
    Pio XII proclama il dogma dell’Assunzione al cielo in anima e corpo di Maria santissima, il 1° novembre 1950

    Il libro La carità del Papa è, forse, il più bel ritratto di Pio XII, Papa della carità. Mi limito a una citazione tratta da questo scritto di don Mazzolari: «La nostra generazione ebbe un’esistenza tribolatissima, ma nessuno al pari di noi ebbe la grazia di vedere su tanto male ergersi la materna pietà della Chiesa, cosicché, narrandola, sentiamo di poter ripetere con san Giovanni: “Ciò che i miei occhi hanno visto, ciò che le mie mani hanno toccato del Verbo di carità, questo ora lo annunciamo”»31.
    Incontrai l’ultima volta Pio XII il 6 ottobre 1958, tre giorni prima della morte. Nonostante la malferma salute, aveva voluto parlare ai partecipanti al X Congresso nazionale della Società italiana per la chirurgia plastica. In quella circostanza, con modernissima intuizione, aveva definito la chirurgia plastica «una scienza e un’arte, ordinate, in sé stesse, a beneficio dell’umanità e, altresì, per quanto concerne la persona del chirurgo, una professione in cui si trovano impegnati anche importanti valori etici e psicologici»32. E non erano tempi in cui si ricorreva come oggi alla chirurgia plastica!
    Nel 1957, con il professor Luigi Gedda, avevo ottenuto dal Papa che scrivesse di suo pugno la “Preghiera del medico”. Volle consegnarla in copia autografa. Una preghiera che salda in maniera mirabile etica ippocratica e visione cristiana della vita. La preghiera fu letta per la prima volta da padre Pio da Pietrelcina in San Giovanni Rotondo, al termine del VII Congresso nazionale dei Medici cattolici italiani, celebrato a Bari il mese di maggio nel 1957.
    Più volte, Pio XII, particolarmente negli ultimi cinque anni del suo pontificato, fu gravemente malato e si temette per la sua vita.
    Ridondano le testimonianze sulla sua preparazione all’incontro con il Signore e sull’esemplare coraggio con cui accettò e visse la sua sofferenza.

    Conclusione
    Riscoprire Pio XII è riscoprire non soltanto un grande Pontefice, una figura che ha segnato la storia del secolo XX, ma è riscoprire un santo.
    Padre Burkhart Schneider, il gesuita che fu condirettore dell’opera Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, concludendo il suo acuto profilo di Pio XII, scriveva: «Sulla vita e sul pontificato di Pio XII incombe una fatalità tragica: non potere, anzitutto, impedire né abbreviare la Seconda guerra mondiale, con tutti gli orrori ad essa connessi. Ma chi esamini e ponderi senza prevenzione le fonti dirette, finora riconosciute, dovrà ammettere che Pio XII ha voluto il meglio e ha impegnato quanto era in suo potere e tutte le sue forze, integralmente, al servizio della Chiesa di Cristo e dell’umanità»33.


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    CAPITOLO II : UN CONCILIO DA RISCOPRIRE
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    00 29/01/2011 16:00
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    1. Tra i due roghi atomici di Hiroshima e Nagasaki, la conseguente resa incondizionata del Giappone il 2 settembre 1945 (che poneva fine ai sei anni della seconda guerra mondiale) e il primo annunzio del Concilio dato da Papa Giovanni il 25 gennaio 1959, passarono poco più di tredici anni.
    In questi tredici anni si era ormai compiuta la ricostruzione, e il ricordo della guerra si era alquanto allievolito, ma non cancellato. A un tempo, però, si erano ancor più maturate e sviluppate tutte le enormi conseguenzè della guerra, cioè sì era confermata e accresciuta quella trasformazione epocale che la guerra ha segnato (1).
    Nello stesso ambito della vita religiosa la guerra ha implicato tre conseguenze capitali:
    - ha spalancato la strada al sionismo realizzato: al ritorno di milioni di ebrei alla terra dei padri e alla loro lingua e cultura, ponendo problemi del tutto nuovi, teorici e pratici, per le altre religioni e in particolare per il cristianesimo;
    - ha segnato, con certe premesse economiche (petrolio) e sociali e nuove ideologie, il risveglio dei popoli arabi, non solo risveglio politico, ma anche ripresa espansionistica del messaggio religioso di cui essi sono portatori, provocando un nuovo dinamismo mondiale dell’islam;
    - in terzo luogo ha innestato nuovi fermenti critici e nuove ricerche proporzionate all’interno dello stesso cristianesimo: con un bisogno profondo, se pure ancora latente, di adeguazione della sua vitalità e della sua irradiazione nel mondo nuovo ormai in avanzato travaglio.

    2. I tredici anni trascorsi dalla fine della guerra mondiale al primo annunzio del Concilio hanno implicato anche per la Chiesa cattolica gravissime ripercussioni di questo enorme mutamento globale, che qualcuno forse avvertiva, ma che i più parevano ignorare ancora negli ultimissimi anni del pontificato di Pio XII. Anzi, forse si può arrivare a dire che proprio a questa ignoranza complessiva fu provvidenzialmente dovuta la nomina di Papa Giovanni: una figura lungamente emarginata nella Chiesa, solo molto recentemente accreditata dal successo della sua nunziatura parigina e del suo episcopato veneziano, e comunque già avanzato in età, sì da essere scelto intenzionalmente per un pontificato breve e di transizione.
    Se i Cardinali avessero lucidamente considerato il complesso di problemi che in questa prima elezione, dopo la seconda guerra mondiale, si stavano ponendo alla Chiesa e al mondo, non avrebbero probabilmente eletto Angelo Giuseppe Roncalli, ma avrebbero cercato altri. La conferma, del resto, di questa generale inconsapevolezza è data oggi dalla pubblicazione delle risposte dei vescovi alla consultazione che di essi fu fatta non tanti mesi dopo, in preparazione del Concilio: risposte che nella totalità non lasciano intravvedere nessuna visione panoramica dei problemi e nessun approccio serio ai punti nodali del grande rivolgimento storico in corso, neppure da parte di coloro che poi nel Concilio emersero pian piano – per un dono dello Spirito Attualizzato dalla vastità mondiale del confronto e del dialogo reciproco – come le personalità più dotate e capaci di intuizioni vaste e di apporti validi.

