Piccole riflessioni sull´evoluzione.....

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@Yoghurt@
00domenica 6 maggio 2007 12:19
Altro...
Dieta variata per gli antichi ominidi

L'analisi dei denti fossili mostra variazioni stagionali nella dieta di Australopithecus, risalente a 1,8 milioni di anni fa

Ominidi primitivi
Un gruppo di paleontologi dell’Università dello Utah ha migliorato i metodi in uso per l’esame dei denti fossili ed è riuscito a dimostrare che la dieta delle antichissime specie imparentate con i nostri progenitori era molto varia, suggerendo anche che le popolazioni di questi primi ominidi migrassero per poter sfruttare le opportunità offerte dalle diverse stagioni. A essere esaminati sono stati i denti fossili di esemplari di Australopithecus robustus (o Paranthropus robustus), risalenti a 1,8 milioni di anni fa, ritrovati a Swartkrans, in Sud Africa. ‘Lo studio di A. robustus – ha detto Thure Cerling, coautore dell’articolo pubblicato sul numero odierno di Science in cui si illustra la ricerca – è importante perché mostra che la variabilità della dieta dell’uomo fa parte della sua ‘famiglia’ da lunghissimo tempo e che proprio grazie a essa gli umani moderni sono riusciti a popolare tutto il globo ricorrerendo ai diversi alimenti presenti in tutto il mondo”. I ricercatori hanno usato un laser di tipo innovativo, non distruttivo, per rimuovere minuscoli campioni dai denti fossilizzati, per poi determinare nei campioni ottenuti i rapporti fra i diversi isotopi del carbonio. I rapporti fra questi consentono infatti di risalire al tipo di vegetali da cui il carbonio proviene, se si tratta cioè di vegetali C3 (come frutta e foglie) o C4 (tuberi, erbe, semi) "Questi ominidi traevano evidentemente vantaggio dalle differenze stagionali negli alimenti presenti nella savana” ha osservato Cerling. “Per ora, non possiamo però dire se fossero cacciatori o se consumassero i resti di prede abbandonate da altri animali, ma è probabile che la loro dieta comprendesse anche la carne. Stiamo lavorando per scoprirlo.”
@Yoghurt@
00domenica 6 maggio 2007 12:22
Altro....
L'anello mancante fra ardipiteco e australopiteco

Ritrovati alcuni fossili che colmano una lacuna nella linea evolutiva fra l'uomo e gli antenati comuni con le scimmie

Finora esisteva una lacuna nelle testimonianze fossili della linea evolutiva che dall’antenato comune di uomini e scimmie porta a noi. Mancava, in particolare, un anello di congiunzione fra gli antichissimi ardipitechi – vissuti fra 7 e 4,4 milioni di anni fa – e le forme “perfette” di australopioteco, alle quali appartengono per esempio i resti di “Lucy”, scoperti anch’essi nella depressione dell’Afar. Un gruppo internazionale di paleoantropologi diretto da Tim White dell’Università della California a Berkeley ha rinvenuto nel deserto dell’Afar, regione nord-orientale dell’Etiopia alcuni fossili che risalgono a 4,1 milioni di anni fa e sembrano rappresentare proprio questo anello mancante. Secondo White questi resti, che rappresentano una forma primitiva di Australopithecus anamensis, esibiscono in modo molto netto la discendenza dal genere Ardipithecus. Inoltre, il fatto che i fossili di Ardipithecus ramidus, Au. anamensis e Au. afarensis siano stati rinvenuti in strati sedimentari successivi nella stessa area lungo il medio corso dell’Awash, il fiume che segna il confine meridionale dell’Afar, suggeriscono una precisa successione evolutiva. Il genere Australopithecus successivamente si differenziò in numerose specie, e alcune di esse convissero a lungo con il genere Homo, come Au. bosei, che si estinse solo 1,2 milioni di anni fa. (Foto ©Tim D. WhiteBrill Atlanta)
Ghergon
00domenica 6 maggio 2007 13:32
Re: Altro....

Scritto da: @Yoghurt@ 06/05/2007 12.22
L'anello mancante fra ardipiteco e australopiteco

Ritrovati alcuni fossili che colmano una lacuna nella linea evolutiva fra l'uomo e gli antenati comuni con le scimmie

Finora esisteva una lacuna nelle testimonianze fossili della linea evolutiva che dall’antenato comune di uomini e scimmie porta a noi. Mancava, in particolare, un anello di congiunzione fra gli antichissimi ardipitechi – vissuti fra 7 e 4,4 milioni di anni fa – e le forme “perfette” di australopioteco, alle quali appartengono per esempio i resti di “Lucy”, scoperti anch’essi nella depressione dell’Afar. Un gruppo internazionale di paleoantropologi diretto da Tim White dell’Università della California a Berkeley ha rinvenuto nel deserto dell’Afar, regione nord-orientale dell’Etiopia alcuni fossili che risalgono a 4,1 milioni di anni fa e sembrano rappresentare proprio questo anello mancante. Secondo White questi resti, che rappresentano una forma primitiva di Australopithecus anamensis, esibiscono in modo molto netto la discendenza dal genere Ardipithecus. Inoltre, il fatto che i fossili di Ardipithecus ramidus, Au. anamensis e Au. afarensis siano stati rinvenuti in strati sedimentari successivi nella stessa area lungo il medio corso dell’Awash, il fiume che segna il confine meridionale dell’Afar, suggeriscono una precisa successione evolutiva. Il genere Australopithecus successivamente si differenziò in numerose specie, e alcune di esse convissero a lungo con il genere Homo, come Au. bosei, che si estinse solo 1,2 milioni di anni fa. (Foto ©Tim D. WhiteBrill Atlanta)



Bell'articolo che non dice nulla..perchè non ricerchi quanti e quali sono questi "resti"?
Forse rimarrai sbalordito... [SM=x268948]
@Yoghurt@
00domenica 6 maggio 2007 14:08
Ho letto il libro...
che descrive le caratteritiche di questo ultimo ritrovamento....

riguardano parti di scheletro non lo scheletro intero....ma a poteva avere una postura erett....quindi non e una scimmia Ghergon....

[SM=x268948]

E poi stupiscimi mi tu con i tuoi ritrovamenti.....

Sei fermo ancora a quest´ultima boiata che hai scritto tempo fa...

"Perchè gli scienziati seri sanno che la terra è periodicamente sconvolta da immani cataclismi(teoria del Catastrofismo) dopo i quali ogni volta, qualcuno con molta pazienza torna a "riseminare" il territorio con le specie viventi che si sono estinte e mettendone a suo piacimento altre.
Non è che schiocca le dita e "puf" appare il tutto, si tratta di genetica...leggi per incominciare Zecharia Sitchin.
Le cronologie a cui fai riferimento sono del tutto arbitrarie..."

Fammi leggere le ultime scoperte in questa direzione.....

Non fare il figo Ghergon che la figura da buffone l´hai gia fatta abbastanza nei tuoi post..



Ghergon
00domenica 6 maggio 2007 14:44
Re: Ho letto il libro...

Scritto da: @Yoghurt@ 06/05/2007 14.08
che descrive le caratteritiche di questo ultimo ritrovamento....

riguardano parti di scheletro non lo scheletro intero....ma a poteva avere una postura erett....quindi non e una scimmia Ghergon....

[SM=x268948]

E poi stupiscimi mi tu con i tuoi ritrovamenti.....

Sei fermo ancora a quest´ultima boiata che hai scritto tempo fa...

"Perchè gli scienziati seri sanno che la terra è periodicamente sconvolta da immani cataclismi(teoria del Catastrofismo) dopo i quali ogni volta, qualcuno con molta pazienza torna a "riseminare" il territorio con le specie viventi che si sono estinte e mettendone a suo piacimento altre.
Non è che schiocca le dita e "puf" appare il tutto, si tratta di genetica...leggi per incominciare Zecharia Sitchin.
Le cronologie a cui fai riferimento sono del tutto arbitrarie..."

Fammi leggere le ultime scoperte in questa direzione.....

Non fare il figo Ghergon che la figura da buffone l´hai gia fatta abbastanza nei tuoi post..






Non basta un frammento di osso(neanche un osso intero, a questo siamo arrivati pur di screditare il creazionismo, a inventare con tanta fantasia corpi interi con frammenti di pochi centimetri di un o due ossa...)per provare l'impossibile....
Quei resti che non provano nulla sono resti di comunissime scimmie estinte....e niente più!



Non fare il figo Ghergon che la figura da buffone l´hai gia fatta abbastanza nei tuoi post..



Si certo... [SM=x268948] [SM=x268949] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=x268951] [SM=x268951] [SM=x268951]
@Yoghurt@
00domenica 6 maggio 2007 17:43
Gli ultimi ritrovamenti....
erano caratterizzati dai seguenti reperti fossili....

Il 9 dicembre alle 11,21 del mattino l'agenzia Reuters batte la notizia: ritrovato in Sudafrica, nel sito di Sterkfontein, dall'?quipe di Phillip Tobias, uno scheletro quasi completo (la parte sinistra del cranio, due gambe, una tibia, le pelvi e le vertebre) di un ominide vissuto tre milioni e seicentomila anni fa. Il fossile proviene dalla grotta Silberberg, dove a settembre l'hanno trovato Stephen Motsumi e Nkwane Molefe, diretti da Ron Clarke della Witwaterstrand University di Johannesburg.

Secondo i paleontologi, fra i quali Bruce Latimer del Museo di Storia Naturale di Cleveland, la nuova scoperta è stata fatta a febbraio in un sito chiamato Mille, approssimativamente 60 chilometri a nord rispetto al luogo dove era stata trovata Lucy, nella regione orientale dell’Afar.
Gli esemplari trovati comprendono una tibia completa della parte inferiore di una gamba, parti di un femore, costole, vertebre, un bacino e una scapola completa. C’è inoltre un astragalo che, insieme alla tibia, dimostra che la creatura camminava eretta. E le scoperte non finite qui.
Un altro team di cacciatori di fossili che lavorano in Etiopia, sempre poco più di un anno fa, hanno dissotterrato i resti di almeno nove ominidi primitivi che avrebbero un’età compresa fra 4,5 e 4,3 milioni di anni. I fossili, scoperti ad As Duma, nella regione settentrionale del paese, consistono principalmente in denti e frammenti di mandibola, ma includono anche parti delle mani e dei piedi.

Tim White, antropologo di fama mondiale dell’Università di Berkeley in California, che ha guidato il gruppo di ricercatori alla scoperta del fossile di un cranio di un milione di anni che si è guadagnato la copertina di Nature.




@Yoghurt@
00domenica 6 maggio 2007 18:04
Fammi capire...
ma per te le scimmie camminano in posizione eretta?......

Caratteristiche della locomozione eretta....

Nell’uomo, in rapporto alla dimensione, questi rilievi ossei sono ancor meno sviluppati, soprattutto a livello cervicale. La differenza principale con l’uomo è che in esso il rachide assume delle curvature caratteristiche: due a concavità posteriore (tratto cervicale e lombare) e due a convessità posteriore (tratto toracico e sacrale). Questa particolare disposizione della colonna vertebrale permette l’ammortizzazione del peso corporeo durante la deambulazione ed evita in parte le patologie a carico dei dischi che ne potrebbero conseguire.
In ogni caso si riscontrano ancora, abbastanza di frequente, nell’uomo patologie a carico della colonna vertebrale ed in particolare ai dischi intervertebrali; questo potrebbe significare che il nostro adattamento al bipedismo non sia ancora completo. Le vertebre coccigee formano la coda che nei primati arboricoli ad arrampicamento verticale tende a svilupparsi notevolmente e viene utilizzata da timone durante il salto e da bilanciere negli spostamenti sui rami. Nelle antropomorfe, nella bertuccia e nell’uomo si riduce sino alla scomparsa totale, almeno esteriormente, mentre rimane comunque un accenno a livello scheletrico.

Gabbia toracica

La gabbia toracica è formata dall’unione delle coste, dorsalmente, con il rachide e, ventralmente, con lo sterno. Ha la funzione di proteggere gli organi in essa contenuti e di permettere la respirazione. Per quest’ultimo particolare è importante notare che le singole coste tendono ad assumere una particolare curvatura che le fa sembrare ritorte. Questa configurazione ha lo scopo di permettere, durante l’inspirazione e il conseguente spostamento delle coste anteriormente, l’aumento di volume della cassa toracica. Nei primati, salendo nella scala evolutiva dai lemuridi sino all’uomo, la forma del torace cambia.
L’asse dorso ventrale, notevole nelle forme quadrupedi (lemuri, platirrine e catarrine non antropomorfe), tende a diminuire a favore dell’asse trasversale. In pratica si ha un allargamento progressivo a scapito della profondità del torace che raggiunge l’apice nell’uomo. Si vedrà in seguito come questa modificazione sia strettamente collegabile allo spostamento della scapola. Le scimmie antropomorfe presentano una forma del torace fortemente tronco conica con la sezione più ampia a livello delle ultime coste; nell’uomo invece la massima ampiezza si ha a circa metà torace.

Cinto pelvico

Anche il cinto pelvico subisce notevoli modificazioni lungo l’albero evolutivo dei primati.
Nelle forme più "basse" della scala filogenetica (proscimmie e scimmie non antropomorfe) esso si presenta piuttosto allungato e del tutto simile a quello degli altri mammiferi; nelle antropomorfe esso tende ad accorciarsi ed ad espandersi in senso medio laterale (soprattutto l’ala iliaca aumenta notevolmente la sua superficie e si dispone dorso ventralmente ).
Nell’uomo si assiste ad un ulteriore accorciamento del bacino, l’ala iliaca aumenta ancora la sua superficie incurvandosi, nella sua porzione posteriore, verso il basso e si dispone medio lateralmente.

Queste modifiche del cinto pelvico si possono mettere in relazione con l’adattamento dell’andatura bipede. Sconfinando un istante dai primati, possiamo analizzare la dimensione del bacino in un animale come il ghepardo, fortemente adattato alla corsa, noteremo che le sue dimensioni relative sono del tutto simili a quelle già viste per i primati inferiori.
A questo punto è lecito pensare che la statura eretta comporti un maggior sforzo dei muscoli glutei di quanto non faccia la corsa quadrupede: in particolare, nell’uomo il gluteo superficiale è estremamente sviluppato; mentre nelle altre specie si presenta ridotto o addirittura assente, nelle antropomorfe che hanno un andatura semi bipede (si appoggiano sulle nocche o suoi pugni), il gluteo superficiale tende ad assumere maggior importanza e infatti anche il bacino si avvicina di più a quello umano. L’ampiezza della cavità pelvica, attraverso la quale dovrà passare il feto che possiede già una notevole dimensione della testa, è massima nell’uomo.

Il cinto scapolare assume nei primati una configurazione particolare presente in pochi altri gruppi di mammiferi (chirotteri, roditori, ecc.). Il cinto risulta formato da due ossa: la scapola e la clavicola. Nei carnivori e negli erbivori, ad esempio, la scapola si "articola", se così si può definire, alla colonna vertebrale tramite muscoli e legamenti. Questa relativa labilità di giunzione favorisce fondamentalmente i movimenti antero posteriori dell’arto, molto meno quelli di abduzione - adduzione (lateralità).
Nei primati, che necessitano di una maggiore mobilità dell’arto toracico in relazione alla locomozione arboricola ed ad un uso manipolativo della mano, il cinto toracico viene completato dalla presenza della clavicola. Essa collega la scapola allo sterno, aumenta la stabilità del cinto e quindi potenzia i movimenti di lateralità dell’arto stesso.
Questo adattamento lo si può ritrovare anche nei Chirotteri (pipistrelli) che necessitano dei movimenti di lateralità per il volo (non a caso un tempo erano riuniti tra i primati nella classificazione zoologica); a conferma troviamo la clavicola anche negli uccelli (il cinto in questo caso si complica ulteriormente con la presenza dell’osso coracoide).

Visione dorsale di scapole, partendo da destra: uomo, orango, apale

Nella scala evolutiva dei primati, la scapola tende progressivamente, procedendo verso l’uomo, a disporsi dorsalmente.
Nei lemuri essa è ancora piuttosto laterale, si sposta progressivamente dorsalmente ai lati dei processi spinosi dalle scimmie inferiori alle antropomorfe e l’uomo dove la dorsalità è completa.
A questo si può collegare il progressivo allargamento ed appiattimento in senso dorso ventrale del torace.

Le ossa del braccio e dell’avambraccio, corrispondenti rispettivamente all’omero, al radio - ulna, tendono ad essere simili, per quanto riguarda la lunghezza, o più corti nei primati che si spostano per arrampicamento verticale, dei corrispettivi dell’arto pelvico.
Nei lemuri che utilizzano il salto per spostarsi tra i rami sono decisamente più corti; in questi animali la propulsione è fornita dagli arti posteriori che sono quindi più robusti e allungati.
Nei primati che praticano invece la brachiazione (utilizzano gli arti toracici per spostarsi tra i rami) come, ad esempio, le antropomorfe, l’arto anteriore si sviluppa notevolmente in lunghezza tanto che, ad individuo posto in stazione eretta, tocca ampiamente il suolo. Per contro gli arti pelvici sono più ridotti in lunghezza rispetto alle altre scimmie.
Nell’uomo lo sviluppo è intermedio per quanto riguarda la lunghezza, notevolmente inferiore si presenta la robustezza delle ossa lunghe considerate, in reazione alla minor dimensione della muscolatura delle braccia. L’uomo utilizza le braccia soprattutto per la manipolazione che non comporta, quindi, uno stress eccessivo.
Bisogna tenere sempre presente che spesso la muscolatura dell’uomo può essere paragonata, dal punto di vista della massa, a quella di altri animali della stessa dimensione, la differenza però in termini di espressione di forza è notevole. Uno scimpanzè adulto che può pesare anche 80 Kg. ha sì una massa muscolare simile a un uomo atleta, ma la sua forza effettiva è pari almeno al triplo.
Questo è dovuto ad una maggiore efficienza della contrazione muscolare per unità di superficie. Anche nelle ossa notiamo questa differenza a livello dello spessore assoluto delle ossa lunghe e della loro parete di osso compatto".
Le ossa della mano, corrispondenti a carpo, metacarpo e falangi, seguono in specializzazione quelle del braccio, ossia assumono particolari forme che facilitano l’animale negli spostamenti quotidiani. Nelle scimmie quadrupedi che si arrampicano verticalmente non si presentano particolarmente sviluppate se non per la prensione dei rami. Nei lemuri che si spostano mediante il salto tendono ad ingrandirsi notevolmente in rapporto alla dimensione del corpo per permettere una maggior presa sui rami.
Nei brachiatori le ossa del metacarpo e le falangi tendono ad allungarsi notevolmente; queste ultime, inoltre, assumono una forma arcuata a concavità ventrale. In pratica le mani si trasformano in "uncini" per potersi appendere più facilmente ai rami. Per contro, il pollice si riduce notevolmente in quanto perde utilità (soprattutto nell’orango).


