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Novus Ordo Missae e Fede Cattolica

Ultimo Aggiornamento: 09/02/2011 18:09
09/02/2011 17:32
 
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Per fugare i dubbi e la validità del NOM ,questo scritto molto completoecco perchè i Papi non sono eretici,nemmeno i vescovi e i fedeli

www.opusmariae.it/libro_novusordo.pdf

PREFAZIONE
Rileggendo le pagine di questo studio a distanza di qualche anno (esso è
nato come dissertazione di licenza in sacra teologia, discussa nell'ottobre 1984),
soprattutto in considerazione del fatto che la sua elaborazione è ancora più
remota nel tempo, provo quella sensazione che penso sia di tutti quelli che
hanno scritto qualcosa e ritornano dopo un po' di tempo sul frutto della loro
fatica. Una sensazione che si può riassumere così: oggi non scriverei più le
stesse cose...
Non intendo con queste parole sconfessare quanto ho scritto ed è già
venuto a conoscenza del pubblico attraverso la rivista Renovatio. Se così fosse
mi asterrei ora dal raccogliere in volume questi articoli per riproporli alla lettura
nel loro insieme. Intendo solo sottolineare che il modo con cui affronterei
l'argomento sarebbe certamente diverso.
Il clima in cui è nato l'interesse che ha motivato questa ricerca – si tratta
di avvenimenti che mi hanno coinvolto in prima persona – non è più. In fondo
sono passati pochi anni, ma la cosiddetta «accelerazione della storia» è un fatto e
non soltanto una suggestiva ipotesi. Tuttavia i problemi allora roventi
conservano la loro importanza, anche perché, pur essendo cambiato il clima,
continuano ad essere ampiamente irrisolti. Nella Chiesa è in atto una divisione
che vede tanti cattolici in una posizione di rifiuto o comunque di distacco nei
confronti del cammino che la Chiesa ha compiuto da vent'anni a questa parte.
Non vi è solo la Messa. La Messa sta al centro, perché quello è il suo posto, ma
vi sono tanti altri problemi che meriterebbero una attenzione almeno altrettanto
sofferta, anche se certamente qualitativamente ben più adeguata, di quella da
me prestata al problema della celebrazione eucaristica. Sono questioni di peso:
la libertà religiosa, l'ecumenismo, i rapporti Chiesa-mondo nel Concilio
Vaticano II. Questioni spinose se affrontate a partire da questo particolare punto
di vista: in che senso le attuali posizioni sono eco dell'immutabile Tradizione
della Chiesa? In che modo sono momenti di quello sviluppo che, come ha
osservato recentemente il cardinale Ratzinger, fa «parte del numero di concetti
fondamentali del Cattolicesimo» (Chiesa, Ecumenismo e Politica, Ed. Paoline,
Milano 1987, p. 12)? Quell'idea di sviluppo che fece da ponte alla conversione
del cardinale Newman e che dovrebbe stare a cuore al «tradizionalista» almeno
altrettanto, se non di più, che al «progressista». Solo lo sviluppo infatti garantisce
la vivente identità con l'origine che è il nocciolo stesso dell'idea di Tradizione. Si
tratta di autentiche «aporie», ma la teologia che non vuole ridursi a mera
ripetizione o a vuota chiacchiera, parte proprio di lì, come ci insegnano le liste di
obiezioni con il sed contra che aprono quel vivo e «drammatico» dialogo che sono
gli articoli della Summa theologica di san Tommaso d'Aquino. Purtroppo mi pare
che l'acutezza teologica venga dispiegata più nell'evitare elegantemente le
difficoltà reali che nell'affrontarle con coraggio e passione per la verità.
Anche da un punto di vista strettamente scientifico la rilettura di uno
studio come quello di José Miguel Sustaeta (peraltro già qui citato) mi indurrebbe
oggi a vedere il problema teologico del Novus Ordo Missae ancora più immerso
nel contesto della concreta celebrazione (perché questa è la natura della
liturgia), quindi tenendo conto di tutte le preghiere che la costituiscono e che non
sono soltanto quelle dell'ordinario (qui unicamente prese in considerazione), ma
anche quelle del proprio: introiti, collette, sulle offerte, antifone, postcommunî,
ecc. Sarebbe un utilissimo complemento. Tuttavia l'argomentazione, anche così,
conserva la sua sostanziale validità.
Coinvolto negli avvenimenti, come ho già detto, non posso non pensare
con simpatia a coloro cui in questo studio «contraddico» (in particolare l'autore del
testo principalmente preso in considerazione: Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira,
che scrive sotto gli auspici della TFP brasiliana, il cui apostolato politico–sociale
mi pare degno di speciale apprezzamento). Neppure l'ombra di disistima vorrei
che trasparisse da un linguaggio e da una terminologia la cui freddezza è
solamente lo scotto che si paga inevitabilmente alla ricerca della massima
oggettività.
Non vorrei neppure che questo studio desse l'impressione di spirito
incorreggibilmente «antiecumenico». È difficile fare dell'ecumenismo ad intra e
nello stesso tempo anche ad extra. Le buone intenzioni non modificano certo il
risultato; penso però che la loro conoscenza possa contribuire ad una migliore
disposizione del lettore che lo deve giudicare.
Se, in una misura anche minima, queste pagine potessero servire in
qualche modo alla causa dell'unità della Chiesa, mi sentirei profondamente
gratificato e reputerei la mia fatica, anche se certamente tanto manchevole, non
del tutto inutile.
Infine tengo ad aggiungere una formula oggi un po' desueta, correndo il
rischio di alimentare l'impressione che tutto questo libro sia un po' desueto:
sottopongo quanto ho scritto al giudizio della Chiesa Cattolica Romana e intendo
fin d'ora per ritrattato tutto quello che dovesse risultare, per suo insindacabile
giudizio, non in perfetta conformità con la sana dottrina.
Massa, 1 gennaio 1988
PIERO CANTONI
INTRODUZIONE
Solo chi ha vissuto con intensità le vicende che hanno
accompagnato l'introduzione delle riforme post-conciliari nel corpo della
Chiesa sa quale groviglio di passioni si sia prodotto attorno a quelli che
potrebbero apparire, ad uno sguardo superficiale (o ad una fede
tiepida...), nient'altro che sterili diatribe teologiche, «erbacce» che
possono crescere solo nell'humus di un freddo ipercriticismo di stampo
razionalistico o di uno zelo non illuminato. Solo chi ha veramente
partecipato a .queste vicende sa come si tratti invece di problemi vitali e
assolutamente concreti.
Disorientamento, ribellione, fideismo cieco e rinunciatario,
abbandono e superficialità si sono dati appuntamento e hanno
caratterizzato tanti aspetti di questo irrequieto «postconcilio». Gli storici
si premurano di assicurarci che – in fondo in fondo – dopo i Concili «è
sempre andata così». Ma – oltre al fatto che, se anche la storia si ripete,
non si ripete mai nello stesso modo e le crisi, se possono presentare
tante analogie, possono presentare aspetti assolutamente nuovi e avere
delle «intensità» diverse – i problemi restano problemi. Soprattutto per
chi sente l'esigenza di «pensare la fede», non perché la voglia sottoporre
al vaglio della propria povera soggettività, ma perché vuol fare della fede
il centro della propria vita di essere intelligente e razionale e non
soltanto una sua eterogenea appendice1.
Quello che mi propongo di fare è – essendo passato un po' di
tempo, e il tempo conta molto, anche in questo genere di cose – portare
un contributo alla chiarificazione. Il noto storico Joseph Lortz ha scritto
che «la mancanza di chiarezza teologica da parte cattolica fu nel XIV
secolo una delle più efficaci cause della Riforma»
2. Non facciamo
certamente fatica a credergli in questo scorcio di secolo XX... Sarebbe
certamente dar prova di un intellettualismo ingenuo pensare che le
divisioni si possano ricomporre solo con un po' di «chiarezza di idee»,
però non si può neppure negare che questa ponga validissimi
presupposti.
Si tratta dunque di far luce attorno ad uno di questi problemi
tanto dibattuti nel postconcilio. Certamente il più importante, perché,
se è vero come è vero che «l'Eucaristia fa la Chiesa», non c'è nella Chiesa
bene più importante3. E se l'Eucaristia nella sua nuda essenza esiste
solo nei manuali e nella mente dei teologi, mentre è vissuta nella
concretezza della liturgia, occuparsi del Novus Ordo Missae e delle
critiche di eterodossia che gli sono state rivolte non vuol dire occuparsi
di cosa di poco conto.
Il compito è anzi difficilissimo ed estremamente delicato.
Affrontarlo sarebbe presuntuoso se volesse dire aggiungersi ad una
lunga lista di competenti che se ne sono occupati con serietà ed
impegno. Ma quando pochi o nessuno si occupa di queste cose da
questo specifico punto di vista, allora portare il proprio modesto
contributo è semplicemente doveroso.
Il problema è ritornato improvvisamente alla ribalta delle
cronache con l'indulto concesso per la celebrazione della S. Messa
secondo il rito tradizionale4. Il documento richiede infatti che l'opzione
per questo rito non implichi in nessun modo il dubbio sulla «legittimità
e l'esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato da Papa
Paolo VI nel 1970»; ed è soprattutto a chi è turbato da questo genere di
perplessità che queste pagine possono essere in qualche modo utili,
quindi rappresentare un contributo alla ricomposizione dell'unità e,
comunque, motivare ad una pratica liturgica che ritrovi, dove lo ha
smarrito, il senso della tradizione, della trascendenza e della sacralità.
Preciso che non intendo fare «dell'apologetica», almeno in una
certa accezione corrente del termine, cioè quella della difesa a tutti i
costi (anche a quello dell'uso di «mezzucci», per non dire della
menzogna), dell'accettazione aprioristica e monolitica, dello
schieramento acritico. Certamente dell'apologetica nel significato
dignitosissimo che questa parola ha assunto e rappresentato nella
storia della Chiesa. Vorrei mostrare – anticipo qui le conclusioni – che la
Chiesa non ha tradito i suoi figli. Perché non può tradire, e perché non lo
ha fatto. Vorrei mostrare che la verità dell'Eucaristia e della Messa
continua nelle sue espressioni «ufficiali» a rimanere vita della Chiesa
nonostante tanti abusi e tante mistificazioni5.
Il NOM ha avuto un iter promulgativo piuttosto articolato e
«accidentato»6. «Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a
Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una
cosiddetta "messa normativa", ideata dal Consilium ad exequendam
Constitutionem de Sacra Liturgia. Tale messa suscitò le più gravi
perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non
placet), moltissime e sostanziali riserve (62 iuxta modum) e 4 astensioni
su 187 votanti»7. Il 6 aprile 1969 abbiamo la prima edizione tipica
dell'Ordo Missae (ce ne saranno in tutto tre) che – secondo il Breve
esame critico – riproduce «identica nella sua sostanza la stessa "messa
normativa"». Il volume Ordo Missae contiene il decreto Ordine Missae
(EV 3, 1009), la costituzione apostolica Missale Romanum (EV 3, 996
ss.), una Institutio generalis (introduzione generale di «genere letterario»
non ben definito che costituirà il documento più discusso) e infine
l'Ordo Missae vero e proprio con i testi della Messa e le rubriche.
Il 18 novembre 1969 esce una ristampa del volume Ordo Missae
con una dichiarazione sull'IGMR in cui si afferma che «la stessa
Institutio riassume fedelmente e porta a compimento [ad rem adducit] i
principi dottrinali e le norme pratiche che, sul culto del mistero
eucaristico, sono contenute sia nella stessa Costituzione conciliare
Sacrosanctum Concilium (4 dic. 1963), sia nella lettera enciclica
Mysterium Fidei (3 settembre 1965) di Paolo VI, sia nell'istruzione
Eucharisticum Mysterium (25 maggio 1967). Questa Institutio non deve
però essere considerata un documento dottrinale o dogmatico, ma una
istruzione pastorale e rituale, con la quale sono descritte la celebrazione
e le sue parti, tenendo conto dei principi dottrinali contenuti nei
documenti sopra citati» (EV 3, pp. 1271-1273 in nota). In questa
seconda edizione tipica il testo della Costituzione risulta, secondo il
Salleron, sostanzialmente modificato: vi è l'aggiunta del paragrafo sulla
data di entrata in vigore.
Il 26 marzo 1970 viene promulgata l'edizione tipica del Messale
Romano. Il volume contiene: il decreto Celebrationis eucharisticae (EV 3,
2414), la Costituzione Missale Romanum, l'IGMR con delle importanti
variazioni che toccano i punti fatti oggetto delle critiche più accese (EV
3, 2017-2414), l'Ordo Missae che rimane invece invariato.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:30]
09/02/2011 17:37
 
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Nel 1973 avremo la prima ristampa del Messale Romano.
Il 23 dicembre 1972 esce un decreto della Congregazione per il
Culto Divino con variazioni da introdurre, in relazione ai documenti
usciti nel frattempo.
Il 27 marzo 1975 infine abbiamo la seconda edizione tipica del
Messale Romano con il decreto Cum Missale Romanum (EV 3, 2016), la
Costituzione MR, l'IGMR e l'OM. Da allora l'unica novità di rilievo è
rappresentata, per l'Italia (se si eccettua la riforma del rito Ambrosiano),
dalla nuova edizione italiana del Messale, che qui però non prendo in
considerazione.
La querelle attorno alla «nuova Messa» si è sviluppata soprattutto
in riferimento al suo carattere spiccatamente ecumenico. Ecumenismo
che, nella fattispecie, ha per principale, per non dire unico,
interlocutore il Protestantesimo.
La conclusione del noto e fondamentale Breve esame critico del
NOM – il testo che, accompagnato e avallato da una lettera dei cardd.
Bacci e Ottaviani, ha aperto la polemica – suona così: «Il NOM,
considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione,
che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme
come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia
cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del
Concilio Tridentino, il quale, fissando i "canoni" del rito, eresse una
barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse la integrità
del Mistero».
Posto che il Concilio di Trento è la risposta cattolica alle negazioni
protestantiche, si tratterebbe di una protestantizzazione della Messa.
Da allora la letteratura sul problema del nuovo rito si è fatta
abbondante, segno anch'esso dell'ampiezza del malcontento e del
disagio provocato dalla riforma. La bibliografia che conclude questo
studio – senza avanzare nessuna pretesa di completezza – può fornire
una certa esemplificazione del fatto. Tuttavia, se tale fatto ha una
evidente importanza sociologica, non riflette però un altrettanto
massiccio approfondimento dell'argomento. Le opere a carattere
veramente scientifico sono poche. Abbiamo già fatto cenno al famoso
Breve Esame Critico. Nella lettera di accompagnamento dei cardinali
Bacci e Ottaviani il testo è attribuito a «uno scelto gruppo di teologi,
liturgisti e pastori». I due porporati fanno proprie le argomentazioni del
Breve Esame («Come dimostra sufficientemente») e ne enucleano la
conclusione che abbiamo appena riportato. Il valore di questo testo non
risiede soltanto nell'autorità dei firmatari della lettera, ma anche nel suo
intrinseco tenore scientifico8. Purtroppo non diede vita, come sarebbe
stato opportuno, ad un elevato dibattito, soprattutto per mancanza di
contraddittori seri. Il problema fu per lo più sottovalutato, favorendo il
diffondersi di opinioni prive di fondamento e un progressivo
irrigidimento delle posizioni dette «tradizionaliste».
Accanto al Breve Esame devono però essere ricordati, per la loro
serietà, L. SALLERON, La nouvelle Messe (1971); M. DAVIES, Pope Paul's
new mass (1980) e A. VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, La nouvelle Messe de
Paul VI: qu'en penser? (1975) (diffuso però soltanto a partire dal 1982)
che sarà oggetto particolare della nostra attenzione. Questi sono i
principali interventi veramente consistenti (senza però dimenticare i
contributi di: Calmel, Philippe de la Trinité, Guérard de Lauriers,
Gamber, May) di carattere critico nei confronti del NOM.
Di questi pochi quello di Xavier da Silveira è il solo ad arrivare,
anche se in modo più implicito che esplicito, a conclusioni di assoluta
drasticità.
In difesa del NOM c'è veramente poco: che tratti ex professo del
problema, prendendo in considerazione direttamente le critiche e
mantenendosi ad un livello scientifico, vale la pena di ricordare il solo
dom G. OURY, La Messe de St Pie V à Paul VI (1975).
Il nocciolo del problema è la «protestantizzazione della Messa».
Che qualcosa sia cambiato – e qualcosa di consistente – è evidente
anche all'osservatore più distratto. Che questo cambiamento abbia
avvicinato, almeno esteriormente, la pratica cattolica a quella
protestantica, è altrettanto evidente. Un certo «allontanamento» dal
Concilio di Trento (o, perlomeno, dal «tridentinismo») è dunque qualcosa
che rientra più nell'ordine dei fatti che in quello delle ipotesi. Quello che
importa stabilire è però se questo allontanamento include un distacco
sostanziale dalla dottrina e dalla pratica cattoliche, oppure se si tratta
soltanto di un avvicinamento dialogico alle posizioni protestantiche
mediante la scelta di espressioni in cui la differenza risulta con minore
perspicuità. Posizione questa certamente discutibile, su un piano
prudenziale però e non più strettamente dogmatico9.
Il quesito a cui si vuole rispondere è questo: il NOM rappresenta,
rispetto al rito tradizionale, un cambiamento sostanziale o accidentale?
Sono giustificate le critiche secondo cui non si tratterebbe più di un rito
cattolico?
Questa ottica non vuole minimamente sottovalutare l'importanza,
soprattutto pratica, delle differenze accidentali, degli spostamenti di
accento, delle sfumature. I riti liturgici sono fatti per essere
concretamente vissuti e non per essere letti e studiati a tavolino. Sono
soprattutto pratica e solo conseguentemente, riflessivamente e
radicalmente, dottrina. Tuttavia, pur mantenendo nella loro validità e
gravità queste considerazioni, non si può prescindere da una
constatazione dottrinale che distingua ciò che è strettamente necessario
perché il dogma sia salvo e una pratica possa essere detta cattolica, con
tutta la sua efficacia salvifica ex opere operato, e quanto sarebbe
auspicabile «ad bene vel melius esse» perché il complesso rituale
favorisca il più possibile le disposizioni soggettive che sono di enorme
importanza pratica («esistenziale») per una fruttuosa partecipazione al
mistero della Eucaristia. Le sobrie esigenze del dogma (che non sono
dettate dalla nostra sensibilità, ma dal Magistero della Chiesa) sono cioè
da distinguersi accuratamente dalle esigenze della devozione, per non
cadere in una prospettiva che presenta analogie con la giansenistica
confusione fra consigli e precetti.