    2 / Credo che convenga insistere su questo punto: proprio per confutare una falsa interpretazione del Concilio, che tenderebbe ad attribuire certi mali o certe tendenze negative, rivelatesi poi, all’imprudenza e alle aperture del Concilio stesso, cadendo nel noto paralogismo: post hoc, ergo propter hoc (2).
    Il vero è che nei tredici anni dalla guerra al Concilio erano maturate ormai tutte le caratteristiche più forti e determinanti, o più lamentate, dell’era attuale. Mi pare che alcune debbano essere espressamente accennate.
    a) L’era planetaria o spaziale: con la relativa tendenza all’universalizzazione dei problemi (di tutti i problemi: economici, sociali, culturali) e alla interdipendenza delle varie entità nazionali, politiche e culturali, con una forte prevalenza di qualche potenza egemone e con la relativa crescente dipendenza delle potenze piccole o medie.
    b) L’era atomica: con i suoi immensi pericoli di catastrofi collettive, con la sempre più forte riduzione tecnica dei tempi decisionali e perciò la concentrazione sempre più avanzata del potere in pochissime mani, con la riduzione quasi allo zero delle possibilità di consultazione, di concorso e di
    partecipazione altrui.
    c) Il divario sempre più accentuato tra ricchi e poveri: con la disparità sempre crescente, e mai compensata, tra detentori e non delle nuove tecnologie, da cui dipendono tutti gli sviluppi industriali, economici, finanziari, per la pace e per la guerra.
    d) L’evidenziarsi globale nell’occidente di una società opulenta che, mentre eleva e propone l’esempio di uno standard di vita sempre più largamente al di là dei bisogni vitali essenziali, e crea modelli sempre più accentuati di soddisfazione di bisogni superflui, sembra arroccarsi sempre più su se stessa e abbandonare, quasi senza finzioni, ad una marginalità depauperata di tutto interi popoli e paesi in Asia, in Africa e in America meridionale.
    e) L’inasprirsi perciò della conflittualità in molte zone del mondo, con periodi alterni di distensione temporanea e per contro periodi di inasprimento delle crisi con pericolo imminente di estensioni più vaste: come fu, proprio alla vigilia della convocazione del Concilio, la crisi provocata dalla installazione di missili sovietici a Cuba, nel settembre 1962.
    f) 11 diffondersi sempre più vasto e apparentemente irreversibile di nuovi costumi, ispirati a un permissivismo involgente a tutti i livelli della moralità, e in particolare la rivoluzione dell’etica sessuale e della vita familiare. A questo proposito è importante notare che i grandi classici della cosiddetta rivoluzione sessuale sono anteriori al Concilio, come lo precedono certi progressi sperimentali della genetica (e in ispecie la cosiddetta pillola).
    g) La fragilità del diritto – e delle istituzioni preposte alla sua applicazione — in tutti i paesi, e in particolare già negli anni ‘50 la progressiva sostituzione, ad opera delle grandi imprese e particolarmente delle multinazionali, di organi privati di arbitrato alle pubbliche magistrature.
    h) Il dissolversi della filosofia, che tende sempre più a rinunziare ai suoi campi forti (la metafisica) per ridursi sempre di più alle cosiddette scienze dell’uomo (psicologia, sociologia, antropologia culturale, filosofia del linguaggio, filosofia delle scienze, ecc.).
    i) L’appropriazione da parte di certi teologi, già miziata anni prima del Concilio, di una quota di magistero spettante ai vescovi: certo dovuta a un evidente sconfinamento dei teologi, ma anche dovuta a una lunga serie di cause precedenti, e in particolare alla riduzione del ruolo episcopale a una funzione prevalentemente amministrativa, vieppiù confermata dai criteri adottati per la selezione e l’elezione dei vescovi.
    l) La crisi del clero e delle vocazioni sacerdotali e religiose, certamente già iniziata in quasi tutti i paesi europei nel dopoguerra, prima ancora del Concilio, anche se si è manifestata in modo conclamato dopo il Concilio. E’ forse questo il punto sul quale, perciò, insiste con un’apparente maggiore verosimiglianza la critica anticonciliare.

    3 / Mi permetto, però, di ribadire la mia idea, e cioè che anche per questa crisi erano già in atto prima del Concilio le cause più profonde e determinanti.
    Posso al riguardo riferire un episodio. Quattro giorni prima dell’apertura della seconda sessione del Concilio, fui ricevuto in udienza da Paolo VI, eletto da tre mesi, per riferirgli ed illustrargli le modificazioni del regolamento del Concilio che avevo proposto tramite il Cardinale Lercaro, per correggere lacune e imperfezioni rivelatesi durante la prima sessione. Esaurito felicemente l’argomento, accorgendomi che il Papa disponeva ancora di qualche momento per me, ne approfittai per parlargli di quella che considerava la questione assolutamente più fondamentale in quel momento, cioè appunto le difficoltà crescenti che colpivano, a mio avviso, molta parte del clero e che costituivano la causa più grave del declino delle vocazioni sacerdotali e religiose in Europa e anche in altre parti del mondo. Paolo VI mi ascoltò molto interessato e pensoso.
    3. Di tutti questi mutamenti intervenuti nel mondo e nella Chiesa, Papa Giovanni ebbe un’intuizione sintetica che, unita alla sua consapevolezza storica circa il modo con cui la Chiesa antica affrontava con i Concili le epoche di rinnovamento, gli fece balenare una luce improvvisa e pacata, e decidere con umile risolutezza (come egli stesso ebbe. a dire) la convocazione di un Concilio ecumenico.
    A meno di cento giorni, precisamente novanta giorni, dalla sua elezione, ne diede il solenne annunzio ai Cardinali riuniti in S. Paolo di Roma il 25 gennaio 1959. Tratteggiando sommariamente le condizioni religiose della Chiesa romana da un lato, e della Chiesa universale dall’altro, soggiunse che tutto questo
    Desta una risoluzione decisa per il richiamo di alcune forme antiche di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina, che nella storia della Chiesa, in epoca di rinnovamento, diedero frutti di straordinaria efficacia.
    Così il Papa collegava la sua lettura dei segni dei tempi che la Chiesa attraversava con la sua convinzione relativa alla tradizione conciliare, come una forma che la storia della Chiesa ci ha insegnato e che pur sempre ha ottenuto ubertosi risultati (3).
    E perciò riteneva che in un momento storico di eccezionale densità fosse necessario precisare e distinguere fra ciò che è principio sacro e Vangelo eterno, e ciò che è mutevolezza dei tempi (4).
    Fermamente ispirandosi all’intima certezza che in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e dell’umanità (5).
    Appare dunque chiaro che Papa Giovanni ha situato inequivocabilmente la decisione del Concilio in questo contesto epocale valutato sulla base di giudizi storici e, nel medesimo tempo, di intuizioni di fede, le cui conclusioni erano significativamente coincidenti.
    Contro tutte le perplessità e le resistenze che ben presto gli vennero opposte da molte parti, e soprattutto dalla Curia romana, come se la sua decisione fosse stata precipitosa e irriflessa, egli continuò sempre ad opporre la sua umile risolutezza e a restare attaccato e fedele a quella prima idea [. . .] sorta quasi umile fiore nascosto nei prati: non lo si vede nemmeno, ma se ne avverte la presenza dal suo profumo (6).

