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CVII

Ultimo Aggiornamento: 29/01/2011 16:03
29/01/2011 16:01
 
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Questo enunciato è coerentemente assunto a base di tutta la teologia sottesa ad ogni capitolo della Costituzione liturgica, e dopo di essa è divenuto il fondamento di ogni sviluppo teologico in liturgia.
c) Infine, l’altro enunciato che bisogna che tutti diano la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi intorno al vescovo, principalmente nella
Chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della Chiesa sia nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri (SC, n. 41).
Con queste tre affermazioni di grande portata sintetica, il Concilio aveva già posto le basi di un largo superamento della ecclesiologia precedente, ancora prevalentemente giuridica, e aveva veramente aperto l’orizzonte nuovo di una ecclesiologia misterica, che sarà poi sviluppata in altri suoi testi (sia pure non senza qualche contraddizione o incoerenza).

9 / 4) E appunto parliamo ora dell’apporto del Vaticano Il all’ecclesiologia. Il Concilio ne ha trattato, oltre che ex professo nella Costituzione Lumen Gentium, anche in altri testi, specialmente nel decreto sulle Chiese orientali, nel decreto sull’ecumenismo, nel decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi, e nell’altra Costituzione, Gaudium et Spes, cioè su Chiesa e mondo. In questa sede dovrò limitarmi ancora di più e concentrare tutto su alcuni elementi che a me sembrano primari e tuttora durevoli e dinamici.
Anzitutto il disegno generale e l’ordine della trattazione del De Ecclesia: non è stato ripetitivo o fortuito, ma deliberatamente voluto per invertire l’ordine precedentemente usuale, e seguito anche negli schemi preparatori.
Dopo un primo capitolo sul mistero della Chiesa, se ne è voluto subito un secondo sul popolo di Dio, ponendo quindi al terzo posto la trattazione sulla gerarchia, e in particolare sull’episcopato; proseguendo poi con un quarto capitolo tutto dedicato ai laici, con un quinto sulla universale vocazione alla santità, con un sesto sui religiosi, con un settimo sull’indole escatologica della Chiesa e la sua unione con la Chiesa celeste, e con l’ottavo conclusivo sulla Vergine Maria, Madre di Dio e madre e archetipo della Chiesa stessa.
Quanto al primo capitolo, segnalerò la distinzione esplicita tra Chiesa e regno di Dio, del quale la Chiesa è vista soltanto come inizio o preparazione in mysterio (n.5); segnalerò la rassegna esauriente delle immagini bibliche della Chiesa, che si sono volute elencare tutte, premettendole all’unica immagine abitualmente usata, cioè quella del corpo di Cristo (n. 6-7); e finalmente l’enucleazione della Chiesa come realtà visibile e spirituale: enucleazione nella quale non si è voluto pari pari ripetere l’equazione della Mystici Corporis di Pio XII, tra Chiesa cattolica e corpo di Cristo, in quanto si è preferito dire non che la Chiesa del mistero è la Chiesa cattolica, ma che nella Chiesa cattolica subsistit (sussiste) la Chiesa del mistero, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica (LG, n. 8).
Sia il subsistit è di difficile interpretazione (15); sia il parlare solo di singoli «elementi di santificazione e di verità» nelle Chiese separate è apparso già in Concilio, a molti, piuttosto riduttivo della realtà complessa di vere Chiese, sia pure imperfette, spettante alle Chiese ortodosse.
E su questo avremo occasione ancora di dire una parola.
Il secondo capitolo sul popoìo di Dio è del tutto nuovo. Esso ha lo scopo di presentare la Chiesa, prima che come struttura visibile, come popolo messianico, e quindi costituito da Cristo in una comunione di vita, di carità e di verità, e preso da Lui per essere strumento della redenzione di tutti e quale luce del mondo e sale della terra inviato a tutto il mondo (ibidem, n. 9).
Dio ha convocato l’assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di questa unità salvifica. Dovendo estendersi a tutte le regioni essa entra nella storia degli uomini, e insieme però trascende i tempi e le frontiere dei popoli (ibidem).
(15) Secondo il suo stesso proponente, cioè il segretario della commissione teologica, il teologo lovaniense Mons. Philips, la formula subsistit avrebbe poi fatto scorrere fiumi d’inchiostro: vedi Philips, L’Eglise et son mystère, Paris, 1967, p. 119.