«Il fine comanda i mezzi»: se il nostro scopo è quello di cercare i
punti discriminanti, il nostro metodo procederà con un andamento
opposto a quello «ecumenico». Procederemo cioè sottolineando le
differenze e lasciando in secondo piano gli elementi comuni10.
Per soppesare le critiche rivolte al NOM, in ordine alla sua
presunta «protestantizzazione», ci serviremo soprattutto dell'opera di
Xavier da Silveira. Si tratta infatti – assieme al Breve Esame Critico – del
testo più qualificato e, nello stesso tempo, più drastico11.
1 Una fede «non interamente pensata» è «una fede che non diventa cultura», cioè
una fede che non incide nella vita e nella storia (Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al I
Congresso Nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale del 16 gennaio
1982).
Per una sintetica lettura della crisi postconciliare si veda: GIOVANNI CANTONI, Il
Concilio integrale, in: Cristianità 56 (1979) pp. 10-12. Alle parole del Papa per cui
occorre «entrare sulla retta via della realizzazione del Vaticano II» (radiomessaggio del
17 ottobre 1978), retta via che non era dunque quella finora percorsa, fa eco il drastico
giudizio del Card. Ratzinger: «la vera recezione del Concilio non è ancora affatto
incominciata (die richtige Rezeption des Konzils hat noch gar nicht begonnen)»
(Theologische Prinzipienlehre, E. Wewel Verlag, Monaco 1982, pp. 391.408-409).
2 Cit. in: G. MAY, Der Glaube..., p. 261.
3 «Bonum commune spirituale totius Ecclesiae continetur substantialiter in ipso
eucharistiae sacramento» (san Tommaso d'Aquino, Sum. Theol. III q. 65, a. 3, ad 1).
4 Sacra Congregazione per il Culto Divino, Lettera Circolare ai Presidenti delle
Conferenze Episcopali, 3 ottobre 1984: L'Osservatore Romano, 17 ottobre 1984, p. 2.
5 Come è a tutti noto il postconcilio ha conosciuto, e in gran parte continua a
conoscere, dei tali disordini nelle celebrazioni eucaristiche, da indurre il Santo Padre
ad usare espressioni di eccezionale gravità: «Vorrei chiedere perdono – in nome mio e
di tutti voi, venerati e cari fratelli nell'episcopato – per tutto ciò che per qualsiasi
motivo, e per qualsiasi umana debolezza, impazienza, negligenza, in seguito anche
all'applicazione talora parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del concilio
Vaticano II, possa aver suscitato scandalo e disagio circa l'interpretazione della
dottrina e la venerazione dovuta a questo grande sacramento. E prego il Signore Gesù
perché nel futuro sia evitato, nel nostro modo di trattare questo sacro mistero, ciò che
può affievolire o disorientare in qualsiasi maniera il senso di riverenza e di amore dei
nostri fedeli» (Dominicae cenae, 24 febbraio 1980: EV 7, 224).
6 Un elenco delle anomalie ci è offerto da L. SALLERON, Solesmes e la Messa, pp.
11-14. Per la ricostruzione di una storia della riforma liturgica è di fondamentale
importanza l'opera postuma di Mons. A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948–1975),
Roma 1983. Sono 930 pagine di testimonianze e documenti, assai preziose, anche se
hanno tutto il sapore di una appassionata autodifesa. Interessante dal punto di vista
storico è però inutilizzabile per l'aspetto teologico della questione: «Quanto al merito
delle obiezioni sollevate, non è il caso di controbatterne l'infondatezza» (p. 284, la
sottolineatura è nostra). Un intero capitolo (pp. 275-299) è dedicato alle opposizioni,
ma manca una analisi attenta delle loro cause. L'Autore, molto sbrigativamente e
riduttivamente, le riconduce a preoccupazioni meramente culturali-estetiche, politiche
(p. 275) o a «ignoranza teologica» (p. 284). La sua appassionata polemica riconosce
come interlocutori soltanto gli elementi più sentimentali ed emotivi della critica
(Casini, Bellucco), mentre autori come Xavier da Silveira, Davies, Salleron (viene citato
solo un articolo sulla questione giuridica), Gamber, Philippe de la Trinité sono del
tutto ignorati. Il libro di Xavier da Silveira è stato diffuso, è vero, solo a partire dal
1982, ma il suo testo era accessibile da tempo agli ambienti interessati. Esso è citato,
per es., da dom Oury nel 1975 in un libro che Mons. Bugnini conosceva certamente
bene (cfr. pp. 284-285). Stupisce poi un atteggiamento così sbrigativo, tranchant e
pieno di indebite generalizzazioni da parte di chi scrive proprio lamentando di essere
stato vittima di tanta incomprensione.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:40]
09/02/2011 17:38
 
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7 Breve Esame Critico, in: Cristianità 19-20 (1976) p. 7.
8 Pare che vi abbiano lavorato – secondo diverse indiscrezioni –: Mons. Renato
Pozzi (l'estensore materiale dell'enciclica di Giovanni XXIII Veterum sapientia), esperto
liturgista; p. Guérard de Lauriers O.P., allora docente di dogmatica alla Lateranense;
p. Philippe de la Trinité O.C.D., allora consultore del Sant'Uffizio; nonché un laico: il
prof. Agostino Sanfratello.
9 Un esempio di questa metodologia ecumenica conciliare ci è offerto da Mons.
Philippe Delhaye, attuale segretario della Commissione teologica internazionale. Perito
al Concilio, ebbe modo di seguire dall'interno l'elaborazione dei testi. A proposito della
famosa questione sul sacerdozio dei fedeli, quando si trattò di parlarne, soprattutto
nel contesto della Lumen Gentium, si fecero strada diverse tendenze. Nessuno pensava
di negare il dato indiscutibile di questo sacerdozio, tuttavia alcuni manifestarono
perplessità nei confronti di una sottolineatura troppo vivace. «Mons. Phillips mi aveva
chiesto di aiutarlo – racconta Mons. Delhaye – a livello di segretariato, su questo
punto di dottrina. Un giorno mi fece parte dei suoi timori davanti a certe esperienze
olandesi già realizzate. Si voleva ridurre il numero dei preti, organizzare parrocchie
senza preti ordinati e affidare a laici, scelti dalla comunità, le funzioni e i poteri dei
precedenti ministri. Ciò implicava evidentemente la trasformazione dell'eucaristiasacrificio
in convito-cena, così come implicava la fine della confessione (...). Verso la
stessa epoca Mons. Charue, vescovo di Namur e vice-presidente della commissione
conciliare per la fede e la morale, mi confidava analoghi timori, che peraltro non
nascevano originariamente da lui, ma da un osservatore appartenente a una delle
comunità ecclesiali della Riforma. Questo pastore gli aveva detto: "Commettete un
errore privilegiando i testi sul sacerdozio comune. Noi abbiamo commesso lo stesso
errore nel sedicesimo secolo e non siamo più riusciti a ristabilire la situazione"» (Ph.
DELHAYE, Il metaconcilio, in: Rivista del clero italiano 1 (1981) p. 28. Prevalse
l'ottimismo e ne uscì una formulazione che, se ricordava in termini inequivocabili la
distinzione «essentia et non gradu tantum» (LG 10) fra sacerdozio ministeriale e
comune, era tutta tesa ad esaltare quest'ultimo. «Qui si può cogliere dal vivo
l'ottimismo (in sé lodevole ma forse smentito dai fatti) di certe grandi personalità del
Vaticano II. Queste ritenevano che andando il più lontano possibile avrebbero chiuso
la strada agli eccessi. La "politica" del Concilio di Trento era stata, al contrario,
pessimistica: "siccome alcuni hanno abusato del sacerdozio comune, non parliamone
più". (Ibidem, nota 26).
10 Non riteniamo però che si tratti di una metodologia antiecumenica.
Circoscrivere i punti di permanente differenza, portandoli al centro della discussione,
non può che giovare ad un dialogo ecumenico improntato a chiarezza e lealtà. Non
pensiamo, infatti, che l'occultamento delle differenze sotto una coltre di ambiguità e
confusione sia vero e sano ecumenismo. Riteniamo invece che il vero dialogo passi
soprattutto attraverso l'approfondimento, cioè attraverso la soluzione dei punti
controversi, mediante la loro riduzione (nel senso di «concentrazione») a punti comuni.
È mostrando il nesso necessario con ciò che è accettato da tutti che si risolve ciò che è
controverso, lasciando eventualmente da parte terminologie che esaltano inutilmente le
differenze, urtano cioè la suscettibilità senza essere affatto indispensabili a questo
approfondimento. È ovvio, però, che questo procedimento postula la massima
chiarezza sui punti in discussione. Qualsiasi dialogo non può mai procedere
fruttuosamente a spese della chiarezza. Cfr. UR 11: «Bisogna assolutamente esporre
con chiarezza tutta quanta la dottrina».
11 Non rientra nelle mie finalità fare una recensione completa del libro: quindi
non ne esaurirò tutto il contenuto, ma mi limiterò ad alcuni punti che giudico
essenziali, per mettere a fuoco quelle che sono le critiche di fondo al NOM. Sarà utile
però riassumere il suo contenuto. Il libro si divide in due parti: nella prima si esamina
la «questione della Messa»; nella seconda un problema connesso: l'ipotesi del Papa
eretico. Perché problema connesso? Perché se il giudizio sul NOM dovesse risultare di
eterodossia, allora si imporrebbe l'esame della posizione canonica di chi lo ha
promulgato. È una conseguenza assolutamente logica e non ci sono sotterfugi
sentimentali che la possano eludere. Non intendo esaminare questa seconda parte: la
cosa ci porterebbe troppo lontano. Si tratta poi di una questione che si pone solo se si
pone una determinata conclusione nella prima parte. Penso che questa conclusione
non si ponga, ritengo quindi superfluo trattare di questo argomento. Mi permetto solo
una osservazione: allo stato attuale delle cose (diverso da quello in cui il libro fu
pubblicato per la prima volta: 1970-71) le conseguenze di un giudizio di eterodossia
sarebbero ben più ampie e non coinvolgerebbero più soltanto la persona del Papa che
ha promulgato il NOM. Si imporrebbe la conseguenza a cui è arrivato – del tutto
logicamente – il p. Guérard de Lauriers: l'autorità (tutta l'autorità) della Chiesa è
venuta meno. Essa sussiste solo materialmente, come un cadavere (cfr. M.L. GUERARD
DES LAURIERS, O.P., Le Siège Apostolique est-il-vacant? (Lex orandi, lex credendi), in:
Cahiers de Cassiciacum 1 (1979) pp. 5-99). Infatti il NOM gode oggi dell'accettazione
moralmente unanime di tutta la Chiesa. Anzi – dopo le dimissioni di Mons. de Castro
Mayer dalla diocesi di Campos – dell'accettazione fisicamente unanime di tutto
l'episcopato residenziale di rito latino. È ormai rito praticato dalla unanimità morale
della Chiesa da più di dieci anni. Quindi le difficoltà ecclesiologiche di un giudizo di
eterodossia sono oggi ben più cospicue di quelle – già di per sé notevoli – che comporta
la quaestio (tradizionale, ma tuttora irrisolta) «de papa haeretico». Oggi si sarebbe
perlomeno vicini alla quaestio «de Ecclesia haeretica». Ci si dovrebbe accingere a
investigare la possibilità di una «morte della Chiesa», ridotta, nella sua gerarchia, a
una «struttura» priva di vita... Si dovrebbe cioè entrare in una prospettiva decisamente
apocalittica, esoterica e in definitiva assurda se esaminata alla luce di una sana
ecclesiologia

Capitolo
Primo

CATTOLICESIMO E PROTESTANTESIMO
A CONFRONTO
BREVE PREMESSA STORICA

Per situare correttamente il nostro studio sono molto utili, per
non dire indispensabili, alcuni richiami di carattere storico-dottrinale,
che mettano sotto i nostri occhi gli aspetti salienti della controversia
protestantica sull'Eucaristia e la Messa. Inutile dire che si tratta
soltanto di un abbozzo che intende evidenziare la reale portata dei punti
discriminanti: che cosa veramente differenzia, al di là della pura
terminologia, cattolicesimo e protestantesimo in tema eucaristico1.

Riteniamo insufficiente un puro e semplice rimando ai capitoli e
ai canoni del Tridentino: il Concilio deve essere interpretato nel suo
contesto storico. Le sue affermazioni e le sue condanne si rivolgono a
interlocutori determinati, sapere – anche se a grandi linee e con
indispensabili approssimazioni – quello che questi interlocutori
dicevano, non è evidentemente senza importanza per comprendere non
superficialmente il dettato conciliare. Le sue affermazioni hanno un
valore assoluto, perché intendono proporre autenticamente e
definitivamente la fede della Chiesa, ma per comprenderle appieno è
indispensabile vederle nel loro contesto.

Pur essendo consapevoli, con san Tommaso, che: «non si tratta
tanto di sapere che cosa gli uomini abbiano pensato, ma come
veramente sia la realtà delle cose»2, non possiamo però dimenticare il
monito di san Gerolamo: «molti cadono in errore, perché non conoscono
la storia»3.


Va innanzitutto notato come la controversia eucaristica sia uno
dei punti più importanti nel più vasto contesto della controversia
protestantica. È noto il detto di Lutero: «triumphata vero Missa puto nos
totum Papam triumphare»4. Questo ci conferma nella convinzione che,
con l'eucaristia e la Messa, ci troviamo al centro della fede e della vita
della Chiesa.
Tratteggiare una dottrina protestantica univoca in materia è
difficile e questo per la natura stessa del Protestantesimo. Il rifiuto del
magistero ecclesiastico conduce per forza di cose alla frammentazione
delle opinioni, tanto che qualcuno ha potuto affermare che «non esiste il
Protestantesimo, esistono soltanto dei protestanti».
Fu proprio la dottrina eucaristica il terreno su cui si svilupparono
le più violente controversie all'interno del protestantesimo stesso. Le
prime divisioni in seno alla «Riforma» ancora incipiente (1529) sorgono
infatti in occasione della disputa sollevata dai «sacramentari» sulla
presenza reale. Calvino, davanti al fallimento dei suoi tentativi di
mediazione, esterna a Melantone tutto il suo disappunto con parole che
esprimono bene la piega preoccupante che il movimento stava
fatalmente prendendo: «È molto importante che i secoli a venire non
sospettino neppure delle divisioni che ci sono fra noi; perché è ridicolo
al di là di ogni immaginazione, che dopo aver rotto con tutti, noi ci
mettiamo tanto poco d'accordo fra di noi fin dall'inizio della nostra
riforma»5.
Il Protestantesimo si presenta esteriormente come una reazione
contro degli abusi, come un movimento di «Riforma» che intende
purificare e rinnovare la Chiesa riportandola all'autenticità originaria.

Non è difficile però constatare come, dietro la polemica contro l'abuso, si
celi la negazione di qualcosa di sostanziale della dottrina cattolica,
qualcosa che la Chiesa ha sempre creduto e praticato e considerato
come irrinunciabile.
Riguardo al nostro tema specifico questi punti sostanziali sono
fondamentalmente tre : 1) il carattere sacrificale della Messa, 2) la
presenza reale sostanziale di Cristo nell'Eucaristia, 3) il sacerdozio
ministeriale essenzialmente distinto da quello dei semplici fedeli.
Attorno a questi tre punti ruota tutta la polemica.
Se a riguardo della presenza reale sorgono fra i protestanti – fin
da subito – divergenze, tutti sono d'accordo nella negazione radicale del
carattere sacrificale della Messa
e – quindi – conseguenza
assolutamente logica, di un sacerdozio esterno e visibile, che costituisce
un ministero permanente in seno alla Chiesa.
Fin dal 1522 Lutero conduce «questa lotta contro la Messa
ininterrottamente lungo tutta la sua vita»6. Anche quando gli estremisti
(i «sacramentari»: Carlostadio, Zwinglio, Ecolampadio) porteranno alle
ultime conseguenze le sue dottrine, arrivando alla negazione della
presenza reale e suscitando le ire del «riformatore», Lutero non cesserà
di negare caparbiamente che la Messa è un sacrificio.
Sono note le sue
espressioni violente, che lasciano intravedere – su questo punto – una
passionalità veramente sconcertante.
Abbiamo già ricordato come il monaco tedesco abbia visto nel
sacrificio della Messa il baluardo della cittadella cattolica. Per lui
concepire la Messa come un sacrificio è «il peggiore degli abusi»7, che si
manifesta concretamente soprattutto nello «scandalo della messa
privata»8. «La Messa costituisce nel papato il massimo e orrendo
abominio»9. Da essa derivano tutti gli altri mali: «questa coda del
dragone, cioè la Messa, partorisce una moltitudine di abomini e di
idolatrie». Di fronte alla fermezza e all'impegno con cui tanti cattolici
scendono in campo per difendere il Santo Sacrificio minacciato, Lutero
osserva che i «papisti» «sanno perfettamente che una volta caduta la
Messa è finito anche il papato». Per parte sua, afferma di essere
«disposto a lasciare bruciare il suo corpo per la causa di Dio, piuttosto
che equiparare il ventre dei messari (= i preti) a Gesù Cristo»10. «Tutte le
case chiuse, che pure Dio ha severamente condannato, tutti gli omicidi,
gli assassini, gli stupri e gli adulteri sono meno nocivi dell'abominazione
della Messa papista»11.
Che cosa è allora la Messa?
Nella liturgia eucaristica – secondo Lutero – bisogna distinguere
accuratamente la Messa e la preghiera, il sacramento e l'opera, il
testamento e il sacrificio. L'uno (Messa-sacramento-testamento) viene
da Dio a noi mediante il ministero del presbitero e l'altro (la preghiera,
l'opera, il sacrificio) si eleva verso Dio dalla nostra fede mediante il
sacerdote12.
La Messa è innanzitutto un testamento, vale a dire la «promessa
della remissione dei peccati, promessa fatta da Dio, rafforzata dalla
morte del figlio di Dio»13, e che si accompagna ad un segno visibile, cioè
il sacramento del pane e del vino. Questo sacramento non ha altro fine,
né altro effetto che quello di eccitare in noi la fede che, sola, giustifica. È
empio dunque volerne fare un'opera buona applicabile agli altri: questo
carattere può tutt'al più convenire alle preghiere di cui la Messa è la
occasione e che costituiscono come la risposta da parte dell'uomo al
testamento del Signore. La Messa non è un sacrificio perché Cristo non
ha celebrato un atto rituale, ma un banchetto, e tutto quello che è stato
aggiunto in seguito alla semplicità di quella prima cena è un
cerimoniale senza valore. «C'è contraddizione nell'opinione per cui si
considera come sacrificio la Messa: noi riceviamo la Messa, offriamo
invece un sacrificio»14. Se qualche formula della liturgia parla ancora di
sacrificio (Lutero si riferisce alla liturgia romana del suo tempo, perché
dalla sua cercherà di espungere ogni anche lontano ricordo di
sacrificio), bisogna intenderlo delle preghiere che accompagnavano una
volta il rito dell'offerta (la processione con cui si portavano i doni
all'altare) e che gli sono sopravvissute.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:53]
09/02/2011 17:42
 
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Il sacrificio, nella liturgia eucaristica, si riduce alla ricezione
soggettiva, cioè alla fede che riceve il sacramento. Anche la concezione
del sacerdozio si trova ad essere radicalmente modificata da questa
impostazione: non si può dire che il sacerdote offra realmente il
sacrificio, perché questa offerta la fa la fede, che è propria di ciascun
fedele. La fede costituisce il ministero sacerdotale. Allora è ovvio che
tutti sono sacerdoti, in quanto tutti offrono il sacrificio, accogliendo con
la fede la promessa di Dio che rimette i peccati in Gesù Cristo.
L'aspetto sacrificale dell'eucaristia non è dunque oggettivo ma
soggettivo. Il solo sacrificio autorizzato dalle Scritture del Nuovo
Testamento, oltre a quello della Croce, è quello della nostra
mortificazione e delle nostre penitenze (Rm 12, 1), un sacrificio
«spirituale». Oppure si può parlare – in modo improprio però,
metaforico – di sacrificio di azione di grazie o di lode: le preghiere elevate
a Dio in occasione della Messa. Non sacrificio esterno, visibile, vero e
proprio. Questo è solo quello del Calvario, offerto una volta per tutte:
«Cristo non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di
offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo,
perché egli ha fatto questo una volta per tutte (ephapax, semel),
offrendo se stesso» (Ebr 7, 27)15.
Dunque, per Lutero, il sacrificio è qualcosa di assolutamente
diverso dal sacramento, perché è l'atto di riceverlo e di usarlo (quindi
ricevendolo ed usandolo tutti i fedeli offrono il sacrificio). La tradizione
aveva lasciato una nozione ancora molto viva e feconda, ma che proprio
il protestantesimo contribuirà a svuotare: quella di memoriale. Le prime
argomentazioni cattoliche anti-luterane si muovono ancora in questo
ambito: la Messa è sacrificio perché è rappresentazione, memoria, del
sacrificio di Cristo. Sottolineano però adeguatamente che non è una
memoria vuota, ma tale da essere una sua ri-presentazione, per cui
partecipiamo per essa all'efficacia del Calvario. Anche al Concilio di
Trento il linguaggio non sarà diverso: Missa, licet a sacerdote celebratur
tota tamen Christi actio est, et nihil nisi Christi nomine in ea agitur. Et
licet illa oblatio crucis unica fuerit, et in aeternum consummet
sanctificatos, tamen hoc in altari illi non derogat, quia est illius memoria
et per hanc de illa partecipamus16. Per Lutero invece la Messa non è
neppure un sacrificio-memoriale, perché non è un'opera, ma solo un
sacrificio di rendimento di grazie. Egli contesta fortemente che dal
concetto di memoria
si possa passare a quello di sacrificio. «Come potete
essere così audaci da fare di una memoria un sacrificio?... Se infatti fate
della memoria del suo sacrificio un sacrificio e lo offrite di nuovo, perché
non fate della memoria della sua nascita un'altra nascita, in modo tale
che lui rinasca di nuovo?»17. In questo modo rinnega il carattere
oggettivo e ontologicamente intensivo del «memoriale». Per lui il
memoriale è un qualsiasi ricordo soggettivo e non una rappresentazione
che è, nello stesso tempo, ripresentazione. Il nocciolo della risposta alla
sua ironica obiezione era già contenuto in san Tommaso18: la Messa è
sacrificio perché è imago quaedam repraesentativa passioni Christi (III,
q. 83, a. 1) e la sua relazione alla Croce è del tutto peculiare, perché
essa sola, nel mentre raffigura la passione nell'atto della consacrazione
separata del pane in Corpo e del vino in Sangue, rende presente
sull'altare l'ipsum Christum passum (III, p. 73, a. 5 ad 2).
Se non è un sacrificio-memoriale che è sostanzialmente identico
al sacrificio di Cristo, non è neppure – logicamente – un sacrificio
propiziatorio, cioè un sacrificio di riconciliazione, che applica la virtù del
Sacrificio di Cristo per la remissione dei peccati che si commettono ogni
giorno. Sacrificio propiziatorio è soltanto quello del Calvario. Il sacrificio
eucaristico, per Lutero, di suo, non riconcilia, ma è offerto piuttosto dai
cristiani già riconciliati.
Il fondamento teologico profondo è quello fornito dal principio
fondamentale della «Riforma»: solus Deus. Per Lutero non si può
neppure parlare di sacrificio propiziatorio di Gesù in quanto uomo19,
perché solo Dio opera la salvezza. La partecipazione dell'umano alla
salvezza per opera di quel Dio che procede esaltando l'efficacia delle
cause seconde è radicalmente negata. La salvezza viene da Dio e basta,
l'uomo non c'entra in nessun modo.
Un sacrificio vero e proprio, con un fine propiziatorio, sarebbe un
atto di idolatria in quanto si metterebbe in concorrenza con la salvezza
operata da Dio. Il protestantesimo, in fondo, non concepisce che l'azione
di Dio e l'azione dell'uomo siano entrambe reali senza annullarsi.