    4 / Sino alla solenne conferma fattane nella stessa Allocuzione inaugurale della grande assemblea, l’11 ottobre 1962: primo e improvviso fiorire nel nostro cuore e dalle nostre labbra della semplice parola di Concilio ecumenico (7)
    Nello stesso discorso inaugurale afferma con autorità solenne che il Papa è ferito da insinuazioni di anime, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura e che egli perciò deve dissentire da codesti profeti di sventura che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo.
    In tale quadro, il Concilio è chiamato a compiere quest’opera: il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace

    [. . .]
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    00 29/01/2011 16:01
    Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso [del sacro patrimonio di verità ricevuto dai Padri], come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da venti secoli [...] per un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze [. . .] studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno [. . .]. Altra è la sostanza dell’antica dottrina del «depositum fidei», e altra la formulazione del suo rivestimento.
    In conclusione Papa Giovanni indicava al Concilio la via di un magistero a carattere prevalentemente pastorale [... .] e (capace di) far fronte ai bisogni di oggi mostrando la validità della dottrina (della Chiesa) piuttosto che rinnovando condanne.
    Così non sanzioni, ma usando piuttosto «la medicina della misericordia». E perciò il primato su tutto della carità: della carità più dilatata, abbracciante
    l’unità dei cattolici fra di loro solidissima ed edificante; l’unità dei cristiani appartenenti alle varie confessioni dei credenti in Cristo [. . .] e l’unità degli appartenenti alle varie famiglie religiose non cristiane, che rappresentano la porzione più notevole di creature umane, redente anch’esse dal sangue di Cristo, ma non aventi ancora la partecipazione alla grazia e alla Chiesa di Gesù, di tutti Salvatore.
    La sera di quello stesso giorno Papa Giovanni si affaccia sulla piazza di 5. Pietro e, alla folla che si è riunita festosa per solennizzare l’inizio del Concilio, effonde il suo animo pieno di una carità universale, si direbbe cosmica, come la lode di qualche salmo (per esempio il Salmo 147, 2-4) (8).

    La mia voce è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui di fatto tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera. Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo. Gli è che noi chiudiamo una grande giornata di pace; sì, di pace: Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà! Occorre spesso ripetere questo augurio. Soprattutto quando possiamo notare che veramente il raggio e la dolcezza del Signore ci uniscono e ci prendono, noi diciamo: Ecco qui un pregustamento di quella che dovrebbe essere la vita di sempre, di tutti i secoli, e della vita che ci attende per l’eternità.

    5 / Ecco dunque come il cuore di Papa Giovanni ha concepito, ha pensato, ha voluto il Concilio: non tanto come un’assise normativa, ma piuttosto come uno spettacolo cosmico, un evento, un’anticipazione dell’eterna e universale liturgia, un grande atto di culto, di rendimento di grazie a Dio e di implorazione per tutti: per i fratelli in Cristo e per l’universa umanità.
    Ma non così l’aveva riottosamente accettato e pensato la Curia: ma piuttosto come un’occasione di semplice conferma della sua autorità centrale e di indirizzi fissisti, con qualche variazione di minori modalità tecniche (secondo una formula espressa e ripetuta).
    Perciò le molte decine di schemi preparatori elaborate dalle commissioni preconciliari e dalla commissione centrale preparatoria, durante quasi quattro anni, e comunicati solo in minima parte e negli ultimissimi mesi ai Padri (nonostante le sollecitazioni del Papa al riguardo), non potevano né corrispondere alle finalità fissate dal Papa per il Concilio, né al gradimento della maggioranza dei Padri conciiari.
    Di qui un certo disorientamento iniziale dell’assemblea e la conseguenza che la prima sessione finì senza che nessuno schema venisse approvato.
    Ma intanto i Padri ebbero modo di conoscersi, di responsabilizzarsi e di organizzarsi in raggruppamenti, avviando il processo più importante e più duraturo del Vaticano Il, la formazione cioè di una coscienza assembleare e collegiale e facendo uscire il vescovo medio dagli orizzonti ristretti ai quali era assuefatto per sentirsi effettivamente coinvolto nel servizio della Chiesa universale (9).
    E d’altra parte il Papa, per conto suo, provvedeva con vari suoi atti alla concentrazione dei troppi schemi preparatori in venti argomenti, alla disciplina del lavoro durante l’intersessione, alla nomina per questo di una commissione permanente di coordinamento, a disporre un Ordo agendorum per il futuro e a ribadire i punti centrali della sua Allocuzione inaugurale. Il che consentì al Concilio di continuare ordinatamente i suoi lavori anche dopo la morte del Papa e la successione di Paolo VI: conservando, per quanto era possibile, l’ispirazione iniziale giovannea, e così restando, sia pure non in tutto e non sempre con piena coerenza, fedele al grande balzo in avanti (auspicato dalla Gaudet Mater Ecclesia) che doveva portare la Chiesa fuori dell’epoca tridentina e avviarla per nuove vie più conformi alle istanze ecclesiali, espresse e coltivate negli ultimi decenni, soprattutto dal movimento biblico, dal movimento liturgico e da quello ecumenico: e con questo rendere il sacro deposito sempre più efficace rispetto ai nuovi problemi e ai nuovi bisogni.