Nell’uomo la mano si è mantenuta relativamente indifferenziata; il pollice si è allungato favorendo la completa opponibilità indispensabile per la manipolazione. La particolare struttura assunta dall’arto anteriore delle antropomorfe favorisce, riferendosi alla deambulazione sul terreno, la caratteristica posizione detta "sulle nocche" assunta da gorilla e scimpanzè o sui pugni caratteristica dell’orango; il gibbone tende invece ad assumere più spesso una stazione eretta.

Arto pelvico

Composto da femore, tibia, tarso, metatarso e falangi. In pratica le ossa corrispondono, a grandi linee, a quelle dell’arto anteriore. In generale le specializzazioni più marcate si notano nei primati adattati al salto e nell’uomo che si è evoluto alla stazione eretta. Nelle scimmie e proscimmie ad andatura quadrupede non presenta particolari adattamenti se non il plantigradismo con il piede che assume una forma simile a quella della mano.
Come ho già anticipato, nei lemuridi adattati al salto come l’indri e il sifaka, l’arto posteriore tende ad allungarsi notevolmente rispetto a quello anteriore per aumentare la leva di spinta. Nel tarsio spettro (proscimmia dell’arcipelago della Sonda) l’allungamento dell’arto posteriore ha interessato soprattutto la regione metatarsale (da cui il nome tarsio). L’atterraggio viene attuato da questi animali con gli arti pelvici, per cui è interessante notare come il piede sia notevolmente più grande rispetto agli altri primati. Questo per facilitare la presa sui rami. Nell’indri, ad esempio, anche le dita del piede assumono notevoli dimensioni e in particolare l’alluce.


Le scimmie che praticano la brachiazione hanno subito un adattamento inverso; nel senso che gli arti inferiori hanno perso importanza nella locomozione arboricola, rispetto ai primati che si spostano tramite il salto, per cui tendono ad essere molto meno sviluppati degli arti superiori. Questa conformazione facilita, inoltre, la deambulazione, sul terreno, semi eretta sulle nocche o sui pugni.
Nell’uomo l’arto inferiore si presenta fortemente specializzato: le ossa lunghe (femore, tibia e fibula) sono estremamente allungate e gli arti, in stazione, si dispongono a piombo con il suolo e non flessi come nelle antropomorfe. Il piede, a livello della pianta, presenta due curvature: una longitudinale e una, più lieve, trasversale.
Questa conformazione aumenta l’ammortizzazione del peso corporeo durante il movimento.


Piede umano

A livello delle falangi si nota che nell’uomo l’alluce si porta a pari, anteriormente, con le altre dita mentre, negli altri primati, il pollice si presenta notevolmente arretrato. È ovvio che anche i muscoli della gamba deputati a mantenere la stazione eretta e quelli che permettono il movimento sono enormemente più sviluppati di quanto non siano negli altri primati.
Per citarne qualcuno: il quadricipite femorale (il muscolo anteriore più grande della coscia responsabile dell’estensione della gamba), il lungo vasto (il muscolo posteriore più grande della coscia responsabile della flessione della gamba), i gemelli della sura (muscoli del polpaccio responsabili dell’estensione del piede), il tibiale anteriore (muscolo anteriore della gamba responsabile della flessione del piede), ecc.





Il cranio
Neurocranio

Il neurocranio racchiude il cervello per cui rappresenta un importante punto di riferimento per la valutazione dell’evoluzione umana. In linea di massima questa porzione scheletrica, sempre relativamente alla mole, è più sviluppata nei primati, soprattutto nell’uomo, che non negli altri vertebrati. Alcuni primati, soprattutto quelli che presentano un cranio particolarmente massiccio e con i condili occipitali spostati più aboralmente, hanno sviluppato a livello di questa regione alcune escrescenze ossee che permettono l’inserzione dei potenti muscoli del collo per mantenere in equilibrio la testa. Esse sono rappresentate dalle creste nucali e dalla protuberanza occipitale esterna. In particolare si possono ritrovare nelle grandi antropomorfe, nel mandrillo ed in alcuni altri cinocefali.


Si può aggiungere, a questo livello un terzo rilievo: la cresta sagittale mediana. Essa fornisce una maggior superficie di inserzione per i muscoli temporali che si possono quindi sviluppare notevolmente. Questi muscoli sono responsabili dei movimenti di verticalità della mandibola. Questa cresta è rilevabile in molti primati ma è particolarmente sviluppata nel gorilla maschio. In generale, lo sviluppo di questi rilievi non è costante nell’ambito della stessa specie, ma varia a seconda dell’età e del sesso.
Più specificatamente si accrescono all’aumentare dell’età e raggiungono notevoli dimensioni solo nei maschi, per cui rappresentano un carattere di dimorfismo sessuale.
Al confine tra il neuro cranio e lo splancnocranio troviamo le cavità orbitarie che subiscono, dalle tupaie in su, modificazioni notevoli: in questi animali le orbite sono orientate lateralmente per cui la visione non è stereoscopica, inoltre le cavità orbitarie sono comunicanti con la fossa temporale; procedendo con i lemuri, l’orientamento delle orbite tende a essere più frontale rispetto alle tupaie ma la comunicazione con la fossa temporale è ancora completa.
Nel tarsio si ha una frontalizzazione delle orbite e la comparsa di un setto che divide la cavità orbitaria dalla fossa temporale. In questo animale è particolarmente evidente l’adattamento alla vita notturna, le cavità orbitarie occupano una notevole porzione di cranio consentendo così un ampliamento della superficie dei tessuti fotorecettivi (retina) e una maggior possibilità di dilatare la pupilla.

Partendo da destra: uomo, gorilla, cebo cappuccino e lemure variegato

La frontalità delle orbite e la loro separazione dalla fossa temporale si mantiene in tutti gli altri primati compreso l’uomo. Questo garantisce una visione stereoscopica che indica un prevalere della vista sull’olfatto nella vita quotidiana delle scimmie e dell’uomo.


Splancnocranio
Questa parte del cranio ha subito notevoli modificazioni nella scala filogenetica dell’ordine dei primati; dalle proscimmie sino all’uomo e anche nell’ambito dell’evoluzione umana essa assume un importante valore distintivo per l’identificazione dei vari livelli evolutivi; per cui è di fondamentale importanza la conoscenza delle varie conformazioni in relazione alla funzionalità delle singole parti.
Per un’analisi più schematica, lo si può suddividere in tre gruppi:

il blocco facciale
la dentatura
la mandibola
Blocco facciale
Comprende le ossa della faccia quali nasali, mascellari , palatine, ecc. Fondamentalmente risalendo nella scala filogenetica dalle proscimmie all’uomo, esso ha subito un notevole accorciamento che ha influenzato sia l’olfatto che il numero dei denti che sono collegati alla conformazione del muso.

Cranio di volpe e lemure variegato

I lemuri presentano un massiccio facciale notevolmente allungato che conferisce a questi animali un aspetto volpino. Strettamente collegati a questa conformazione del muso sono l’olfatto ed il numero dei denti. Il senso dell’olfatto è ancora molto sviluppato in questo gruppo di primati che comunicano tra loro con segnali odorosi prodotti, in molti casi, da speciali ghiandole localizzate sui polsi.
In genere alla dimensione delle cavità nasali si associa anche la quantità di tessuto olfattivo, per cui più un animale presenterà delle cavità nasali ampie più il suo olfatto sarà sviluppato.


Negli altri primati, il blocco facciale tende progressivamente ad accorciarsi e si perdono gran parte delle capacità olfattive. Nell’uomo, come è noto, il senso dell’olfatto perde notevole importanza e viene sostituito dalla vista. La comunicazione sociale si attua quindi tramite la mimica facciale e la produzione di suoni che nell’uomo ha raggiunto un livello notevole di perfezionamento.
Il linguaggio articolato è infatti proprio ed esclusivo dell’uomo. A livello dell’apice del muso nei lemuri riconosciamo un "rhinarium" ossia un cuscinetto umido analogo a quello dei gatti fessurato sulla sua linea sagittale; la fessura prosegue ventralmente sino alle labbra. Dai tarsi in su, il naso assume una differente conformazione. Perde la fessurazione e l’aspetto umido sino a divenire prominente nell’uomo.

Dentatura

La dentatura segue l’andamento evolutivo del blocco facciale (anche se è difficile stabilire se la gallina è nata prima dell’uovo), nel senso che si ha avuto una riduzione dentaria dalle tupaie sino all’uomo. Tuttavia questa non è così marcata rispetto a quanto si può notare in altri mammiferi.
Nei carnivori, per esempio, i Canidi hanno una dentatura piuttosto completa mentre i felini ne hanno una piuttosto ridotta. Nei primi i denti sono quarantadue o quarantaquattro, mentre nei felini sono ventotto o, al massimo, trenta.
Nei primati la riduzione non è stata così drastica, infatti nei lemuri il numero dei denti è trentotto mentre nell’uomo, che tra i primati è quello che presenta il blocco facciale più corto, è trentadue. Nei lemuri i denti premolari presentano ancora una corona tagliente (simile a quella riscontrabile negli insettivori) e i canini sono ben sviluppati e a forma di coltello.
Nelle scimmie le corone dentarie dei premolari diventano pianeggianti e a superficie mammellonata, adatta quindi alla triturazione di alimenti vegetali. I canini sono sempre ben sviluppati, soprattutto nei cinocefali maschi (babbuino, amadriade, gelada, mandrillo, ecc.) essi assumono notevoli dimensioni.


I canini si possono considerare un carattere di dimorfismo sessuale. La forma dei canini è, in questo caso, conica.
Generalmente un canino di forma conica non è adatto a lacerare, o peggio a tagliare la carne, ma a pugnalare; considerando che questi animali non sono carnivori è lecito pensare che siano esclusivamente delle formidabili armi di difesa.
È possibile che l’allungamento notevole del muso di questi animali sia in relazione alla lunghezza dei canini; è difficile mordere efficacemente con canini così lunghi se si possiede un muso corto. Anche le antropomorfe possiedono canini piuttosto sviluppati ma meno dei cinocefali. L’asse longitudinale di questi denti, nei primati, diverge lateralmente, questo assetto permette, a bocca semi aperta, un certo movimento di lateralità della mandibola.


Partendo da destra: cranio di felino e di Cercopithecus campbelli Colobus abyssinicus Dentatura umana
Sconfinando nei felini, ad esempio, l’asse dei canini è perfettamente verticale per cui i movimenti laterali della mandibola sono praticamente inesistenti. La dimensione di questi denti implica non poche difficoltà durante la chiusura della bocca, per cui tra l’incisivo cantone superiore e il canino superiore si è formato uno spazio detto "diastema" per l’alloggio del canino inferiore.

Nell’uomo i canini sono sviluppati come gli altri denti, non superano il piano della tavola dentaria e si ha l’assenza totale del diastema. I premolari ed i molari presentano una superficie mammellonata, ma le cuspidi sono piuttosto rilevate ed appuntite a testimonianza di una dieta più orientata verso la carne rispetto agli altri primati.

Mandibola

La mandibola nelle proscimmie è conformata come nella maggior parte degli altri mammiferi. Presenta un profilo ventrale piuttosto orizzontale ed è composta da due emimandibole riunite oralmente da una sinfisi. La branca mandibolare (che corrisponde alla porzione comprendente il condilo per l’articolazione con il temporale) è poco sviluppata. Il processo coronoideo (deputato all’inserzione del muscolo temporale) si presenta ancora ben rilevato. La cavità glenoidea del temporale, che accoglie il condilo mandibolare a formare l’articolazione temporomandibolare, si presenta piuttosto incavata e completata posteriormente da un processo postglenoideo.

Nei primati superiori, uomo compreso, le due emimandibole, separate nella vita fetale, si fondono con una sinostosi formando un osso unico, la branca mandibolare si sviluppa notevolmente a scapito del processo coronoideo che invece si riduce; inoltre il condilo si sposta più dorsalmente (in genere i gruppi di animali che presentano il condilo posizionato allo stesso livello del corpo mandibolare tendono a compiere maggiormente movimenti di verticalità della mandibola, viceversa invece se il condilo è posizionato più dorsalmente come nei primati o nei mammiferi erbivori).
Questo particolare è strettamente correlato alla masticazione: infatti a livello della branca mandibolare si inserisce il muscolo massetere responsabile, insieme ai muscoli pterigoidei, dei movimenti masticatori. I muscoli temporali, come ho già detto, sono deputati ai movimenti di verticalità della mandibola per cui nei primati assumono un ruolo secondario. Nell’uomo, in particolare, essi sono costituiti da una sottile lamina muscolare e sono quindi ben differenti, ad esempio, da quelli della iena o dei felini che invece sono enormi. La cavità glenoidea dell’articolazione temporomandibolare tende ad essere poco profonda e si ha la scomparsa del processo postglenoideo. Questo facilita i movimenti di lateralità e di avanzamento della mandibola ottenuti mediante lo spostamento del condilo all’interno della sua sede.

Ad esempio, in tutti i carnivori la cavità glenoidea è notevolmente più profonda ed i processi accessori sono due: il processo preglenoideo e quello postglenoideo. Questa configurazione caratteristica viene chiamata "a cerniera".
Ha lo scopo di limitare al massimo i movimenti di lateralità e di diminuire i rischi di lussazione in seguito agli sforzi generati dalla chiusura delle mascelle. Nei primati, che necessitano dei movimenti laterali per la masticazione, l’articolazione tende ad essere più labile e ovviamente i fenomeni di dislocazione sono più frequenti. Notevoli sono inoltre i processi pterigoidei dello sfenoide (posti alla base del cranio) per l’inserzione dei muscoli omonimi indispensabili per i movimenti laterali della mandibola.


Se per te le ossa sono tutte uguali Ghergon......





@Yoghurt@
00domenica 6 maggio 2007 18:09
Dalla bibbia secondo Ghergon....
"Perchè gli scienziati seri sanno che la terra è periodicamente sconvolta da immani cataclismi(teoria del Catastrofismo) dopo i quali ogni volta, qualcuno con molta pazienza torna a "riseminare" il territorio con le specie viventi che si sono estinte e mettendone a suo piacimento altre.
Non è che schiocca le dita e "puf" appare il tutto, si tratta di genetica...leggi per incominciare Zecharia Sitchin.
Le cronologie a cui fai riferimento sono del tutto arbitrarie..."


Quando hai finito di ridere sarei interessato a leggere le tue ultime scoperte in campo creazionistico....

AH si perfavore non le scaricare dal sito hurayahya che lo conosco gia e quello che dice che la terra non e un sistema aperto anche se ammette che esistono l´alimentazione e la fotosintesi clorofiliana (e cioe che il sistema e aperto.....un po come te Ghergon il tipo si contraddice mentre parla)....e neanche robba che ti viene in mente durante le notti insonni quando non riesci a dormire....

Preferirei ricerche fatte da esperti quale tu non sei.....

Ciao

[SM=x268951] [SM=x268951] [SM=x268951]


@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 19:59
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La mutazione cognitiva

Identificata la proteina che, grazie a una mutazione avvenuta meno di cinque milioni di anni fa, ha consentito alla nostra specie un salto di qualità cognitivo rispetto agli altri primati.

I genomi dell'uomo e dello scimpanzé differiscono appena per l'1,2 per cento, ma le capacità cognitive e linguistiche fra le due specie differiscono in modo notevole. Un nuovo studio ha mostrato che una particolare forma di neuropsina, una proteina che partecipa ai processi di apprendimento e a quelli mnemonici, è espressa unicamente nel cervello umano e che essa ha avuto origine meno di cinque milioni di anni fa. Lo studio, che ha anche identificato il meccanismo molecolare che ha creato la nuova proteina, è pubblicato on line sul sito della rivista Human Mutation, organo della Human Genome Variation Society.
Il gruppo di ricerca della sezione di Kunming dell'Accademia cinese delle scienze, diretta da Bing Su, aveva in precedenza mostrato che la neuropsina di tipo II non è espressa nella corteccia prefrontale delle scimmie del Vecchio Mondo (come i macachi) e delle scimmie antropomorfe a noi più lontane, come gibboni e siamang. Nel nuovo studio i ricercatori hanno rilevato l'assenza dell'espressione di questa proteina anche in due specie delle grandi scimmie antropomorfe, scimpanzé e orangutan.

Dato che la diversificazione dell'uomo da queste due specie è avvenuta molto più recentemente, rispettivamente 5 e 14 milioni di anni fa, se ne deduce che la neuropsina di tipo II è specificamente umana e che la sua genesi risale a meno di 5 milioni di anni fa.

La sequenziazione del gene ha rilevato una particolare mutazione nell'uomo, che ha prodotto un cambiamento negli schemi di splicing del gene della neuropsina, con la creazione di un nuovo sito di splicing e la produzione di una proteina più lunga.

La ricerca ha anche evidenziato una significativa riduzione della neuropsina di tipo I nell'uomo e nello scimpanzé rispetto al macaco, legata a un indebolimento del corrispondente sito di splicing, suggerendo che si sia verificato un processo a più stadi nel corso dell'evoluzione dei primati
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:01
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Nelle diatomee fossili il passato climatico dell'Antartide

Nell’ambito dell’Antarctic Geological Drilling (Andrill) Program è stata recuperata una carota di sedimenti lunga 1285 metri
Sono minuscole ma contengono una montagna d’informazioni: le diatomee fossili scoperte sul fondo oceanico permettono di ricostruire nei dettagli il clima passato dell’Antartide.

I resti di queste alghe unicellulari sono stati recuperati nell’ambito dell’Antarctic Geological Drilling (Andrill) Program, una serie di perforazioni e di carotaggi a scopo scientifico che si è svolto nel Mare di Ross.

"L’obiettivo principale de programma Andrill è di cercare di recuperare campioni di sedimenti vicini alla coltre ghiacciata dell’Antartide che ci possano dire qualcosa sulla storia del ghiaccio e del modo in cui esso interagisce con il sistema climatico globale”, ha spiegato Tim Naish, dell’Institute of Geological and Nuclear Sciences della Nuova Zelanda, coordinatore del progetto, i cui risultati sono stati presentati al Convegno della European Geosciences Union.

