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Ultimo Aggiornamento: 02/06/2009 12:28
19/12/2008 17:00
 
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Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui. Quando scrivono hanno sessant’anni di ritardo sull’evento del suo passaggio. Noi ne abbiamo molti di più: duemila. Tutto quanto può essere detto su quest’uomo è in ritardo rispetto a lui. Conserva una falcata di vantaggio e la sua parola è come lui. […]

Duemila anni dopo di lui è come sessanta. È appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine. […]

Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno. Lui lavora i cuori, diversi e più duri del legno. Alcuni si associano al suo lavoro. Con fatica li forma ai principi di una nuova economia: non si fa nulla in serie e si va dall’unico all’unico. Non si vende, si dona. […]

Qualcosa prima della sua venuta lo intuisce. Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui. Questo qualcosa è la bellezza sulla terra. La bellezza del vivere è composta dall’invisibile fremito degli atomi spostati dal suo corpo in cammino».

***

Sono alcuni passaggi di un piccolo libro dello scrittore e poeta francese Christian Bobin, L’uomo che cammina. E vengono subito alla mente, leggendo quello ch’è sicuramente il più bel capitolo dell’ultimo lavoro scritto in coppia da Adriana Destro (antropologa) e Mauro Pesce (esegeta e storico del cristianesimo), L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita.






«Vorrei scrivere questo libro per i più miserabili degli uomini. Vorrei anche scriverlo nel loro linguaggio, ma questo non mi è permesso. Non si può imitare né la miseria né il linguaggio della miseria. Bisognerebbe essere un miserabile per partecipare senza sacrilegio al sacramento della miseria. Cristo è venuto in questo mondo, e vi è venuto per tutti, e non solamente per i miserabili.

Intorno alla sua mangiatoia, si sono visti i Pastori e i Magi, ma né i Pastori né i Magi erano dei miserabili. È possibile che il buon Ladrone lo fosse, ma non ne siamo sicuri. Contrariamente a quel che credono i moralisti, la vera miseria non sfocia nel crimine: essa non ha esito né nel male né nel bene, la vera miseria non ha esito. La vera miseria ha esito soltanto in Dio.

La miseria non ha via d’uscita che in Dio, ma essa non vuole vie d’uscita. Essa si chiude su di sé. Essa è murata, come l’Inferno. Bisogna tuttavia che la cristianità vi discenda. Per tutto il tempo che noi tollereremo un inferno in questo mondo, saremo forzati ad attendere a casa nostra il regno di Dio. L’inferno di questo mondo è l’inferno stesso. Ne è l’atrio e il serraglio. Satana è il dispensatore delle ricchezze, ma il tesoro di Mammona è vuoto. È nell’inaccessibile fondo della miseria che Satana si è trincerato, per la confusione e la costernazione dei ricchi stessi. L’oro non è che un simulacro, un’impostura, una trappola di colui che si dice l’idolo del mondo.

Mentre l’umanità guarda volare le mosche, non vede restringersi il cerchio dell’orizzonte, discende nella miseria, è aspirata dalla miseria. Il potere della miseria non si giudica dal numero dei miserabili, cioè dal numero d’uomini che mancano assolutamente del necessario. È possibile che la società moderna la finisca con la povertà, forse soltanto eliminando a ogni generazione i nati poveri, gli inadatti, gli inadattabili, con una regolamentazione delle nascite e una stretta selezione. Io non credo per niente che riducendo il numero dei poveri si riduca al tempo stesso quello dei miserabili. Io penso al contrario che il misericordioso sacerdozio della povertà fu precisamente stabilito in questo mondo per riscattarlo dalla miseria, dalla feroce e contagiosa disperazione dei miserabili.

Se noi potessimo disporre di qualche mezzo per scoprire la speranza come il rabdomante scopre l’acqua sotterranea, è avvicinando dei poveri che noi vedremo torcersi tra le nostre dita la bacchetta di nocciolo. La povertà non è un uomo che manca, per stato, del necessario: è un uomo che vive poveramente, secondo l’immemoriale tradizione della povertà, che vive giorno per giorno, del lavoro delle sue mani, che mangia nella mano di Dio, secondo la vecchia tradizione popolare. Egli vive non solo dell’opera delle sue mani, ma anche della fraternità degli altri poveri, delle mille piccole risorse della povertà, del previsto e dell’imprevisto».
[Modificato da LiviaGloria 19/12/2008 17:07]
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