    Date queste premesse – che ritenevo necessarie, e forse ancora insufficienti, per inquadrare minimamente gli esiti del Vaticano II – passiamo ora ad esaminare la portata intrinseca di qualcuno dei frutti che a me sembrano più rilevanti e più duraturi.
    1) La riaffermazione anzitutto della dottrina trinitaria: non in modo semplicemente ripetitivo e tralatizio, ma con una formulazione originale, tanto compiuta e dispiegata che si può dire che, dopo i primi quattro Concili, non se ne può trovare un’altra pari. Nemmeno al Concilio di Unione di
    Ferrara-Firenze. A questo riguardo si possono fare le seguenti osservazioni.
    a) L’insistenza di questa riaffermazione è tanto più significativa perché il Vaticano II poteva facilmente dispensarsene, non volendo programmaticamente essere un Concilio dogmatico.
    b) I loci propri di questa riaffermazione sono i preamboli di quasi tutti i documenti maggiori del Vaticano II: in qualcheduno, per esempio la Costituzione De Sacra Liturgia, n. 3 e 5-6 e la Costituzione De divina Revelatione, n. 2, in modo più sintetico; in qualche altro documento, per esempio la Costituzione De Ecclesia, n. 2-4, in modo più esteso e determinato; e infine in altro ancora, cioè il decreto Ad Gentes sull’attività missionaria, n. 2-4, in modo ancora più approfondito e maturo.
    c) La ripresa trinitaria non è occasionale o solo rituale, ma è intenzionalmente voluta come premessa e fonte di tutto lo sviluppo impresso ad ogni documento: per il De Ecclesia in particolare è suggellata dalla conclusione, derivata da S. Cipriano (10), che la Chiesa universale si presenta come «un popolo adunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».
    d) Non è condotta su argomenti speculativi, ma svolta quasi esclusivamente su dati scritturistici tra loro sapientemente coordinati, sì da delineare lo schema di una rivelazione trinitaria corrispondente alla storia della salvezza: parlando prima del disegno salvifico del Padre, e poi della missione del Figlio, e poi dell’opera santificatrice dello Spirito Santo.
    e) Perciò in particolare il dogma triitario è strettamente ed espressamente connesso con l’altro capitale oggetto della nostra fede, cioè l’incarnazione del Figlio di Dio, egli stesso Dio preesistente ed eterno (Ad Gentes, n. 3).
    f) Per lo Spirito Santo, è usata non l’attuale formula del Credo occidentale («lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio»), ma la formula dei greci accolta al Concilio di Firenze, e cioè che «lo Spirito Santo procede dal Padre per Filium» (ibidem, n. 2) (11).
    Orbene, questa affermazione conciliare della fede trinitaria così ripetuta, compatta, fontale per tutto il resto delle affermazioni del Vaticano II, appare non solo opportuna per arginare riduzioni erronee serpeggianti anche in campo cattolico (12) ma dimostra la sua attualità e vitalità per concepire tutto l’essere e l’agire del Cristo, della Chiesa, del cristiano. A prescindere da essa o eliminandone o riducendone la portata, non si può più parlare di fede cristiana in Gesù di Nazareth, né di Chiesa cristiana, né di cristiano.
    2) Direi quindi che un frutto del Concilio sono state le importantissime innovazioni introdotte nella dottrina dell’esegesi cattolica dalla Costituzione Dei Verbum sulla Rivelazione.
    Anzitutto l’introduzione del capitolo I De ipsa Revelatione, da tutti riconosciuto come l’insegnamento più innovatore e più riuscito del Vaticano II al riguardo: “Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà” (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre, e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione, infatti, Dio invisibile (Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo immenso amore, parla agli uomini come ad amici (Es 33,11; Gv 15,14-15) e si
    intrattiene con essi (Bar 5,38), per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé (DV, n. 2).
    In secondo luogo il Concilio ha messo in rilievo i due caratteri fondamentali di questa Rivelazione: cioè l’interpersonalità (rapporto complesso di comunione, di conoscenza e di amore tra Dio e l’uomo) e a un tempo la storicità della rivelazione stessa.

    6 / Questa economia della rivelazione avviene per mezzo di gesti e di parole intrinsecamente connessi, cosicché le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e confermano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il
    mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione (DV, n. 2).
    Questo consente e insieme impone di superare una concezione ancora intellettualistica della Rivelazione come comunicazione di asserti astratti, a vantaggio, invece, di una concezione più completa, fatta di parole e di eventi, e culminante nell’evento unico e nella Parola unica di Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, nella sua vita, morte e risurrezione, e nell’invio del suo Spirito di verità: nella sua storia tra noi, con noi, in noi (v. anche DV, n. 4).
    Quindi sottomettersi alla storicità della Rivelazione e aderire pienamente al metodo storico non vuol dire solo attenersi alla storicità dei singoli fatti e alla tipologia dei vari testi della Scrittura come documento canonico della Rivelazione, ma vuol dire anche, inevitabilmente, riconoscere la singolarità irripetibile dell’evento di Cristo: Gesù Cristo diventa la misura valutativa suprema di tutti i grandi criteri attraverso i quali si cerca di comprendere le singole verità rivelate. E finalmente si deve e si può cercare Lui come ultima chiave ermeneutica, nell’intersezione a un tempo tra la Scrittura, i sacramenti e la vita della Chiesa.
    Ancora e soprattutto il Concilio ha messo fortemente in evidenza la parte dello Spirito Santo, non solo nella ispirazione delle Sacre Scritture, ma anche in quelli che si possono dire i loro analoghi precedenti e i loro analoghi susseguenti (13).
    La fede, in quanto risposta alla Rivelazione di Dio, è impossibile senza una mozione dello Spirito Santo:
    A Dio che rivela, è dovuta l’obbedienza della fede [. . .]. Perché si possa prestare questa fede è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere (ibidem, n. 5).
    Così, nella dinamica della tradizione, lo Spirito Santo sorregge i diversi fattori storici progressivamente attualizzanti la Rivelazione.
    Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione apostolica hanno ricevuto un carisma sicuro di verità
    (ibidem, n. 8).
    Anzi, è lo Spirito Santo che introduce i credenti dentro tutt’intera la verità rivelata: Lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, introduce i credenti dentro tutt’intera la verità, e in essi fa risiedere la Parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (ibidem).
    Perciò quanto all’interpretazione della Scrittura, dopo avere ancora ribadito e chiarito che l’interprete deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi in realtà hanno inteso significare – quindi tener conto fra l’altro dei generi letterari (come già prescriveva l’enciclica di Pio XII, Divino Afflante Spiritu del 30 settembre 1943) – contestualmente, nello stesso paragrafo, la Dei Verbum dichiara.