Naish e colleghi sono riusciti a recuperare una carota di roccia lunga 1285 metri – la più lunga mai ottenuta del margine antartico – che ergistra informazioni sulle condizioni climatiche su un arco temporale di circa 10 milioni di anni.

"Si tratta di risultati di estrema importanza – ha continuato Naish – se si guarda agli scenari previsti tenendo conto degli incrementi nelle emissioni di gas serra e al riscaldamento globale. In particolare, potremo capire qualcosa dell’impatto che l’aumento della temperatura media avrà sulla copertura glaciale dell’Antartide.” (fc)
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:03
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Antichi predatori eclettici

Le conoscenze circa le abitudini predatorie derivano dall'analisi dei crani fossili

Gli antenati più prossimi degli anfibi – in senso filogenetico – hanno evoluto la capacità di alimentarsi sulla terraferma, prima di aver completato la transizione alla vita terrestre. È questa la conclusione a cui sono giunti i ricercatori della Harvard University che firmano un articolo in proposito sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

Lo studio si è focalizzato sull’analisi dei crani dei primi anfibi, sorti evolutivamente circa 375 milioni di anni fa da progenitori simili ai pesci. La forma delle articolazioni della volta cranica – chiamate suture – sulla sommità degli stessi crani rivelano infatti in che modo questi animali estinti catturavano le prede, come spiegano gli autori Molly J. Markey e Charles R. Marshall.

"Sulla base dei dati sperimentali ottenuti dai pesci viventi, abbiamo trovato che le forme delle suture della volta cranica indicano se il pesce cattura la sua preda risucchiandola all’interno della bocca o addentandolo direttamente, come un coccodrillo”, ha commentato Markey, ricercatore del Department of Earth and Planetary Sciences della Harvard University. "Il movimenti del morso o della masticazione hanno come risultato una debole spinta delle ossa frontali l’una contro l’altra, mentre un movimento di risucchio tende a separare queste due ossa, seppure debolmente. Dal confronto delle pavimentazioni del cranio dei fossili degli antenati degli anfibi e dei loro predecessori acquatici è perciò possibile determinare se le specie si alimentassero succhiando o mordendo.” Usando questo metodo, Markey e Marshall hanno trovato che in una cruciale specie di transizione, l’anfibio acquatico Acanthostega, le forme delle giunzioni tra ossa del cranio adiacenti, sono consistenti con una predazione con morso. Questa circostanza suggerisce che tale anfibio potesse cacciare anche al di fuori o nei pressi dell’acqua. (fc)
***

@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:05
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L'evoluzione della comunicazione
di Gianbruno Guerrerio

identificati i fattori chiave che influiscono sul modo in cui si sviluppa la comunicazione negli organismi sociali

Sfruttando un ingegnoso approccio che comprende robot virtuali dotati di un “genoma” passibile di evoluzione, un gruppo di ricercatori dell’Università di Losanna, in Svizzera, ha identificato i fattori chiave che possono avere un ruolo decisivo sulle modalità di sviluppo della comunicazione negli organismi sociali. La ricerca è descritta nel numero odierno della versione on line della rivista Current Biology.

La comunicazione è essenziale per il successo ecologico degli animali sociali, ma l’evoluzione della comunicazione è particolarmente difficile da studiare sia per la difficoltà di applicare l’evoluzione sperimentale ad animali sociali, sia per l’ovvio “silenzio” dei fossili in questo specifico ambito di ricerca.

I ricercatori svizzeri hanno così deciso di studiare i cambiamenti di comportamento di 100 “colonie” di robot virtuali nell’arco di 500 generazioni, durante le quali i loro genomi virtuali erano soggetti a mutazioni e ricombinazioni che mimavano le variazioni genetiche introdotte dalla riproduzione sessuale. Nel sistema sperimentale, i robot potevano nutrirsi nel loro ambiente virtuale sfruttando fonti di cibo e di alimenti tossici, che potevano essere però identificati solo da vicino.

L’efficienza di approvvigionamento di cibo può aumentare trasmettendo da robot a robot informazioni sulla posizione di cibo e sostanze tossiche, ma in certe situazioni, la comunicazione può essere costosa per il singolo, che ci rimette rendendo pubblica la localizzazione di riserve significative. La situazione riflette cioè una tipica pressione evolutiva che contrappone il benessere del singolo a quello del gruppo.

I ricercatori hanno così esaminato l’evoluzione della comunicazione eseguendo simulazioni su colonie di robot con differenti livelli di “parentela” all’interno del gruppo e dotate al contempo di differenti “livelli di selezione”, ossia di diffusione di comportamenti altruistici o competitivi.

Hanno così scoperto che la comunicazione evolve rapidamente quando le colonie contengono individui geneticamente simili (imparentati), o quando la pressione selettiva naturale opera in primo luogo a livello di gruppo. L’unico scenario in cui la comunicazione non portava a una maggiore efficienza di approvvigionamento era quello in cui le colonie erano composte da robot scarsamente imparentati e in cui la pressione selettiva era massima a livello di individui; in alcuni casi, queste condizioni davano luogo alla generazione di comunicazioni ingannevoli e a una progressiva diminuzione di efficienza della colonia.

I ricercatori hanno anche scoperto che una volta che un sistema di comunicazione si è stabilizzato, tende a limitare lo sviluppo di sistemi di comunicazione più efficienti.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:07
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Evoluzione in tempo reale

Osservate in pochi giorni mutazioni in genomi di ceppi di Escherichia coli

Un nuovo metodo per individuare E. coli
Pochi giorni di osservazione sono bastati a un gruppo di bioingegneri dell’Università della California a San Diego per rilevare quasi in tempo reale cambiamenti evolutivi in un genoma batterico. Finora erano note centinaia di “istantanee” di genomi batterici – relative cioè a un’ampia gamma di specie, da quelle più virulente a quelle innocue – che però non fornivano informazioni dinamiche, così come invece fa questo ultimo risultato, apparso sulla rivista “Nature Genetics”, che rappresenta dunque un notevole avanzamento. "I paleontologi studiano i fossili per avere informazioni sull’evoluzione dei dinosauri e altri animali avvenuta nel corso di milioni di anni. Invece studiando l’Escherichia coli si ha l’opportunità di osservare l’evoluzione che avviene nel giro di qualche giorno”, ha commentato Bernhard Ø. Palsson, professore di bioingegneria dell’UCSD e coautore dell’articolo. "Le sequenze genomiche dei batteri sono come registrazioni fossili e i nostri esperimenti confermano che questi genomi possono cambiare velocemente via via che i batteri si adattano alle nuove condizioni ambientali.” Nel corso dell’esperimento, i ricercatori hanno messo in coltura batteri di E. coli in un terreno in grado di favorire l’emergere di mutazioni, fornendo solo carbonio e glicerolo come sostanze di base. I ricercatori hanno poi tolto alcuni campioni dalla coltura e hanno sequenziato i loro genomi alla ricerca di mutazioni. Dopo sei giorni di crescita, sono comparse mutazioni nel gene che codifica un enzima, la glicerolo chinasi, che dà inizio al processo di digestione enzimatica del glicerolo. Le cellule con mutazioni in tale gene sono cresciute dal 20 al 60 per cento più velocemente di quelle in cui la mutazione non si era verificata.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:10
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In Puglia il primo europeo

Trovati presso Apicena manufatti litici in selce risalente a circa un milione e mezzo di anni fa

Un gruppo di studiosi delle Università di Roma "La Sapienza", di Torino, di Firenze e di Ferrara ha rinvenuto presso Apricena (Foggia), nel sito di Pirro Nord, la testimonianza della più antica presenza nota dell’uomo in Europa, risalente a un milione e mezzo di anni fa. Si tratta di manufatti litici in selce, tra cui alcune schegge probabilmente utilizzate per il trattamento delle carcasse animali, che consentono di testimoniare come l’uomo si fosse già diffuso in Europa in un intervallo temporale fra 1,3 e 1,7 milioni di anni fa e come fosse già in possesso di un comportamento tecnologico complesso, finalizzato essenzialmente alla produzione di schegge per il trattamento delle carcasse animali e la lavorazione del legno. Questi manufatti sarebbero molto simili a quelli ritrovati nel sito di Dmanisi, in Georgia. La presenza dell’uomo in questa epoca nel cuore del bacino mediterraneo riapre il dibattito sulle origini del popolamento di tutta l’Europa, avvalorando l’ipotesi di una migrazione da est, attraverso il cosiddetto “corridoio levantino”, e non dall’Africa nord-occidentale come suggerirebbero i fossili spagnoli di Atapuerca, che fino all’attuale scoperta erano ritenuti i più antichi in Europa con i loro 800.000 anni circa, di apparente derivazione nordafricana.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:11
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I nostri antenati, prede delle aquile

Per lungo tempo gli uccelli predatori hanno rappresentato una forza selettiva nell’evoluzione dei primati

Un nuovo studio suggerisce che gli uccelli predatori preistorici potessero annoverare fra le loro prede anche i nostri più antichi antenati. Un gruppo di ricercatori dell’Università dell'Ohio è giunto a questa conclusione dopo aver studiato oltre 600 ossa di scimmie del nostro tempo, raccolte in Costa d’Avorio nelle vicinanze di nidi di aquila coronata (Stephanoaetus coronatus), il cui peso si aggira sui cinque chili. I segni delle beccate e degli artigli presenti su molti di questi teschi di scimmia hanno ricordato molto da vicino ad alcuni ricercatori le lesioni presenti su alcuni crani fossili di nostri antenati. “A quanto pare – ha detto W. Scott McGraw, che ha diretto la ricerca – per lungo tempo gli uccelli predatori hanno rappresentato una forza selettiva nell’evoluzione dei primati." La scoperta spiega anche la scomparsa, considerata dai paleoantropologi una sorta di giallo, della morte di un nostro antenato di 2,5 milioni di anni fa, i cui resti furono scoperti nel 1924 in una grotta del Sud Africa. Si tratta dello scheletro di un bambino di australopiteco (Australopithecus africanus), di tre anni e mezzo circa, noto come “il bambino di Taung”, apparentemente rimasto vittima di un predatore sconosciuto. Esaminando il teschio, McGraw ha trovato straordinarie somiglianze con i danni rilevati sui teschi delle scimmie cadute preda di aquile. “Le aquile lasciano segni caratteristici dovuti ai becchi e agli artigli, soprattutto attorno agli occhi e nelle orbite oculari. Proprio quelli riscontrati sul teschio del bambino di Taung”.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:13
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Il parente più prossimo degli uccelli moderni

Ritrovati, nella provincia cinese del Guansu i fossili quasi integri di uccelli risalenti a 110 milioni di anni fa

Doveva assomigliare a un’anatide il più antico degli antenati immediati degli uccelli moderni. È quanto risulta dal ritrovamento nella provincia cinese del Guansu, di cinque fossili ben preservati. Alcuni dei campioni ritrovati, oltre a presentare lo scheletro quasi completo, mantengono chiare tracce carbonizzate sia delle penne sia della membrana presente fra le dita delle zampe. I fossili di Gansus yumenensis, questo il nome dato alla specie, datano a circa 110 milioni di anni fa, e rappresentano un importante ritrovamento ai fini di una ricostruzione – tuttora molto lacunosa – dell’albero evolutivo che dai dinosauri ha portato, attraverso il proto-uccello Archaeopteryx, fino alla multiforme varietà di generi e specie attuali. Secondo il responsabile della ricerca che ha portato al ritrovamento – Hai-lu You dell’Accademia cinese di scienze geologiche, che firma un articolo in proposito sul numero odierno di Science – la scoperta induce a pensare che dopo una prima fase di divergenza dai dinosauri avvenuta in ambiente terrestre, il percorso evolutivo verso le forme moderne degli uccelli sia avvenuto nell’ambito di ecosistemi semi-marini o lacustri, e che solo in un secondo tempo sia avvenuta una ricolonizzazione delle regioni puramente terestri.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:14
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Coccodrilli e alligatori, ecco l'antenato più antico

Isisfordia duncani, risalente a 95-98 milioni di anni fa, è stato ritrovato in Australia

Uno scheletro di Revueltosauro

Un antenato del coccodrillo
I coccodrilli e gli alligatori moderni sembrano aver trovato le loro origini filogenetiche in terra d’Australia. Gli strati geologici dello Stato del Queensland hanno infatti restituito i resti fossilizzati dei loro antenati, vissuti, secondo le datazioni, tra 95 e 98 milioni di anni fa, nel periodo Cretaceo. Isisfordia duncani, questo il nome scientifico attribuito alla specie, è stato trovato nei pressi della cittadina di Isisford dove il primo fossile fu segnalato dall’allevatore Ian Duncan una decina di anni fa. Da allora, gli scavi hanno permesso di portare alla luce numerosi altri resti ossei appartenenti a scheletri diversi. Secondo Steven Salisbury, ricercatore dell’Università del Queensland che ha partecipato alla scoperta e che ha firmato l’articolo apparso sulla rivista “Proceedings of the Royal Society B1”, il ritrovamento rappresenta una tappa fondamentale per ricostruire la storia evolutiva dei grandi rettili. I primi, simili agli attuali coccodrilli, chiamati coccodrilliformi, apparvero 200 milioni di anni fa, ma prima d’ora non erano mai stati trovati fossili in grado di documentare il momento in cui sono apparsi sulla Terra gli alligatori e i coccodrilli moderni, situato, a giudicare dalla grande mole di fossili disponibili, già 80 milioni di anni fa.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:15
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L'uomo di Flores non era un "hobbit"

Smentita l'esistenza dell'Homo floresiensis: i resti appartenevano a un pigmeo affetto da microcefalia

Lo scheletro trovato in una caverna dell’isola di Flores, in Indonesia, nel 2004 non è rappresentativo di una nuova specie, come era stato affermato, ma sarebbe semplicemente quello di un individuo affetto da una patologia dello sviluppo, appartenente a un gruppo di antenati della popolazione pigmea che ancora oggi vive sull’isola. È questa la conclusione a cui è giunto un gruppo internazionale di ricercatori diretto da Robert B. Eckhardt dell’Università della Pennsylvania, che ha esaminato accuratamente i resti dell'uomo di Flores. Lo scheletro che suscitò tanto scalpore, denominato LB1, era di piccola statura ma, soprattutto, aveva un cranio di dimensioni particolarmente ridotte. Scavi successivi nello stesso sito hanno portato alla luce altri scheletri, anch’essi di statura ridotta, ma dal cranio normale. Secondo Eckhardt, che è primo firmatario di un articolo in proposito apparso sull’ultimo numero on line dei Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), dunque, “LB1 non è un membro normale di una nuova specie, ma un membro anormale della nostra specie. LB1 appare differente se pensiamo in termini di caratteristiche europee, per il semplice fatto che è un esempio di una popolazione non europea, ma austromelanesiana; per di più, si trattava di un individuo che soffriva di un disturbo dello sviluppo, affetto in particolare da microcefalia.”
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:16
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L'anello mancante fra pesci e animali terrestri

Scoperti sull'isola di Ellesmere numerosi fossili che mostrano i tratti della transizione dalla vita acquatica a quella terricola I fossili di quello che sembra essere l’anello di congiunzione fra i pesci e i primi animali terricoli sono stati scoperti sull’isola di Ellesmere, nell’artico canadese. La nuova specie, a cui la rivista Nature dedica la copertina, sarebbe vissuta circa 375 milioni di anni fa e i suoi membri apparivano per certi versi simili ai primi tetrapodi, ma mantenevano alcune caratteristiche che li avvicinavano ai pesci, come una mandibola primitiva, pinne e scaglie. Il nome della nuova specie, Tiktaalik roseae, deriva dalla lingua Inuit: gli scienziati che hanno scoperto i fossili hanno infatti ritenuto opportuno che ad attribuirglielo fosse la popolazione eschimese nei cui territorio è stato fatto il ritrovamento; il Consiglio degli anziani di Nunavut ha così scelto la parola di idioma Inuit "Tiktaalik" che significa “grande pesce delle acque basse”. Il Tiktaalik era un predatore dai denti robusti, con una testa simile a quello di un coccodrillo e un corpo appiattito. Il materiale scheletrico ben conservato di svariati esemplari – di lunghezza variabile fra gli 1,2 e i 2,7 metri – ha consentito ai ricercatori di studiare lo schema dei cambiamenti evolutivi di diverse parti dello scheletro nel passaggio dalla vita marina a quella terrestre. Uno dei più importanti aspetti della scoperta è appunto la luce che getta sulla transizione da pinna a zampa. In un secondo articolo sempre sullo stesso numero di Nature, viene descritto con accuratezza come la pinna pettorale del pesce abbia iniziato a fungere da zampa. All’epoca in cui visse il Tiktaalik, la regione si trovava in una posizione non discosta dall’equatore e vi regnava un clima tropicale.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:18
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Confermata la parentela del mammut

Mai, finora, era stato completamente decodificato un genoma mitocondriale così antico: i resti esaminati risalgono a 33.000 anni fa

Dopo averli custoditi per molte migliaia di anni, nel 1986 il permafrost della valle formata dall’Enmynveem – sperduto fiume nella Repubblica dei Ciukci, remota regione nord-orientale dell’allora Unione Sovietica – restituì i resti ben conservati di un mammut, per la precisione di un esemplare di mammut lanoso (Mammuthus primigenius). La datazione al radiocarbonio, subito eseguita, permise di stabilire che l’animale era morto circa 33.000 anni fa. Ora, i ricercatori dell’Accademia russa di scienze mediche e dell’Università del Massachusetts danno notizia – in un articolo pubblicato oggi sulla rivista online PLoS Biology – di essere riusciti a completare il sequenziamento del genoma mitocondriale dell’antico pachiderma. Lo studio dimostra che Mammuthus primigenius – estintosi circa 10.000 anni fa – è imparentato con l’elefante indiano, specie dalla quale avrebbe iniziato a divergere poco dopo che un loro antenato comune africano era migrato verso l’Asia. Il DNA utilizzato, estratto da frammenti di tessuto muscolare e di pelle di una gamba ancora ben conservati, era in condizioni piuttosto buone e non è stato difficile per i ricercatori ricostruire la sequenza completa. Il DNA mitocondriale, distinto da quello del nucleo, è ereditato solo per via materlineare e la sua analisi consente una più agevole ricostruzione filogenetica; lo studio di genomi così antichi deve però confrontarsi con il rischio della presenza di possibili alterazioni casuali nel materiale analizzato. Proprio per questo i risultati ottenuti sono di particolare importanza: essi coincidono perfettamente con quelli ottenuti nel dicembre scorso da un’équipe del Max-Planck Institut di Lipsia, che aveva condotto un’analoga ricerca, pubblicata su Nature, su un altro esemplare di mammut, risalente a 12.000 anni
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:19
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suoi resti fossili rinvenuti nella Mongolia interna
Il primo mammifero campione di nuoto