Anche quando viene ammesso dunque un sacrificio eucaristico, di
azione di grazie o di lode, si intende qualcosa di essenzialmente diverso
da quello che intende il cattolicesimo.
Secondo la concezione cattolica, infatti, la Messa è «eucaristia»,
cioè una restituzione dei doni a Dio, in quanto, e soprattutto, è offerta
del sacrificio di Cristo, il dono perfetto e sommamente gradito e che,
solo, rende graditi gli altri doni e tutte le altre preghiere. La Messa è
adorazione perché il sacrificio di Cristo, in essa presente, è la somma
adorazione prestata a Dio, che dignifica e valorizza tutte le nostre
adorazioni.
Il rifiuto della finalità propiziatoria da parte protestante si produce
soprattutto perché in essa si manifesta la presenza oggettiva o meno del
sacrificio di Cristo nella nostra offerta20.
Volendo trovare allora lo «specifico» protestantico in questa
delicata questione, senza nasconderci le difficoltà di una semplificazione
in un campo così complesso e, strutturalmente, differenziato, potremmo
arrestarci a questa affermazione di principio: ogni «offerta» che
dall'uomo sale a Dio, soprattutto dopo il sacrificio di Cristo – con
pretese espiatorie e meritorie – che non sia quella di una semplice
preghiera, è un atto di idolatria. Anche un «sacrificio anamnestico»,
l'offerta di un «memoriale» che contenga la realtà ricordata, non sfugge a
questa legge. Se alcuni teologi protestanti più recenti ammettono una
nozione «piena» di memoriale
, lo intendono sempre come un
ripresentarsi della Passione di Cristo, non come una ripresentazione
operata dalla Chiesa per il ministero dei sacerdoti21.
Quali sono le conseguenze rituali di questa teologia?
Innanzitutto, la rigorosa espunzione di tutto ciò che, in qualche
modo, sa di sacrificio dalla liturgia eucaristica. Se si spazio ad una
accezione traslata del termine sacrificio, si tende però ad eliminarlo
nella pratica. La Messa si riduce concretamente ad un banchetto.
Poi l'abolizione delle Messe cosiddette «private»: non si deve
ammettere celebrazione eucaristica se non in vista della comunione. Il
prete celebrante, secondo Lutero, deve farsi, anche lui, comunicare da
un altro. Per un po' di tempo il monaco agostiniano aveva tollerato
queste celebrazioni «private»: se un prete vuole assolutamente, extra
exemplum Christi, dire la Messa per comunicarsi lui stesso, si preoccupi
però di non essere mai solo e di dare ugualmente la comunione ad altri.
Poi però procedette, con logica più rigorosa, a estinguere questa pratica,
che rimane ancora uno dei punti più differenzianti, a livello rituale, fra
protestanti e cattolici22.
Gli altri protestanti non si discostano sostanzialmente da Lutero
su questo punto.
Anche per Calvino la Messa-sacrificio è un «errore di Satana»23. La
Messa «privata», cioè quella che non comporta comunione dei presenti, è
particolarmente contraria all'istituzione divina24.
Se Lutero si era mostrato molto disinvolto riguardo alle massicce
e inequivocabili testimonianze dell'antichità,
Calvino si preoccupa di
interpretarle. Se i Padri hanno parlato di sacrificio a proposito della
Messa «dichiarano anche che non intendono parlare d'altro che della
memoria di quel vero e unico sacrificio che Cristo ha compiuto sulla
croce»25. Non può però non riconoscere che non si trattava per loro di
una memoria vuota; tuttavia, pur non osando respingere il loro
linguaggio, non ne tiene in pratica conto. La nota caratteristica di
Calvino, nell'ambito delle grandi personalità della «Riforma», è quella di
una impossibile mediazione fra proposizioni contraddittorie, e di una
conseguente confusione26.
L'apporto di Zwinglio sarà quello di una argomentazione che farà
molta fortuna e influenzerà anche, in un certo senso, la speculazione
cattolica: Christus illuc tantum offertur ubi patitur, sanguinem fudit,
moritur: haec enim aequipollent.... Christus non potest ultra mori, pati,
sanguinem fundere. ... Ergo Christus ultra offeri non potest: mori etiam
non potest27.
Da nessun'altra parte meglio che in questo scintillante sillogismo
è percepibile l'incomprensione per il realismo sacramentale della
Tradizione, che aveva sempre compreso senza scandalo l'identità di
Calvario e di Messa come qualcosa di realissimo, pur essendo in
imagine, in mysterio, in sacramento.
Riguardo alla presenza reale, le posizioni all'interno della
«Riforma» si fanno più complesse.

Immediatamente c'è chi porta il discorso della salvezza per la sola
fede alle estreme conseguenze, negando ai sacramenti ogni valore che
non sia puramente simbolico, cioè di segno atto ad eccitare la fede, ma
in se stesso privo di ogni contenuto reale.
Sono i cosiddetti «sacramentari», che si ergono anche contro il
padre stesso della «Riforma», Martin Lutero.
Il grave problema, di fronte
alla innegabile logica interna del «sistema», era costituito dalle chiare,
chiarissime, parole dell'istituzione: «questo è il mio corpo, questo è il
mio sangue». Carlstadio non teme di cadere nel ridicolo affermando che,
nel pronunciare quelle parole, Gesù aveva certamente indicato se stesso
... Per Zwinglio, più abile argomentatore, la parola «è» deve essere
tradotta con «significa». Per Ecolampadio «il mio corpo» deve essere reso
con «la figura del mio corpo»28. In ogni caso nell'eucaristia non c'è né
miracolo né mistero, ma un semplice simbolo (nel senso moderno,
depauperato, del termine) per animare la fede. «Che il corpo di Cristo –
dice Zwinglio – sia presente essenzialmente e realmente ... come dicono
i papisti e certi altri ... [i luterani],
non soltanto lo neghiamo, ma lo
riteniamo un errore che contraddice la parola Dio»29.
Lutero rimane invece un assertore della presenza reale, anche se
rifiuta la spiegazione in termini di «transustanziazione». Però, la sua
posizione su questo punto non pare ben definita: se da una parte porta
attacchi contro la transustanziazione, dall'altra, in alcune occasioni,
sembra ammetterla almeno come «opinione di scuola»30. Positivamente
propende per una presenza concomitante di pane e vino e persona di
Cristo: Cristo presente nel pane e nel vino, col pane e col vino, unendosi
a questi elementi come con una nuova unione ipostatica ... Si tratta
della teoria conosciuta come della «impanazione» o «consustanziazione»,
che aveva sostenitori anche prima di Lutero. Non rifugge neppure
dall'ubiquismo (che sembra godere oggi di nuova fortuna): unita alla
divinità, l'umanità di Cristo partecipa alla sua onnipresenza ...

Tuttavia sembra che la sua posizione personale si caratterizzi
soprattutto come il rifiuto di ogni tentativo di fissare concettualmente i
termini precisi del mistero, tentativo da lui considerato senz'altro come
viziato di razionalismo, come momento di una theologia gloriae che si
contrappone alla sola possibile e legittima theologia crucis31.
Anche riguardo alla durata della presenza eucaristica la posizione
di Lutero non è affatto esente da tentennamenti, e oscilla fra una
presenza soltanto in usu e una presenza che dura fin che durano le
specie32. La tradizione luterana si attesterà però sulla posizione del
rifiuto. Non si dà presenza eucaristica al di fuori della celebrazione. Così
i luterani saranno anche sostenitori della permanenza degli elementi
accanto alla presenza di Cristo. Il culto eucaristico extra Missam è
fortemente negato e, in ogni caso, tutto è compromesso, nella pratica,
dall'estinzione di un sacerdozio validamente ordinato.
Calvino cerca la mediazione tra Lutero e Zwinglio. Mediazione
impossibile che gli vale un pensiero assai confuso. Si esprime ora in un
modo, ora in un altro (sia detto tra parentesi: questo deve mettere in
guardia contro una certa faciloneria «ecumenica» che si fonda su testi
isolati...). «Questi aspetti così divergenti della dottrina di Calvino
possono essere messi insieme solo con grande difficoltà. Allora come in
seguito il tutto fu capito come una negazione della presenza reale»33.
A proposito del pensiero di Calvino è utile osservare come un
riformato (calvinista) odierno, molto impegnato in campo ecumenico, il
pastore Max Thurian, faccia di tutto per ricondurre il «riformatore»
francese nell'alveo della presenza reale. Ma si tratta di sforzi ben poco
convincenti34. D'altra parte quello che conta non è tanto quello che ha
veramente pensato Calvino, quanto quello che ha veramente costituito
per secoli il credo calvinistico e, soprattutto, quello che lo costituisce
ancor oggi.
La negazione di un sacrificio sacramentale comporta, come logica
conseguenza, la negazione di un sacerdozio sacramentale. Non si dà un
sacrificio compiuto nel sacramento, dunque non c'è necessità di un
sacrificatore costituito anch'esso tale da un sacramento.
Basandosi su alcuni passi del Nuovo Testamento, interpretati
unilateralmente e fuori dell'alveo della Tradizione della Chiesa,
soprattutto 1 Pt 2, 9 («voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la
nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere
meravigliose di lui ...»), Lutero proclama che la fede ha fatto preti tutti i
cristiani35.
Esiste un solo sacerdozio, quello che ha la sua origine nel
battesimo36. In virtù di questo sacerdozio tutti hanno gli stessi poteri in
ordine al culto. Non esiste un sacramento dell'ordine di istituzione
divina, ma soltanto una cerimonia ecclesiastica per scegliere i
predicatori.
È necessario che ci siano dei ministri, perché, se tutti sono
sacerdoti, non per questo «sind (...) alle Pfarrer» (sono (...) tutti
parroci)37. Questo ministero può essere considerato di istituzione divina,
ma non come sacramento, perché non ha uno speciale potere in ordine
ad uno speciale sacramento. Svuotato del suo contenuto sacramentale,
questo ministero non necessita più, per essere vero, di essere trasmesso
da chi ha il potere di farlo e con un rito speciale. «Se i vescovi
compissero le loro funzioni conformemente agli insegnamenti del
Vangelo, i ministri riformati potrebbero andare a chiedere loro
l'imposizione delle mani. Ma, poiché i vescovi non vogliono abbandonare
tutte le commedie, scimmiottature e pompe, prese in prestito dal
paganesimo, non vogliono cioè essere veri vescovi, ma intendono agire
da politici, che non predicano, non battezzano, non amministrano la
Cena, né compiono alcuna funzione ecclesiastica, accontentandosi di
perseguitare e condannare quelli che si sentono chiamati a compiere
queste funzioni (...). ... noi ordiniamo noi stessi quelli che sono chiamati
al ministero»38.
Questo punto costituisce ancora oggi, nella pratica, l'elemento di
bruciante contrapposizione cattolico-protestantica in tema di ministero.

Il ministero non ha origine, essenzialmente e pena l'invalidità, nel rito
sacramentale conferito dal vescovo, nella delega del popolo39.
Ovviamente in questa concezione non c'è posto per un carattere
indelebile. Di per sé, chi è stato deputato al ministero con l'imposizione
delle mani, può poi ridiventare semplice laico.
Vediamo che la concezione protestantica – su questo punto sono
tutti concordi – è una concezione inorganica della Chiesa. Non si danno
due partecipazioni diverse allo stesso sacerdozio di Cristo, ma tutti sono
sacerdoti allo stesso modo. La differenziazione è solo strettamente
funzionale e – di suo – non permanente. Non è radicata nella natura
della Chiesa «corpo mistico di Cristo».
Da parte cattolica si reagì sottolineando fortemente la stretta
connessione fra vero sacrificio sacramentale e sacerdozio sacramentale,
senza però negare che si dava anche un sacerdozio spirituale e interiore
(quello di 1 Pt 2, 9). Se il Concilio di Trento ne parla solo implicitamente,
il Catechismo Tridentino conta l'argomento in esplicito40.
Tutti i fedeli sono sacerdoti nel senso che sono chiamati ad offrire
se stessi, tutta la loro vita, prestando in questo modo a Dio un «culto
spirituale» (Rm 12, 1). Tutti i fedeli sono, in altri termini, chiamati a
riprodurre in sé il sacrificio perfetto di Cristo che fu insieme sacerdote e
vittima. Questo sacrificio spirituale è insieme il modo più proprio di
partecipare al sacrificio della Messa e l'effetto di questo sacrificio. Il
sacrificio sacramentale infatti è ordinato a portare a compimento,
unendoli a quello di Cristo, i sacrifici dei cristiani. Nello stesso tempo
rende possibili questi sacrifici con la sua virtù salvifica.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 11:18]
09/02/2011 17:43
 
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Tuttavia, poiché Cristo ha lasciato alla Chiesa il sacramento del
suo sacrificio da perpetuare fino alla sua definitiva venuta, deve esserci
anche un sacerdozio a ciò deputato: un sacerdozio pubblico che, per la
Chiesa e a nome della Chiesa, compia il segno sacramentale che
riattualizza e applica il sacrificio di Cristo. Dire che esiste un sacerdozio
esterno e visibile (oggi si preferisce chiamarlo «ministeriale») e un
sacerdozio interno e spirituale («universale» o «comune») non significa
affermare che quest'ultimo non abbia nessun ruolo esterno anche
liturgico da compiere o che questo ruolo sia soltanto passivo. Affermare
che solo il sacerdote-ministro compie il gesto sacramentale che
riattualizza il sacrificio, non significa escludere il sacerdote-fedele da
ogni attiva partecipazione. È comprensibile che questo punto di
dottrina, proprio come reazione alle negazioni protestantiche, abbia
subito una certa eclissi. Tuttavia è sempre stato almeno implicito nella
dottrina e nella prassi della Chiesa.
San Tommaso aveva già ben chiaro che il carattere, in generale (e
quindi anche quello battesimale), importat quamdam potentiam
spiritualem ordinatam ad ea quae sunt divini cultus (III, q. 63, a. 2, c). Se
questa potenza è principalmente «recettiva» (il potere di ricevere i
sacramenti), è secondariamente anche attiva: statim baptizati idonei
sunt ad spirituales actiones (Contra Gentes, 1. IV, c. 59). Questa
partecipazione attiva si esprime liturgicamente nel consenso
manifestato all'azione del sacerdote (implicito nella presenza devota,
esplicito nel dialogo). Si esprime compiutamente nella comunione
sacramentale e può esprimersi anche nell'offerta dei doni, simbolo
dell'offerta dei propri sacrifici spirituali.
Il punto discriminante col protestantesimo non consiste dunque
nell'attribuzione o meno ai fedeli di una certa funzione sacerdotale e
quindi nel riconoscimento di una parte attiva nella celebrazione
eucaristica, quanto nel fatto che i cattolici ammettono due modi,
essenzialmente distinti41, di partecipare all'unico sacerdozio di Cristo,
mentre i protestanti ne riconoscono uno solo. È ovvio che il
riconoscimento di due partecipazioni essenzialmente diverse comporta
due relazioni essenzialmente diverse rispetto all'eucaristia (agere
sequitur esse). Solo il sacerdote-ministro agisce in persona Christi e
compie immediatamente il gesto sacrificale. Il sacerdote-fedele partecipa
a questo sacrificio della Chiesa come membro del Corpo mistico di
Cristo, agendo il ministro nella persona di Cristo Capo, immola il
sacrificio solo mediante il sacerdote e offre i suoi sacrifici personali,
unendoli al sacrificio di Cristo, insieme con lui.
Questa partecipazione si differenzia essenzialmente da quella del
ministro perché non è tale da porre in essere il sacrificio sacramentale,
quindi non è strettamente richiesta perché esso ci sia (di qui la validità
e la legittimità delle Messe celebrate dal solo sacerdote-ministro).
Tuttavia il sacrificio compiuto dal solo presbitero non diventa per questo
affare privato, perché egli non cessa di prestare la sua persona come
strumento della virtù divina di Cristo in quanto ministro della Chiesa e
non cessa di rappresentare tutta la Chiesa essendo anche – anzi, in
certo senso, soprattutto – sacerdote-fedele.
La negazione di questa partecipazione differenziata che costituisce
l'ossatura della gerarchia della Chiesa, che va, logicamente, di pari
passo con la negazione della sua visibilità, costituisce lo specificum
protestantico in tema di ministero.
Col Concilio di Trento la Chiesa si leva per difendere il deposito
della fede. Le proteste dei «riformatori», se si agganciano a veri o pretesi
abusi, coinvolgono però verità che i cristiani hanno sempre creduto con
fede fermissima. Non su tutti questi punti esiste, è vero, una teologia
perfettamente elaborata.
Esistono, anzi, opinioni molto varie fra i teologi cattolici. In tutti
però vi è la convinzione che, quale che sia la spiegazione (il «come») che
di certe verità si può dare, il «fatto» che queste verità enunciano è fuori
discussione.
In questo caso il Magistero non interviene per dirimere
controversie di scuola, ma per difendere la fede, per chiarire quali sono i
limiti che non si possono superare senza «far naufragio nella fede» (1
Tim 1, 19) e compromettere così, oggettivamente, la propria salvezza
.
L'autorità si premura anche di difendere certe pratiche ecclesiastiche
che, anche se non costituiscono, di per sé, oggetto di fede, sono tuttavia
strettamente collegate a dogmi e sono come barriere per la sua difesa.
In particolare il Concilio si preoccupa di difendere la Chiesa dall'accusa
di aver favorito, con la sua disciplina, pratiche superstiziose, idolatriche
e contrarie al Vangelo. Anche in questo caso è, indirettamente, in gioco
un dogma, quello della santità della Chiesa. Quindi ci si preoccupa,
mediante canoni disciplinari, di attuare la vera Riforma della Chiesa.
Una Riforma che sopprima gli abusi senza sconvolgere gli usi legittimi e,
soprattutto, senza coinvolgere in alcun modo la sostanza intangibile
della fede. Che risponda insomma, autenticamente, al principio
dell'Ecclesia semper reformanda.
D'altra parte sappiamo – e questo
rende problematica la terminologia recepta di «Riforma-Controriforma» –
che la vera Riforma cattolica non aveva aspettato la ribellione di Lutero,
ma aveva avuto inizio ben prima e con ben altri orientamenti42. Segno
che la Sposa di Cristo ha sempre in se stessa le risorse per superare le
sue crisi, senza che nessuno possa mai sentirsi autorizzato a dettarle
dall'esterno quello che deve fare.