    7 / Però [sed], dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavarne con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza [non minus diligenter] al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e della analogia della fede (DV, n. 12).
    Parole, queste, di immensa importanza, perché aprivano la via alla legittimazione della ricerca oltre il senso storico, anche del senso spirituale, in conformità alla migliore e pìu genuina ed equilibrata esegesi patristica.
    Tale legittimazione del senso spirituale delle Scritture – contestato lungamente da molti per un monolitismo ermeneutico che insisteva al di là del debito sul senso storico letterale – ha raggiunto la sua pienezza nel recente documento della P. Commissione biblica del 15 aprile 1993, che è il primo in assoluto tutto dedicato alla interpretazione della Scrittura. Esso passa in rassegna in modo sistematico oltre che il metodo storico-critico (del quale conferma la validità e la necessità, ma anche dichiara l’insufficienza e la necessità di integrarlo con altri metodi) anche l’approccio semiotico, quello sociologico, quello antropologico-culturale, e quello psicologico e psicanalitico: cioè si apre con favore alle più recenti scienze del linguaggio e ad alcune nuove ermeneutiche
    filosofiche, che affermano la polisemia dei testi scritti. E perciò giunge a evidenziare, a certe condizioni, non solo la legittimità ma la rilevanza significativa del senso spirituale della Scrittura.
    Non possiamo abbandonare questo argomento senza rilevare la grande insistenza con la quale la Dei Verbum attribuisce una massima importanza alla Scrittura rispetto a tutte le scienze teologiche, e raccomanda la conoscenza abituale e la pia lettura della Bibbia a tutti i cristiani (14).
    5. 3) Un terzo esito importante del Concilio è stata la revisione di tutta la materia liturgica e l’avviamento di una riforma organica e generale che si è esplicata negli anni immediatamente successivi. Può essere, però, che nella valutazione comune dei risultati in questo campo, non ci si metta dal punto di vista giusto. Come è accaduto anche nel sinodo straordinario celebrativo del Vaticano II, il sinodo cioè del 1985, sotto l’ottimismo ufficiale – che parla ancora del rinnovamento liturgico come del «frutto più appariscente di tutta l’opera conciliare» – il sinodo stesso deve constatare che si nascondono tuttora valutazioni e tensioni in vari sensi. Da una parte un certo immobilismo e conservatorismo, che produce una recezione delle riforme ancora solo esteriore; e dall’altra la persuasione che le riforme introdotte siano state del tutto insufficienti, e quindi l’urgere di tentativi nuovi o di riforme arbitrarie da parte di singoli gruppi o di comunità locali o nazionali.
    In effetti, la Costituzione della liturgia è stata quella più remotamente preparata da decenni del movimento liturgico internazionale, ma anche è stata quella discussa per prima dal Concilio (appena uscito dalla crisi iniziale), e perciò la sua anticipata discussione fu una scelta non gradita agli uomini che avevano guidato la preparazione preconciliare, ma che risultò il migliore raccordo possibile tra i fermenti di rinnovamento presenti da decenni nel cattolicesimo e le resistenze dei tradizionalisti. Queste resistenze ebbero modo di farsi sentire in Concilio durante tutta la fase conciliare della discussione liturgica, e ancor più dopo, nella fase post-conciliare di esecuzione della riforma.
    Di qui le indubbie timidezze della riforma stessa e le evidenti sue carenze e contraddizioni, e ancora una certa permanente incompletezza.

    8 / Ma non si possono negare certi risultati concreti, come ad esempio quello, ben evidente a tutti, del passaggio dall’esclusivismo della lingua latina all’uso delle lingue volgari; quello della parte ben più ampia fatta, nella Messa e nell’Ufficio divino, alla Parola di Dio; quello della promozione di una attiva partecipazione comunitaria di tutti i fedeli; e quello ancora della ammissione – almeno in linea di principio – di possibili ulteriori progressi e sviluppi nell’adattamento delle forme liturgiche all’indole e alle culture dei vari popoli; oltre che alla ripulitura di ogni aspetto liturgico (negli edifici, nelle espressioni artistiche, nei canti, ecc.) dalle peggiori stratificazioni barocche o devozionali.
    Ma soprattutto si deve rendere giustizia al Concilio di avere realizzato – al di là di tutti i risultati singoli, anche rilevanti – un risultato globale: quello di avere, con decisa volontà, aperto un grande varco di principio nella situazione liturgica immobile da secoli. E cioè di avere posto inizio a una dinamica di rinnovamento che, contro ogni ben prevedibile resistenza, non poteva e non potrà essere arrestata per il futuro, se il Signore conserverà alle Chiese ed alle comunità un giusto equilibrio tra saggezza e aspirazioni ad una maggiore autenticità e freschezza delle forme liturgiche.
    E c’è ancora qualche cosa di più: la Costituzione della liturgia, oltre alle sue conquiste particolari, ha rivelato, in certi punti, soprattutto la possibilità di una nuova organica teologia e di una nuova spiritualità del mistero liturgico, in connessione vitale col mistero di Cristo e col mistero della Chiesa.
    Ci sono almeno tre punti che devono essere considerati dei capisaldi fondamentali per sempre:
    a) il primato dato al mistero pasquale, cioè al mistero della beata passione [di Cristo], risurrezione da morte e gloriosa ascensione, col quale «morendo, ha distrutto la morte, e risorgendo ci ha ridonato la vita». Infatti, dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa (SC, n. 5).
    Oggi la locuzione «mistero pasquale», in questo senso denso e intimamente collegato al mistero di tutta la Chiesa, è diventata di uso comune, ma prima del Concilio è stata introdotta solo da un libro, poi divenuto famoso, di Louis Bouyer. È merito del Concilio averlo formalmente ripreso, esplicato, divulgato, e soprattutto averlo collegato con la sua ecclesiologia.
    b) L’enunciato che per quanto la liturgia non esaurisca tutta l’azione della Chiesa … .] nondimeno essa è il culmine verso il quale tende l’azione della
    Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù (ibidem, n. 9-10).
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    00 29/01/2011 16:01
    Questo enunciato è coerentemente assunto a base di tutta la teologia sottesa ad ogni capitolo della Costituzione liturgica, e dopo di essa è divenuto il fondamento di ogni sviluppo teologico in liturgia.
    c) Infine, l’altro enunciato che bisogna che tutti diano la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi intorno al vescovo, principalmente nella
    Chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della Chiesa sia nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri (SC, n. 41).
    Con queste tre affermazioni di grande portata sintetica, il Concilio aveva già posto le basi di un largo superamento della ecclesiologia precedente, ancora prevalentemente giuridica, e aveva veramente aperto l’orizzonte nuovo di una ecclesiologia misterica, che sarà poi sviluppata in altri suoi testi (sia pure non senza qualche contraddizione o incoerenza).