Castorocauda lutrasimilis occupava una nicchia ecologica semi-acquatica già 164 milioni di anni fa

Un mammifero velenoso estinto
Un gruppo di ricercatori del Carnegie Museum of Natural History, e dell’Accademia cinese di scienze geologiche ha descritto lo scheletro fossilizzato di quello che si candida a essere il più antico mammifero nuotatore mai scoperto. Il Castorocauda lutrasimilis aveva, come dice il nome, una coda simile a quella del castoro, mentre l’aspetto complessivo richiamava quello della lontra e come questa si nutriva di pesci. Castorocauda apparteneva a un gruppo di mammiferi, i docodonti, vissuto fra il Giurassico medio e il tardo Cretaceo del quale oggi non esistono discendenti, e che non è neppure direttamente imparentato con i moderni mammiferi placentati. I suoi resti, scoperti nella formazione di Jiulongshan, nella Mongolia interna, risalgono a circa 164 milioni di anni fa. L’importanza paleontologica di Castorocauda è legata al fatto che si tratta del più antico mammifero in cui sia possibile riconoscere uno scheletro specializzato per una vita semi-acquatica: è la prima testimonianza che un mammifero occupasse questa nicchia ecologica fin dal Mesozoico, a prova del fatto che già allora esisteva una notevole diversificazione di specie. Ma non solo. Oltre allo scheletro, sono stati rivenuti anche frammenti fossili che riportano tracce della pelliccia, dalle quali si riesce a desumere la sua capacità idrorepellente. Lungo complessivamente 42,5 centimetri, con un cranio di 6, pesava probabilmente fra i 500 e gli 800 grammi, ben di più degli altri mammiferi suoi contemporanei finora documentati. Secondo Zhe-Xi Luo, curatore di paleontologia dei vertebrati del Carnegie Museum, “Castorocauda aveva probabilmente uno stile di vita assai simile a quello dell’odierno ornitorinco”.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:20
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L'aumento di ossigeno ha favorito i mammiferi

Lo studio dei campioni fossili rivela che 50 milioni di anni fa la quantità di ossigeno nell'atmosfera terrestre è cresciuta rapidamente

Cambia la storia dei mammiferi?
La prima registrazione continua ad alta risoluzione della concentrazione di ossigeno nell'atmosfera terrestre suggerisce che un rapido incremento di ossigeno circa 50 milioni di anni fa abbia fornito ai mammiferi la spinta evolutiva necessaria per dominare il pianeta. Lo sostiene Paul Falkowski, docente di scienza marina alla Rutgers University e autore principale di un articolo pubblicato sul numero del 30 settembre della rivista "Science". Falkowski e colleghi hanno misurato l'abbondanza di carbonio-13, un sottoprodotto della fotosintesi, in carote estratte dalle profondità oceaniche e risalenti fino a 205 milioni di anni fa. La presenza di carbonio-13 nei campioni fossili ha consentito agli scienziati di stimare con precisione quanto ossigeno si trovava nell'atmosfera in ogni dato momento. Da un valore stabile di 10 per cento - il livello nel periodo in cui prosperavano i dinosauri - la percentuale di ossigeno è salita al 17 per cento 50 milioni di anni fa, e al 23 per cento 40 milioni di anni fa. "Nelle registrazioni fossili - commenta Falkowski - si vede che questa crescita di ossigeno corrisponde esattamente a un rapidissimo aumento dei grandi mammiferi placentati. Riteniamo dunque che l'aumento di ossigeno nell'atmosfera abbia consentito ai mammiferi di diventare molto più grandi". Al tempo della grande estinzione dei dinosauri, infatti, i mammiferi placentati che vivevano sulla Terra erano creature piccole e limitate. Negli ultimi 10 milioni di anni, la percentuale di ossigeno nell'atmosfera terrestre è calata fino al 21 per cento. Secondo molti scienziati, la responsabilità è dei grandi incendi che hanno avvolto il pianeta circa 10 milioni di anni fa, riducendo il numero di alberi e, di conseguenza, la quantità di fotosintesi e di ossigeno.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:21
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Calo di ossigeno ed estinzioni di massa

La diminuzione dei livelli di ossigeno nell'atmosfera, fra 175 e 275 milioni di anni fa, avrebbe innescato la scomparsa del 90 per cento di tutte le specie sulla Terra

Scoperto il meccanismo dell'ultima grande estinzion
e
Scoperte recenti suggeriscono che l'ossigeno nell'atmosfera subì in tutto il mondo un forte calo fra 175 e 275 milioni di anni fa, precipitando a livelli estremamente bassi se confrontati con quelli odierni: abbastanza da rendere difficile respirare l'aria al livello del mare proprio come se ci si trovasse a un'altitudine elevata. Ora un paleontologo dell'Università di Washington ha presentato una teoria secondo la quale il poco ossigeno e i ripetuti aumenti di temperatura, brevi ma sostanziali, a causa dell'effetto serra sarebbero la causa di due grandi estinzioni di massa, una delle quali responsabile della scomparsa del 90 per cento di tutte le specie sulla Terra. Peter Ward, docente di biologia e di scienze dello spazio, ritiene inoltre che le condizioni particolari stimolarono in alcuni dinosauri, il gruppo dei saurischiani che comprende anche il brontosauro, lo sviluppo di un insolito sistema di respirazione. Al posto di un diaframma che spinge l'aria dentro e fuori i polmoni, i saurischiani avevano polmoni attaccati a una serie di sacche d'aria dalle pareti sottili che funzionavano come soffietti per muovere l'aria attraverso il corpo. Ward, che ha lavorato con il biologo Raymond Huey e il radiologo Kevin Conley, sostiene che questo sistema respiratorio, che si trova tuttora nei moderni uccelli, rese i saurischiani meglio equipaggiati dei mammiferi per sopravvivere alle dure condizioni di quel periodo, dove il contenuto di ossigeno nell'aria alla superficie terrestre era soltanto la metà del 21 per cento odierno.
@Yoghurt@
00martedì 8 maggio 2007 20:22
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Grazie a una nuova tecnica di indagine sui fossili che permette di risalire alle variazioni stagionali di temperatura
Scoperto il meccanismo dell'ultima grande estinzione

34 milioni di anni fa, scomparve il 90 per cento delle specie di conchigliferi, lasciando il posto ad altre. Oggi abbiamo una spiegazione dell'improvvisa catastrofe

La storia è una storia vecchia: 34 milioni di anni fa, almeno il 90 per cento dei piccoli organismi marini della costa del Golfo del Messico muniti di conchiglia si estinse, lasciando il posto a nuove specie di molluschi. Lo stesso accadde lungo le coste di tutto il mondo, segnando la più imponente estinzione di massa dall'epoca della sparizione dei dinosauri. E, fino a oggi, la ragione di questa estinzione di massa era del tutto sconosciuta. Ora un gruppo di ricerca dell'Università del Michigan e della Syracuse University è venuto a capo dell'enigma, grazie a una nuova tecnica che sta rivoluzionando i metodi di studio del clima e delle variazioni di temperatura. Causa della grande estinzione fu un brusco abbassamento della temperatura durante le stagioni invernali lungo la costa del Golfo, nel periodo geologico che separa l'Eocene e l'Oligocene. La ricerca, pubblicata sul numero di «Nature» di domani, è basata sull'analisi della composizione chimica degli otoliti - letteralmente pietre-orecchio - fossili di un gruppo di pesci sopravvissuto all'evento. Questa tecnica ha permesso ai ricercatori di determinare la temperatura dell'acqua nelle diverse stagioni, cosa che non era mai stato possibile fare in precedenza. «Abbiamo scoperto - scrive Linda C. Ivany, professore di scienze della Terra alla Syracuse University - che, mentre in estate non si verificarono variazioni, le temperature invernali scesero di circa 4 gradi. I paleontologi avevano sempre sospettato che le variazioni di temperatura fossero all'origine dell'estinzione, ma non erano mai riusciti a provarlo. Le registrazioni della temperatura media annuale in quell'epoca non mostravano alcun segno di cambiamento, ma non dicevano nulla sulle possibili variazioni stagionali.» Kyger C. Lohmann, collega della Ivany, ha sviluppato un metodo per raccogliere microcampioni di carbonato di calcio che possono essere analizzati chimicamente per la loro stabile composizione isotopica. William Patterson, un collaboratore di Lohmann, ha raffinato la tecnica e l'ha applicata agli otoliti fossili, costituiti appunto da carbonato di calcio, per determinare le condizioni climatiche stagionali durante la vita di un pesce. Dato che la composizione chimica degli otoliti cambia con la temperatura dell'acqua in cui il pesce vive, i ricercatori hanno potuto risalire ai valori di temperatura. Il materiale si forma, negli otoliti, ad anelli di accrescimento, più o meno come nelle piante. Quando l'acqua è fredda, il materiale accumula ossigeno 18 in misura maggiore, in proporzione, rispetto all'isotopo più leggero di peso atomico 16. Analizzando campioni di carbonato di calcio ricavatio dai singoli anelli di accrescimento, si può risalire alle variazioni stagionali della temperatura. «È la prima volta - aggiunge Patterson - che qualcuno guarda alle variazioni stagionali come a una possibile causa di estinzione a cavallo tra due ere geologiche. Noi abbiamo dimostrato che furono le temperature invernali responsabili dell'evento. I pesci sopravvissuti alla catastrofe hanno le prove registrate nei loro fossili.» La Ivany, ora, pensa di applicare la stessa tecnica nel Mare del Nord e in Antartide per capire come i cambiamenti climatici su scala globale abbiano influenzato quella lontana epoca. Marco Cattaneo
@Yoghurt@
00giovedì 17 maggio 2007 19:02
Altro elemento della vita l´acqua...
L’acqua gioca un ruolo molto importante sul peso di ogni individuo vivente, essendone circa il 70/ 95 % del peso stesso.
L’acqua rappresenta anche un elemento molto importante nelle attivita’ organiche e le molecole delle sostanze disperse in essa possono agevolmente passare dentro e fuori le cellule creando e mantenendo in vita le cellule.
L’osmosi è un fenomeno per cui le sostanze cristalloidi sciolte in acqua- non quelle colloidali- riescono a diffondersi attraversando una membrana semipermeabile. Se in un recipiente contenente acqua distillata immergiamo un tubetto permeabile contenente dell’acqua con sciolto del sale da cucina, si potrà constatare che:
· Una parte dell’acqua del recipiente è penetrata nel tubetto ed ha reso meno salata l’acqua del tubetto
· Una parte di sale del tubetto è uscita ed ha reso salata l’acqua distillata del recipiente.
In pratica dopo qualche tempo sia il liquido nel recipiente che quello nel tubetto, hanno assunto una identica concentrazione salina. L’osmosi ha una grandissima importanza in molti processi fisiologici del nostro organismo, riguardanti specialmente la diffusione del sangue e della linfa, la formazione dell’urina, etc…
La situazione nelle cellule viventi è molto più complessa di quella vista sopra. La caratteristica delle membrane viventi cambia con la temperatura, l’età, le condizioni generali della cellula; le cellule hanno diverse membrane ed ognuna si comporta a seconda delle sue caratteristiche particolari. A seconda del tipo si definiscono semipermeabili o a permeabilità differenziata, significando che alcune molecole possono passare più agevolmente di altre.
Nella maggioranza dei casi l’acqua si muove attraverso la membrana esterna così come si è detto prima. Ponendo dei globuli rossi in acqua normale essi si gonfieranno perché la loro membrana esterna permette all’acqua di entrare ma non le permette di uscire. Come risultato le cellule si gonfieranno fino a scoppiare. Se le stesse cellule fossero poste in acqua molto salata o molto zuccherata, l’acqua all’interno dei globuli rossi ne uscirebbe ed essi avvizzirebbero.
L’acqua copre il 70% del globo e perciò non finirà mai, cambierà solo la qualità dell’acqua. Il ciclo dell’acqua è noto a tutti quindi si può soprassedere. Non tutti sanno che alcune sorgenti sono ricche di acqua antica (vedi Gran Sasso in Abruzzo). Altri luoghi con acque antiche sono i due poli.
Il legame chimico dell’acqua è un legame anomalo: per togliersi la curiosità basta sfogliare qualsiasi libro di scuola media inferiore.
L’acqua naturale si distingue per avere un piccolo contenuto di solidi disciolti, misurate in ppm. In generale l’acqua sotto 1000 ppm è considerata naturale; sotto 500 ppm è adatta per bere.
Una molecola d’acqua, è stato calcolato, che abbia il seguente ciclo “vitale”.
· Nell’atmosfera 9 gg
· Nei fiumi 2 settimane
· Nel suolo da 2 a 52 settimane
· Nei grandi laghi 10 anni
· Nei pozzi sotterranei da 10 a 100 anni
· Nell’oceano, fino a 15 m., 120 anni
· Negli oceani da 3000 a 5000 anni
· Nella calotta artica da 10000 a 100000 anni.
Diversi minerali sono disciolti nell’acqua; la loro composizione e percentuale dipende dal luogo di origine.
Così vi sono acque acide ed alcaline, acque ferruginose e carboniche, acque radioattive e solforate, etc.
Per composizione di minerali, invece si dividono in.
· Minimamente minerali
· Oligominerali
· Mediominerali
· Minerali.

La durezza delle acque non è positiva, soprattutto per gli organismi, oltre che per gli elettrodomestici che usano o producono acqua calda.
Consigli per scegliere un acqua imbottigliata.
A volte le etichette sono scritte con caratteri molto piccoli, al limite del leggibile
@Yoghurt@
00giovedì 17 maggio 2007 19:05
Sempre acqua....
Le piante e l'acqua

di valeria bracco

L’acqua è indispensabile per la vita delle piante: serve per far circolare il nutrimento e per mantenere attive le funzioni vitali delle cellule, permettendone la riproduzione e la crescita. Dove si trova e a che cosa serve

L'acqua è contenuta, in quantità variabili, in tutti i tessuti vegetali, e quindi in tutte le cellule.

L'acqua è presente nel terreno come soluzione in cui sono disciolti sali minerali e sotto questa forma è assorbita dalle radici.

Dalle radici, le soluzioni ricche delle sostanze assorbite arrivano a tutte le parti del vegetale grazie ad un sistema di vasi conduttori.

Nella fisiologia dei vegetali l'acqua ha una funzione insostituibile perché tutte le reazioni vitali sono possibili solo tra sostanze disciolte.

Le sostanze elaborate nei processi di sintesi, come la fotosintesi, sono via via disciolte nella soluzione acquosa circolante ed è così che possono poi raggiungere tutte le parti della pianta, grazie ad altri vasi conduttori, per nutrirle.

L'acqua permette agli enzimi di svolgere la loro azione insostituibile nei processi del ricambio cellulare e serve per le funzioni di accumulo delle sostanze di riserva, come l'amido delle patate, che possono al bisogno essere riconvertite in zuccheri, in seguito a reazioni d'idrolisi in cui è necessaria l'acqua.

La moltiplicazione cellulare è possibile solo se ci sono adeguate quantità d'acqua all'interno delle cellule, che ne sono ricche sia a livello del plasma che della parete cellulare. L'elevata presenza di acqua nelle cellule che costituiscono gli organi più attivi nei processi di accrescimento, gli apici vegetativi, si può osservare soprattutto in primavera quando spuntano i germogli, teneri e facili alla rottura.

L'acqua, che è presente in abbondanza nelle cellule, conferisce turgore e consistenza meccanica agli organi che non hanno tessuti di sostegno, come gli steli d'erba.

Permette inoltre, grazie all'evaporazione, che le parti aeree delle piante non si riscaldino troppo, quando il sole batte e la temperatura ambientale è elevata.

La mancanza d'acqua porta all'appassimento del vegetale, uno stato di sofferenza che può essere temporaneo, se la pianta trova in breve tempo la quantità d'acqua necessaria a ripristinare un normale metabolismo, o permanente, quando ciò non avviene e le normali reazioni metaboliche non possono più avvenire. Si tratta in questo secondo caso di uno stato irreversibile, che porta alla sua morte.

La natura vitale dell'acqua è evidente anche quando si osserva il comportamento di organi quiescenti come i semi: conservabili per lunghissimi periodi se mantenuti in ambiente secco, sono di nuovo in grado di germinare in presenza di acqua.

Quanta ce n'è

La percentuale di acqua presente nei vegetali è variabile.

I fusti di alcune piante delle zone aride, come i cactus, ne contengono fino al 97-98% del loro peso e costituiscono delle vere e proprie scorte viventi. Una spessa cuticola e le foglie trasformate in aculei permettono di ridurre al minimo i fenomeni di evaporazione e traspirazione.

Al contrario, i semi sono di solito le parti vegetali che ne contengono pochissima ( i semi di senape il 7%, i semi di ricino il 6%), caratteristica che ne garantisce la lunga conservabilità.
@Yoghurt@
00giovedì 17 maggio 2007 19:09
acqua e piante....
LE PIANTE (Regnum Plantae o Embryobionta)

Le piante terrestri o Embryobionta sono organismi eucariotici autotrofi pluricellulari. Hanno pareti costituite
di cellulosa, clorofilla a e b e carotenoidi come pigmenti, amido come sostanza di riserva e sono rivestite di
cutina sulla superficie esterna. Sono formate da cellule organizzate in tessuti, a loro volta uniti a formare organi.
Il ciclo è aplodiplonte; le due generazioni (gametofito e sporofito) non sono rappresentate da individui
indipendenti ma tra di loro esistono legami trofici. Le meiospore sono munite di parete ispessita e i gameti sono
prodotti all’interno di gametangi pluricellulari: anteridi e archegoni. La riproduzione è oogama e la gamia
avviene all’interno del gametangio femminile, dove si forma lo zigote che si sviluppa in un giovane sporofito
(embrione) che dipende dal gametofito per il nutrimento, almeno nelle prime fasi di sviluppo. Non esiste
riproduzione vegetativa per mezzo di mitospore o conìdi, mentre è diffusa quella per frammentazione. Si ritiene
che le Embryobionta si siano originate a partire da organismi del tipo delle alghe verdi (Chlorophyta), a
organizzazione pluricellulare, ciclo aplodiplonte e riproduzione oogama.