Noi qui ci occuperemo degli aspetti disciplinari, sia per quanto
riguarda la difesa della disciplina vigente, sia per quanto riguarda la
disciplina da introdursi; ci occuperemo innanzitutto di ciò che è
strettamente dogmatico.
È facile comprendere che lo scopo del Concilio Tridentino, in
campo dogmatico, non è quello di fare una esposizione completa della
dottrina sull'Eucaristia e sulla Messa, ma soltanto quello di distinguere
con chiarezza ciò che il cattolico deve credere in contrapposizione agli
errori e alle deformazioni dei protestanti.
Per questo si guarda bene
dall'esplicitare oltre quello che è necessario per difendere punti di
dottrina ben precisi, dall'entrare nelle questioni ancora disputate fra
teologi cattolici, dal toccare tutta quanta la materia. Trattandosi di
attacchi a punti essenziali, ne risulta una risposta che esplicita quanto
vi è di essenziale, ma che non esclude integrazioni.

1) Innanzitutto il Concilio chiarisce che la Messa è un vero e
proprio sacrificio.
Nostro Signore Gesù Cristo «nell'ultima Cena (...) per lasciare alla
Chiesa, sua diletta sposa, un sacrificio visibile (come esige la natura
umana), col quale fosse rappresentato [repraesentaretur] quel sacrificio
cruento da compiersi una volta sulla croce, e la sua memoria
perdurasse fino alla fine del tempo, e inoltre la sua salutare virtù si
applicasse in remissione di quei peccati che si commettono da noi ogni
giorno (...), offrì il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del
vino a Dio Padre e sotto le medesime specie lo diede, perché ne
mangiassero, agli Apostoli (che allora costituiva sacerdoti del Nuovo
Testamento) e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, che
l'offrissero, con queste parole "Fate questo in memoria di me"»43.
Il Concilio, nell'esporre la dottrina, ha presente sullo sfondo la
fondamentale obiezione protestantica che fa leva sulla unicità e
irripetibilità del sacrificio del Calvario. A Trento si risponde che il
sacrificio della Messa non deroga a quello del Calvario perché non è un
altro sacrificio ma ne è la rappresentazione e l'applicazione. Croce e
Messa sono unum et idem44 infatti:
«Una sola e medesima è l'offerta, lo stesso è anche ora l'offerente
per il ministero dei sacerdoti, il quale un giorno offrì se stesso sulla
croce, soltanto diverso è il modo di offrire»45.
Quindi, nei canoni, si afferma perentoriamente che la Messa è
«vero e proprio sacrificio» (can. 1). Possiamo dire che questa è
l'affermazione centrale. Per valutarla nella sua reale portata, dobbiamo
ricordare, lo abbiamo già accennato, che i protestanti parlano anch'essi
di «sacrificio». Il termine è però assunto in sensi impropri. Sacrificio
perché nell'Eucaristia il pane e il vino sono offerti in cibo ai fedeli,
perché offriamo al Padre le nostre preghiere in cui gli ricordiamo il
sacrificio del Figlio ... Non sacrificio «vero e proprio», cioè avente in se
stesso una efficacia propiziatoria (per la remissione dei peccati). La
stessa efficacia del Sacrificio del Calvario. Nel cap. 2 della XXII sessione,
che espone il fine propiziatorio della Messa, il Concilio argomenta a
partire dall'identità fra il sacrificio della Croce e il sacrificio della Messa.
Questo ultimo è propiziatorio perché, essendo sacramentalmente lo
stesso del Calvario, ne ha la stessa efficacia. Un pasto, per quanto
sacro, o una semplice preghiera che ricorda quel sacrificio avvenuto una
volta per tutte, non ha nessuna efficacia propiziatoria propria.
Il Concilio, contro queste riduzioni, dà un significato preciso
all'espressione «sacrificio vero e proprio»:
a. Esso non consiste soltanto nel «darsi di Cristo a noi in cibo» (can. 1).
b. Non è «soltanto (un sacrificio) di lode e di ringraziamento» (can. 3).
Non soltanto una preghiera («sacrificio delle labbra»).
c. Non è «una memoria vuota (nudam commemorationem) del sacrificio
compiuto sulla croce» (ibidem).
d. È «propiziatorio» (ibidem). Contiene cioè la stessa virtus del Calvario.
Il Concilio difende anche la liceità della Messa in cui «solo il
sacerdote partecipa sacramentalmente» (can. 8). Abbiamo visto come,
per Lutero, sono messe «private» non soltanto quelle in cui celebra il
solo sacerdote, ma anche quelle in cui solo il sacerdote fa la comunione
sacramentale. E questo perché la Messa si riduce per lui
sostanzialmente alla comunione. Queste Messe invece non sono da
condannarsi come «private», perché in realtà, essendo sempre offerte da
un ministro pubblico per tutti i fedeli, sono sempre «Messe veramente
comunitarie (Missae vere communes)» (cap. 6).
Prima di affrontare il secondo punto dottrinale, soffermiamoci un
momento sugli interrogativi che solleva la dottrina prospettata dal
Concilio. Come è possibile che la Messa «sacrificio vero e proprio» non
deroghi al Calvario, posto che sono indubbiamente, almeno dal punto di
vista storico-fenomenico, due realtà diverse? La risposta più tecnica il
Concilio la lascia ai teologi. Suo compito è quello di difendere la fede,
mostrando dove si situano le verità da credere.
Ogni spiegazione
teologica, per non svuotare il mistero, deve tenere i due anelli della
catena: la Messa è vero e proprio sacrificio, tuttavia non «un altro»
sacrificio rispetto a quello del Calvario.
Per non avventurarsi in un campo che era ancora assai disputato
anche fra i teologi cattolici, il Concilio ripropone la terminologia
tradizionale: la Messa non deroga al Calvario perché è repraesentatio di
quest'ultimo. Solo che questa repraesentatio non equivale a una nuda
commemoratio. Nel linguaggio tradizionale troviamo i termini: figura,
sacramento, memoria o memoriale, rappresentazione o ripresentazione
(è l'ambiguità non casuale del termine repraesentatio46, rinnovamento,
applicazione. Tutti questi termini sono legittimi e convengono in uno
stesso, fondamentale (anche se sempre misterioso) significato. Non è del
tutto corretto invece parlare di «ripetizione», perché il sacrificio della
Croce è avvenuto una volta per tutte e non può più essere ripetuto.
Il Concilio dunque non condanna l'espressione commemoratio
applicata alla Messa. La condanna porta non sul termine in se stesso,
ma sull'aggettivo nuda. Il Concilio intende cioè condannare la
concezione soggettiva di memoriale dei protestanti, non la nozione in se
stessa che è assolutamente tradizionale. È comprensibile tuttavia che,
in seguito, i teologi abbiano abbandonato (meglio: relegato in un canto)
questo termine, a causa dell'ambiguità di cui l'interpretazione
protestantica lo aveva rivestito.

L'insistenza del Concilio sulla natura veramente sacrificale
dell'eucaristia non deve neppure far dimenticare la ricchezza del mistero
che non si esaurisce qui. Questa sottolineatura non intende escludere
altri aspetti. Per esempio, accanto alla verità che la Messa è sacrificio
vero e proprio, resta vero che essa è anche convito, comunione, «sinassi»

(cfr. III q. 73, a. 4), ecc.47.
2) In una sessione distinta (la XIII), il Concilio afferma che nel
sacramento dell'Eucaristia Cristo è presente «veramente, realmente e
sostanzialmente». Il modo con cui si opera questa presenza è una
«mirabile conversione» che si dice appropriatamente
«transustanziazione».
«Mediante la consacrazione del pane e del vino si ha una
trasformazione (conversione) di tutta la sostanza del pane nella
sostanza del corpo di Cristo nostro Signore, e di tutta la sostanza del
vino nella sostanza del sangue di lui. E questa trasformazione
convenientemente e propriamente è stata chiamata dalla santa Chiesa
cattolica transustanziazione»48.
«Se alcuno dicesse che nel SS. Sacramento dell'Eucaristia
rimanesse la sostanza del pane e del vino insieme con il corpo e il
sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, e negasse quella mirabile e
singolare trasformazione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di
tutta la sostanza del vino nel sangue, rimanendo soltanto le specie del
pane e del vino, la quale trasformazione viene chiamata molto
opportunamente transustanziazione dalla Chiesa cattolica: sia
scomunicato»49.
Le verità affermate sono dunque fondamentalmente tre:
a. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono presenti sotto le specie
(apparenze) del pane e del vino.
b. Sotto le specie sacramentali non vi è più la sostanza del pane e del
vino.
c. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e
del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane
e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù. Questa
conversione totale si chiama transustanziazione.
Questa dottrina ha come conseguenza due importanti pratiche
rituali, nelle quali si trova come verificata in concreto: quella della
conservazione dell'Eucaristia (cann. 4 e 7) e quella della sua adorazione
(can. 6).
3) Per poter pronunciare efficacemente le parole della
consacrazione, dando luogo alla presenza reale di Cristo e realizzando il
sacrificio, occorre essere investiti di un potere dall'alto che abilita ad
agire in persona Christi. Potere con origine sacramentale, radicato in un
carattere indelebile.
Il Concilio ha già fatto una importante affermazione sul
sacramento dell'ordine nella XXII sessione, quando ha detto che Cristo
ha costituito sacerdoti del Nuovo Testamento gli Apostoli nell'ultima
Cena, comandando loro di offrire il suo corpo e il suo sangue:
«Se alcuno dicesse, che con quelle parole "Fate questo in memoria
di me" (...) Cristo non abbia costituito gli Apostoli sacerdoti oppure non
abbia ordinato che essi stessi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo
e il suo sangue: sia scomunicato» (can. 2).
Nella XXIII sessione però viene affrontato ex professo l'argomento.
Argomento importante e complesso: accanto a quello sulla
giustificazione questo decreto è quello che ha richiesto la più difficile
fase di preparazione. Lo stretto legame col tema del sacrificio è rilevato
in partenza e costituisce come la base di tutta l'esposizione:
«Il sacrificio e il sacerdozio sono talmente uniti nei disegni di Dio,
che si ebbero entrambi sotto ogni legge. Avendo la Chiesa cattolica
ricevuto nel Nuovo Testamento, per istituzione del Signore, il santo
sacrificio visibile dell'Eucaristia, occorre anche affermare, che in essa vi
è un nuovo sacerdozio visibile ed esterno (...) nel quale l'antico
sacerdozio è stato trasferito (...). La S. Scrittura lo mostra, e la
tradizione della Chiesa cattolica ha sempre insegnato, che questo
sacerdozio fu istituito dallo stesso Signore, nostro Salvatore, e fu dato il
potere agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio di consacrare, di
offrire e di distribuire il suo corpo e il suo sangue nonché di rimettere e
di ritenere i peccati»50.
All'origine del ministero sacerdotale vi è un vero e proprio
sacramento (cap. III e can. 3) che imprime un carattere indelebile (cap.
IV e can. 4). Non tutti i cristiani sono «indifferentemente sacerdoti del
Nuovo Testamento»; non «tutti godono di eguale potere spirituale». Chi
affermasse il contrario proporrebbe un'immagine inorganica della
Chiesa: «come se, contro l'insegnamento di S. Paolo, tutti fossero
Apostoli, Profeti, Evangelisti, Pastori e Dottori (cfr. 1 Cor 12, 29; Ef 4,
11)».
1 Su questo punto cfr.: J. RIVIERE, La Messe durant la période de la Réforme et du
concile de Trente: DrhC X/1 (1928) coll. 1085-1142; L. GODEFROY, Eucharistie d'après
le concile de Trente: Ibid. V/2 (1913, 1924) coll. 1326-1356; A. BAUDRILLART,
Calvinisme: Ibid. 11/2 (1923), coll. 1398-1422; B. NEUNHEUSER, Eucharistie in
Mittelalter und Neuzeit: Handbuch der Dogmengeschichte IV/4 b (Herder, Freiburg i.B.
1963); J. PAQUIER, Luther. Le nouveau culte: DThC IX/1 (1926), coll. 1304-1308; J.
POLLET, Zwinglianisme. Eucharistie: Ibid. XV/1 (1950) coll. 3825-3842; A. MICHEL,
Ordre: Ibid. XI/2 (1932), coll. 1333-65.
2 San TOMMASO D'AQUINO, Comm. in Aristotelem, De caelo et mundo, lib. I, cap.
10, lect. 22, n. 8.
3 In Mattheum, lib. I, cap. 2: ML 26, 29.
4 Contra Henricum regem Angliae (1522): W 10/II, 220, 13.
5 «Nec vero pauci refert ne qua ad posteros exeat ullius nos exortae discordiae
suspicio. Plus quam enim absurdum est, postquam discessionem a toto mundo facere
coacti sumus inter ipsa principia alios ab aliis dissilire» (lettera di Calvino a Melantone
del 28 nov. 1552: Corpus Reformatorum, vol. 42, col. 415).
6 E. ISERLOH, Der Kampf um die Messe in den ersten Jahren der
Auseinandersetzung mit Luther (Münster 1952) p. 11: cit. in: NEUNHEUSER, op. cit., p.
53.
7 Ein Sermon von dem neuen Testament, das ist von der heiligen Messe (1520): W
6, 365, 23-25.
8 «Rogemus autem dominum, ut mittat operarios in messem suam et angelos
suos, qui colligant de regno eius omnia scandala. Multa enim sunt valde, sed nunc
nobis unum istud insigne petitur, quod si tulerimus, non unum tulerimus, cum sit
ferme caput omnium» (De abroganda missa privata Martini Lutheri sententia, 1521: W
8, 412, 23-27).
9 «Quod Missa in papatu sit maxima et horrenda abominatio, simpliciter et
hostiliter e diametro pugnans contra articulum primum» (Articuli Smalcaldici, pars II,
art. II, De Missa: J.T. MUELLER, Die Symbolischen Bücher der evangelisch-lutherischen
Kirche deutsch und lateinisch (Gütersloh 192812) p. 301, 1). L'articolo primo è quello
che enuncia la dottrina della giustificazione per sola fede, senza le opere: «Quod Iesus
Christus, Deus et Dominus noster, sit propter peccata nostra mortuus, et propter
iustitiam nostram resurrexit Rom 4; et quod ipse solus sit agnus Dei, qui tollit peccata
mundi Joh. 1, et quod Deus omnium nostrum iniquitates in ipsum posuerit Esaiae
53; Omnes peccaverunt et iustificantur gratis absque operibus seu meritis propriis, ex
ipsius gratia, per redemptionem, quae est in Christo Jesu, in sanguine eius Rom. 3.
Hoc cum credere necesse sit, et nullo opere, lege aut merito acquiri et apprehendi
possit, certum est et manifestum solam hanc fidem nos iustificare ...» (Ibid., p. 300, 1-
4).
10 Il secondo degli Articoli Smalcaldici è tutto dedicato ai «papisti più ragionevoli»
(«sanioribus pontificiis», «vernünftige Papisten») al fine di convincerli che la Messa è
un'invenzione umana. Per Lutero questo è il punto di fondamentale divisione,
destinato addirittura a proiettarsi nell'eternità, per cui, mentre egli si rende conto che
il cattolicesimo fa un tutt'uno con la Messa, si dice disposto a morire piuttosto che
accettare una tale pratica: «Et ego etiam per Dei opem in cineres corpus meum redigi
et concremari patiar prius, quam ut missariorum ventrem, vel bonum vel malum,
aequiparar Christo Jesu, Domino et Servatori meo, aut eo superiorem esse feram. Sic
scilicet in aeternum disiungimur et contraria invicem sumus. Sentiunt quidem optime,
cadente missa cadere papatum. Hoc priusquam fieri patiantur, omnes nos
trucidabunt, si poterunt. Ceterum draconis cauda ista (missam intelligo) peperit
multiplices abominationes et idololatrias» (Ibid., p. 302, 10-11).
11 «Ich sag, das alle gmeyne hewser, die doch gott ernstlich verbotten hat, ja alle
todtschleg, diebstal, mord and eebruch nitt also schedlich seyn als diser grewel des
Papisten Mess» (Predigt am 1. Advent, 27 novembre 1524: W 15, 774, 19-21).
12 Cfr. De captivitate Babylonica ecclesiae praeludium (1520): W 6, 522-523.
13 «Vides ergo, quod Missa quam vocamus sit promissio remissionis peccatorum,
a deo nobis facta, et talis promissio, quae per mortem filii dei firmata sit» (Ibid., p. 513,
34-36).
14 «Repugnat Missam esse sacrificium, cum illam recipiamus, hoc vero demus»
(Ibid., pp. 523-524).
15 La Tradizione aveva sempre interpretato quest'affermazione in perfetta
armonia con la fede nel carattere veramente sacrificale di ogni Messa. La Messa non è
«un altro sacrificio» rispetto a quello irripetibile del Calvario. Sacrificio che ne
denuncerebbe – in modo blasfematorio – l'insufficienza. La sua realtà di sacrificio sta
nell'essere rappresentazione (la rappresentazione di un sacrificio deve essere a sua
volta sacrificale), raffigurazione, del Sacrificio del Calvario e quindi nell'essere –
sacramentalmente – tutt'uno con esso. In questa prospettiva l'«una volta per tutte»
viene ad avere il valore opposto a quello che gli vogliono attribuire i protestanti:
irripetibile come fatto storico definitivamente trascorso nella sua realtà puramente
fenomenica (come sacrificio cruento) è infinitamente ripresentabile nel «sacramento»
(nel rito eucaristico che è sacrificio incruento), perché la sua virtus salvifica è infinita e
trascende lo spazio e il tempo. «Forse che con la Messa sradichiamo la Croce? – dice
san Roberto Bellarmino, il più grande controversista cattolico –. Niente affatto, la
stabiliamo invece [statuimus] (...). Affermiamo che il sacrificio della Croce ha una
efficacia salvifica infinita e eterna (...), neghiamo però che ne consegua che non si
possa, senza offendere la Croce di Cristo, moltiplicare i sacrifici rappresentativi del
sacrificio della Croce che ci applicano i suoi frutti» (De Missa, cap. 25: Respondeo II,
cit. in: S. TROMP, De Christo capite Mystici Corporis (Università Gregoriana, Roma 1960)
pp. 194-195).
16 B. NEUNHEUSER, cit., p. 62. Cfr. anche pp. 54-57; RIVIERE, cit., coll. 1102-1112;
i capitoli dottrinali non promulgati in: BETZ, L'eucarestia come mistero centrale:
Mysterium salutis 8 (Queriniana, Brescia 19772) p. 346.
17 «Sagt uns, yhr pfaffen Baal: Wo steht geschrieben, das die Mess eyn Opffer ist,
odder wo hatts Christus gelernt, das man gesegnet brott und weyn gott opffern soll?
Hort yhr nicht? Christus hatt eyns sich selbst geopffert, er wil von keyn andern
hynnfort werden geopffert. Er wil, das man seyns opffers gedenken soll. Wie seytt yhr
denn so kuene, dass yhr aus dem gedechtnis eyn opffer macht? Sollt yhr aus ewrm
eygen kopff, on alle schrifft, so torich seyn? Denn so yhr aus dem gedechtnis seyns
opffers eyn opffer macht und yhn noch eyns opffert, warumb macht yhr denn auch nit
aus dem gedechtnis seyner gepurt eyn ander gepurt, das er also noch eyn mal geporn
wuerde?» (Vom Missbrauch der Messen, 1521: W 8, 493, 19-28).
18 «I maestri del giovane monaco, Trutvetter, Usingen e Paltz, erano nominalisti
riconosciuti e Martino stesso si vantò di essere "della fazione", della "setta" d'Ockham
(...) P. Denifle fa rilevare, a ragione, che Lutero non conosceva la vera dottrina dei
grandi maestri della teologia medioevale, in particolare quella di san Tommaso» (A. DE
MOREAU, Lutero e il luteranesimo: Storia della Chiesa, a c. di A. Fliche e L. Martin, vol.
XVI, ed. it. SAIE, Torino 1968, p. 46).
19 Cfr. TH. BEER, Der fröhliche Wechsel und Streit. Grundzüge der Theologie Martin
Luthers (Johannes Verlag, Einsiedeln 1980) pp. 526-527.
20 «L'offerimus cattolico (...) contrasterebbe con il principio solus Deus solus
Christus, che in questioni di salvezza deve essere fatto valere in maniera
incondizionata; contrasterebbe anche con la struttura fondamentale dell'evento della
croce, che per sua natura dovrebbe essere determinato non come autosacrificio di
Gesù, ma come sua donazione ad opera del Padre; infine un sacrificio dei cristiani,
soprattutto inteso come sacrificio espiatorio, significherebbe il tentativo di una
rinnovata espiazione e di un completamento del sacrificio della croce, che è
autosufficiente, sarebbe quindi un'opera» (J. BETZ, cit., p. 355).
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 12:23]
09/02/2011 17:44
 