10 / Così, i termini prettamente biblici di comunione e di assemblea sono divenuti tipici della nuova ecclesiologia che si è pian piano almeno iniziata, se non ancora completamente svolta. Essi servono a mettere in evidenza, piuttosto che il vincolo giuridico, l’intensità e l’universalità dell’affiato vitale
che unisce tutti i membri a Cristo e tra di loro.
E ancora meglio evidenziano e giustificano quella dignità che a tutti i componenti di questa comunione e di questa grande assemblea è attribuita da Cristo loro comune capo, cioè la dignità di essere «un regno e dei sacerdoti per Dio suo Padre» (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). La dignità, dunque, che è
il sacerdozio regale comune a tutti i fedeli, attribuito loro dal sacramento del Battesimo, non va opposta, ma deve essere, secondo il Concilio, reciprocamente funzionale rispetto al sacerdozio ministeriale conferito ad alcuni con l’ordinazione sacra (vedi LG, n. 10).
L’unico popolo di Dio ha un’estensione potenzialmente universale, secondo diversi ordini: dapprima i cattolici, che vi sono plene incorporati; poi i battezzati che non professano la fede integrale o che non conservano l’unità della comunione col successore di Pietro, ma che sono comunque ancora legati dal comune possesso della Sacra Scrittura, e dagli altri sacramenti, compresa l’Eucaristia; poi i non cristiani (ebrei, musulmani, e altri) che cercano sinceramente Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna (ibidem, n. 13-16).
6. E veniamo ora al terzo capitolo della Lumen Gentium, sulla Costituzione gerarchica della Chiesa che, come è risaputo, ha costituito il centro di tutto il dibattito conciliare. Non vorrei addentrarmi nella rievocazione dei singoli momenti di questo dibattito, ma soltanto dire con semplicità quali ne sono stati, e ne rimangono, i risultati sostanziali.
a) Una integrazione comunque della ecclesiologia del Vaticano I, che si era arrestato ad affermare soltanto il primato del Pontefice romano. Nel Vaticano II, ribadita formalmente e più volte la dottrina del primato, si è però voluto quanto meno completarla con un’adeguata dottrina sui vescovi come successori degli Apostoli.
b) Perciò si è pervenuto anzitutto a colmare una lacuna dell’insegnamento precedente, che in certi momenti e in certi luoghi ha provocato dubbi e perplessità, cioè la mancanza di una definizione esplicita della sacramentalità dell’episcopato. Come forse può ricordare qualche confratello anziano
che ha fatto i suoi studi in questo seminario prima del Concilio, anche qui si è potuto talvolta dubitare che l’episcopato fosse un grado speciale e supremo del sacramento dell’ordine, e quindi si è potuto rievocare alcuni casi aberranti di conferimento del sacerdozio da parte di Abati non
consacrati vescovi.
Ebbene, oggi non è più possibile alcuna esitazione o dubbio al riguardo. Anzi, per dirimere tale questione, il Vaticano II ha usato la forma più esplicita e solenne di dichiarazione, che ha fatto pensare che al proposito il Concilio abbia voluto esprimere l’unica nuova dichiarazione dogmatica di tutto il suo insegnamento.
Insegna il santo Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata il sommo sacerdozio, il vertice del sacro ministero [. . .]. È proprio dei vescovi assumere col sacro ministero dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale (ibidem, n. 21).
c) E quindi sulla scorta della più antica disciplina, e in particolare della prassi dei Concili ecumenici (dopo aver ribadito ancora una volta il potere primaziale di Pietro e del suo successore su tutta la Chiesa) si è finalmente pervenuti ad esplicitare formalmente quello che poi in realtà è stato da sempre ammesso, cioè che l’ordine dei vescovi, che succede al collegio degli Apostoli nel magistero e nel governo pastorale, nel quale anzi si
perpetua ininterrottamente il corpo apostolico, è pure, insieme con il suo capo, il romano Pontefice, e mai senza di esso, soggetto di suprema potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata senza il consenso del romano Pontefice [... .]. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, godono di un potere che è loro proprio [.. .]. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico [.. .]. La stessa potestà collegiale può essere esercitata insieme col capo dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami a un atto collegiale, o almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale (ibidem, n. 12).