    9 / 4) E appunto parliamo ora dell’apporto del Vaticano Il all’ecclesiologia. Il Concilio ne ha trattato, oltre che ex professo nella Costituzione Lumen Gentium, anche in altri testi, specialmente nel decreto sulle Chiese orientali, nel decreto sull’ecumenismo, nel decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi, e nell’altra Costituzione, Gaudium et Spes, cioè su Chiesa e mondo. In questa sede dovrò limitarmi ancora di più e concentrare tutto su alcuni elementi che a me sembrano primari e tuttora durevoli e dinamici.
    Anzitutto il disegno generale e l’ordine della trattazione del De Ecclesia: non è stato ripetitivo o fortuito, ma deliberatamente voluto per invertire l’ordine precedentemente usuale, e seguito anche negli schemi preparatori.
    Dopo un primo capitolo sul mistero della Chiesa, se ne è voluto subito un secondo sul popolo di Dio, ponendo quindi al terzo posto la trattazione sulla gerarchia, e in particolare sull’episcopato; proseguendo poi con un quarto capitolo tutto dedicato ai laici, con un quinto sulla universale vocazione alla santità, con un sesto sui religiosi, con un settimo sull’indole escatologica della Chiesa e la sua unione con la Chiesa celeste, e con l’ottavo conclusivo sulla Vergine Maria, Madre di Dio e madre e archetipo della Chiesa stessa.
    Quanto al primo capitolo, segnalerò la distinzione esplicita tra Chiesa e regno di Dio, del quale la Chiesa è vista soltanto come inizio o preparazione in mysterio (n.5); segnalerò la rassegna esauriente delle immagini bibliche della Chiesa, che si sono volute elencare tutte, premettendole all’unica immagine abitualmente usata, cioè quella del corpo di Cristo (n. 6-7); e finalmente l’enucleazione della Chiesa come realtà visibile e spirituale: enucleazione nella quale non si è voluto pari pari ripetere l’equazione della Mystici Corporis di Pio XII, tra Chiesa cattolica e corpo di Cristo, in quanto si è preferito dire non che la Chiesa del mistero è la Chiesa cattolica, ma che nella Chiesa cattolica subsistit (sussiste) la Chiesa del mistero, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica (LG, n. 8).
    Sia il subsistit è di difficile interpretazione (15); sia il parlare solo di singoli «elementi di santificazione e di verità» nelle Chiese separate è apparso già in Concilio, a molti, piuttosto riduttivo della realtà complessa di vere Chiese, sia pure imperfette, spettante alle Chiese ortodosse.
    E su questo avremo occasione ancora di dire una parola.
    Il secondo capitolo sul popoìo di Dio è del tutto nuovo. Esso ha lo scopo di presentare la Chiesa, prima che come struttura visibile, come popolo messianico, e quindi costituito da Cristo in una comunione di vita, di carità e di verità, e preso da Lui per essere strumento della redenzione di tutti e quale luce del mondo e sale della terra inviato a tutto il mondo (ibidem, n. 9).
    Dio ha convocato l’assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di questa unità salvifica. Dovendo estendersi a tutte le regioni essa entra nella storia degli uomini, e insieme però trascende i tempi e le frontiere dei popoli (ibidem).
    (15) Secondo il suo stesso proponente, cioè il segretario della commissione teologica, il teologo lovaniense Mons. Philips, la formula subsistit avrebbe poi fatto scorrere fiumi d’inchiostro: vedi Philips, L’Eglise et son mystère, Paris, 1967, p. 119.

    10 / Così, i termini prettamente biblici di comunione e di assemblea sono divenuti tipici della nuova ecclesiologia che si è pian piano almeno iniziata, se non ancora completamente svolta. Essi servono a mettere in evidenza, piuttosto che il vincolo giuridico, l’intensità e l’universalità dell’affiato vitale
    che unisce tutti i membri a Cristo e tra di loro.
    E ancora meglio evidenziano e giustificano quella dignità che a tutti i componenti di questa comunione e di questa grande assemblea è attribuita da Cristo loro comune capo, cioè la dignità di essere «un regno e dei sacerdoti per Dio suo Padre» (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). La dignità, dunque, che è
    il sacerdozio regale comune a tutti i fedeli, attribuito loro dal sacramento del Battesimo, non va opposta, ma deve essere, secondo il Concilio, reciprocamente funzionale rispetto al sacerdozio ministeriale conferito ad alcuni con l’ordinazione sacra (vedi LG, n. 10).
    L’unico popolo di Dio ha un’estensione potenzialmente universale, secondo diversi ordini: dapprima i cattolici, che vi sono plene incorporati; poi i battezzati che non professano la fede integrale o che non conservano l’unità della comunione col successore di Pietro, ma che sono comunque ancora legati dal comune possesso della Sacra Scrittura, e dagli altri sacramenti, compresa l’Eucaristia; poi i non cristiani (ebrei, musulmani, e altri) che cercano sinceramente Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna (ibidem, n. 13-16).
    6. E veniamo ora al terzo capitolo della Lumen Gentium, sulla Costituzione gerarchica della Chiesa che, come è risaputo, ha costituito il centro di tutto il dibattito conciliare. Non vorrei addentrarmi nella rievocazione dei singoli momenti di questo dibattito, ma soltanto dire con semplicità quali ne sono stati, e ne rimangono, i risultati sostanziali.
    a) Una integrazione comunque della ecclesiologia del Vaticano I, che si era arrestato ad affermare soltanto il primato del Pontefice romano. Nel Vaticano II, ribadita formalmente e più volte la dottrina del primato, si è però voluto quanto meno completarla con un’adeguata dottrina sui vescovi come successori degli Apostoli.
    b) Perciò si è pervenuto anzitutto a colmare una lacuna dell’insegnamento precedente, che in certi momenti e in certi luoghi ha provocato dubbi e perplessità, cioè la mancanza di una definizione esplicita della sacramentalità dell’episcopato. Come forse può ricordare qualche confratello anziano
    che ha fatto i suoi studi in questo seminario prima del Concilio, anche qui si è potuto talvolta dubitare che l’episcopato fosse un grado speciale e supremo del sacramento dell’ordine, e quindi si è potuto rievocare alcuni casi aberranti di conferimento del sacerdozio da parte di Abati non
    consacrati vescovi.
    Ebbene, oggi non è più possibile alcuna esitazione o dubbio al riguardo. Anzi, per dirimere tale questione, il Vaticano II ha usato la forma più esplicita e solenne di dichiarazione, che ha fatto pensare che al proposito il Concilio abbia voluto esprimere l’unica nuova dichiarazione dogmatica di tutto il suo insegnamento.
    Insegna il santo Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata il sommo sacerdozio, il vertice del sacro ministero [. . .]. È proprio dei vescovi assumere col sacro ministero dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale (ibidem, n. 21).
    c) E quindi sulla scorta della più antica disciplina, e in particolare della prassi dei Concili ecumenici (dopo aver ribadito ancora una volta il potere primaziale di Pietro e del suo successore su tutta la Chiesa) si è finalmente pervenuti ad esplicitare formalmente quello che poi in realtà è stato da sempre ammesso, cioè che l’ordine dei vescovi, che succede al collegio degli Apostoli nel magistero e nel governo pastorale, nel quale anzi si
    perpetua ininterrottamente il corpo apostolico, è pure, insieme con il suo capo, il romano Pontefice, e mai senza di esso, soggetto di suprema potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata senza il consenso del romano Pontefice [... .]. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, godono di un potere che è loro proprio [.. .]. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico [.. .]. La stessa potestà collegiale può essere esercitata insieme col capo dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami a un atto collegiale, o almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale (ibidem, n. 12).