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21 «L'anàmnesis del sacrificio della croce di Cristo viene cioè concepita volentieri
come rendersi presente di quest'ultimo» (Ibidem).
22 Cfr. RIVIERE, cit., coll. 1086-1089.
23 «Par ces inventions et autres semblables, Satan s'est efforcé d'espandre et
mesler ses tenebres en la sacrée Cene de Jesus Christ, pour la corrompre, depraver et
obscurcir: a tout le moins, afin que la pureté d'icelle ne fust retenue et gardée en
l'Eglise. Mais le chef de 1'horrible abomination a esté, quand il a dressé un signe par
lequel ceste sacrée Cene non seulement fust obscurcie et pervertie, mais du tout
effacée et abolie s'evanouist et decheust de la memoire des hommes: c'est assavoir,
quand il a aveuglé quasi tout le monde de cest erreur pestilentieux, qu'on creust la
Messe estre sacrifice et oblation pour impetrer la remission des pechez» (Institution
chrestienne, livre IV, chapitre XVIII, 1: Corpus Reformatorum, vol. 32, col. 1057).
24 «Afin qu'aucun ne soit trompé, j'appelle Messes privées, toutes fois et quantes
qu'il n'y a nulle participation de la Cene de nostre Seigneur entre les fideles, quelque
multitude qu'y assiste pour regarder. (...) Je dy que les Messes privées repugnent à
l'institution de Christ: et pourtant que c'est autant de profanation de la sainte Cene»
(Ibid., coll. 1065-1066).
25 «Ils usent bien du mot de Sacrifice: mais ils declairent quant et quant, qu'ils
n'entendent autre chose que la memoire de ce vray et seul sacrifice qu'a parfait Jesus
Christ en la croix» (Ibid., col. 1068).
26 Cfr. RIVIERE, cit., col. 1096.
27 Ibid., col. 1095.
28 Cfr. GODEFROY, cit., coll. 1341-1342.
29 «Quod Christi corpus per essentiam et realiter, hoc est corpus ipsum naturale,
in coena aut adsit aut ore dentibusque nostris mandatur, quemadmodum papistae et
quidam qui ad ollas aegypticas respectant perhibent, id evro non tantum negamus sed
errorem esse qui verbo Dei adversetur, constanter adseveramus» (cit. in: J.-V.-M.
POLLET, Zwinglianisme: DThC XV/2, col. 3840).
30 Cfr. Gemeinsame römisch-katolische evangelisch-lutherische Kommission,
Das Herrenmahl (Verlag Bonifacius-Druckerei, Paderborn 1979) pp. 85-86.
31 Cfr. B. GHERARDINI, Theologia crucis. L'eredità di Lutero nell'evoluzione teologica
della Riforma (Ed. Paoline, Roma 1978).
32 Cfr. GODEFROY, cit., col. 1352.
33 B. NEUNHEUSER, cit., p. 54. La sottolineatura è mia.
34 Cfr. L'Eucaristia memoriale del Signore, sacrificio di azione di grazia e
d'intercessione (AVE, Roma 19712) pp. 284 ss. Questo è un libro molto importante per
il nostro argomento. L'autore è stato fra gli osservatori protestanti ammessi ai lavori
per la redazione del NOM e le sue idee, soprattutto quelle espresse in questo testo,
hanno certamente avuto una grande influenza. Assieme a Watteville, von Allmen e
altri rappresenta la posizione protestantica più vicina al cattolicesimo in tema di
Eucaristia: una posizione che si è delineata nell'alveo del movimento liturgico e di più
approfonditi studi patristici.
Valutazione cattolica del volume di Thurian in: F.
SPADAFORA, L'Eucaristia nella S. Scrittura (Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo
1971) pp. 25-28. Esprime dubbi sulla sua interpretazione di Calvino B. NEUNHEUSER,
cit., p. 54, nota 18.
35 «Denn alle die, sso den glauben haben, das Christus fur sie ein pfarrer sey ym
hymell fur gottis augen, und auff yhn legen, durch yhn furtragen, yhre gepett, lob, nod
und sich selbst, nit dran zweyffeln, er thu das selb und opffer sich selb fur sie,
nehmen drauff leyplich oder geystliche das sacrament unnd testament als ein zeychen
allis desselbenn, unnd zweyffeln nit, es ist da alle sund vorgeben, gott gnediger vatter
worden und ewiges leben bereyt, sihe, alle die, wo sie sein, das seyn rechte pfaffen,
und halten warhafftig recht mess, erlangen auch damit, was sie wollen» (Ein Sermon
von dem neuen Testament, das ist von der heiligen Messe, 1520: W 6, 370, 16-24). Per
una succinta ma documentata esposizione del pensiero di Lutero sull'argomento cfr.
B. GHERARDINI, La Chiesa nella storia della teologia protestante (Borla, Torino 1969) pp.
46-57.
36 «Dan alle Christen sein warhafftig geystliche stands, unnd ist unter yhn kein
unterscheyd, denn des ampts halben allein, wie Paulus I Corint. XII sagt, das wir alle
sampt eyn Corper seinn, doch ein yglich glid sein eygen werck hat, damit es den
andern dienet, das macht allis, das wir eine tauff, ein Evangelium, eynen glauben
haben, unnd sein gleyche Christen, den die tauff, Evangelium und glauben, die
machen allein geistlich und Christen volck. Das aber der Bapst odder Bischoff salbet,
blatten macht, ordiniert, weyhet, anders dan leyen kleydet, mag einen gleysner and
olgotzen machen aber nymmer mehr ein Christen odder geystlichen menschen. Dem
nach sso werden wir allesampt durch die tauff zu priestern geweyhet» (An den
christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung, 1520: Ibid.,
407, 13-23).
37 «Alle Christen sind priester, Aber nicht alle Pfarrer ... Der beruff and befehl
macht Pfarrer and Prediger» (Der 82, Psalm ausgelegt, 1530: W 31/1, 211). «Dan weyl
wir alle gleich priester sein, muss sich niemant selb erfur thun und sich unterwinden,
an unsser bewilligen und erwelen das zuthun, des wir alle gleychen gewalt haben, Den
was gemeyne ist, mag niemandt on der gemeyne willen and befehle an sich nehmen»
(An der christl. Adel..., cit., p. 408, 13-17).
38 «Si episcopi suo officio rette fungerentur et curam ecclesiae et evangelii
gererent, posset illis nomine caritatis et tranquillitatis, non ex necessitate, permitti, ut
nos et nostros concionatores ordinarent et confirmarent, hac tamen conditione, ut
seponerentur omnes larvae, prestigiae, deliramenta et spectra pompae ethnicae. Quia
vero nec sunt nec esse volunt veri episcopi, sed politici dynastae et principes, qui nec
concionantur et docent, nec baptizant, nec coenam administrant, nec ullum opus et
officium ecclesiae prestant, sed eos, qui vocati munus illud subeunt, persequuntur et
condemnant: profecto ipsorum culpa ecclesia non deserenda, nec ministris spolianda
est. Quapropter, sicut vetera exempla ecclesiae et patrum nos docent, idoneos ad hoc
officium ipsi ordinare debemus et volumus. Et hoc nobis prohibere non possunt, etiam
secundum sua iura, quae affirmant etiam ab haereticis ordinatos vere esse ordinatos,
et illam ordinationem non debere mutari. Et Hieronymus scribit de ecclesia
Alexandrina, eam primum absque episcopis, presbyteris et ministris communi opera
gubernatam fuisse» (Articuli Smalcaldici, pars III, art. X: Müller , cit ., p. 323).
39 «Drumb ist des Bischoffs weyhen nit anders, den als wen er an stat und
person der ganzen samlung eynen ausz dem hauffen nehme, die alle gleiche gewalt
haben, und yhm befilh, die selben gewalt fur die andern auszzurichten (...). Wen ein
heufflin fromer Christen leyen warden gefangen unnd in ein wusteney gesezt, die nit
bey sich hetten einen geweyheten priester von einem Bischoff, unnd wurden alda der
sachen eynisz, erweleten eynen unter yhn er were ehlich odder nit, und befihlen ym
das ampt zu teuffen, mesz halten, absolvieren und predigenn der wer warhafftig ein
priester, als ob yhn alle Bischoffs unnd Bepste hetten geweyhet» (An den christl. Adel
... cit pp 407-408, 29-1). «Si ordo in hoc modo intelligatur, neque impositionem
manuum vocare sacramentum gravemur. Habet enim ecclesia mandatum de
constituendis ministris, quod gratissimum esse nobis debet, quod scimus Deum
approbare ministerium illud et adesse in ministerio» (FILIPPO MELANTONE, Apologia
Confessionis Augustanae, art. XIII (VII): Müller, cit., p. 203, 12-13).
40 Cfr. Catechismo tridentino (Ed. Cantagalli, Siena 1981) parte II, n. 284, PP.
364-367.
41 «Non si deve negare né mettere in dubbio – dice Pio XII – che anche i fedeli
hanno un certo sacerdozio; né è lecito disprezzarlo o svalutarlo. (...) Ma qualunque sia
il vero e pieno senso di questo titolo onorifico e della cosa stessa, bisogna tuttavia
ritenere che questo comune sacerdozio di tutti i fedeli, per quanto alto ed arcano,
differisce non solo nel grado, ma anche essenzialmente dal vero e proprio sacerdozio,
che consiste nel potere di operare il sacrificio dello stesso Gesù Cristo, impersonando
Cristo Sommo Sacerdote» (Alloc. Magnificate Dominum del 2 novembre 1954: Discorsi e
radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVI, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma
1955, p. 248).
L'espressione «non solo nel grado, ma anche essenzialmente» sarà ripresa dal
Vaticano II: LG 10.
42 Cfr. su questo punto L. CRISTIANI-A. GALUZZI, La Chiesa al tempo del Concilio di
Trento: Storia della Chiesa, a c. di A. Fliche e V. Martin, volume XVII (SAIE, Torino
1977), pp. 9-82. «Tutto il programma dei riformatori cattolici è riassunto in queste
righe: non nuove dottrine, perché sarebbe una offesa al Signore Gesù e allo Spirito
Santo pensare che la Chiesa possa essere stata abbandonata al punto di aver perduto
la capacità di insegnare la verità rivelata, ma bensì vita nuova, con il ritorno al perfetto
ideale evangelico» (p. 44).

43 FdC, pp. 419-420.
44 L'espressione non è del Concilio ma del Catechismo tridentino che qui lo
interpreta in modo autorevolissimo: pars II, cap. IV, 76 (trad. it. Cantagalli, cit., p.
292).
45 FdC, p. 421.
46 Il termine repraesentare è portatore di una certa ambiguità, non solo perché
oscilla fra due significati storicamente dati: quello classico di praesens sistere aliquid e
quello moderno di rappresentare, raffigurare, simboleggiare (cfr. BRUNERO GHERARDINI,
Prefectio omnium prefectionum, IV Sent 8, 1, 1, 1 ad 1. La SS. Eucaristia in un recente
volume di Mons. A. Piolanti, in: Divinitas 2 (1984) pp. 157-159), ma anche perché il suo
originario senso forte – che è quello caseliano di Vergegenwärtigung,
Gegenwärtigsetzung – non perde l'allusione ad un render presente in signo, in imagine.
Il termine stesso cioè si trova ad essere portatore di una intrinseca affinità con la
misteriosa dinamica del sacramento che significando causat. Il significato di
«rappresentare» sottolinea che la realtà è resa presente nel modo misterioso del segno.
Quando si traduce repraesentatio con rappresentazione, occorre allora precisare che è
una rappresentazione efficace e di una efficacia non soltanto psicologico-morale. Il
significato di «render presente di nuovo» sottolinea che la realtà stessa irrompe di
nuovo nel presente, creandosi fra la rappresentazione e la realtà una sostanziale
identità.
Per dare ragione però del fatto che questa identità rimane velata nel segno e
non deve essere intesa come una iterazione o come un impossibile annullamento delle
circostanze di spazio e di tempo, occorre qualificarla come «mistica, misterica,
sacramentale».
47 Tuttavia bisogna sottolineare, contro la tendenza odierna a mettere tutti questi
aspetti sullo stesso piano (tendenza a cui il NOM non ci sembra estraneo), come essi si
gerarchizzano sotto la nozione di sacrificio. Solo questa nozione dà il reale significato a
tutti gli altri aspetti secondari. Necesse est invenire principium in omnibus in quibus est
ordo (san Tommaso, In Iohannem, cap. I, lect. I).
48 FdC, p. 411.
49 Ibid., pp. 412-413.
50 FdC, pp. 478-479.

Capitolo
Secondo


UN PROBLEMA DI INTERPRETAZIONE
Il problema è soprattutto ermeneutico. Stiamo infatti parlando
delle critiche che si possono fare, e sono state fatte, ad un testo. È
allora ovvio che i criteri di interpretazione dovranno rivestire un ruolo
fondamentale.
I criteri ermeneutici dovranno essere quelli comuni, ma bisognerà
anche tener conto delle peculiarità di un testo liturgico e di un testo che
emana dal supremo magistero della Chiesa.

Nell'ambito dei criteri comuni rientra per esempio il principio base
che «bisogna interpretare ciò che è confuso alla luce di ciò che è chiaro».
Poi che occorre tenere in debito conto il contesto prossimo (gli elementi
di interpretazione presenti nell'immediata vicinanza: i passi paralleli
dello stesso testo e le note) e quello remoto (soprattutto le interpretazioni
esterne al testo che emanano da chi ne è formalmente l'autore:
interpretatio autentica)1.

Nell'ambito di quelli peculiari, occorrerà tener conto del fatto che
la funzione di un testo liturgico non è direttamente quella di proporre la
dottrina
(non è né un catechismo, né un testo di teologia e neppure può
essere una «definizione dogmatica», che è sempre atto del magistero
formalmente insegnante) ma quella di regolamentare e guidare una
prassi cultuale. La liturgia è soprattutto azione e solo secondariamente,
riflessivamente e radicalmente dottrina.

Occorrerà poi tener conto da chi emana il testo. Nel caso esso è
espressione della suprema autorità della Chiesa. Varrà allora il criterio
«in dubio standum est pro auctoritate» che, se vale per ogni autorità,
vale a fortiori per un'autorità divinamente assistita. Occorrerà tener
conto che il magistero della Chiesa è strutturalmente «tradizionale».
Cioè rimanda, per sua propria natura, a ciò che ha già insegnato per
gettare luce su ciò che sta insegnando. Occorrerà tener conto della sua
unità morale che richiede di leggere un singolo pronunciamento nel
contesto più ampio di tutto il suo insegnamento.

Anche Xavier da Silveira si rende conto dell'importanza dei criteri
di interpretazione e vi dedica un intero capitolo. In particolare esamina
il seguente argomento: «Vi sono nell'Institutio (edizione del 1969 e
soprattutto edizione del 1970) certi passaggi che affermano i principi
tradizionali su quei punti che alcuni pensano esservi esposti in modo
insufficiente o sospetto.
Ora, i testi confusi devono essere interpretati con l'aiuto di testi
più chiari, e quelli che sembrano eterodossi con l'aiuto di quelli che
sono ortodossi.
Così, una volta che il documento è stato considerato nel suo
insieme, non può essere giudicato come sospetto».
«Questa obiezione sembra, a prima vista, così valida che
vorremmo esaminarla qui con tutta la nostra attenzione, consacrandole
un capitolo speciale»2.
Rilevata l'importanza dell'obiezione, che punta il dito sul nocciolo
del problema, l'autore si addentra in una risposta articolata che
esamineremo nel dettaglio.
Innanzitutto fa un'osservazione di fatto: «l'affermazione
tradizionale è in qualche modo (nel nostro testo) messa in secondo
piano rispetto all'affermazione contraria»3. Questo rilievo mi sembra già
evidenziare una certa ambiguità di fondo. Esso infatti può significare
due cose:
a. Accanto alla verità c'è l'errore e l'errore sta in primo piano.
b. La formulazione esplicita dei punti contestati dal protestantesimo è
in una posizione di sottofondo rispetto a formulazioni – in sé non
errate – ma non esplicitamente anti-protestantiche.
Quindi l'autore avanza tre risposte: una di carattere direttamente
ermeneutico, una di ordine storico e una di ordine metafisico.
A. Risposta fondamentale di ordine ermeneutico
La regola invocata (ciò che è confuso deve essere interpretato alla
luce di ciò che è chiaro) è vera, tuttavia essa non si applica sempre e
comunque, ma conosce restrizioni nella sua applicazione. La regola
può essere applicata solo se i passaggi sospetti o eterodossi appaiono
raramente, come per errore.
Essa non ha più valore se i passaggi sono numerosi (ciò che si
produce per errore è – di sua natura – fortuito e non frequente):
allora bisogna ricorrere ad altre regole o criteri di interpretazione.
Allorché questi passaggi confusi, sospetti e eterodossi, considerati
nel loro insieme, formano un sistema dì pensiero, la regola di
interpretazione invocata non è più valida, ma si applica la regola
inversa: è necessario chiedersi se non sono i testi ortodossi che
devono essere interpretati alla luce dei passi confusi, sospetti e
eterodossi.
Mi sembra, in definitiva, che, più che di una vera e propria eccezione
alla regola, si tratti piuttosto di una sua applicazione a livello più
approfondito. Una volta individuato il «sistema» soggiacente ai
numerosi passi confusi, sospetti e eterodossi, allora sono essi,
rispetto ai pochi chiari, a diventare veramente «chiari» e a costituire il
punto di partenza per una corretta interpretazione.
Rileviamo tuttavia come questo «ribaltamento» sia possibile solo nel
caso in cui:
1. Ci si trovi di fronte a passi confusi, sospetti e eterodossi. Cioè
quando il testo, oltre ad essere confuso, presenta anche qualche
punto obiettivamente e inequivocabilmente erroneo.
2. Quando questi passi sono i più frequenti, mentre i passi
ortodossi hanno l'aria di essere degli «obiter dicta».
3. Quando questi passi costituiscono un «sistema».
B. Risposta sul piano della storia: «modus operandi» degli eretici
Tutti gli eretici, almeno fino alla rottura definitiva con la Chiesa
cattolica, hanno cercato di dissimulare le loro vere intenzioni. Gli
eretici poi hanno l'abitudine di ammettere – se necessario – principi
apertamente contraddittori.

C. Risposta che prende come punto di partenza la metafisica neomodernista
Non è solo per tattica che i modernisti accettano la contraddizione
dottrinale, ma anche per sistema. Un esempio significativo lo
troviamo nella riduzione fenomenologica del tomismo, che comporta
una «messa fra parentesi» dell'oggettivismo tomistico.

Fin qui il nostro autore. Vengo ora alle mie osservazioni.
Niente da dire quanto alle risposte B e C. Anche la risposta A
contiene una osservazione verissima. Rilevo soltanto come si tratta solo
apparentemente di una eccezione alla regola: in realtà l'interpretazione
globale dei passi confusi, sospetti e eterodossi, conferisce loro una
nuova chiarezza (accresciuta dal fatto che si trovano in primo piano) e
consentono un'applicazione più approfondita della stessa regola.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 12:39]
09/02/2011 17:45
 
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Tuttavia questo procedimento, in sé validissimo, esige delle
condizioni ben precise:
a. Che vi siano nel testo singoli passaggi che manifestino per se stessi
esplicita opposizione alla dottrina cattolica. Passaggi cioè
chiaramente erronei.
b. Oppure che i singoli passi che possono avere un senso ortodosso,
costituiscano inequivocabilmente un sistema, in modo tale da
rivelarsi, alla luce del contesto, come solo materialmente
interpretabili pro bono, ma formalmente erronei.
Ora, nel caso presente, mi sembra di poter dire che:
1. Nessun passo può essere – preso in se stesso – dichiarato
assolutamente falso. Non è possibile parlare cioè di passi «confusi,
sospetti e eterodossi». Ciascuno anzi può essere interpretato, senza
violentare il testo, in senso cattolico. Qualche passo di difficile – non
impossibile – interpretazione, può essere considerato come «obiter
dictum».
2. L'interpretazione che deve far emergere il «sistema» dominante deve
estendersi a tutto il contesto prossimo e remoto: — Alle note che
costituiscono un elemento importantissimo per ogni interpretazione
e soprattutto per quella di un testo di Magistero
(Xavier da Silveira le
trascura completamente); — Ai documenti in cui l'autore formale del
testo (Papa e Santa Sede) manifesta – anche senza specifico
riferimento al documento in questione – il suo pensiero sulla materia
in oggetto; — Deve tener conto del genere letterario che si desume
non solo dal tono del testo stesso, ma anche (e soprattutto)
dall'intenzione dell'estensore4.