Seguendo il filo dell’evoluzione – 2: l’emersione dall’acqua.
Le spinte evolutive delle piante terrestri
Si può dire che il cammino evolutivo delle piante (Embryobionta), a partire da quelle alghe verdi che
nel Paleozoico (probabilmente tra 450 e 500 milioni di anni fa) tentarono l’avventura della vita in
ambiente non acquatico, sia la storia di una serie di adattamenti sia vegetativi che riproduttivi
all’aridità.
Le linee guida del processo sono state essenzialmente due:
- il raggiungimento di una maggiore produttività e resa della fotosintesi;
- il perfezionamento dei meccanismi riproduttivi.
È stata proprio la possibilità di una maggiore efficienza fotosintetica la molla che ha fatto
scattare il lungo processo di emersione dall’acqua: i vantaggi dell’ambiente subaereo rispetto a quello
acquatico erano essenzialmente la maggiore disponibilità di CO2 e di luce e la mancanza di
concorrenza. A fronte di questi vantaggi c’era però il problema di come garantire alle cellule
clorofilliane l’approvvigionamento di acqua, l’altro fattore necessario per lo svolgimento della
fotosintesi. In altre parole: come portare le cellule fotosintetizzanti fuori dall’acqua, garantendo loro
l’apporto di acqua come se fossero sommerse? Nel corso del lungo cammino dell’evoluzione, la
soluzione è consistita in pratica nel rinchiudere progressivamente l’ambiente acquatico all’interno
dell’organismo, anziché averlo a disposizione all’esterno.
Quanto all’affinamento dei processi riproduttivi, questi sono legati all’essenza stessa
dell’evoluzione, che consiste nel premiare con una discendenza più numerosa l’individuo, cioè
l’insieme di caratteri (sia forme che funzioni), che risulta più adatto ad un determinato ambiente. Ma
forme e funzioni non sono altro che l’espressione di combinazioni geniche; e quindi la possibilità di
evoluzione di nuove forme sarà legata alla possibilità di esprimere nuove combinazioni da sottoporre
alla sperimentazione della selezione. D’altra parte, le nuove combinazioni geniche si originano
essenzialmente nei processi di ricombinazione genetica che avvengono in sede di meiosi
(riassortimento e crossing-over) e di gamia (costituzione di nuove coppie di cromosomi) e che sono
quindi legati alla riproduzione sessuale. Di conseguenza, quanto più sono efficienti e rapidi i
meccanismi riproduttivi, tanto maggiore sarà la possibilità di insorgenza di nuove combinazioni da
sottoporre al vaglio della selezione.
È sotto l’azione della pressione esercitata soprattutto da queste due spinte evolutive principali che
le piante svilupperanno soluzioni innovative. La diversità delle forme vegetali che sono presenti oggi
sulla Terra è il risultato dell’azione della selezione sulle innumerevoli soluzioni comparse nel corso
dell’evoluzione. Di queste, la stragrande maggioranza non ha avuto nessun seguito, perché
rappresentava un peggioramento, cioè una soluzione meno adatta alle condizioni ambientali del
momento. Altre hanno avuto uno sviluppo più o meno esteso nel tempo e sono poi scomparse, in
seguito al cambiamento delle condizioni ambientali e/o alla comparsa di forme più adatte,
evolutivamente vincenti. È così che è avvenuta l’estinzione di interi gruppi di vegetali. Solo una
piccolissima parte delle forme comparse sulla terra sono ancora presenti: alcune quasi immutate
rispetto ai predecessori presenti milioni di anni fa, perché tuttora adatte al proprio ambiente di vita;
altre caratterizzate da caratteri molto diversi come risultato di ulteriori evoluzioni. Si può dire che ogni
gruppo vegetale attuale rappresenti una innovazione premiata dalla selezione, o in altre parole una
tappa evolutiva.
Come risolvere il problema dell’approvvigionamento di acqua?
Il primo problema che si trova ad affrontare il vegetale al momento dell’emersione dall’acqua è la
difesa dal disseccamento: si sa bene che un’alga portata a terra si dissecca rapidamente. La prima
soluzione adottata dalle piante terrestri è stata la cutinizzazione delle pareti esterne per renderle
impermeabili: la cutina è una sostanza presente in tutte le Embryobionta. Un ulteriore passo evolutivo
è stata la comparsa di tessuti specializzati nella protezione: un’epidermide cuticolarizzata nelle forme
erbacee, i tessuti secondari di protezione (sughero) quando compaiono forme legnose. Naturalmente
era necessario che la protezione non impedisse gli scambi gassosi con l’esterno, necessari al
metabolismo della pianta. Ecco che quindi la pressione selettiva ha provocato la comparsa sulla
superficie impermeabilizzata di piccole aperture, inizialmente molto semplici e poi via via sempre più
complesse, fino ad arrivare a stomi con apertura regolata dal turgore delle cellule di guardia. Questi si
ritrovano in forma abbastanza simile in tutte le piante terrestri, a partire dagli sporofiti di alcune
Briofite.
Cosa c’entrano il ciclo ontogenetico e il rapporto fra sporofito e gametofito?
Le piante terrestri sono tutte aplodiplonti. Gametofito e sporofito fuori dall’ambiente acquatico
hanno seguito due cammini evolutivi molto diversi, in funzione del diverso destino delle cellule da loro
prodotte: rispettivamente, gameti e spore.
I gameti hanno come unica funzione quella di unirsi nella gamia. Per questo motivo non possono
dotarsi di una parete spessa e impermeabile, che impedirebbe la fusione delle due cellule: la gamia
deve quindi necessariamente avvenire in ambiente umido. Se questo non è un problema in ambiente
acquatico, le cose si fanno più difficili nelle piante terrestri, che svilupperanno soluzioni per far sì che
la gamia avvenga sempre in ambiente protetto e mai direttamente in ambiente subaereo. Il tipo di
gamia premiato dalla selezione in ambiente terrestre è l’oogamia, dove almeno uno dei due gameti
(l’oosfera) resta immobile, non viene mai liberata all’esterno e può essere costantemente protetto dal
gametangio femminile (archegonio).
Dal momento che i gameti non possono avere una parete spessa e impermeabile, sono cellule
particolarmente esposte al rischio di disseccamento. Ecco perché il gametofito delle piante terrestri
sarà obbligato a vivere in ambiente umido, e finché sarà costituito da un organismo indipendente dallo
sporofito (Briofite), dovrà crescere appressato al suolo, assumendo portamento fondamentalmente
plagiotropo.
Le spore, invece, nelle prime forme di vita terrestre hanno la funzione di diffondere l’organismo.
Potendosi difendere dal disseccamento per mezzo di una spessa parete impermeabile e resistente
costituita di sporopollenina, le spore sfruttano il vento come vettore per rendere la diffusione più
efficiente e portare la specie a colonizzare territori più lontani. Inoltre, poiché la diffusione per mezzo
delle spore è avvantaggiata da una maggiore elevazione, lo sporofito subirà una forte pressione
selettiva verso lo sviluppo in altezza e il portamento ortotropo.
Così i destini delle due generazioni si separano fin dall’inizio, ma il cammino evolutivo delle piante
terrestri ha selezionato organismi che hanno scelto due strade evolutive diverse: la prevalenza del
gametofito nelle briofite, quella dello sporofito nelle piante vascolari (tracheofite).
Fig. 3 – Il regno vegetale (Embryobionta). Le linee indicano i possibili legami filogenetici tra le piante.
LE BRIOFITE (Bryophyta)
È probabile che le prime piante terrestri fossero organismi simili a briofite, comparsi in ambienti umidi vicini
all’acqua. Ci sono tuttavia studiosi che non condividono questa visione e ritengono possibile la derivazione delle
briofite da tracheofite (piante vascolari) primitive.
Nell'insieme, le briofite comprendono poco meno di 20.000 specie. Si tratta di piante piccole, a crescita
essenzialmente plagiotropa, prive di tessuti vascolari lignificati. L’assorbimento e il trasporto dell’acqua e dei
soluti avvengono soprattutto per capillarità e interessano tutta la superficie della pianta. Anche se mancano veri
tessuti conduttori, in molti muschi (Bryopsida) e in alcune epatiche (Marchantiopsida) possono essere presenti
cordoni centrali di cellule con funzione conduttrice, costituiti da idroidi a maturità privi di protoplasma
circondati da leptoidi, cellule vive con nuclei degenerati e pareti trasversali con perforazioni. Idroidi e leptoidi
sono funzionalmente analoghi a xilema e floema, anche se meno efficaci e privi di funzione di sostegno, dal
momento che mancano di ispessimenti di lignina. La fase dominante del ciclo ontogenetico delle briofite è il
gametofito.
Riproduzione e ciclo. La diffusione avviene per mezzo di meiospore. Queste sono tutte uguali fra loro
(piante isosporee) e possono rimanere quiescenti per lunghi periodi in attesa delle condizioni di umidità
favorevoli alla germinazione. Nei muschi, che sono il gruppo più numeroso di briofite, dalla spora si origina
inizialmente un gametofito filamentoso poco differenziato (il protonema), simile nell’aspetto a un’alga verde
ramificata. Sul protonema si sviluppa il gametofito adulto (detto anche gametoforo), che porta nelle forme più
comuni formazioni laminari funzionalmente simili a foglie (foglioline o fillìdi), inserite con disposizione in
genere spiralata su strutture simili a piccoli fusti (fusticini o caulìdi). I fillìdi vengono da alcuni autori
considerati vere foglie, ma si differenziano da queste essenzialmente per la mancanza di tessuti vascolari. Sono
per lo più costituiti da un solo strato di cellule con cuticola sottilissima; nei muschi (Bryopsida) hanno una
nervatura mediana e sono privi di stomi. Sui gametofori sono presenti anche i rizoidi, strutture piliformi uni- o
pluricellulari il cui aspetto ricorda quello delle radici; i rizoidi hanno funzioni principalmente di ancoraggio al
substrato e solo parzialmente di assorbimento. (Altre briofite hanno gametofiti a organizzazione più semplice e
di aspetto più simile a alghe laminari, come le forme “tallose” di alcune epatiche e degli antoceroti, prive di
organi differenziati simili a radice, fusto e foglia.) I gametofiti adulti di molte briofite sono micorrizzati e in
genere hanno durata di vita pluriennale. I gameti vengono prodotti per mitosi entro gametangi avvolti da una
parete pluricellulare: gametangi maschili (anteridi) e gametangi femminili (archegoni). Esistono briofite
omotalliche o monoiche1, cioè con gametofiti che portano anteridi e archegoni sullo stesso individuo; e briofite
eterotalliche o dioiche, con gametofiti che portano solo anteridi o solo archegoni. Nell’archegonio, che ha in
genere una forma più o meno a fiasco, è contenuta una sola oosfera (chiamata anche ovocellula o uovo), che
rimane immobile nella cavità basale (ventre) dell’archegonio. Negli anteridi vengono prodotti numerosi gameti
maschili biflagellati (spermi o spermatozoidi), che a maturità vengono espulsi dal gametangio e sfruttando un
velo d’acqua nuotano fino al collo dell’archegonio, attratti da stimoli chemiotattici. Le cellule all’interno del
collo e del ventre dell’archegonio gelificano, formando un mezzo liquido che consente l’arrivo del gamete
maschile fino all’oosfera, nel ventre dell'archegonio. Qui avviene la gamia (o fecondazione) e la formazione
dello zigote e del successivo embrione, che si sviluppa all’interno dell’archegonio e viene da questo nutrito. La
necessità della presenza di un velo d’acqua per consentire la sopravvivenza del gamete maschile fuori
dell'anteridio e il suo percorso fino all’archegonio è uno dei fattori che limitano la diffusione delle briofite ad
ambienti umidi. Dall’embrione si sviluppa, senza che vi siano soste nell’accrescimento, lo sporofito adulto, in
genere costituito da un piede inserito nel ventre dell’archegonio con funzione di assorbimento del nutrimento dal
gametofito; da una seta non ramificata con funzione di sviluppo in altezza, in genere dotata di un cordone
conduttore interno di idroidi e leptoidi; e da una capsula, spesso dotata di stomi ad apertura regolabile. La
capsula è costituita essenzialmente dallo sporangio, all’interno del quale avviene la meiosi: numerose cellule
madri delle spore si dividono per dare origine alle meiospore. Lo sporofito è in genere di breve durata e rimane
per tutta la sua vita ancorato al gametofito e dipendente da questo per il nutrimento. A maturità la capsula si
apre, in genere con meccanismi di deiscenza regolati da meccanismi igroscopici (opercolo, peristoma) e libera le
spore nell’aria. Nei muschi ogni capsula può contenere anche qualche milione di spore. Di alcune specie di
briofite non si conosce lo sporofito: è possibile che abbiano perso la capacità di riprodursi per via sessuata e si
propaghino solo per via agamica.
1 Per alcuni autori, i termini monoico e dioico dovrebbero essere riservati alle sole spermatofite (piante a seme).
È importante ricordare che nelle briofite ogni gametofito essendo aploide forma ogni anno gameti con
corredo genico sempre identico, con grande limitazione delle possibilità di insorgenza di nuovi caratteri e
quindi di evoluzione. Inoltre, nelle specie omotalliche che portano sia anteridi che archegoni sullo stesso
gametofito, è estremamente probabile l’incontro di gameti identici, con formazione di sporofiti
completamente omozigoti in cui i fenomeni di ricombinazione genica sono inefficaci, consistendo
semplicemente nello scambio di cromosomi o di porzioni di cromosomi perfettamente identici. In questi
casi, l’unica possibilità di comparsa di nuovi caratteri sarà legata alle mutazioni spontanee.
Le briofite possono propagarsi anche vegetativamente, per frammentazione del tallo o per formazione di
gemme, gruppi di cellule specializzate destinate a questo scopo, che in alcune epatiche sono contenute in
apposite strutture a forma di scodelletta poste sulla superficie del gametofito.
Sistematica. Le briofite comprendono i tre gruppi dei muschi, delle epatiche e degli antoceri, da molti
considerati a livello di classi: Bryopsida, Marcanthiopsida e Anthocerotopsida. Altri autori le considerano
invece come tre divisioni a sé stanti: Bryophyta, Marchantiophyta (o Hepatophyta), Anthocerophyta. Questo
sulla base della convinzione che le briofite non rappresentino tutte le linee originate a partire da un antenato
comune.
I muschi (Bryopsida), con oltre 10.000 specie circa, sono il gruppo di briofite più diffuso ed a loro in
particolare si riferiscono le caratteristiche descritte precedentemente. Comprendono anche il gruppo degli sfagni,
piantine che vivono negli ambienti acidi e freddi delle torbiere (vedi più avanti). Gli sfagni hanno pareti
impregnate di fenoli, sostanze antisettiche che rendono i loro tessuti resistenti alla decomposizione.
Nelle epatiche (Marchantiopsida), che comprendono circa 8.000 specie, i gametofiti a morfologia
dorsoventrale hanno portamento particolarmente appiattito al suolo. Possono essere fogliosi, ma con foglioline di
aspetto diverso da quelle dei muschi, oppure privi di foglie e di aspetto talloso nastriforme, simile a quello di
alcune alghe verdi. Sull’epidermide possono essere presenti aperture (pori), funzionalmente simili a stomi
rudimentali, ma privi di cellule di guardia e sempre aperti. Gli sporangi sono spesso privi di seta.
Nel piccolo gruppo delle Anthocerotopsida (un centinaio di specie) i gametofiti sono tallosi, di aspetto simile
a quelli di alcune epatiche. Gli sporofiti a forma di cilindri sottili e privi di seta sono verdi e fotosintetizzanti e
hanno epidermide con stomi muniti di cellule di guardia. Questi sporofiti vivono per alcuni mesi, accrescendosi
grazie ad un meristema intercalare presente alla base. Sono considerati sporofiti particolarmente evoluti rispetto
a quelli delle altre briofite, soprattutto perché mostrano la tendenza a divenire perenni e autonomi dal gametofito.
Interesse ecologico e applicativo. Le briofite sono presenti in ambienti diversi, come il sottobosco delle
foreste, i prati, le rocce, i tronchi degli alberi. Dal momento che non hanno radici o altri organi ipogei che si
approfondiscono nel terreno, questi vegetali non necessitano di un terreno profondo e riescono a vivere anche su
substrati sottilissimi, purché vi sia umidità sufficiente. La mancanza di tessuti conduttori e la fisiologia della
riproduzione che necessita della presenza di acqua per l’incontro dei gameti limitano infatti la loro diffusione a
ambienti con presenza di umidità. La maggior parte delle briofite è tuttavia in grado di superare periodi anche
prolungati di mancanza di acqua e altre condizioni ambientali estreme in uno stato disidratato di vita latente, per
poi riprendere la normale attività vegetativa nel giro di poche ore in presenza di acqua. Questo grazie alla grande
capacità di assorbimento rapido tipica di queste piante. La possibilità di sottrarsi alle condizioni sfavorevoli in
forma di vita latente conferisce a molte briofite spiccate caratteristiche di piante pioniere, come è dimostrato dal
fatto che sono particolarmente diffuse negli ambienti inospitali delle elevate altitudini e latitudini (tundre artiche
e alpine), dove le più evolute ma più esigenti piante vascolari non sono in grado di vivere. In alcune cenosi
forestali di climi freddi e umidi, come alcuni tipi di boschi di abete rosso, le condizioni ambientali del sottobosco
con elevata umidità e acidità, scarsa illuminazione e basse temperature fanno sì che la vegetazione sia dominata
da briofite, che svolgono anche l’importante ruolo ecologico di difendere il terreno dall’erosione. Tipi di
vegetazione come le torbiere sono dominati da sfagni e altre briofite. Spesso sono briofite, insieme a licheni, i
primi organismi che colonizzano suoli vergini come rocce nude e lave, oppure innescano le successioni
secondarie. Come altri organismi che assorbono attraverso tutta la superficie, anche molte briofite sono sensibili
all’inquinamento e tendono a rarefarsi nelle città, dando luogo ai cosiddetti “deserti di briofite” degli ambienti
urbani. Alcune specie, sensibili selettivamente a determinati inquinanti, possono essere usate come bioindicatori.
L’interesse economico e applicativo delle briofite è legato soprattutto all’utilizzazione della torba, materiale
organico molto assorbente, usato come substrato per la coltivazione delle piante, come ammendante dei terreni
troppo pesanti o alcalini, come combustibile. La torba viene estratta dalle torbiere, che sono comunità dominate
da muschi del tipo degli sfagni presenti in ambienti freddi e umidi e caratterizzate da un pH estrememente acido,
anche inferiore a 4. L’acidità limita la crescita di altre piante e unita alla presenza di sostanze antisettiche
prodotte dagli sfagni impedisce la decomposizione dei residui di queste piante, che si accumulano a costituire la
torba. Anche eventuali resti di altre piante e di animali vengono conservati quasi inalterati nelle torbiere, che per
questo motivo costituiscono ambienti ideali per la raccolta di dati per gli studi paleontologici e in particolare
paleobotanici: attraverso lo studio dei pollini fossili prelevati nei diversi strati delle torbiere riferibili a epoche
diverse è stato possibile sapere quali specie erano presenti nel passato in determinati territori e ricostruire i tipi di
vegetazione succedutisi nel tempo. Le torbiere rappresentano habitat di notevole interesse naturalistico e possono
ospitare specie vegetali specializzate (tra cui numerose piante insettivore) ad areale ristretto o frammentato.
L’estrazione incontrollata della torba può rappresentare una minaccia per la sopravvivenza di questi habitat e
attualmente in molti paesi è vietata o regolata per legge.
INQUADRAMENTO SISTEMATICO
- Se si ritiene che le briofite siano monofiletiche:
DIVISIONE Bryophyta (briofite)
CLASSE Bryopsida (muschi)
Marchantiopsida (epatiche)
Anthocerotopsida (antoceri)
- Se si ritiene che le briofite siano polifiletiche:
DIVISIONE Bryophyta (muschi)
Marchantiophyta o Hepatophyta (epatiche)
Anthocerotophyta (antoceri)
È importante notare come con il termine “Bryophyta” si intendano due cose diverse, a seconda che si adotti
l'uno o l'altro schema tassonomico.
?? Sui testi:
RAVEN EVERT, EICHHORN:
Cap. 18 Le briofite (p. 414-421, 426-429, 430-436)
escluso: Le epatiche tallose complesse ..., Le epatiche fogliose ... I muschi del granito ...
CRONQUIST:
Cap. 17 Bryophyta
Introduzione agli Embryobionta, storia, caratteri delle briofite (p. 233-236)
Anthocerotopsida
Definizione (p. 236), lo sporofito (solo i caratteri generali) (p. 237-239)
Marchantiopsida
Definizione, Habitat (p. 239-240)
Bryopsida
Definizione, Habitat (p. 163-164)
Gametofito, sporofito (solo i caratteri generali) (p. 246-249)
Commenti finali
Importanza economica (p. 252)
@Yoghurt@
00giovedì 17 maggio 2007 19:14
acqua e iodio.....
IODIO nella EVOLUZIONE: Evoluzione degli antiossidanti nella alimentazione.