11 / In questo testo viene ovvio notare il numero e l’insistenza delle riserve alla collegialità e delle riconferme della funzione primaziale del Papa, dalle quali traspare tutta la fatica che costò al Concilio l’espresso riconoscimento dell’episcopato universale come collegio dotato di una propria potestà, e il riconoscimento di questa potestà come suprema nella Chiesa. Tale fatica non fu soltanto determinata dalla resistenza accanita di una non grande minoranza, ma anche da ripetuti interventi personali di Paolo VI (con i cosiddetti modi, cioè emendamenti del Papa), che si volle supergarantire contro ogni possibilità di interpretazione disgiunta o contrastante della potestà collegiale rispetto alla potestà primaziale.
Ma non fu tutto qui: ci fu, come molti sanno, l’aggiunta della cosiddetta Nota explicativa praevia, con la quale si volle stabilire i criteri di una interpretazione ancora più restrittiva del testo conciliare, con il corollario, fra l’altro, di sollevare un dubbio non risolto sulla validità dell’episcopato
delle Chiese ortodosse separate, in contrasto con molti atteggiamenti del Concilio e dello stesso Paolo VI. Va però soggiunto che sin dal primo momento in cui questa Nota fu letta al Concilio «per ordine dell’autorità superiore» dal segretario generale, ci furono molti – e ancor più sono oggi – che ritennero e ritengono che questa Nota esplicativa non può essere considerata un vero atto conciliare.
d) Un altro enunciato veramente capitale, e di rilievo oggi sempre più grande – nonostante il modo incidentale in cui è stato formalmente fatto – è quello espresso da queste parole della Lumen Gentium n. 23.
I vescovi singolarmente presi sono il principio visibile e il fondamento dell’unità delle loro Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica.
Questo enunciato va integrato da un altro che lo applica e lo sviluppa nel decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei vescovi, che definisce la diocesi come una porzione del popolo di Dio, che è affidata alle cure pastorali del vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui unita per mezzo del Vangelo e della Eucaristia nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica (CD, n. 11).
Quanto sia innovante questa formulazione, lo si capisce dal confronto con la definizione di diocesi del vecchio Codice, che vedeva in essa solo una porzione non del popolo di Dio, e tanto meno una Chiesa particolare, ma semplicemente una circoscrizione territoriale della Chiesa universale.
Appunto sulla base di questi testi, il Concilio ha dato lo spunto a tutta la dottrina della Chiesa locale, che a mio avviso è in definitiva non solo il frutto del tutto nuovo più importante nell’attuale ecclesiologia, ma è anche la più rilevante e dinamica possibilità di sviluppi concretamente evolutivi in tutta la vita cattolica e in genere, per le sue valenze ecumeniche, nella vita dei cristiani tutti. Tanto più quanto più si mette in rapporto la dottrina della Chiesa locale con l’affermazione già segnalata della Sacrosanctum Concilium, n. 41, sull’assemblea eucaristica presieduta dal vescovo nella sua cattedrale come princtpale manifestazione della Chiesa. Cioè, la dottrina della Chiesa locale si potenzia necessariamente in una ecclesiologia eucaristica (16). E da questa sempre più il discorso sulla Chiesa sembra tendere a parlare di una Chiesa di Chiese (17)