Xavier da Silveira ricorre ad elementi estrinseci al documento per
farne emergere il «sistema»: fa ampio riferimento al commento
Nuevas normas de la misa (BAC, Madrid 1969). Questa scelta non è
arbitraria: fra gli autori vi sono personalità che hanno partecipato ai
lavori di redazione del NOM. Tuttavia si tratta pur sempre di un
«luogo improprio». Chi ha redatto materialmente il NOM, ne è
soltanto l'autore materiale (come si dice che l'allora padre Billot e
padre Lemius siano stati gli «autori» dell'enciclica Pascendi di san
Pio X o padre Tromp della Mystici Corporis di Pio XII) mentre l'autore
formale è il Papa. Un riferimento a queste fonti per orientare la
propria interpretazione può essere utile, ma non è assolutamente
determinante, soprattutto se si tace quasi completamente dei testi
del Magistero che sono il «luogo proprio» da cui desumere il pensiero
dell'autore formale.

3. Una lettura integrale, alla luce di tutto il contesto e prossimo e
remoto, dà ragione insieme: — della fondamentale ortodossia del
sistema; — del perché dell'uso di espressioni edulcorate. La
spiegazione ovvia è l'ecumenismo. Ecumenismo inteso però come
scelta pastorale, non come posizione dottrinale (indifferentismo).
Questo non esclude affatto che altre intenzioni ben più pericolose e
distorte abbiano avuto il loro ruolo nella fase di materiale redazione
del testo. È anzi assai verosimile che le cose siano andate così.
Tuttavia quello che conta è quanto il testo dice oggettivamente come
testo del Magistero, non quanto avrebbero voluto dire alcuni suoi
estensori materiali.
Vedremo infatti, esaminando i principali punti
critici del NOM (soprattutto la Institutio generalis) che: — nessuna
espressione, anche singolarmente presa, è qualificabile come eretica;

— l'ambiguità di molte espressioni si scioglie alla luce del contesto
prossimo e del contesto remoto proprio; — il tutto risulta abbastanza
confuso, ma non di una confusione tale da rendere impossibile ad
una lettura attenta di riconoscere la dottrina cattolica.

Posto che rientra nelle funzioni del magistero quella di chiarire, di
«spezzare il pane», di proporzionare le verità di fede anche ai non
«addetti ai lavori», esso si mostra difettoso quando è bisognoso di
troppo attenta e sofisticata ermeneutica per rivelare le sue vere
intenzioni. Tuttavia un atto anche difettoso non è per ciò stesso
anche inaccettabile.

Una volta invece adottato il criterio ermeneutico che consiste, in
ultima analisi, nel mettere tra parentesi l'origine magisteriale del testo,
per elevare a chiave interpretativa la lettura progressistica più radicale,
si impongono conseguenze assai gravi:

1. Il NOM e, in modo particolare 1'IGMR, anche se le loro singole parti
possono essere intese in senso cattolico, costituiscono nell'insieme
un testo eretico. L'eresia non si esplicita in nessuna delle singole
affermazioni (o almeno assai raramente), tuttavia risulta chiaramente
da un esame di insieme. Si tratta insomma di un testo che è
«occultamente» eretico. Potremmo quindi dire: favens haeresi in
senso intrinseco.
2. Quindi, posto che il testo è stato promulgato dal Papa e accettato dai
suoi successori e dall'unanimità dei vescovi residenziali, oltre che
dall'unanimità morale dei fedeli (si consideri che non tutti i fedeli che
assistono anche abitualmente alla Messa tradizionale oppongono un
rifiuto di principio al NOM), discendono da queste altre conseguenze
ecclesiologiche:
− Il papa, tutti i vescovi residenziali e la totalità morale dei fedeli
sono almeno eretici materiali.
− Il fedele cattolico si può oggi salvare nella misura in cui: o rompe
ogni comunione liturgica con la gerarchia e la maggioranza dei
fedeli della Chiesa cattolica romana, o agisce in stato di ignoranza
invincibile (né più né meno come il fedele di una qualsiasi setta).
− La Chiesa gerarchica e visibile avrebbe dunque cessato di essere
vivente mezzo di salvezza. Non ci si salva più mediante essa, ma
nonostante essa.
Né l'una né l'altra di queste conseguenze è esplicitamente tratta
dal nostro autore. Mi sembra che questo derivi anche dalla natura
interlocutoria dell'opera. Nella sua intenzione originaria essa voleva
provocare un salutare dibattito sulla questione, che purtroppo non si è
sviluppato. Tuttavia esse si impongono – mi pare – a fil di logica.
1 «Leges ecclesiasticae intelligendae sunt secundum propriam verborum
significationem in textu et contextu consideratam; quae si dubia et obscura manserit,
ad locos parallelos, si qui sint, ad legis finem ac circumstantias et ad mentem
legislatoris est recurrendum» (Codex Iuris Canonici, can. 17). Il nuovo Codice riprende
il vecchio can. 18 del Pio-benedettino, estendendo semplicemente – come è nella
natura delle cose – il contesto a tutto l'ambito delle leggi ecclesiastiche e non soltanto
a quello del Codice.
2 ARNALDO XAVIER DA SILVEIRA, op. cit., p. 43.
3 Ibid., p. 44.
4 Cfr. la Dichiarazione della Congregazione per il Culto Divino «Institutio
generalis» del 18 novembre 1969: EV 3, pp. 1272-1273 in nota. Cfr. anche Missale
Romanum: EV 3, 1000. Questi testi sottolineano il carattere più pratico-descrittivo che
dottrinale dell'Institutio generalis. La versione italiana ufficiale del 1973 ha tradotto
Institutio generalis con «Principi e norme per l'uso del Messale Romano» confermando
questa tendenza a ridurre la portata dottrinale del documento.
Capitolo
Terzo
SACRIFICIUM MISSAE
MEMORIALE MORTIS DOMINI
«L'eucaristia è soprattutto un sacrificio» (Dominicae Cenae: App.
28). Per comprendere questa verità che fa eco oggi, sulla bocca del
Papa, all'affermazione solenne del Concilio di Trento e di tutta la
Tradizione della Chiesa, ci dobbiamo riportare «in illo tempore»,
all'avvenimento istitutivo: all'Ultima Cena e, in particolare, alle parole
che hanno istituito il «mysterium fidei».
Qualcuno (Bouyer) ha criticato la teologia eucaristica classica
giudicandola impoverita, circoscritta com'è a pochi passi scritturistici e,
soprattutto, alle parole dell'istituzione. Ora, se è vero che un
allargamento del quadro, soprattutto nella direzione delle tradizioni
liturgiche, non può che giovare all'approfondimento, ciò non toglie che
le parole e il gesto dell'istituzione «concentrano» in sé tutto il mistero
dell'eucaristia, in modo tale che sacramento e sacrificio trovano lì la loro
sorgente, il loro essere e il loro significato.
Il sacrificio della messa si attua tutto nell'azione sacra della
consacrazione. Così come il sacramento si fa con la consacrazione.
Facendo il sacramento si offre il sacrificio. «Rendendo veramente
presenti il Corpo e il Sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino,
(...) (la celebrazione eucaristica) rende – nello stesso tempo – attuale e
accessibile, alla nostra generazione, il Sacrificio della Croce» (Giovanni
Paolo II: App. 29).
Andiamo dunque all'Ultima Cena. Già il contesto di
quell'avvenimento parla un chiarissimo linguaggio sacrificale. Il Signore
compie quel gesto e pronuncia quelle parole nel rito della Pasqua
ebraica. Rito complesso, ma, innanzitutto, manducazione dell'agnello
precedentemente sacrificato nel Tempio. Il banchetto dipende da quel
sacrificio, da cui trae tutto il suo significato. Si tratta di un «convito
sacrificale».
Quando Gesù, in due momenti distinti (gli esegeti discutono
attorno alla loro esatta collocazione nella sequenza rituale), compie il
gesto di prendere del pane e del vino accompagnando questo gesto con
parole che ne determinano il significato, compie un «gesto simbolico», o
meglio, un «gesto profetico». Segno profetico del tipo di quelli che si
ritrovano spesso nella S. Scrittura (si pensi a Osea) col particolare,
peculiare, valore di segni che non si limitano a favorire l'apprendimento
di un insegnamento, ma denunciano e attuano un intervento di Dio.
Gesù annuncia, profetizza, il sacrificio dell'indomani e, nello stesso
tempo, lo rende misteriosamente già attuale. Il significato sacrificale del
suo gesto è palese. Risulta dall'insieme e anche da ogni singola parte. Il
pane è il suo corpo (forse «carne», basar) «dato», offerto, «per voi».
Nell'offerta del calice si ha «per molti», evidente richiamo ad una
importantissima profezia dell'AT, quella del Messia – «servo sofferente»,
che si sacrifica per i peccatori, di Is 53. «Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo
giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in
premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato
se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli
portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori» (53, 11-12).
Nel
richiamare le parole della profezia, Cristo chiaramente manifesta di
compierla in quell'atto stesso. Il sangue è «per la nuova ed eterna
Alleanza», riferimento trasparente al gesto di Mosè che sancisce
l'Alleanza con Dio aspergendo con il sangue delle vittime sacrificate
l'altare e il popolo (cfr. Es 24, 3-8). Anche pane e vino in quanto alimenti
hanno (sempre nel contesto biblico) un significato sacrificale: il pane si
spezza per distribuirlo. Il vino è il sangue dell'uva (cfr Gen 49, 11). Il
calice dice sofferenza («Padre (...) allontana da me questo calice!» Lc 22,
42). I due segni combinati insieme accentuano questo significato: carne
e sangue sono i due elementi del sacrificio espiatorio (cfr. Lv 1, 2-9). La
loro presenza separata parla un chiaro linguaggio di morte. In forza
delle parole infatti sono resi presenti separatamente corpo e sangue: per
concomitanza naturale poi sotto le specie del pane è reso presente
anche il sangue e viceversa. In forza dei simboli messi in opera dunque,
che sono «simboli di morte» (Mediator Dei), è direttamente la morte
sacrificale ad essere significata e, per essa, è significato il sacrificio nella
sua globalità. Il sacrificio nella sua globalità comporta l'accettazione da
parte di Dio. Questa accettazione è implicata nella Risurrezione, che si
inserisce così in pieno nella dinamica del sacrificio. È dunque vero che
la Messa è «memoriale mortis et resurrectionis», anche se, nella misura
in cui i due aspetti sono messi sullo stesso piano, non si rende con
precisione il fatto che essa è «direttamente» memoriale della morte e solo
«per concomitanza» della Risurrezione.
È un limite della terminologia
dell'IGMR e anche del rito. Il Canone Romano dice, con molta finezza
(nell'originale latino però ...): «unde et memores (...) tam beatae
passionis, nec non et ab inferis resurrectionis».
Il pane e il vino, mentre hanno un indubbio significato sacrificale,
non cessano di essere alimenti. Segno che sono stati prescelti perché la
partecipazione al sacrificio possa perfezionarsi mediante la
manducazione («prendete e mangiate...»). Il sacrificio è «sacrificio
conviviale»1.
Abbiamo detto che il gesto di Cristo è un «gesto profetico» che, nel
ricordare le antiche profezie e fatti profetici, le compie, indicando ed
attuando l'intervento divino che è la realtà prefigurata. È dunque un
segno che attua ciò che significa. In altri termini, un «sacramento».
San Tommaso e, sulla sua scia, il Concilio di Trento, distinguono
nell'eucaristia sacrificio e sacramento.
Si tratta di una distinzione
importante: negarla, o anche minimizzarla, è un errore pericoloso2.
Tuttavia questa distinzione deve guardarsi bene dal diventare
separazione, dimenticando che si tratta di aspetti intimamente
congiunti in una stessa realtà. Essi si richiamano a vicenda e non è
possibile comprendere adeguatamente l'uno senza aver presente anche
l'altro. Questa verità ha subito un certo oscuramento nel periodo posttridentino,
in cui la distinzione si è accentuata in modo un po'
unilaterale, mentre è evidente in san Tommaso: per lui l'eucarestia è
insieme sacrificio e sacramento
«quod quidem et offertur ut sacrificium,
et consecratur ut sacramentum» (III q. 83, a. 4 c). Sono due formalità di
una stessa concreta realtà, due formalità che ne designano l'aspetto
anabatico (ascendente) di sacrificio offerto dall'uomo a Dio, e l'aspetto
catabatico (discendente) di strumento mediante il quale Dio opera la
santificazione dell'uomo. È il sacramento stesso, preso nella sua
totalità, che è sacrificio. Il che implica, reciprocamente, che il sacrificio è
tutto intero nel sacramento3.
È merito del card. Billot l'aver riportato, in linea col rinnovamento
tomistico,
la ratio sacrificii nell'ambito della sacra-mentalità4. Se
l'eucaristia è un sacramento, la sua natura sacrificale deve essere, alla
radice, sacramentale.
Il rito eucaristico è rappresentativo del Sacrificio
del Calvario. Lo rappresenta e lo ri-presenta. È segno efficace della
Passione di Cristo5.
Per comprendere come la natura sacrificale della eucaristia si
inscriva nella sacramentalità è opportuno ricostruire a grandi linee la
struttura del sacramento, seguendo sempre le orme del Dottore
comune.
Nella teologia tomistica sono fondamentali due nozioni per
comprendere il sacramento. Quella di segno e quella di strumento. Il
sacramento è innanzitutto segno e poi strumento.
È infatti strumento
nelle mani di Dio per causare la grazia in quanto innanzitutto significa,
rappresenta, questo intervento di Dio che salva. L'intervento
fondamentale è l'Incarnazione
(con tutta l'opera della Redenzione che ne
segue), per cui i sacramenti possono essere detti «reliquiae
incarnationis». La causalità del sacramento si trova così, in qualche
modo, in dipendenza dal suo significato: produce quello che significa,
significandolo (significando causat, causando significat).
Il sacramento però è un segno molteplice. Rimanda direttamente al
gesto del Verbo Incarnato, che rende presente significandolo. In questo
modo rende possibile che questo gesto, evocato e ri-presentato, produca
il suo effetto. Quindi non rimanda a questo effetto (grazia) che in quanto
significa e rappresenta la causa che lo produce, dunque indirettamente.
È quanto insegna san Tommaso quando definisce il sacramento «segno
di una realtà che santifica l'uomo» (III q. 60, a. 2 c; a. 3, ob. 2 e ad 2).
Questo doppio significato fondamentale del sacramento (1. Gesto
di Cristo reso presente significandolo, 2. Produzione dell'effetto
significato nella significazione rappresentativa della causa) si esprime in
una classica tripartizione.

Essa affonda le sue radici nella speculazione
medioevale, gioca un ruolo fondamentale nella teologia tomistica ed è
ancora merito del Cardinal Billot l'averla riportata in auge a dar nuova
prova della sua fecondità.

È la tripartizione in sacramentum tantum, res
et sacramentum, res tantum.
Il sacramentum tantum è il segno sacramentale nella sua realtà
sensibile e percepibile in quanto segno. Materia, gesto parole. «Materia e
forma» secondo un'applicazione analogica del binomio ilemorfico
mutuato dalla cosmologia.
La res et sacramentum è la realtà direttamente significata. Realtà
che opera la santificazione dell'uomo e la gloria di Dio. Se a fondamento
vi è l'Incarnazione con tutta l'opera della Redenzione, la realtà
direttamente significata è sempre la Passione, in quanto la sola
formalmente meritoria.
La res tantum è la realtà significata nella precedente, in quanto da
essa procede. È la grazia che santifica l'uomo e costruisce la Chiesa.
Quando si dice che il segno rende presente l'evento salvifico,
bisogna intendere questo non nella sua fattualità storica, e è irripetibile,
ma nella realtà soprastorica ormai raggiunta in Cristo, Verbo di Dio
incarnato, morto e risorto. L'oblazione di Cristo è ormai
inscindibilmente legata alla sua persona. Il Risorto, che siede alla destra
del Padre, continua ad offrire il suo sacrificio. Il sacramento lo rende
presente, cioè Cristo lo offre di nuovo al Padre attraverso la persona del
ministro e il segno sacramentale.
Il merito di aver recentemente esplicitato questo aspetto è del
p. Garrigou-Lagrange6. Ripresentando il sacrificio di Cristo, il rito
consacratorio rende a Dio un culto perfetto. Lo stesso identico a Lui
reso sul Calvario. Nello stesso tempo l'evento ri-presentato è causa di
salvezza per chi vi partecipa con le dovute disposizioni. Sia offrendo con
e per mezzo del sacerdote. Sia, soprattutto, partecipando al banchetto
sacro che è la logica conseguenza del sacrificio. Non solo: essendo
applicazione del sacrificio del Calvario, il sacrificio della Messa può
essere offerto anche per i vivi non presenti e per i defunti e – in quanto
offerto sempre a nome della Chiesa – giova di fatto sempre a tutta la
Chiesa.
Questo aspetto di culto a Dio è presente in ogni sacramento.
Come in ogni sacramento è presente il riferimento al sacrificio di Cristo.
Solo questo però è il «sacramentum perfectum passionis» (III q. 73, a. 5
ad 2), perché contiene il protagonista stesso dell'evento salvifico
commemorato: Cristo in corpo, sangue, anima e divinità (sacramentum
perfectum Dominicae passionis tanquam continens ipsum Christum
passum).
Questo «sacramento della Croce»non è dunque una nuda
commemorazione per due motivi:
a. Uno comune a tutti i sacramenti: perché contiene la virtus salvifica
che profluisce dall'evento riattualizzato.
b. L'altro suo specifico: perché «continet ipsum Christum passum». Da
intendersi non di un Cristo attualmente sofferente, ma di un Cristo
che, in virtù della sua passione, continua a meritare davanti al
Padre. Il Cristo presente nell'eucaristia è il Cristo glorioso. Tuttavia
sempre offerente al Padre il suo sacrificio. L'evento è ripresentabile in
quanto «eternizzato» nella persona del suo protagonista.
Alla luce di quanto abbiamo detto si comprende facilmente come
il sacrificio della Messa sia, in se stesso, immolazione. Abbia cioè un
valore assoluto di sacrificio senza essere «un altro» sacrificio rispetto a
quello del Calvario. È sacrificio in quanto il segno sacramentale realizza
nel modo suo proprio l'atto compiuto allora da Cristo sul Calvario,
ripetendo il «gesto profetico» dell'Ultima Cena. È proprio del sacramento
realizzare rappresentando: «imago quaedam est repraesentativa
passionis Christi, quae est vera eius immolatio» e producendo: «per hoc
sacramentum particeps efficimur fructus Dominicae passionis» (III q.
83, a. 1 c). È dunque nell'ordine del segno che la Messa è immolazione.
Appunto: immolazione sacramentale (o «mistica»). Non nell'ordine reale,
altrimenti ci troveremmo di fronte fatalmente ad «un altro» sacrificio. Il
sacrificio sacramentale non contraddice all'unicità del Sacrificio di
Cristo per la semplice ragione che, non essendo dello stesso ordine, non
si può «sommare» con lui. Due realtà di ordine diverso non possono
entrare in concorrenza. E questo vale anche per il gesto dell'Ultima
Cena, che non costituisce, sacramentalmente, un'altra cosa rispetto al
Sacrificio del Calvario, anche se la sua collocazione temporale (prima
del Calvario) lo connota differentemente rispetto alle Sante Messe
celebrate in seguito. È anticipazione e non ancora memoria. Rispetto
all'Ultima Cena la Messa «ripete», mentre rispetto al Calvario
«ripresenta».
Il sacrificio è lo stesso («unum et idem» dice il Catechismo
tridentino) ma compiuto in due modi differenti: nell'Ultima Cena e nella
Messa nel modo del segno e del rito sacramentale (modo «incruento»);
sulla Croce nella realtà della vita e della storia (modo «cruento»).
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 13:10]
09/02/2011 17:47
 
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«Il primo di questi due modi è ordinato al secondo nel quale si
compie, trovandovi il suo significato e la sua piena realizzazione. E il
secondo, quello del sacrificio di Cristo in Croce, è destinato ad
estendersi a tutti gli uomini. Ora, è proprio il gesto sacramentale della
Cena rinnovato alla Messa, in tutte le Messe, come era stato prefigurato
dai sacrifici rituali dell'Antica Alleanza e della legge di natura, che
permette a Cristo di estendere il sacrificio della sua vita a tutti i membri
del suo Corpo Mistico e, con ciò, di prendere e di ricapitolare tutti i loro
sacrifici per offrirli al Padre nel suo»7

Abbiamo detto che il sacramento è un segno molteplice. Questa
caratteristica si manifesta anche nel suo snodarsi lungo un'altra linea:
quella che potremmo chiamare delle tappe della salvezza. L'evento
passato agisce nel presente per compiersi definitivamente nel futuro.