    11 / In questo testo viene ovvio notare il numero e l’insistenza delle riserve alla collegialità e delle riconferme della funzione primaziale del Papa, dalle quali traspare tutta la fatica che costò al Concilio l’espresso riconoscimento dell’episcopato universale come collegio dotato di una propria potestà, e il riconoscimento di questa potestà come suprema nella Chiesa. Tale fatica non fu soltanto determinata dalla resistenza accanita di una non grande minoranza, ma anche da ripetuti interventi personali di Paolo VI (con i cosiddetti modi, cioè emendamenti del Papa), che si volle supergarantire contro ogni possibilità di interpretazione disgiunta o contrastante della potestà collegiale rispetto alla potestà primaziale.
    Ma non fu tutto qui: ci fu, come molti sanno, l’aggiunta della cosiddetta Nota explicativa praevia, con la quale si volle stabilire i criteri di una interpretazione ancora più restrittiva del testo conciliare, con il corollario, fra l’altro, di sollevare un dubbio non risolto sulla validità dell’episcopato
    delle Chiese ortodosse separate, in contrasto con molti atteggiamenti del Concilio e dello stesso Paolo VI. Va però soggiunto che sin dal primo momento in cui questa Nota fu letta al Concilio «per ordine dell’autorità superiore» dal segretario generale, ci furono molti – e ancor più sono oggi – che ritennero e ritengono che questa Nota esplicativa non può essere considerata un vero atto conciliare.
    d) Un altro enunciato veramente capitale, e di rilievo oggi sempre più grande – nonostante il modo incidentale in cui è stato formalmente fatto – è quello espresso da queste parole della Lumen Gentium n. 23.
    I vescovi singolarmente presi sono il principio visibile e il fondamento dell’unità delle loro Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica.
    Questo enunciato va integrato da un altro che lo applica e lo sviluppa nel decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei vescovi, che definisce la diocesi come una porzione del popolo di Dio, che è affidata alle cure pastorali del vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui unita per mezzo del Vangelo e della Eucaristia nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica (CD, n. 11).
    Quanto sia innovante questa formulazione, lo si capisce dal confronto con la definizione di diocesi del vecchio Codice, che vedeva in essa solo una porzione non del popolo di Dio, e tanto meno una Chiesa particolare, ma semplicemente una circoscrizione territoriale della Chiesa universale.
    Appunto sulla base di questi testi, il Concilio ha dato lo spunto a tutta la dottrina della Chiesa locale, che a mio avviso è in definitiva non solo il frutto del tutto nuovo più importante nell’attuale ecclesiologia, ma è anche la più rilevante e dinamica possibilità di sviluppi concretamente evolutivi in tutta la vita cattolica e in genere, per le sue valenze ecumeniche, nella vita dei cristiani tutti. Tanto più quanto più si mette in rapporto la dottrina della Chiesa locale con l’affermazione già segnalata della Sacrosanctum Concilium, n. 41, sull’assemblea eucaristica presieduta dal vescovo nella sua cattedrale come princtpale manifestazione della Chiesa. Cioè, la dottrina della Chiesa locale si potenzia necessariamente in una ecclesiologia eucaristica (16). E da questa sempre più il discorso sulla Chiesa sembra tendere a parlare di una Chiesa di Chiese (17)

    12 / e) Non sembra invece essere un’adeguata realizzazione della collegialità episcopale l’istituto del sinodo dei vescovi: né concettualmente (per la sua limitazione a un parere solo consultivo offerto al Papa), né praticamente, per il modo con cui si è realizzato, soprattutto nelle tre ultime tornate.
    Anche quest’ultimo, sulla vita consacrata, sembra destinato a deludere i molti interessati (religiose e religiosi) e gli stessi partecipanti. Comunque al massimo si può dire che il sinodo dei vescovi, se non realizza la collegialità effettiva, può essere per qualcuno e in certo modo una realizzazione di
    collegialità affettiva o vissuta (18).
    f) Infine, del III capitolo della Lumen Gentium non può essere dimenticata la restaurazione del diaconato permanente, anche uxorato, completamente estintosi nella Chiesa d’occidente da molti secoli. Il Vaticano Il ha voluto il diaconato permanente esplicitandone così le funzioni fondamentali: amministrare solennemente il Battesimo, conservare e distribuire l’Eucaristia, in nome della Chiesa assistere e benedire il matrimonio, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popoìo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito del funerale e della sepoltura.
    E in aggiunta i diaconi dovrebbero essere dediti alle opere di carità e di assistenza.
    Ma poiché il Vaticano II, pur affermando la necessità dei diaconi in molte Chiese, ha lasciato alle conferenze episcopali e in definitiva ai singoli vescovi l’impulso restauratore del diaconato, questo è stato sino ad ora territorialmente molto differenziato, e complessivamente piuttosto esiguo.
    E’ probabile che continui ancora nelle Chiese quella tensione tra presbiteri e diaconi, che in passato presumibilmente è stata la causa della estinzione del diaconato permanente, e che ancora ne riduce la prassi e la vitalità nella Chiesa, e perciò impedisce la vera e forte formazione di una teologia del diaconato. Cosicché in sostanza non si può dire ancor oggi, del diaconato, molto di più di quanto ne diceva il Concilio (19).