L’atomo di iodio (Simbolo I; P.A.126.9; N.A 53) è costituito da 53 elettroni, 53 protoni e 74 neutroni, e rappresenta una sorta di “cenere nucleare”. Infatti, deriva da un processo di nucleo-sintesi avvenuto più di 10 miliardi di anni fa’ in una stella-supernova, che esplodendo lo ha disperso nel pulviscolo primordiale, il quale condensandosi, circa 5 miliardi di anni fa’, ha formato il nostro pianeta-Terra. Lo iodio è uno degli atomi più ricchi di elettroni presenti nel nostro corpo ed è indispensabile nella dieta di tutti gli esseri viventi animali. Lo iodio (I) è scarsamente reperibile nella superficie terrestre, perché nel corso di centinaia di milioni di anni è stato dilavato, da piogge e glaciazioni, e trasportato dalla crosta terrestre verso il mare, il quale si è arricchito progressivamente di iodio, sotto forma di ioduri (I-) e di iodati.




Fig 1. Struttura atomica dello iodio


Infatti le acque marine sono ricche di iodio, circa 50-60 microgrammi (mg) per litro, mentre le acque terrestri: estuari, fiumi, laghi, ne contengono quantità da 10 a 200 volte inferiori ( 5 - 0.2 mg/L). Una piccola parte di iodio evapora nell’aria (anche come iodo-metano gassoso) e precipita nel suolo con le piogge, soprattutto in vicinanza delle zone costiere. Il ciclo geo-biologico dello iodio, è in parte simile a quello del selenio. Lo iodio viene captato dalle cellule come ioduro (I-) soprattutto tramite il NIS (sodium iodide symporter), ma anche altri trasportatori sono oggi stati identificati. Il NIS è il trasportatore glicoproteico transmembrana dello ioduro, la cui molecola, nell’uomo, è stata clonata e caratterizzata da Dai e coll.(1996) e Smanik e coll.(1996). Essendo presumibilmente molto antico, il NIS è poco specifico e secondo Wolff (1964) non è in grado di distinguere lo ioduro da altri atomi o piccole molecole, come i nitrati, i nitriti, i fluoruri, i tiocianati, i pertecnati ecc., aventi stessa carica elettrica e simili dimensioni atomiche o molecolari, che sono “in competizione” con lo ioduro, comportandosi come “pseudo-ioduri”. La caratteristica elettrochimica dello iodio è quella di attirare e cedere facilmente un elettrone (con un potenziale redox di -0.54 Volt). Questa proprietà lo rende un efficiente donatore-accettore di elettroni, che è una delle caratteristiche fondamentali delle sostanze antiossidanti. Infatti:


2 I- -> I2 + 2 e- (elettroni) = - 0.54 Volt ;

2 I- + Perossidasi + H2O2 + 2 Tirosina -> 2 Iodio-Tirosina + H2O + 2 e- (antiossidanti) ;

2 e- + H2O2 + 2 H+ (della soluzione acquosa intracellulare) -> 2 H2O


Tab. A







2 I- + Peroxidase + H2O2 + Tyrosine, Histidine, Lipids, Carbons ->

-> Iodo-Compounds + H2O + 2 e- (antioxidants)


Iodo-Compounds: Iodo-Tyrosine, Iodo-Histidine, Iodo-Lipids, Iodo-Carbons


Tab. B





Tab. A e Tab. B. Meccanismi biochimici antiossidanti degli ioduri, probabilmente uno dei più antichi meccanismi di difesa dai radicali liberi dell’ossigeno, già presenti nei Cianobatteri circa 3 miliardi e mezzo di anni fa’ (Venturi, 1985)




Le alghe marine sono in grado, tramite enzimi alo-perossidasici, di catalizzare l’incorporazione dello ioduro in alcuni idrocarburi producendo iodio-metano gassoso (CH3I) e altri alo-idrocarburi, nella atmosfera. Secondo Petersén (1996), Colin et al (2003), Gall et al., (2003) Kuepper e coll. (1998) questa produzione è il risultato della primitiva fotosintesi, della produzione di ossigeno e della respirazione cellulare, iniziate oltre tre miliardi di anni fa’; ed è dovuta allo scopo di ridurre il danno dei radicali liberi dell’ossigeno (ROS), come il perossido di idrogeno (H2O2), i superossidi ed i radicali ossidrilici. Recentemente una altra via metabolica è stata descritta, tramite la quale lo ioduro viene incorporato negli acidi grassi poli-insaturi (PUFA) delle membrane cellulari, proteggendoli dalle perossidazioni (Cocchi, Venturi, 2000). Sia le cellule tiroidee che quelle di altri tessuti I-captanti, come le cellule della mucosa gastrica e delle ghiandole salivari ecc., sono in grado di produrre "in vitro" mono-iodio-tirosina (MIT) e di-iodio-tirosina (DIT) legate a proteine e anche alcuni poco conosciuti iodio-lipidi, che sembrano avere una importante funzione strutturale e metabolica come secondi messaggeri. In particolare il delta-iodiolattone (acido 6-iodio-5-idrossi-eicosatrienoico) è un potente inibitore della proliferazione delle cellule tiroidee e secondo Cann e coll. ( 2000) e Venturi (2001) gioca anche un ruolo nel controllo antiproliferativo dei tessuti extratiroidei I-concentranti.




Fig. 2. Iodio ed evoluzione. Più di tre miliardi di anni fa’ le alghe verdi-azzurre furono le prime cellule procariote a produrre ossigeno (allora tossico) e iodio-composti, tra cui iodo-metano (CH3I) gassoso, nella atmosfera terrestre. Da circa 800-700 milioni di anni la tiroxina (T4) è presente nell’esoscheletro degli invertebrati marini (spugne, coralli, conchiglie ecc.) senza possedere alcuna conosciuta azione ormonale. Circa 500-400 milioni di anni fa’, alcuni primitivi cordati iniziarono a risalire dal mare (ricco di iodio) le acque I-carenti degli estuari e poi dei fiumi. Circa 400-300 milioni di anni fa’ alcuni di questi primitivi vertebrati cominciarono ad evolversi in anfibi e poi in rettili, che poi popolarono permanentemente l’ habitat terrestre I-carente. Allora questi vertebrati terrestri ebbero bisogno di un nuovo efficiente organo dove poter accumulare il poco iodio presente nell’ habitat terrestre: il follicolo “tiroideo”. I vertebrati cominciarono poi ad utilizzare la T4 come trasportatore nelle cellule periferiche dello ioduro antiossidante, ed in seguito iniziarono a utilizzare la T3, grazie a i suoi nuovi recettori. La T3 divenne così l’ormone attivo nella metamorfosi e nella termogenesi, per un migliore adattamento al nuovo habitat terrestre (Venturi, 2004).




L’organismo umano contiene circa 25-50 milligrammi di iodio, di cui meno di 10-15 mg sono presenti nei follicoli della tiroide e meno di 1 mg negli ormoni tiroidei circolanti. La maggior parte, il 60-70 % di tutto lo iodio del corpo umano, è presente in sede extratiroidea ed è captato da diversi organi non-follicolari: stomaco, epidermide, mammella, ghiandole salivari, arterie, timo ecc. in cui, sembra ormai accertato, svolge una azione diretta antiossidante, non ormonale, ancora poco conosciuta. Tale azione, era già presente, secondo Venturi (1985), Petersen e coll. e Kuepper e coll. più di tre miliardi di anni fa nelle alghe verdi-azzurre (cianobatteri) e probabilmente ha costituito uno dei più antichi meccanismi antiossidanti di difesa dai ROS. Infatti queste alghe, ricche di iodio, furono le prime a produrre ossigeno, fino ad allora assente nella atmosfera terrestre. Per cui la cellula algale doveva possedere degli antiossidanti, efficaci e facilmente reperibili, per difendersi dalla tossicità dell’ossigeno. Gli ioduri, ed il selenio, diffusi e ben reperibili nelle acque marine, hanno avuto in ciò un ruolo determinante. Infatti, il selenio è presente nelle perossidasi e nelle deiodasi intracellulari, le quali sono capaci di estrarre elettroni dagli ioduri, e queste ultime gli ioduri dalle iodio-tironine. La vita nel nostro pianeta-Terra è iniziata nel mare circa 4 miliardi di anni fa’, e per tre miliardi e mezzo di anni è stata esclusivamente marina, solo negli ultimi 300-400 milioni di anni fa’, alcuni esseri viventi, protetti dai raggi ultravioletti solari dallo scudo dell’ozono (O3), iniziarono ad emergere dalle acque marine e ad abitare la terraferma (carente di iodio): prima i vegetali poi gli animali.


Fig. 3. La vita nel nostro pianeta è iniziata nel mare circa 4 miliardi di anni fa’ e per tre miliardi e mezzo di anni è stata esclusivamente marina, solo negli ultimi 300-400 milioni di anni, alcuni esseri viventi iniziarono ad emergere dalle acque marine e ad abitare la terraferma carente di iodio e di altri antiossidanti marini.


Si creò allora una grave crisi nutrizionale di iodio, ma anche di selenio e di altri meno conosciuti antiossidanti “marini”.
Infatti, mentre nel mare tutti gli esseri viventi, potevano utilizzare lo iodio ed il selenio, con il trasferimento sulla terraferma si è interrotta la catena alimentare nutrizionale marina che li trasferiva (insieme agli acidi grassi omega-3), dal fitoplancton fino ai pesci marini. I vegetali “terrestri” hanno superato questa crisi nutrizionale di antiossidanti marini, perfezionando ed utilizzando sostanze antiossidanti alternative, alcune già elaborate negli estuari I-carenti, come i polifenoli, i flavonoidi, l’acido ascorbico, i carotenoidi, i tocoferoli ecc. di cui alcuni sono diventati fattori “vitaminici”, essenziali per l’uomo, come le vitamine C, A, E ecc. Infatti lo iodio non divenne più indispensabile per diverse specie vegetali terrestri. Alcuni antiossidanti ebbero una evoluzione “filogenetica” continua fino alle più recenti sostanze antiossidanti come il licopene e molti polifenoli, carotenoidi ecc. che si sono sviluppati solo recentemente nei pigmenti colorati antiossidanti presenti nei fiori e nella frutta delle piante angiosperme ( derivate dalle più antiche piante gimnosperme) che sono comparse sulla terra solo da circa 200-100 milioni di anni e sono divenute oggi il tipo di piante più numeroso. Gli animali, invece, hanno superato questa crisi nutrizionale, cercando anche di migliorare e di ottimizzare le scarse quantità di iodio disponibili sulla terraferma, mediante 3 meccanismi adattativi:


1) la creazione del follicolo tiroideo;

2) l’utilizzazione della Tiroxina (T4) come trasportatore di ioduri;

3) la formazione dei recettori della T3 e quindi della sua “nuova” funzione ormonale.


La somiglianza tra stomaco e tiroide è dovuta proprio alla comune filogenesi ed embriogenesi, essendo le cellule “tiroidee” derivate proprio dall’intestino primitivo, che era ed è capace di captare iodio e formare composti iodati
. Questo spiega le comuni caratteristiche tra cui: la polarità e i microvilli apicali, la capacità di captare e di secernere iodio, la secrezione di ormoni aminoacidici e di simili glicoproteine (tireoglobulina e mucina) e inoltre la capacità di digerire tramite peptidasi e di riassorbire (tireoglobulina e cibo) ed infine i comuni antigeni di membrana e le malattie immunologiche associate.




Fig. 4. Metamorfosi dell’ammocete (larva di ciclostoma) in lampreda adulta, con neoformazione del follicolo "tiroideo" derivato dalle cellule gastroenteriche della larva. La formazione del follicolo-deposito di iodio sembra sia originata negli estuari, in preparazione della migrazione nelle acque dolci (iodo-carenti) dei fiumi terrestri. (da Magni M.A, 1985).




1) La formazione del follicolo tiroideo, che origina infatti dall’intestino I-captante primitivo, come efficiente forma di deposito dello iodio (iniziato nei primitivi cordati, sembra negli estuari, prima di migrare nelle acque interne terrestri I-carenti). È proprio grazie al deposito-riserva di iodio nei follicoli tiroidei, che noi uomini possiamo vivere per molte settimane senza assumere iodio e senza avere sintomi clinici di carenza.

2) La utilizzazione della T4, che non è , come gli ioduri, in competizione (a livello del NIS) con gli anioni monovalenti vegetali, ma ha un diverso, più moderno e specifico recettore. Infatti, la dieta vegetale terrestre è ricca di antagonisti dello ioduro sul NIS come i nitrati, nitriti, tiocianati, cianati, glicosidi ecc. sviluppatisi come strategia di difesa antiparassitaria. Questo nuovo meccanismo della T4 si è integrato, senza sostituirlo, a quello più antico del trasportatore dello ioduro (NIS), che è sempre funzionante, come si può ben vedere anche nelle I-scintigrafie total-body sotto riportate. La tiroxina, che prima veniva spesso secreta ed eliminata dalla cellula “marina”, diventa così un trasportatore endocellulare dello ioduro, molto più efficiente, come hanno dimostrato Evans e coll. Ricerche di Tseng e Latham e di Oziol e coll. hanno documentato, inoltre, un potere antiossidante ed inibitore della perossidazione lipidica della T4 e della rT3 (ma non della T3) superiore alle vitamine C ed E ed al glutatione; e Virgili e coll. hanno riportato che il trattamento con tiroxina protegge dai danni perossidativi intestinali indotti dalla carenza di zinco nei ratti. Inoltre gli ioduri difendono le cellule cerebrali dai danni perossidativi nei ratti ( Katamine, 1985) e sono stati utilizzati nella terapia di molte malattie umane degenerative su base perossidativa come arteriosclerosi, vasculopatie, artrosi ecc. in numerosi studi clinici degli anni ’50 in Europa, in cui a differenza degli USA, non era allora praticata la iodioprofilassi. Recenti studi stanno oggi evidenziando le basi biochimiche della azione antiossidante degli ioduri (Winkler e coll). Secondo Kahaly (2000) e Hak e coll.(2000) lo iodio e la funzionalità tiroidea sono importanti nel metabolismo dei lipidi, del colesterolo e nel ridurre l’aterosclerosi e l’ipertensione, mentre l’ipotiroidismo anche subclinico è oggi ritenuto causa importante di morbilità cardiovascolare. Recentemente Cann (2006) ha pubblicato una importante review su “iodio e malattie cardio-vascolari” riportandone numerose esperienze di efficacia preventiva e terapeutica. La I-concentrazione nella parete elastica della aorta presente ancora dopo 14 giorni dalla somministrazione di radio-ioduro-131 , visibile nella fig. 9 (in basso) ci fornisce anche, insieme alle proprietà antiossidanti dello ioduro, un razionale di questa azione anti-aterosclerotica.

3) Infine la formazione dei recettori nucleari della T3 (TH-Rs = geni e relative proteine), che hanno permesso un migliore adattamento dei vertebrati all’ambiente terrestre. Infatti, negli anfibi, tramite la metamorfosi, le branchie si sono lentamente trasformate in polmoni e le pinne in arti. La maggiore gravità terrestre ha stimolato inoltre la ossificazione degli arti e dello scheletro. Mentre le maggiori escursioni termiche terrestri hanno sviluppando l’azione calorigena della T3, come protezione degli animali terrestri più evoluti: uccelli e mammiferi.