«Unde sacramentum est et signum rememorativum eius quod
praecessit, scilicet passionis Christi; et demonstrativum eius quod in
nobis efficitur per Christi Passionem, scilicet gratiae; et prognosticum,
idest praenuntiativum, futurae gloriae» (III q. 60, a. 3 c).
L'aspetto prognostico è stato particolarmente sottolineato dal
NOM rispetto al vetus ordo.
Lo constatiamo, per esempio in tre punti:
1. In due delle acclamazioni previste dopo la consacrazione (la prima,
che è la più frequentemente usata, dice: «Annunziamo la tua morte,
Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua
venuta»);
2. Nelle parole che precedono la comunione: «Ecce Agnus Dei, ecce qui
tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt», dove il
riferimento a Apoc 19, 9 è evidentissimo: il banchetto eucaristico è
anticipazione del «banchetto delle nozze dell'Agnello» escatologico;

3. Nell'aggiunta apportata alla preghiera dopo il Pater: «Liberaci, o
Signore, da tutti i mali, concedi benigno la pace ai nostri giorni:
perché con il soccorso della tua misericordia, sempre liberi dal
peccato e sicuri da ogni turbamento, viviamo nella attesa che si
compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo».
La nozione di sacramento si trova in strettissima relazione (e
dipendenza) con la nozione di «memoriale». È questo un concetto molto
importante in se stesso e in relazione al nostro tema specifico. Sarebbe
troppo lungo seguirne le vicende nella Scrittura e nella Tradizione: ci
limitiamo qui a fornire delle conclusioni8.
Il concetto di memoriale biblico implica:
a. Un aspetto «reale»: di cosa, gesto, rito che opera il ricordo.
b. Un aspetto di efficacia oggettiva: non soltanto in virtù della
considerazione del soggetto.
Dunque il «memoriale» non deve essere confuso con un semplice
ricordo soggettivo, psicologico. È una oggettiva ripresentazione. Il
termine ha declinato in senso soggettivo-psicologico per influsso della
deviazione nominalistico-concettualistica del pensiero occidentale (le
essenze universali si risolvono nelle idee della mente).
Nel memoriale biblico troviamo tutte le caratteristiche del
sacramento, per cui i termini diventano pressoché sinonimi. Il
memoriale, come il sacramento, è innanzitutto una realtà oggettiva
(gesto, parole, cose); una realtà oggettiva che si ricollega ad un evento
passato per renderlo in qualche modo presente con una sua efficacia
indipendente dalla considerazione del soggetto. È un rito che perpetua
l'avvenimento salvifico passato, costituendone quindi un «ricordo»
oggettivo (aspetto anamnestico), che è strumento del suo influsso sul
presente (aspetto dimostrativo) nella prospettiva del suo definitivo
compimento futuro (aspetto prognostico).
Naturalmente c'è il problema che il termine «memoriale» non ha
più oggi lo stesso valore semantico.
Ed ha cominciato a non averlo ben
presto, se è vero – come pensa p. Bouyer – che l'inserimento di termini
esplicitamente sacrificali nella preghiera eucaristica fu come una
traduzione per gli ambienti ellenistici della nozione biblica di
«memoriale»9. Esso richiede dunque una catechesi attenta e insistente
per evitare di essere inteso come semplice ricordo soggettivo.

Rimane la sua utilità ecumenica (oltre che l'indubbia profondità
teologica che racchiude). Ma anche questa non è priva di ambiguità: se
da una parte certi teologi protestanti hanno riscoperto tramite il
«memoriale» biblico il valore sacrificale della Messa, continua però il
rifiuto della sua efficacia propiziatoria e quindi del suo valore
propriamente «sacramentale»10.
A noi però interessa soprattutto constatare come l'uso del termine
non comporta affatto la negazione del carattere sacrificale
dell'eucaristia11.

1 Cristo, dicendo «fate questo», non si riferisce al contesto del banchetto – che era
la parte caduca, legata al rito ebraico, di quanto stava facendo – ma al «gesto
simbolico» appena compiuto. Il gesto, che si riferiva al Calvario, dava un significato
nuovo (quello vero rispetto alla «figura» costituita dal rito ebraico) alla Pasqua e
costituiva l'elemento fondamentale e da ripetersi come «memoriale». Questa
osservazione ha una notevole importanza per i suoi risvolti rituali. Il «segno
fondamentale» del sacrificio eucaristico non è il banchetto – che sarebbe segno del
sacrificio solo in virtù della relazione essenziale fra Cena e Calvario – ma la preghiera
eucaristica, che, nella sua essenza, si risolve nella consacrazione. La consacrazione è
essa stessa un sacrificio (anche se sacramentale) e, in quanto sacrificio, memorialerinnovazione
del Sacrificio del Calvario. Il segno, per essere segno di un sacrificio, deve
essere esso stesso sacrificale. Ciò che fa della Messa un sacrificio non è il solo fatto
che essa «fa riferimento» all'oblazione del Calvario. Anche l'affermazione che la Messa è
un «sacrificio relativo»può essere ambigua. La Messa infatti è un sacrificio in quanto è
rappresentativa del Calvario. Ora, la rappresentatività è una relazione «secundum
dici», cioè tale da comportare in se stessa l'ordine alla realtà rappresentata. La Messa è
costituita dunque «in esse sacrificii» da ciò che fonda la sua relazione all'immolazione
della Croce come alla realtà rappresentata: cioè dal segno sacramentale. Il puro e
semplice fatto di essere ripetizione dell'Ultima Cena che si trova nel contesto del
Sacrificio del Calvario non è sufficiente per fare della Messa in se stessa (anche se
sacramentalmente) un sacrificio. Un banchetto non è, di per sé rappresentativo di un
sacrificio (cfr. L. BILLOT, De Ecclesiae sacramentis, t. I [Roma 19246] p. 624, n. 1).
Evidentemente il fatto che la «materia» sia costituita da alimenti implica una
fondamentale relazione con un banchetto, che però, nella struttura del segno, è
l'elemento secondario, derivato, non quello principale. Il non aver tenuto conto di
questo ha condotto a una incomprensione per certi aspetti rituali tradizionali e ad un
accentuarsi squilibrante degli aspetti conviviali nella celebrazione eucaristica. Cfr. J
.
RATZINGER, Das Fest des Glaubens (Einsiedeln 1981) pp. 31-54.
2 «Il Concilio di Trento restando legato a questa distinzione di origine teologica e
non basata in alcun modo sulla fede nell'eucaristia, quale si poteva dedurre dalla
Scrittura e dalla Tradizione della Chiesa, ha fatto il gioco dei protestanti»
(S. MARSILI,
Teologia della celebrazione dell'eucaristia, in Anamnesis 3/2 [Casale Monferrato 1983]
p. 62). Il rifiuto di questa distinzione conduce, puramente e semplicemente, a
obliterare l'aspetto anabatico: il sacrificio si rende di nuovo presente e vi si partecipa
nel sacramento, ma non è di nuovo offerto a Dio. In sostanza si ricalcano le orme di
Lutero.
3 Cfr. III q. 80, a. 12, ad 3; q. 82, a. 10 c e ad 1. Questo importante punto di
dottrina contribuisce a risolvere un dubbio corrente in certi ambienti tradizionalisti. Si
ammette generalmente che la Messa celebrata secondo il NOM è valida. Ma ciò non
significa ancora – si dice – che sia «buona». Una Messa valida può essere cattiva e
costituire una «offesa per Dio» anziché l'atto di adorazione per eccellenza quando è
celebrata illegittimamente o con intento blasfematorio. Sarebbe questo il caso della
«Messa nera». Anche il NOM rientrerebbe in questa categoria di riti validi ma negativi
nei loro effetti. Di qui il rifiuto assoluto. Ora, abbiamo visto che l'Eucaristia si realizza
tutta nella consacrazione. L'Eucaristia come sacramento (presenza di Cristo che si dà
in cibo per i fedeli e si offre alla loro adorazione), l'Eucaristia come sacrificio (presenza
di Cristo che si offre al Padre per la salvezza degli uomini). Se il gesto consacratorio è
valido, esso realizza il sacramento e il sacrificio con tutto il suo infinito valore
latreutico e propiziatorio, di gloria resa a Dio e di salvezza per l'uomo. Mi pare
contraddittorio perciò ipotizzare una Messa valida ma offensiva nei confronti di Dio.
Non vale invocare contro questa osservazione, che sorge sempre spontaneamente nella
reazione di puro buon senso della gente semplice (se è valida allora è buona!), che si
dà anche la Messa valida ma illegittima. La Messa .illegittima è una Messa celebrata o
da una persona non autorizzata (per esempio un sacerdote sospeso a divinis o
scismatico) o mediante un rito non autorizzato. Concerne elementi esterni al rito o
comunque attinenti al modo, non alla sostanza. La Messa, se c'è, è, in se stessa,
santa.
Né vale invocare il caso della Messa nera, cioè di una messa la cui intrinseca
finalità è di rendere culto al Demonio offendendo Dio. Prima di tutto perché non è ad
rem, poi – mi pare – per una ragione teologica di fondo: una consacrazione attuata con
l'intenzione di offendere Dio non può essere una consacrazione, perché l'intenzione –
intendo l'intenzione che si manifesta nel contesto prossimo del rito – contraddice il
significato oggettivo del gesto, vanificandolo nella sua essenza di segno. Sarebbe un
altro segno e, quindi, privo del contenuto sacro che gli compete in quanto è quel segno.
La Messa nera – a mio sommesso avviso – non può essere che una parodia blasfema,
oppure la profanazione di ostie precedentemente consacrate nel contesto di un rito
veramente sacro. Sul problema della Messa nera cfr. EGON VON PETERSDORFF,
Dämonologie, vol. II (Christiana-Verlag, Stein am Rhein 19822) pp. 91-92.
4 «... oblationis essentiam in eo reperiri, unde habet Eucharistiae celebratio ut sit
passionis Christi memoriale et imago. Hoc accipimus ex doctrina Patrum asserentium,
incruentum sacrificium esse antitypum passionis, et repraesentationem mortis
Unigeniti per mysterium». «... Missam inde habere quod sit verum et proprium
sacrificium de praesenti, unde habet esse vivan imaginem unici illius sacrificii cuius
memoria erat conservanda in populo redempto» (De Ecclesiae sacramentis I, cit., pp.
623-624).
5 Ecco qualche riferimento tomistico: «Sacrificium autem quod quotidie in
Ecclesia offertur, non est aliud a sacrificio quod ipse Christus obtulit, sed eius
commemoratìo. Unde Augustinus dicit, in X de Civ. Dei: Sacerdos ipse Christus
offerens, ipse et oblatio: cuius rei sacramentum quotidianum esse voluit Ecclesiae
sacrificium». (III q. 22, a. 3, ad 2); «Eucharistia est sacramentum perfectum Dominicae
passionis, tanquam continens ipsum Christum passum» (III q. 73, a. 5 ad 2);
«Sacramentum illud fuit institutum in Cena ut in futurum esset memoriale Dominicae
passionis, ea perfecta»(Ibid., ad 3); III q. 75, a. 1 c primo; «Hoc sacramentum non
solum est sacramentum, sed etiam est sacrificium. Inquantum enim in hoc
sacramento repraesentatur passio Christi... habit rationem sacrificii; inquantum vero
in hoc sacramento traditur invisibilis gratia sub visibili specie, habet rationem
sacramenti. Sic ergo hoc sacramentum sumentibus quidem prodest et per modum
sacramenti et per modum sacrificii, quia pro omnibus sumentibus offertur ... Sed aliis,
qui non sumunt, prodest per modum sacrificii, inquantum pro salute eorum
offertur...» (III q. 79, a. 7 c); III q. 79, a. 2 c, ad 1 e ad 2; «Hoc sacrificium, quod est
memoriale Dominicae passionis...»(III q. 79, a. 7, ad 2); Ibid. ad 1 e ad 3; q. 83, a. 1 c.
Su questo aspetto della dottrina di san Tommaso si veda: J.P. NAU, Le mystère du
Corps et du Sang du Seigneur (Solesmes 1976).
6 Cfr. De Eucharistia (Torino 1943) pp. 290-300.
7 J. DE SAINTE-MARIE, L'Eucharistie salut du monde (Parigi 1982) pp. 292-293. Per
tutta questa esposizione siamo ampiamente debitori a questo libro.
8 Verificabili per esempio in: E. GALBIATI, L'Eucaristia nella Bibbia (Milano 1982)
pp. 27-35,180-187; A. PIOLANTI, Il mistero eucaristico (Vaticano 19833) pp. 56-61,74-
78; B. GHERARDINI, Eucaristia ed ecumenismo, in: Il mistero eucaristico, cit., pp. 643-
649. Chi desidera una documentazione più abbondante vedrà: M. THURIAN,
L'Eucaristia memoriale del Signore, cit. e O. CASEL, Das Mysteriengedächtnis des
Messliturgie im Lichte der Tradition, in: Jahrbuch für Liturgiewissenschaft 6 (1926) pp.
113-204.
9 «Bisognerà dunque aspettarsi di veder sorgere nell'anamnesi (...) le prime
formule esplicitamente sacrificali dell'eucaristia. Esse non saranno altro che la
traduzione, in un linguaggio più immediatamente accessibile per i non-ebrei, di tutto
ciò che il memoriale giudaico implicava» (Eucaristia. Teologia e spiritualità della
preghiera eucaristica [Torino – Leumann 1969] p. 165).
10 Cfr. l'attenta analisi a cui B. GHERARDINI sottopone il documento di Lima del
1982, espressione di convergenza ecumenica fra le maggiori confessioni cristiane su
Battesimo, Eucaristia e ministero: Eucaristia ed ecumenismo, cit., pp. 637-649. Nel
documento la nozione di memoriale svolge un ruolo importantissimo, per cui vi si
afferma che: «L'Eucaristia è il sacramento del sacrificio unico di Cristo». Viene però
subito precisato che «quello che Dio ha voluto compiere nell'incarnazione, nella vita
morte risurrezione ascensione di Cristo, egli non lo ripete. Questi avvenimenti sono
unici e non possono essere né ripetuti né prolungati». Sacramento allora non è più
qualcosa che «manifesta e compie», come il concetto di memoriale perentoriamente
suggerisce. L'evento rimane chiuso in se stesso e il memoriale torna fatalmente ad
essere un ricordo privo di verità. Così M. THURIAN, mentre sottolinea il valore
sacramentale dell'Eucaristia-memoriale, non può trattenersi dall'affermare che «non è
un sacrificio espiatorio» (L'Eucaristia ..., cit., p. 245). Cfr. anche L. MEROZ, Recensione
a F.-J. Leenhardt, Ceci est mon corps, Neuchâtel 1955, in: Nova et Vetera 1 (1956) pp.
76-80.
11 È anche l'opinione di GHERARDINI: «A proposito della discussione sul sacrificio,
e intendo sul sacrificio eucaristico, mi dissocio nettamente da quei cattolici che
gridano allo scandalo soltanto perché la riforma liturgica parla di "memoriale", e le
rimproverano perciò d'aver ridotto la messa a pura commemorazione dell'ultima Cena
e, in essa, del sacrificio della Croce. La ragione del mio dissociarmi insorge dall'idea
biblica di memoriale...»
(op. cit., p. 643).

Capitolo
Quarto

NOVUS ORDO MISSAE
E SACRIFICIO

Punto critico (cioè di distinzione) fra dottrina cattolica e pensiero
protestantico è il carattere propriamente sacrificale del rito eucaristico.
Come abbiamo visto (capp. I e III) il problema non consiste tanto in una
pura e semplice contrapposizione fra commemorazione e sacrificio. Né i
cattolici rifiutano assolutamente la nozione di commemorazione, né i
protestanti quella di sacrificio. La questione verte piuttosto sul
contenuto preciso di queste nozioni. Per il cattolico la Messa non è un
puro ricordo psicologico-soggettivo, ma è piuttosto un ricordo oggettivo
che rende presente ciò che è ricordato. Per il protestante si può parlare
di sacrificio solo in un senso lato: sacrificio-preghiera. Quindi, in questo
senso, sacrificio di lode, sacrificio di ringraziamento. Mai sacrificio
propiziatorio o espiatorio.
Di qui l'importanza di due concetti: quello di «memoriale» e quello
di «sacrificio propiziatorio o espiatorio».
Sul problema dell'Eucarestia-sacrificio, Xavier da Silveira avanza
fondamentali riserve nei confronti del NOM.
Esse possono ridursi a tre:
1. L'art. 7 dell'IGMR, che si presenta con tutte le apparenze di una
definizione, non fa parola del sacrificio. «Per una definizione della
messa, anche soltanto descrittiva, è impossibile, in qualsiasi
contesto, che sia assente il suo elemento principale, che è la nozione
di sacrificio»1. Dunque, «se l'articolo in questione pretende di
presentare una definizione della messa, si tratta di una definizione
falsa, contraria al concilio di Trento»2. La versione del '70 introduce
sì il termine «sacrificio eucaristico», ma tace sulla sua finalità
propiziatoria.
2. È vero che l'IGMR, altrove, parla di sacrificio. Però «le allusioni alla
nozione di sacrificio fatte dall"'Institutio" sono tutte insufficienti per
distinguere la concezione cattolica dalle nozioni protestantiche della
cena del Signore»3, perché «il carattere propiziatorio della messa non
è affermato da nessuno di essi»4. Le modifiche del '70 non cambiano
sostanzialmente questo stato di cose5.
3. L'offertorio, nella Messa tradizionale, svolgeva un ruolo
importantissimo in ordine all'evidenziazione del carattere sacrificalepropiziatorio
della Messa. Ora, nelle nuove preghiere offertoriali «non
c'è alcun riferimento alla vera vittima, che è Gesù Cristo; all'offerta
dei doni per noi e per i nostri peccati; al carattere propiziatorio
dell'oblazione; al sacerdozio gerarchico del celebrante; al principio
che il sacrificio deve essere accettato da Dio perché sia gradito»6.
Vediamo come le difficoltà si riconducono al significato da dare
all'espressione «ad memoriale Domini celebrandum» dell'art. 7 ed al fine
propiziatorio del sacrificio eucaristico.
Per valutare queste critiche non ci si può soffermare soltanto sui
singoli passi, ma occorre innanzitutto tracciare – se pure a grandi linee
– la concezione di fondo dell'IGMR e delle nuove preghiere eucaristiche,
alla luce di tutto il contesto prossimo (note e passi paralleli) e remoto
(documenti conciliari e susseguenti).
Al centro sta certamente il concetto di memoriale.
Anche ad una scorsa superficiale, balza agli occhi come il termine
ricorra insistentemente nel testo e in tutta la sua area ermeneutica. Gli
anni che hanno preceduto il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica,
hanno visto il sorgere di uno straordinario interesse per questa nozione,
del tutto tradizionale, anche se un po' dimenticata.
I fattori che hanno
portato a questa «riscoperta» sono di vario genere. Innanzitutto abbiamo
lo sviluppo della teologia cattolica, che si orienta in questa direzione
sotto la spinta del rinnovamento tomistico.
Dopo il Concilio di Trento i
teologi si impegnarono a giustificare – contro le negazioni dei protestanti
– il carattere di sacrificio attuale della Messa. Si trattava di un aspetto
del dogma eucaristico che era sempre stato presente nella fede della
Chiesa, ma – nel tranquillo possesso di questa verità – la teologia non vi
aveva ancora riflettuto in modo specifico e tematico. In san Tommaso
troviamo tutti gli elementi per un approfondimento, ma non troviamo
una riflessione approfondita già fatta. Tutta la sua attenzione è
concentrata sulla «presenza reale»,
che è la dottrina in questione al suo
tempo. Purtroppo il «quadro filosofico» dei teologi post-tridentini non è
più quello medioevale, ma è quello ereditato dalla scolastica decadente
(la stessa che ha influenzato Lutero). Determinanti sono l'influsso
nominalistico e lo scadimento metafisico
. La riflessione sull'«essenza del
sacrificio»della Messa si frantuma così in un gran numero di teorie7 che
vogliono trovare nella Messa la distruzione reale della vittima o, per lo
meno, la sua diminuzione reale. Se la Messa è un sacrificio, deve
realizzare le condizioni di ogni sacrificio: la distruzione della vittima. In
queste teorie vi è qualcosa di insoddisfacente (il loro moltiplicarsi e la
loro breve durata lo testimoniano), anche se hanno l'inestimabile merito
di aver tenuto viva l'idea dell'immolazione nella S. Messa. Soprattutto
insoddisfacente è il come danno ragione della essenziale relazione della
S. Messa col Calvario. Messa e Calvario non sono due sacrifici, ma lo
stesso sacrificio.
Questa insoddisfazione, sotto la spinta del generale
ritorno a san Tommaso, porta a cercare la soluzione nell'insegnamento
del Dottor Comune. San Tommaso non affronta ovviamente la questione
nella stessa ottica – non conosce il protestantesimo! – ma fornisce
elementi importantissimi e fecondissimi per una soluzione. La Messa è
sacrificio in quanto figura della Passione. Figura però che contiene
l'evento col suo protagonista e ne applica la virtus. È il sacramentum
perfectum Passionis. In san Tommaso troviamo ancora il termine
«memoriale» nel suo tradizionale senso
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 13:37]
09/02/2011 17:52
 
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forte.
Altro fattore che porta a riscoprire la nozione di memoriale sono le
ricerche storico-liturgiche di Odo Casel8. Lo studio del culto misterico
pagano e dei Padri lo porta ad elaborare la teoria della
Mysteriengegenwart (presenza misterica). Se vi è tanto di discutibile in
Casel, incontestabile però è il rilievo che la Tradizione conosce una
nozione di memoria e rappresentazione (ri-presentazione) che è
sensibilmente diversa da quella psicologico-soggettiva moderna.
Non ultimo per importanza è il fattore ecumenico. Anche da parte
protestantica un rinnovato interesse per la liturgia e i Padri, nonché
l'approfondimento di alcuni concetti biblici, porta degli studiosi a
riscoprire il significato «pieno» del termine «memoriale». Di fronte a
questo stato di cose, in vista di un'intesa ecumenica, da parte cattolica
si è sottolineato con forza il carattere di memoriale della Messa. L'IGMR
non è altro che un tentativo (assai spinto) in questa direzione.