    13 / 7. Importanti sviluppi applicativi dei principi enunciati nei primi tre capitoli della Lumen Gentium si trovano nei capitoli seguenti della stessa costituzione.
    Nel capitolo quarto vi è l’affermazione della insurrogabilità della missione e del contributo dei laici all’opera complessiva della salvezza affidata alla Chiesa.
    Nel capitolo quinto è ampiamente ribadita l’universalità dell’unica vocazione alla santità nella Chiesa, sia per i membri della gerarchia e sia per i laici.
    Nel capitolo sesto è trattata, in modo forse scarsamente approfondito, la natura e l’importanza dello stato religioso.
    Nel capitolo settimo si propone, con accenti forse un po’ nuovi, l’indole escatologica della Chiesa pellegrinante e la sua comunione attuale con la Chiesa celeste.
    E finalmente, nel capitolo ottavo, è compiuto un passo in avanti nel delineare la funzione, nell’economia della salvezza, della beata Vergine Maria: della quale è rivendicato in modo più sostanziale e rigoroso il titolo primario di Madre cli Cristo, unico mediatore, e quindi di Madre della Chiesa e suo archetipo pienamente realizzato (20).
    8. Mi resta ora da segnalare sinteticamente l’importanza e il rilievo ancora attuale di due altri documenti, cioè del decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, e della dichiarazione Nostra Aetate sulle religioni non cristiane.
    a) Il primo documento – per quanto di fatto possa trovare ostacolo o provocare delusioni sul piano concreto delle relazioni effettive sia con qualche comunità della Riforma (ora specialmente la Chiesa anglicana), sia con la Chiesa ortodossa (ora specialmente con la Chiesa russa) – contiene però in linea di principio enunciati di supremo rilievo e di costante validità: enunciati che sono in grande parte capaci di equilibrare o di stabilire la vera interpretazione da dare a certi punti più deboli o meno chiariti degli altri documenti conciliari.
    Per esempio l’asserzione che quelli che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Quelli infatti che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il Battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica [.. .] e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore (UR, n. 3).
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    Heleneadmin
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    00 29/01/2011 16:03
    E conseguentemente il riconoscimento delle Chiese ortodosse come vere Chiese che, quantunque abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso.
    Poiché lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla Chiesa cattolica (ibidem).

    14 / E ancora che quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti, e soprattutto, in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli. Una certa comunicazione nelle cose sacre, presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo è possibile, ma anche consigliabile (ibidem, n. 15).
    E infine è posto a fondamento di tutto – e io dico anche come criterio interpretativo generale e del Vaticano Il e di ogni altro documento dottrinale – il seguente principio ermeneutico: inoltre nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, restando fedeli alla dottrina della Chiesa, nell’investigare con i fratelli separati i divini misteri, devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o «gerarchia» nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana (ibidem, n. 11).
    Questa «gerarchia» delle verità impedisce ciò che spesso può accadere, ossia un appiattimento di tutte le verità sullo stesso livello, mentre è di somma importanza sempre distinguere tra di esse in ragione della loro maggiore o minore prossimità col fondamento della fede.
    Quale fondamento? Quale nucleo? Lo si può individuare inequivocabilmente dalla Scrittura, e più precisamente dalla primitiva predicazione apostolica: cioè l’amore del Padre che si è ultimamente e definitivamente rivelato in Cristo, Verbo di Dio fatto carne da Maria Vergine, per noi e per la nostra riconciliazione, morto in croce, risorto, glorificato, che ritornerà glorioso a giudicare i vivi e i morti, e che intanto raduna e santifica, nel dono dello Spirito Santo, la sua Chiesa, sino alla pienezza escatologica del Regno, nel quale anche il nostro corpo mortale risorgerà, e Dio sarà tutto in tutti.
    b) La dichiarazione Nostra Aetate, nella sua brevità e nella constatazione pratica del processo di unificazione in corso nella totalità del genere umano, pur restando nei limiti rigorosi di enunciati molto generali, afferma il rispetto della Chiesa cattolica verso tutte le religioni, e verso quanto in ciascuna di esse può riflettere «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (NA, n. 2).
    Perciò esorta tutti i cattolici a che con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i beni spirituali e morali e i valori socio-culturali che si trovano in essi (ibidem).
    E in particolare, nei confronti dei musulmani, mette in evidenza come punti comuni il riconoscimento di Gesù come profeta (non come Dio), la venerazione verso la Vergine Madre, l’attesa del giorno del giudizio, la stima del culto e della preghiera a Dio.
    E per gli ebrei mette in rilievo il patrimonio commune – cioè le Scritture veterotestamentarie, che la Chiesa ha ricevuto per mezzo del popoìo d’Israele, le persone di Abramo, di Mosé, dei profeti, e soprattutto di Maria e degli Apostoli – raccomanda la conoscenza e il dialogo reciproco, esecra e deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo: per confermare che la Chiesa crede che Cristo, la nostra pace, ha riconciliato gli ebrei e i popoli pagani per mezzo della sua croce, e dei due ha fatto uno solo in se stesso (Ef 2,14-16) (ibidem, n. 4).
    Certamente sul piano dottrinale e pratico restano aperti o ancor più proprio adesso, in virtù della nostra dichiarazione, si aprono molti e complessi problemi: ma non c’è dubbio che, dopo molti secoli di contrasti e di pura opposizione, il Vaticano II ha aperto una grande porta di disponibilità verso le altre religioni, e che interpreta, nel suo annuncio, la stessa croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come la fonte di ogni grazia (ibidem, n. 4). (Oliveto, 28.10.1994 Nel 36° anniversario dell’elezione di Papa Giovanni XXIII)