E’ importante qui ricordare che i TH-Rs geni sono anche c-erbA oncogeni, che sono implicati come geni onco-soppressori in diversi tumori umani non-tiroidei, in particolare gastrici e mammari (Wang et al., 2002; Li et al. 2002). Nel 2001, Hays ha riportato sulla rivista statunitense “Thyroid” che “ è sorprendente che il contenuto totale dello iodio nel corpo umano sia ancora oggi incerto, e che dopo molti anni di ricerche, il metabolismo cellulare dello iodio ed il pool dello iodio extra-tiroideo siano ancora materia di speculazione e così pure la composizione chimica dello iodio extratiroideo sia ancora sconosciuta”. Questa affermazione fa risaltare le ricerche di Gribble (1996) e di Dembitsky e Tolstikov (2003) che hanno recentemente descritto più di 110 composti iodati presenti in organismi viventi animali e vegetali. Le due maggiori specie chimiche dello iodio presenti nell’interno delle cellule hanno differenti proprietà fisico-chimiche: lo iodio molecolare (I2) è idrofobo ed è capace di iodinare i doppi legami degli acidi grassi poli-insaturi delle membrane cellulari (PUFA), formando iodio-lipidi. Invece l’acido ipoiodico (HOI) è idrofilo e solubile nell’acqua. Recentemente Aceves e coll. (2005) hanno riportato, per la prima volta, che la percentuale di radio-iodio presente negli omogenati di tessuto mammario è del 40 % nella frazione lipidica, del 50 % nella frazione proteica e del 8 % nella frazione nucleare; e che negli omogenati di tessuto mammario di ratte la somministrazione di ioduri diminuisce significativamente la perossidazione lipidica. I pesci marini (come i selaci) sono ricchi di iodio e hanno anche meno tumori dei pesci di acqua dolce. Il 7 ottobre 1999 il Comitato del Senato USA ha ufficialmente dichiarato: “ Il Comitato ha notato la inusuale bassa incidenza di cancro in pesci marini (ricchi di iodio: NdT) come squali e razze , per cui incoraggia ricerche sul sistema immunitario di questi pesci per individuare sostanze anti-tumorali attive anche nell’ uomo”.


Fig. 5. Scintigrafie con I-123 total body sequenziali umane. La I-captazione in tutti i tessuti captanti è mediata dal NIS delle membrane cellulari. Nelle scintigrafie si notano oltre alla tiroide, altri tessuti iodiocaptanti: alla ventesima ora circa il 70 % dello radioiodio iniettato in vena è presente in sede extratiroidea: nella mucosa gastrica, epidermide, plessi coroidei cerebrali, ghiandole salivari ed inoltre, qui non visibili, nel timo fetale e nelle ghiandole mammarie (solo in gravidanza ed allattamento).




Nelle scintigrafie corporee con radio-iodio si notano oltre alla tiroide, altri tessuti iodiocaptanti: alla ventesima ora circa il 70 % dello radioiodio iniettato è presente in sede extratiroidea: nella mucosa gastrica, epidermide, plessi coroidei cerebrali, ghiandole salivari ed inoltre, qui non visibili, nel timo fetale e nelle ghiandole mammarie ( captanti solo in gravidanza ed allattamento). La tiroide capta in modo progressivo, mentre gli altri organi hanno un rapido accumulo ed una rapida dismissione del radio-iodio. La I-captazione è dovuta alla azione dei rispettivi simporter dello ioduro (NIS), che pur essendo simili, nella tiroide è filogeneticamente ed embriologicamente più evoluto, infatti è più affine per lo ioduro e risponde allo stimolo del più “moderno” TSH. Solo la tiroide, però, possiede il follicolo tiroideo che gli consente l’accumulo e il deposito di iodio-composti (TG). La iodiocaptazione tiroidea nel feto umano è infatti presente solo dalla 12° settimana di vita fetale e la formazione filogenetica della tiroide è anch’essa relativamente recente, risalendo a solo 400-500 milioni di anni fa’, quando i primi vertebrati marini cominciarono a popolare le acque degli estuari e poi dei fiumi terrestri carenti di iodio. In tale epoca della evoluzione i pesci di acqua dolce hanno cominciato ad utilizzare la vitamina C (acido ascorbico), che i vegetali avevano probabilmente allora iniziato ad produrre a scopo antiossidante. Infatti i pesci d’acqua dolce soffrono di “scorbuto” e di anomalie vertebrali causate da carenza di vitamina C, le quali regrediscono se tali pesci vengono rimessi in acque marine. In ambiente marino tali pesci possono utilizzare antiossidanti marini più primitivi, che sono in grado compensare il deficit alimentare di vitamina C. Infatti molti biologi ora ritengono che gran parte dei vertebrati si siano sviluppati morfologicamente e metabolicamente proprio nelle acque degli estuari (Purves e coll, 1998).


Fig. 6 . Salmoni coltivati in acqua dolce che mostrano sintomi di “scorbuto” ed anomalie della colonna vertebrale (scoliosi e lordosi) causate da carenza di vitamina C.




Fig. 7. Espressione del NIS, evidenziata da anticorpi colorati anti-NIS, nelle membrane plasmatiche in sede baso-laterale di: A: Tiroide; B: Mucosa gastrica; C: Mammella in allattamento; D: Ghiandola salivare ( Wapnir, 2003 ).




Storia evolutiva dello iodio negli esseri viventi: Dai più antichi: le alghe, gli invertebrati, i pesci, gli anfibi, i rettili, ai più recenti: i mammiferi fino all’ Homo Sapiens moderno.




Le alghe captano e trattengono gli ioduri in modo omogeneo e diffuso, le Laminarie contengono circa 1-3 % del peso secco di iodio. Le alghe marine (alghe verdi-azzurre) furono i primi esseri viventi a produrre ossigeno ( più di 3 miliardi di anni fa’), per cui hanno utilizzato efficaci e reperibili sistemi antiossidanti tra cui gli ioduri e il selenio (Pedersén e coll. e Kuepper e coll). Le alghe producono circa 80 % dell’ossigeno atmosferico, e costituiscono il primo anello della catena alimentare nutrizionale marina che trasferisce iodio, selenio e acidi grassi n-3 ai pesci e agli animali. Le acque salso-bromo-iodiche delle sorgenti termali del nostro entroterra (Salsomaggiore, Abano, Castrocaro ecc.) derivano da enormi praterie di alghe che durante la formazione della penisola italiana (circa 20-30 milioni di anni fa’) sono state ricoperte e sollevate da altri strati geologici, mantenendone però gli elementi algali primitivi mineralizzati come lo iodio, il bromo, il sale, il metano ecc. Risalendo la scala evolutiva filogenetica, possiamo vedere, circa 800 milioni di anni fa’, la comparsa di una notevole iodocaptazione nell’esoscheletro della conchiglia, e anche delle spugne e dei coralli (Brown-Grant, 1961). Roche (1951) aveva dimostrato negli invertebrati la presenza di MIT, DIT e T4, che vengono secreti ed espulsi dalle cellule nell’esoscheletro, dopo aver ceduto l’elettrone dello ioduro. Circa 500 milioni di anni fa’ nei pesci marini è comparsa una iodiocaptazione generalizzata, con minimo accumulo tiroideo, poco necessario per la facile reperibilità di ioduri nel mare. I follicoli, qui non ancora “tiroidei”, sono privi di capsula e si presentano scarsi e diffusi negli organi interni addominali. I pesci marini contengono alte quantità di iodio in gran parte inorganico circa 500-800 microgrammi (mg) per kg. Alcuni pesci marini migratori (anadromi) come le lamprede (Youson et al.,1997) , i salmonidi ecc. risalgono dal mare i fiumi fino alle sorgenti, dove muoiono inspiegabilmente dopo essersi riprodotti. In questo modo tali pesci marini riportano nei territori I-carenti dell’interno notevoli quantità di iodio e di selenio ( e anche di omega-3), consentendo la vita ed il benessere di altre specie animali tra cui gli uomini che, tramite loro, assimilano tali essenziali oligoelementi. Circa 400 milioni di anni fa’ quando, per la ricerca di cibo o per sfuggire ai predatori, alcune specie di pesci cominciano a lasciare il mare per abitare le acque dolci e I-carenti dei fiumi terrestri iniziano anche le malattie da carenza di iodio e di altre sostanze di origine marina. Nei pesci d’acqua dolce (in cui lo iodio è carente) i follicoli tiroidei sono più numerosi ed aggregati spesso tra le branchie. I loro tessuti contengono molto meno iodio rispetto ai pesci marini (circa 20 mg/ kg) ed è in gran parte iodio organico ( MIT, DIT , T4 ). I pesci d’acqua dolce I-carenti presentano inoltre anche difetti della immunità e maggiori malattie infettive, parassitarie, arteriosclerotiche e tumorali dei pesci marini (selaci). Infatti i selaci e i pesci marini in genere soffrono molto più raramente di neoplasie. L’alimentazione con pesce di mare è inoltre utile nella prevenzione di alcune importanti patologie tumorali, cardiache ed arteriosclerotiche nell’uomo.




Fig. 8. Metamorfosi della rana da animale acquatico (il girino) a rana terrestre. La quantità ambientale di iodio, necessario a formare la tiroxina endogena, innesca il meccanismo della metamorfosi. È evidente la “spettacolare” apoptosi (morte programmata) della coda, delle pinne, delle branchie che si trasformano negli arti ed anche dello stomaco, che da stomaco primitivo erbivoro si trasforma in stomaco pepsino-acido secernente proprio dei mammiferi carnivori. (Circa 300-400 milioni di anni fa’) (Ishizuya-Oka et al., 2003)




Lo studio della azione dello iodio nello sviluppo e metamorfosi degli anfibi è importante e riassume la strategia evolutiva di adattamento degli animali acquatici (pesci) in animali terrestri. Gli anfibi hanno una vita larvale nell’acqua dolce ( non esistono anfibi marini !) ed una vita adulta “terrestre” da circa 370 milioni di anni fa’. È esclusivamente la quantità ambientale di iodio, che consente la formazione della tiroxina endogena, ad innescare il meccanismo della metamorfosi, adattando così gli anfibi adulti alla vita “terrestre”con la formazione di polmoni, di epidermide lubrificata, arti deambulanti ossificati, di idonea circolazione cardio-polmonare ed anche di mucosa gastrica acido-pepsino-secernente, simile a quella dei mammiferi. Il girino carente di iodio non riesce a metamorfosare e muore presto come girino. C’è stata anche una evoluzione “morfologica” macroscopica dei follicoli della ghiandola tiroidea, i quali durante l’evoluzione (dai pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi) sono diventati sempre più definiti, incapsulati ed organizzati nella tiroide in sede pre-tracheale.




Fig. 9. Distribuzione dello iodio-125 (in bianco) nella autoradiografia di una topolina gravida dopo 1 ora dalla iniezione endovenosa dell0 I-125. È evidente la alta I-captazione nella mucosa orale e nelle ghiandole salivari, nella placenta e nelle mucose gastriche dei feti. (Autoradiografie di Ullberg ed Ewaldsson, 1964. Riprodotte per cortesia di Acta Radiologica).


Lo studio autoradiografico di Ullberg ed Ewaldsson (sopra riportato) è importante in quanto studia il comportamento dello iodio e del NIS anche durante la gravidanza, e nella mammella ed in particolare nei tessuti fetali dei mammiferi, la cui origine risale a circa 200 milioni di anni fa’. Dopo un solo minuto dall’iniezione endovenosa dello I-131, si evidenzia la precocissima e rilevante captazione degli epiteli orale, salivare e gastrico e successivamente anche della ghiandola mammaria, della topolina gravida. La I-captazione della mucosa gastrica è molto alta, e dalla mucosa gastrica lo iodio viene secreto nel succo gastrico e riversato nell’intestino, dove viene riassorbito e ricaptato dallo stomaco, oltre che dalla tiroide, creando così una circolazione (NIS mediata) salivare e gastro-enterica-tiroidea dello iodio, che si perpetua fino ad eliminazione completa per via reno-vescicale ( Hays et al, 1965; Josefsson e coll., 2006). Quindi lo stomaco, più della tiroide, sembra avere un primitivo ruolo centrale nel metabolismo dello iodio su scala evolutiva. Dopo 5 giorni lo radioiodio è ancora ben visibile nelle pareti della aorta, e dopo 14 giorni è visibile solamente nella tiroide, nell’aorta e nella pelliccia dei ratti. In queste sedi lo iodio è presente sotto forma di iodo-composti, probabilmente proteici e lipidici, tuttora chimicamente non identificati.





FIG. 10. Autoradiografie con I-131 sequenziali nel ratto. La autoradiografia con I-131 nel ratto mostra la cospicua I-captazione della parete arteriosa della aorta, ben evidente anche dopo 5-14 giorni dalla iniezione del radioiodio, che potrebbe chiarire la sede della azione antiossidante ed anti-aterosclerotica dello ioduro. (Da Pellerin, 1961; Riprodotte per cortesia di Path. Biol.)


Le autoradiografie con radio-iodio evidenziano che della mucosa gastrica la parte I-captante è costituita solo dalle cellule muco-secernenti della superficie e dei colletti delle ghiandole gastriche, che costituiscono proprio quelle foveole gastriche da cui si originano i carcinomi gastrici. Evans e coll. hanno dimostrato in ratte tiroidectomizzate che la tiroxina (T4) è molte volte piu’ efficace dello iodio inorganico (iniettato sottocute) nel ripristinare la normalità in molteplici funzioni fisiologiche, come la funzione ovarica e la crescita corporea, il metabolismo, il ritmo cardiaco, e le funzioni riproduttive, surrenali, timiche e ipofisarie. Inoltre Goethe e coll. hanno dimostrato che i recettori ormonali nucleari della T3 non sono indispensabili per la vita nelle cavie. Secondo i fisiologi, al contrario dello iodio in sé, la ghiandola tiroidea, anche se importante, non è indispensabile per la vita e gli effetti della sua asportazione si manifestano tardivamente, solo dopo 2-3 settimane. Mentre lo iodio e la T3 sono capaci di trasformare il girino acquatico in una rana terrestre strutturalmente “più evoluta”, la tiroidectomia e l’ipotiroidismo nei mammiferi sembrano costituire (al contrario della azione pro-evolutiva della metamorfosi) una sorta di “rettilizzazione”, cioè quasi una regressione filogenetica allo stadio precedente di rettile, di cui vengono riacquistate alcune caratteristiche fisiche e metaboliche come: la pelle ispessita, secca, squamosa e con perdita di peli, e la digestione, i riflessi, il battito cardiaco rallentati, con riduzione di tutto il metabolismo, accumulo di lipidi, ipotermia ed infine iperuricemia metabolica (Venturi, 2000). Nei primati e nei uomini la tiroide è ben organizzata e a forma di farfalla, in sede pre-tracheale, dove, come un rudimentale termostato, può meglio avvertire e rispondere alle variazioni termiche ambientali. Negli uomini affetti da cretinismo endemico da carenza iodica sono evidenti i danni fisici, neurologici, mentali, immunitari (Marani e Venturi, 1985) e riproduttivi. Nel 1998 su Geographical Review, Dobson ha ipotizzato che la scomparsa dell’uomo di Neanderthal avvenuta circa 35.000 anni fa’, sia stata favorita dalle maggiori capacità fisiche, intellettive e di adattamento dell’ homo sapiens moderno, dovute al maggiore intake iodico. Ciò grazie anche al miglioramento dietetico e genetico del NIS, divenuto più efficiente nel captare lo iodio. Infatti, negli scheletri dell’uomo di Neanderthal, Dobson ha rilevato le stigmate ossee del cretinismo endemico, con arti corti e tozzi e microcefalia. A differenza del Neanderthal, l’homo sapiens moderno aveva habitat più vicino ai mari e dieta ricca di pesce marino ricco di iodio. Broadhurst (2002) e Cunnane (2005) hanno recentemente riportato che lo iodio è stato l’elemento più importante insieme agli acidi grassi poli-insaturi (omega-3) nel favorire il processo di evoluzione del cervello umano e del conseguente sviluppo dell’intelligenza umana, permettendone così un migliore adattamento ambientale.




FIG. 11 Mappa mondiale delle aree di endemia di gozzo da carenza iodica (ombreggiate obliquamente) spesso circostanti a catene montuose (in blu), prima della effettuazione della iodio-profilassi nel mondo (da Kelly e Snedden, OMS, 1960).




Fig. 12. Mappa mondiale delle Nazioni riguardo alla attuale nutrizione iodica ( Da ICCIDD - OMS, 2003)




Ancora oggi secondo l’OMS, più di tre miliardi di persone sulla terra vivono in aree distanti dal mare e con carenza ambientale di iodio e soffrono di tireopatie, di danni neurologici e somatici ed inoltre di diminuzione delle difese immunitarie e di ridotta fertilità con danni alla prole; inoltre tali persone sembrano più soggette a patologie tumorali della tiroide, dello stomaco, della mammella e alle patologie delle ghiandole salivari e della bocca con anche una maggiore perdita dei denti (Venturi e al. 2000, 2001; Aceves e al.,2006; Szybinski e al., 2004; Abnet e al., 2005.a, 2005.b, 2006). La supplementazione iodica, con sale da cucina iodato, con foraggio o con concime composto di alghe marine ricche di iodio, è in grado di prevenire questi danni negli animali ed anche nei vegetali per quanto riguarda la loro suscettibilità a infezioni microbiche e parassitarie aumentandone i meccanismi di difesa antiossidante (Saker e al. 2001; Fike e al., 2001; Cabello e al., 2003; Food and Nutrition Board of USA, 2001).

E’ ipotizzabile che nella vasta gamma degli antiossidanti naturali vi sia una sorta di “gerarchia filogenetica”, in cui gli antiossidanti primitivi marini come lo iodio, il selenio ecc. svolgano un ruolo più importante nella vita riproduttiva e nello sviluppo fetale di quelli che si sono evoluti più recentemente ( ad esempio il licopene, le antocianine, il resveratrolo, molti polifenoli ecc.), come hanno riportato a proposito dello iodio Dunn e Delange (2001). Nei territori I-carenti invece tali patologie coesistono sia negli uomini che negli animali, in particolare negli erbivori. Tutto ciò fa’ supporre che il processo di adattamento evolutivo dei vertebrati terrestri alla carenza iodica ambientale non sia ancora terminato.