12 / e) Non sembra invece essere un’adeguata realizzazione della collegialità episcopale l’istituto del sinodo dei vescovi: né concettualmente (per la sua limitazione a un parere solo consultivo offerto al Papa), né praticamente, per il modo con cui si è realizzato, soprattutto nelle tre ultime tornate.
Anche quest’ultimo, sulla vita consacrata, sembra destinato a deludere i molti interessati (religiose e religiosi) e gli stessi partecipanti. Comunque al massimo si può dire che il sinodo dei vescovi, se non realizza la collegialità effettiva, può essere per qualcuno e in certo modo una realizzazione di
collegialità affettiva o vissuta (18).
f) Infine, del III capitolo della Lumen Gentium non può essere dimenticata la restaurazione del diaconato permanente, anche uxorato, completamente estintosi nella Chiesa d’occidente da molti secoli. Il Vaticano Il ha voluto il diaconato permanente esplicitandone così le funzioni fondamentali: amministrare solennemente il Battesimo, conservare e distribuire l’Eucaristia, in nome della Chiesa assistere e benedire il matrimonio, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popoìo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito del funerale e della sepoltura.
E in aggiunta i diaconi dovrebbero essere dediti alle opere di carità e di assistenza.
Ma poiché il Vaticano II, pur affermando la necessità dei diaconi in molte Chiese, ha lasciato alle conferenze episcopali e in definitiva ai singoli vescovi l’impulso restauratore del diaconato, questo è stato sino ad ora territorialmente molto differenziato, e complessivamente piuttosto esiguo.
E’ probabile che continui ancora nelle Chiese quella tensione tra presbiteri e diaconi, che in passato presumibilmente è stata la causa della estinzione del diaconato permanente, e che ancora ne riduce la prassi e la vitalità nella Chiesa, e perciò impedisce la vera e forte formazione di una teologia del diaconato. Cosicché in sostanza non si può dire ancor oggi, del diaconato, molto di più di quanto ne diceva il Concilio (19).

13 / 7. Importanti sviluppi applicativi dei principi enunciati nei primi tre capitoli della Lumen Gentium si trovano nei capitoli seguenti della stessa costituzione.
Nel capitolo quarto vi è l’affermazione della insurrogabilità della missione e del contributo dei laici all’opera complessiva della salvezza affidata alla Chiesa.
Nel capitolo quinto è ampiamente ribadita l’universalità dell’unica vocazione alla santità nella Chiesa, sia per i membri della gerarchia e sia per i laici.
Nel capitolo sesto è trattata, in modo forse scarsamente approfondito, la natura e l’importanza dello stato religioso.
Nel capitolo settimo si propone, con accenti forse un po’ nuovi, l’indole escatologica della Chiesa pellegrinante e la sua comunione attuale con la Chiesa celeste.
E finalmente, nel capitolo ottavo, è compiuto un passo in avanti nel delineare la funzione, nell’economia della salvezza, della beata Vergine Maria: della quale è rivendicato in modo più sostanziale e rigoroso il titolo primario di Madre cli Cristo, unico mediatore, e quindi di Madre della Chiesa e suo archetipo pienamente realizzato (20).
8. Mi resta ora da segnalare sinteticamente l’importanza e il rilievo ancora attuale di due altri documenti, cioè del decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, e della dichiarazione Nostra Aetate sulle religioni non cristiane.
a) Il primo documento – per quanto di fatto possa trovare ostacolo o provocare delusioni sul piano concreto delle relazioni effettive sia con qualche comunità della Riforma (ora specialmente la Chiesa anglicana), sia con la Chiesa ortodossa (ora specialmente con la Chiesa russa) – contiene però in linea di principio enunciati di supremo rilievo e di costante validità: enunciati che sono in grande parte capaci di equilibrare o di stabilire la vera interpretazione da dare a certi punti più deboli o meno chiariti degli altri documenti conciliari.
Per esempio l’asserzione che quelli che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Quelli infatti che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il Battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica [.. .] e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore (UR, n. 3).
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