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@Yoghurt@
00giovedì 17 maggio 2007 19:18
l´evoluzione cellulare......
Le testimonianze fossili dimostrano che gli eucarioti si sono evoluti dai procarioti tra 1,5 e 1 miliardo di anni fa. Una delle questioni più importanti per i biologi è capire in che modo l'evoluzione sia avvenuta, ed in particolare, come si sono originati gli organuli circondati da membrane delle cellule eucariote. Secondo una delle teorie più accreditate, le cellule eucariote sono il prodotto di due processi combinati, il primo processo, noto come modello autogeno, prevede che il sistema di membrane interne della cellula eucariote (cioè tutti gli organuli circondati da membrane ad eccezione dei mitocondri e cloroplasti) si sia evoluto da ripiegamenti interni della membrana cellulare di una cellula procariote. Il secondo processo, il modello endosimbiontico, è molto differente e sembra aver dato origine ai primi mitocondri e cloroplasti. La simbiosi è una stretta associazione tra organismi di due o più specie (in greco, il termine significa vivere insieme, e per endosimbiosi si intende che una specie vive all'interno di un'altra chiamata ospite). Sembra che i cloroplasti ed i mitocondri si siano evoluti da piccoli procarioti che si erano stabilito dentro procarioti più grandi. Gli antenati dei mitocondri possono essere stati procarioti eterotrofi in grado di utilizzare ossigeno e liberare, mediante respirazione cellulare, la grande quantità di energia presente nelle molecole organiche. Ad un certo punto, alcuni di questi piccoli procarioti potrebbero essere diventati parassiti interni di eterotrofi più grandi, oppure potrebbero essere stati ingeriti da una cellula primitiva; se qualcuna di queste cellule più piccole fosse risultata non digeribile, essa avrebbe potuto continuare a vivere e a svolgere processi respiratori all'interno della cellula ospite. In modo analogo, i piccoli procarioti fotosintetici antenati dei cloroplasti potrebbero aver trovato dimora all'interno di una cellula ospite più grande. Non è difficile immaginare come una simbiosi tra una cellula aerobia inglobata ed una cellula ospite più grande possa essere risultata vantaggiosa per entrambe. Le cellule inglobate sarebbero diventate sempre più dipendenti dalla cellula ospite per quanto riguarda le molecole e gli ioni inorganici necessari a svolgere le attività biochimiche, mentre la cellula ospite avrebbe ricavato sempre più nutrimento dalle cellule fotosintetiche e sempre più ATP dalle cellule che svolgono i processi respiratori. Poiché le cellule di queste comunità procariote divennero sempre più interdipendenti, esse potrebbero essersi trasformate dando vita ad un unico organismo costituito di componenti inseparabili tra loro. Il modello endosimbiontico è supportato da forti prove circostanziali. I mitocondri ed i cloroplasti odierni sono per molti aspetti simili agli eubatteri, essi contengono ,infatti, piccole quantità di DNA, di RNA e di ribosomi, che hanno più caratteristiche in comune con le cellule eubatteriche che con quelle degli eucarioti. Queste componenti permettono ai cloroplasti e ai mitocondri di mantenere una certa autonomia nella loro attività, tali organuli infatti trascrivono e traducono il proprio DNA e si riproducono all'interno della cellula tramite un processo che assomigli alla scissione dei batteri.

I Protisti

Analizzando al microscopio una goccia d'acqua prelevata da una pozzanghera, si noterà che questa presenta una certa varietà di protisti, un particolare gruppo di eucarioti essenzialmente unicellulari, classificato nel regno protista. Alcuni protisti, chiamati alghe, sintetizzano il loro nutrimento mediante la fotosintesi, mentre altri protisti, i protozoi, sono eterotrofi e si nutrono di batteri, di altri protisti o di materiale organico in sospensione o in soluzione nell'acqua. Nel regno protista si trova anche un certo numero di eucarioti coloniali o pluricellulari i cui antenati prossimi erano unicellulari. Quasi tutti gli ambienti acquatici ospitano un gran numero di protisti, la maggior parte di questi è aerobia. Altri protisti invece sono anaerobi, e vivono nel fango sul fondo dei laghi e delle pozze d'acqua stagnante, oppure si sviluppano nel tubo digerente di alcuni animali, uomo compreso. In quanto eucarioti, i protisti sono più complessi di qualsiasi procariote: le loro cellule hanno un nucleo circondato da una membrana (contenente diversi cromosomi) ed altri organuli caratteristici delle cellule eucariote. I protisti occupano un posto di primo piano nella storia della vita, essi si sono evoluti dai procarioti e i loro discendenti hanno dato origine alle piante, ai funghi e agli animali, oltre che ai protisti attuali. Poiché la maggior parte dei protisti è unicellulare, essi possono essere giustamente essere considerati gli eucarioti più semplici, anche se le cellule di molti protisti sono tra le più sofisticate. In realtà, questo livello di complessità cellulare non sorprende, in quanto ogni protista unicellulare è un organismo eucariote completo, analogo a un intera pianta o un animale. Durante lo scorso decennio gli studi molecolari e cellulari hanno scosso le fondamenta della tassonomia protista in modo analogo a quanto è successo con quella procariote. Per esempio, gli studi sull'RNA ribosomiale hanno suggerito che da differenti procarioti ancestrali, si siano evoluti specie differenti di protisti, nel complesso sembra che i protisti siano il risultato di vari "esperimenti" avvenuti nel corso dell'evoluzione delle cellule eucariote. I ricercatori stanno attualmente discutendo se modificare la tassonomia protista in modo che rifletta maggiormente un'impostazione evolutiva, ma finora non hanno ancora trovato un accordo su un nuovo criterio di classificazione.

Gli organismi pluricellulari (alghe marine, piante, animali e la maggior parte dei funghi) sono fondamentalmente diversi da quelli unicellulari. In un organismo unicellulare, infatti, tutte le attività vitali avvengono all'interno di una singola cellula, mentre in uno pluricellulare varie cellule specializzate svolgono funzioni differenti e sono dipendenti una dall'altra; per esempio, alcune cellule conferiscono all'organismo la propria forma, mentre altre producono o procurano il cibo, trasportano sostanze o consentono il movimento. La pluricellularità si è probabilmente evoluta all'interno del regno dei protisti nel corso di molti eventi separati, e quindi le attuali specie di alghe marine, piante animali e funghi si sono originate da tipi diversi di protisti unicellulari. La maggior parte delle alghe marine, alcune piante e moltissimi animali possiedono cellule flagellate ed è quindi probabile che i loro antenati fossero flagellati, invece i funghi non hanno flagelli, e probabilmente derivano da organismi non flagellate. Secondo l'opinione più diffusa il legame tra gli organismi pluricellulari ed i loro antenati unicellulari è rappresentato da libere aggregazioni coloniali di cellule interconnesse. Un'antica colonia potrebbe essersi formata, come le attuali colonie dei protisti, nel momento in cui una cellula si divise ed i suoi discendenti rimasero uniti tra loro. In seguito, le cellule della colonia si sarebbero specializzate rendendosi dipendenti le une dalle altre, con alcuni tipi di cellule sempre più indirizzate a svolgere compiti specifici e limitati. Le cellule che rimasero in possesso del flagello potrebbero aver assunto funzioni quali l'ingestione o la sintesi del cibo. Più tardi, un'ulteriore specializzazione tra le cellule della colonia avrebbe portato ad una distinzione tra cellule sessuali (gameti) e cellule non riproduttive (somatiche).



Età dei fossili (milioni di anni) Evento
400
<- Comparsa delle piante sulla terraferma
500 <- Comparsa di organismi pluricellulari sulla terraferma
<- Presenza nei mari di alghe, funghi ed animali pluricellulari
600 <- Estinzione di massa

700 <- Comparsa dei più antichi organismi pluricellulari (alghe rosse ed animali con il corpo molle)






La scala cronologica basata su reperti fossili che vedete sopra riassume alcune delle tappe fondamentali dell'evoluzione delle alghe pluricellulari, delle piante, degli animali e dei funghi. Osservate che i primi organismi pluricellulari di questa scala, risalenti a circa 700 milioni di anni fa durante l'epoca precambriana, furono le alghe rosse ed animali simili ad i coralli, alle meduse e ai vermi. Sebbene non se ne sia trovata traccia nelle testimonianze fossili, è probabile che a quell'epoca vi fossero già altri tipi di alghe pluricellulari, e che i primi organismi pluricellulari siano comparsi anche più di un miliardo di anni fa. Un periodo di estinzione di massa separò l'epoca cambriana da quella paleozoica, ma ben presto la vita pluricellulare ricomparve, a partire da circa 500 milioni di anni fa, infatti, vari animali, funghi ed alghe pluricellulari hanno cominciato a popolare l'ambiente terrestre. Fino a circa 500 milioni di anni fa, tutta la vita era acquatica, fu in quel periodo che cominciò il lento passaggio verso le terre emerse, probabilmente quando alghe verdi che vivevano insieme ai funghi lungo le rive dei laghi diedero origine alle piante primitive.

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00giovedì 17 maggio 2007 19:23
Acqua e piante...
Radice (botanica)

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La radice è l'organo della pianta specializzato nell'assorbimento di acqua e sali minerali dal terreno, fondamentali per la vita delle piante. Ha anche funzioni principali di ancoraggio e di produzione di ormoni (citochinine e giberelline) che segnano il forte legame tra lo sviluppo della radice e lo sviluppo del germoglio.

Formazione
In tutte le cormofite, lo sviluppo dei tre organi del cormo inizia allo stadio embrionale quando, a un certo punto, si notano due poli opposti: il polo caulinare (o caule) e il polo radicale. Essi sono costituiti da cellule meristematiche che daranno origine al fusto e alla radice. Nel fusto si ha andamento geotropico negativo, nella radice positivo. Dall’attività dell’apice radicale si formerà la radice principale. L’embrione raggiunge un livello di massimo sviluppo nel seme e poi si arresta.

Tipi di radice
Quando il seme germina i due poli proliferano, nella giovane pianta già si notano ramificazioni della radice primaria. L'insieme delle radici forma l'apparato radicale che può essere di due tipi:

Apparato allorizico: la radice primaria (derivante dall’embrione) permane viva e funzionante per tutta la vita della pianta e forma radici secondarie che a loro volta possono formarne altre. È presente nelle gimnosperme e nelle dicotiledoni.Se ne possono distinguere tre tipi.
a fittone, se la radice principale supera sempre per potenza e lunghezza le radici secondarie. Spesso il fittone è anche ricco di parenchimi di riserva (= radice tuberizzata)
fascicolato se le radici secondarie sono della stessa potenza della primaria e si approfondano altrettanto
a disco se la radice principale si sviluppa poco in lunghezza e le radici secondarie, molto sviluppate, tendono a restare in superficie
Apparato omorrizico: la radice primaria degenera precocemente e viene sostituita da numerose radici avventizie che si differenziano nella zona del colletto o dei primi internodi del fusto e che possono a loro volta formare radici secondarie. È tipico delle monocotiledoni.
Se a partire dalle radici avventizie si sviluppanno numerose radici secondarie si forma così l’apparato radicale omorizzico fascicolato molto utile per impedire il dilavamento del terreno.

Funzioni
La radice ha molteplici funzioni. È soprattutto un organo per l’assorbimento di acqua e sali minerali (sottoforma di linfa eleborata e linfa grezza) , ma anche di conduzione, riserva, ancoraggio al terreno.

Radici specializzate
Possono esistere radici specializzate, generalmente legate a particolari ambienti: l'organizzazione interna di tali radici rimane costante dal punto di vista anatomico, ma le funzioni sono molto diversificate. Alcuni esempi sono:

Radici tuberizzate - il parenchima corticale si specializza come tessuto di riserva. Es Ipomea batata (ingrossamento radice secondaria), rapa, carota e barbabietola (ingrossamento radice primaria)

Pneumatofori - radici respiratorie, proprie di alcune specie che vivono in ambienti acquitrinosi. Presentano un geotropismo negativo (crescono verso l'alto), un parenchima aerifero e delle lenticelle.

Austori - sono tipici di piante epiparassite (es. Cuscuta, Vischio. Si inseriscono nel floema della pianta parassitata.

Radici contrattili - servono per l'interramento della base del fusto (es. piante con bulbo. Hanno un parenchima corticale in cui avvengono cambiamenti dello stato di turgore

Struttura
L’apice della radice è protetto da una struttura detta cuffia (o caliptra), messa come un cappuccio. Proprio la presenza della cuffia e l’assenza dei primordi differenziano l’apice radicale dall’apice del fusto; il primo è molto più semplice e lineare. Nella cuffia sono presenti due popolazioni di cellule, una centrale che appartiene alla zona della columella e altre laterali con le cellule delle fiancate. Le cellule della columella sono grosse, cubiche, con grosso nucleo, molto citoplasma e grossi granuli di amido detti statoliti (responsabili dell’andamento geotropico positivo). Le cellule delle fiancate hanno aspetto nastriforme, compresse tangenzialmente, hanno pareti ricche di mucillagini che a contatto con il terreno si sfaldano formando una massa mucillaginosa che svolge azione lubrificante facilitando la penetrazione della radice nel terreno. Queste cellule si rinnovano, altre si riformano dai meristemi apicali e la dimensione della cuffia rimane costante. La cuffia è presente anche nelle piante acquatiche nelle quali non funge da lubrificante, ma da protezione.

Teorie sulla formazione della radice
Per spiegare la formazione della radice sono nate due teorie:

nel 1868 nacque la teoria di Hanstein (o teoria degli istogeni) secondo la quale tutto il complesso dell’apice si origina da una o poche cellule iniziali che si dividono asimmetricamente dando origine a due cellule. Una di queste rimane cellula iniziale, l’altra va a far parte dl complesso meristematico che la circonda. Le iniziali più le dirette derivate prendono il nome di promeristema.
Si possono individuare tre sistemi meristematici chiamati istogeni (generatori di tessuti) che sono già determinati ovvero già si sa a quale regione anatomica daranno origine: il dermatogeno (origina il rizoderma), il periblema (origina il cilindro corticale della radice) e il pleroma (origina la porzione più interna). La cuffia a volte si origina da un istogeno proprio, il caliprogeno, altre volte dal dermatogeno che in questo caso si chiamerà dermacaliprogeno. Per il fusto ci sono altri termini istogeni che possono andar bene anche per la radice in quanto non si riferiscono a regioni anatomiche ma a tessuti: il protoderma (per l’epidermide), il meristema fondamentale (per il parenchima) e il procambio (per il cambio vascolare). Nelle monocotiledoni ci sono tre gruppi iniziali, quello esterno dà origine alla cuffia, quello intermedio al cilindro corticale e all’epidermide e quello interno al cilindro centrale. Nelle gimnosperme, invece, c’è un solo gruppo iniziale.

nel 1950 prese forma la teoria del centro quiescente secondo la quale nella zona distale (dove si pensava fossero molto frequenti le divisioni mitotiche ma che si è osservato essere molto rare), esiste un centro quiescente bordato dalle cellule iniziali e dalle dirette derivate in due regioni: il meristema distale (dalla parte della cuffia) e quello prossimale (dalla parte dell’organo). Il centro quiescente servirebbe come riserva di iniziali nel caso quelle attive si guastassero e a fornire una geometria per distribuire le cellule in formazione. Questa teoria non annulla quella precedente ma semplicemente distribuisce gli istogeni in maniera differente.


Le zone della radice
La zona liscia della parete è la zona di allungamento per distensione, è liscia perché non sono presenti peli radicali. Le cellule di questa zona si originano dai meristemi determinati, il procambio, il protoderma e il meristema fondamentale. Nella zona pilifera le cellule sono ormai completamente differenziate, sono tessuti adulti di origine primaria. Nella cellula adulta si può notare un grosso vacuolo centrale con citoplasma e nucleo periferici. In sezione trasversale si notano tre zone concentriche, il rizoderma, il cilindro corticale e il cilindro centrale. Il cilindro corticale è molto sviluppato rispetto al centrale e appare piuttosto omogeneo in quanto formato esclusivamente da parenchima di riserva. Vi si trovano strutture secernenti, a volte canali secretori. Il cilindro centrale è rigido perché ci sono elementi di conduzione. Nello strato più interno c’è l’endoderma dove si nota la banda del Caspary . Lo strato più esterno è detto periciclo che è un parenchima ma dal punto di vista funzionale può essere considerato un meristema in quanto può dare origine al cambio cribro-vascolare, alle radici laterali e talvolta al cambio subero-fellodermico. All’interno del periciclo troviamo il parenchima che accoglie i fasci conduttori, chiamati arche, che nella radice sono semplici. I fasci di legno e cribro sono disposti alternativamente in un anello. Il numero di arche può variare, generalmente nelle gimnosperme e dicotiledoni è basso (2-7), al contrario è alto nelle monocotiledoni dove si parla di radice poliarca. Il numero di arche è diagnostico per la determinazione di una specie. Le arche di legno hanno dimensioni variabili a seconda dell’altezza. I primi (protoxilema) sono disposti esternamente, i nuovi (metaxilema) si dispongono in seguito sempre più internamente. Nelle dicotiledoni il differenziamento delle arche può procedere fino al centro della radice formando una struttura stellata. Nelle monocotiledoni le arche di legno non confluiscono mai al centro dove rimane sempre del parenchima che costituisce il midollo centrale (altro carattere diagnostico).

Evoluzione
Rispetto agli altri organi la radice ha avuto un’evoluzione più lenta poiché il terreno è meno soggetto alle variazioni ambientali; questo spiega la relativa omogeneità delle radici nelle varie piante. Nonostante l'omogeneità di struttura tra le radici delle piante, si può verosimilmente ritenere che la radice sia un organo evolutivamente più recente rispetto alla parte aerea, costituita dal fusto e dalle sua appendici (rami e foglie). Essa quindi potrebbe essersi formata come specializzazione del fusto, per assicurare la funzione fulcrante, cioè lo stabile ancoraggio della pianta al suolo, forse prima ancora che una funzione legata all'assorbimento dell'acqua e dei sali (che, vale la pena ricordare, è limitata solo al breve tratto della zona pilifera). Resta comunque valido il discorso legato ad una sorta di "primitività" di organizzazione rispetto al fusto in quanto alla struttura. I fusti più primitivi presentano gli elementi conduttori del fascio cribro-vascolare nella zona centrale. Anche nelle radici gli elementi conduttori restano nella parte centrale, benché xilema e floema si alternino in una struttura radiale. Viceversa, i fusti si evolvono spostando gli elementi conduttori (e quelli di sostegno che li accompagnano) verso la periferia, venendo incontro a due esigenze: la prima di ordine anatomico, perché si deve favorire il collegamento con le foglie, che sono appendici esogene; la seconda è di ordine strutturale, cioè di rinforzo, poiché, come per gli edifici, è più efficace un sostegno posto alla periferia che al centro. Viene da sé che nella radice il sostegno offerto dal terreno e la presenza di appendici endogene (radici laterali) spiegano come mai in questo organo la disposizione degli elementi conduttori è rimasta più simile a quella dei fusti primitivi e non ha subito sostanziali cambiamenti nel corso dell'evoluzione.




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