Quello che a noi interessa è che i termini «memoriale» e
«ripresentazione» vi devono essere letti tenendo conto di questa
ambientazione storica. L'influsso caseliano in particolare è nettissimo.
«Memoriale» deve essere inteso, dunque, come ricordo oggettivo
che rende presente ciò che è ricordato, e «ripresentare» come rendere-dinuovo-
presente.

Il legame con questo indirizzo della teologia è forse ancora più
marcato nelle nuove preghiere ambrosiane. Venute dopo la introduzione
del NOM, dopo la sua sperimentazione, dopo le critiche che ha sollevato
e l'evoluzione liturgica che ha determinato, possono essere anche viste
come un tentativo di precisare quei concetti che, nelle nuove preghiere
eucaristiche del rito romano (che l'ambrosiano fa pure proprie), sono
troppo vaghi.

Questa nozione di memoriale si configura nel suo significato
proprio – che è quello appena descritto – accostando le espressioni
equivalenti dell'IGMR:
art. 2: «sacrificio eucaristico», «memoriale della sua (di Cristo
Signore) passione e risurrezione»;
art. 7: «Cena del Signore», «Messa», «Sacra sinassi riunita per
celebrare il memoriale del Signore»;
art. 48: «memoriale della sua (di Cristo) morte e della sua
risurrezione», «sacrificio e banchetto pasquale»;
art. 54: mediante la preghiera eucaristica tutta l'assemblea dei fedeli
si unisce con Cristo nell'offerta del sacrificio;
art. 55d: «sacramento della sua (di Cristo) Passione e Risurrezione»;
art. 55f: nel memoriale la Chiesa offre l'ostia immacolata al Padre
nello Spirito Santo;
art. 56h: la Comunione è «partecipazione al sacrificio che si sta
attualmente celebrando (quod actu celebratur)»;
art. 62: i fedeli offrono l'ostia immacolata per le mani del sacerdote;
art. 259: sull'altare «si rende presente mediante i segni sacramentali il
sacrificio della croce»;
art. 335: «La Chiesa offre per i defunti il sacrificio eucaristico,
memoriale della Pasqua di Cristo».
Ne emerge che il sacrificio eucaristico è memoriale della Passione
e della Risurrezione in quanto ne è il sacramento. Cioè segno che
rappresenta e produce.
Infatti, nella Messa, Cristo offre attualmente il
suo sacrificio, al quale i fedeli si associano per mezzo del sacerdote.
Questo memoriale non può esser un ricordo vuoto, perché in esso
la Chiesa offre l'ostia immacolata al Padre e, mediante la comunione, si
partecipa al sacrificio attualmente celebrato, che non è altro che quello
del Calvario reso presente sotto i segni sacramentali...
Si noti come, almeno implicitamente, la finalità propiziatoria è
affermata nell'affermare l'identità sacramentale con il Sacrificio del
Calvario e l'applicazione del sacrificio eucaristico per i defunti.
Pur desiderandosi una maggiore esplicitazione e chiarezza,
riconosciamo i tratti fondamentali e necessari della definizione di
Trento.

L'espressione «sacrificio eucaristico», introdotta anche nell'art. 7
dal rimaneggiamento del '70, se da una parte si presta ad essere
confusa col semplice «sacrificio di rendimento di grazie» in senso
protestantico, può avere il vantaggio di esprimere anche a livello
lessicale l'importante compenetrazione fra sacrificio e sacramento nel
contesto globale dell'eucaristia.

Se poi passiamo al contesto prossimo, allora incontriamo fin
dall'art. 2 (nota 6; ritornerà poi anche all'art. 48, nota 38) l'importante
n. 47 della Sacrosanctum Concilium, che è la 'definizione più
comprensiva che ci dà il Concilio della S. Messa:
«Il nostro Salvatore nell'ultima Cena, la notte in cui fu tradito,
istituì il Sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, onde
perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della Croce, e per
affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua
Morte e Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di
carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene
ricolmata di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura».
In questa definizione dobbiamo cercare il significato genuino dei
termini «sacrificio eucaristico» e «memoriale» che ricorrono nella IGMR.

La nota 12 all'art. 7 rimanda a Presbyterorum Ordinis 5, in cui si
afferma che i presbiteri «offrono sacramentalmente il sacrificio di
Cristo». Ecco che il memoriale si riconferma rappresentazione
«sacramentale» del sacrificio di Cristo che ripresenta, rinnovandone
l'offerta.
La nota 49 all'art. 60 (aggiunta però nel '70) richiama PO 2, in cui
è detto che «questo sacrificio di Cristo (...) per mezzo dei presbiteri e in
nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'eucaristia in modo incruento e
sacramentale». Il termine «incruento» rimanda al Tridentino e non è
altro che un modo per designare il carattere sacramentale, di «segno»,
del sacrificio della Messa.

Lumen Gentium 28, cui si fa cenno nella medesima nota, dice che
i presbiteri «nel sacrificio della messa rendono presente e applicano, fino
alla venuta del Signore, l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, il
Sacrificio cioè di Cristo, che una volta per tutte si offre al Padre quale
vittima immacolata». Anche questa espressione: «rendono presente (o
"rappresentano") e applicano» è del Tridentino.

Le aggiunte del '70 interessano soprattutto l'articolo 7 e l'art. 55
nel corpo della IGMR. Inoltre offrono una importante precisazione nel
Proemio.
Art. 7 ('69): «La Cena del Signore, ossia la Messa, è la sacra
assemblea o adunanza del popolo di Dio, che si riunisce insieme, sotto
la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore...».
Art. 7 ('70): «Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è
chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce
nella persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, cioè il
sacrificio eucaristico (...). Infatti nella celebrazione della messa, nella
quale si perpetua il sacrificio della croce (...)».
Innanzitutto vediamo che viene soppressa l'ambigua
identificazione fra Cena-Messa e assemblea. Questo cambiamento toglie
al passo l'andamento di una definizione. Non più «La Cena del Signore
(...) è» ma «Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato
(...)», il che ha più l'aria di una descrizione che di una definizione vera e
propria.
Si esplicita poi che «memoriale del Signore» equivale a «sacrificio
eucaristico». Questo era già evidente dal contesto (cfr. art. 2, nel corpo e
nella nota 6).

Si dice inoltre che nella celebrazione si perpetua il sacrificio della
croce. È una ripresa dell'espressione di SC 47, documento già citato
nelle note 6 e 38.
L'operazione si rivela dunque come un portare a livello di testo
quello che era implicito in nota. Non si tratta cioè tanto di una vera e
propria correzione (tranne però l'inizio dell'art. 7...) quanto di una
esplicitazione. Esplicitazione tuttavia importante.
La nota 14, aggiunta, rimanda al Concilio di Trento, al
fondamentale cap. I della XXII sessione, che contiene l'essenza della
dottrina tridentina sulla Messa, e alla Solenne Professione di Fede di
Paolo VI.
Perché le chiare espressioni tridentine non sono state riportate
direttamente nel testo? Perché – in generale – non si è fatto uso della
classica espressione «rinnovazione del Sacrificio del Calvario»?
Evidentemente la preoccupazione ecumenica ha giocato un ruolo
fondamentale.

Veniamo ora all'art. 55d.
Versione '69: «Narrazione dell'istituzione: mediante la quale con le
parole e le azioni di Cristo, si ripresenta quell'ultima cena, nella quale lo
stesso Cristo Signore istituì il sacramento della sua Passione e
Risurrezione, quando diede agli Apostoli, sotto le specie del pane e del
vino, il suo Corpo e il suo Sangue, da mangiare e da bere, e lasciò loro il
comando di perpetuare lo stesso mistero».
Versione '70: «Il racconto dell'istituzione e la consacrazione:
mediante le parole e i gesti di Cristo si compie il sacrificio che Cristo
stesso istituì nell'ultima cena, quando offrì il suo corpo e il suo sangue
sotto le specie del pane e del vino, lo diede a mangiare e a bere agli
apostoli e lasciò loro il mandato di perpetuare questo mistero».
La correzione è di peso. Non più «ripresentazione dell'ultima
cena», espressione certamente non erronea ma neppure teologicamente
precisa, ma compimento del sacrificio istituito da Cristo nell'ultima
cena. Sacrificio che è consistito nell'offerta del corpo e del sangue
(aspetto anabatico) e nel darlo a mangiare ai discepoli (aspetto
catabatico)
. Il sacrificio si compie mediante le parole e i gesti di Gesù
ripresi nel «racconto dell'istituzione» e «consacrazione» (prima si parlava
solo di «narrazione dell'istituzione»). Il tutto è preciso e inequivocabile.
Il Proemio9 vuole agganciare il carattere sacrificale alla nozione di
memoriale: ricorda per questo SC 47, l'espressione del Sacramentarium
veronense presente nel vecchio e nel nuovo Messale: «Ogni volta che
celebriamo il memoriale di questo sacrificio si compie l'opera della
nostra redenzione», e sottolinea gli aspetti sacrificali delle nuove
preghiere eucaristiche. Inoltre è importante l'esplicito riferimento alle
finalità del sacrificio: «di lode, di azione di grazie, di propiziazione e di
espiazione».
Questo richiamo del Proemio alle preghiere eucaristiche merita di
essere verificato.
La prima (Canone romano) – nonostante le modifiche – conserva
un tono inequivocabilmente propiziatorio.

La seconda è la più deficitaria (il Proemio infatti non ne fa
menzione...).
La terza presenta delle allusioni oggettive: «Guarda con amore e
riconosci nell'offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra
redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo
Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo un solo
corpo e un solo spirito». Il testo latino è ben più efficace: «Respice,
quaesumus, in oblationem Ecclesiae tuae et, agnoscens Hostiam, cuius
voluisti immolatione placari, concede, ut qui Corpore et Sanguine Filii tui
reficimur Spiritu eius Sancto repleti, unum corpus et unus spiritus
inveniamur in Christo»10. Ancora: «Per questo sacrificio di
riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero».
Nella quarta troviamo queste parole: «In questo memoriale della
nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa
agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo, dove
siede alla tua destra, e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti
offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la
salvezza del mondo». «Guarda con amore, o Dio, la vittima che tu stesso
hai preparato per la tua Chiesa...».
Anche il dialogo che precede l'Offertorio contiene un'allusione al
fine propiziatorio: «Pregate fratelli, perché il mio e il vostro sacrificio sia
gradito a Dio Padre Onnipotente. – Il Signore riceva dalle tue mani
questo sacrificio per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa».
Anche qui il testo latino è ben altrimenti incisivo:
«ad utilitatem quoque
nostram».
È certo che confrontando la chiarezza e la frequenza delle
espressioni del Canone Romano e di tutto l'insieme del rito tradizionale
con queste affermazioni piuttosto timide e allusive si può rimanere
insoddisfatti. Soprattutto considerando il contesto dell'umanità di oggi
con tutto il bisogno che ha di essere educata al senso del peccato,
all'umiltà e al sacrificio. Ma di lì a dire che il testo è eretico o anche
direttamente favens haeresi c'è un abisso.

Un altro aspetto del problema poi che non deve essere trascurato
è questo: tutta la sostanza della dottrina sulla Messa è formalmente
oggettivamente contenuta nella parte essenziale costituita dalla
consacrazione. I riti accessori non sono – in fondo – che spiegazione,
esplicitazione e solennizzazione di questa parte fondamentale. E questo,
evidentemente, lo possono fare in modo più o meno soddisfacente e
pronunciato. Bisogna anzi riconoscere che l'aggiunta del «quod pro
vobis tradetur» (1 Cor 11, 24) alle parole pronunciate sul pane accentua
nella nuova formula il significato propiziatorio
.
Quando il ministro (che, secondo 1'IGMR, «agit in persona
Christi»: nn. 7, 10, 60, 48) pronunzia le parole «Questo è il mio corpo
offerto in sacrificio per voi» e «Questo è il calice del mio sangue per la
nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei
peccati» afferma oggettivamente nello stesso tempo la presenza reale e il
sacrificio propiziatorio. Il «tradetur» e 1'«effundetur» (nel testo greco
participi presenti con significato di futuro prossimo), con il «pro vobis et
pro multis» e il «in remissionem peccatorum», significano chiaramente
l'identità sacramentale fra questo gesto e quello dell'Ultima Cena con la
sua relazione essenziale con il sacrificio redentore del Calvario. Non
vedo che altro significato si potrebbe dare a queste parole alla luce
dell'azione «in persona Christi» affermata dall'Institutio. Dice
giustamente l'abbé de Nantes che i tradizionalisti dovrebbero stare
attenti, nel calore della polemica, a non far coro con i protestanti nel
negare un chiaro significato sacrificale a queste espressioni
scritturistiche.

Al NOM viene rimproverata anche una «pratica soppressione
dell'offertorio». Le attuali preghiere offertoriali infatti testimonierebbero
lo scivolamento da una offerta in chiave sacrificale ad una semplice
«presentazione di doni». Un ulteriore impoverimento del significato
oblativo del rito.
C'è molto di vero in questa osservazione. Non bisogna però
attribuirle una portata eccessiva.
Innanzitutto le teorie che considerano l'offertorio (come rito) parte
essenziale del sacrificio sono decisamente superate e non hanno più
nessun serio sostenitore. Storicamente è accertato che le preghiere
dell'offertorio si sono introdotte tardivamente nella Messa romana,
sovrapponendosi al rito (che prima si compiva silenziosamente o con
accompagnamento di canti) per sottolinearne il significato11. Nella sua
essenza, poi, l'offertorio è tutto contenuto nella consacrazione12
.
L'antico rito di offertorio era anticipazione e evidenziazione dell'offerta
tutta contenuta nella consacrazione.
Le nuove preghiere sono certamente teologicamente più povere
delle precedenti. In particolare non hanno più, in sé stesse quel ricco
significato oblazionistico che avevano prima. Tuttavia, 1'IGMR afferma
che il rito dell'offertorio «ha il suo valore e il suo significato spirituale»

(n. 49). Valore e significato che Giovanni Paolo II interpreta così: «Tutti
coloro (...) che partecipano all'Eucaristia, senza sacrificare come lui (il
sacerdote), offrono con lui, in virtù del sacerdozio comune, i loro propri
sacrifici spirituali, rappresentati dal pane e dal vino, sin dal momento
della loro presentazione all'altare. (...) Il pane e il vino diventano, in
certo senso, simbolo di tutto ciò che l'assemblea eucaristica porta, da
sé, in offerta a Dio, e offre in spirito. È importante che questo primo
momento della liturgia eucaristica, nel senso stretto, trovi la sua
espressione nel comportamento dei partecipanti. A ciò corrisponde la
cosiddetta processione con i doni, prevista dalla recente riforma
liturgica (...). La consapevolezza dell'atto di presentare le offerte
dovrebbe essere mantenuta durante tutta la Messa. Anzi deve essere
portata a pienezza al momento della consacrazione e dell'oblazione
anamnetica ...» (Dominicae Cenae: EV 7, 191-192). Il rito, pur
accompagnato da preghiere decisamente meno espressive, continua
dunque a conservare il suo valore oblazionistico e il suo legame
profondo con il nucleo centrale del sacrificio della Messa.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 14:01]
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Concludendo:
1. La nozione di sacrificio è presente, anche nell'articolo 7, attraverso la
nozione di memoriale, il cui valore sacrificale è evidente da tutto il
contesto magisteriale, liturgico e teologico.
2. La finalità propiziatoria emerge sempre dal concetto di memoriale,
che è ripresentazione del sacrificio propiziatorio di Cristo, e da
alcune espressioni delle preghiere eucaristiche.
3. Il rito offertoriale, pur accompagnato da preghiere più povere
teologicamente, conserva il suo significato tradizionale. Non esistono
elementi oggettivi che debbano far pensare ad un cambiamento di
significato13.

1 A. VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, Op. cit., p. 20.
2 Ibid., p. 21.
3 Ibid., p. 24.
4 Ibid., p. 25.
5 Cfr. Ibid., pp. 100-121 e 335-336.
6 Ibid., p. 69.
7 Cfr. il classico M. LEPIN, L'idée du sacrifice de la Messe d'après les Théologiens
depuis l'origine jusqu'à nos jours (Parigi 19262).
8 Cfr. Das Mysteriengedächtnis des Messliturgie im Lichte der Tradition, in:
Jahrbuch für Liturgiewissenschaft 6 (1926), pp. 113-204; Mysteriengegenwart, Ibid. 8
(1928), pp. 145-224; Neue Zeugnisse für das Kultmysterium, Ibid. 13 (1933-35), pp.
99-171; Il mistero del culto cristiano (Borla, Torino 1966). Per una valutazione critica
della teoria misterica di Case!, si veda C. VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia,
(Roma 19654), pp. 115-122.
9 «La natura sacrificale della messa, solennemente affermata dal Concilio di
Trento, in armonia con tutta la tradizione della chiesa (Trid.: DS 1738-1759), è stata
riaffermata dal Concilio Vaticano II, che ha pronunziato, a proposito della messa,
queste significative parole: "Il nostro Salvatore nell'ultima cena (...) istituì il sacrificio
eucaristico del suo corpo e del suo sangue, al fine di perpetuare nei secoli, fino al suo
ritorno, il sacrificio della croce, e affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il
memoriale della sua morte e risurrezione"
(SC 47; cfr. LG 3, 28; PO 2, 4, 5). Questo
insegnamento del concilio lo si ritrova costantemente nelle formule della messa. Dice il
sacramentario leoniano: "Ogni volta che celebriamo il memoriale di questo sacrificio si
compie l'opera della nostra redenzione"; ebbene, la dottrina espressa con precisione in
questa frase è sviluppata con chiarezza e con cura nelle preghiere eucaristiche: in
queste preghiere, quando il sacer dote fa l'anamnesi, rivolgendosi a Dio in nome di
tutto il popolo, gli rende grazie e gli offre il sacrificio vivo e santo, cioè l'oblazione della
chiesa e la vittima per la cui immolazione Dio ha voluto essere placato (Pregh. eucar.
III), e prega perché il corpo e il sangue di Cristo siano un sacrificio accetto al Padre per
la salvezza del mondo intero (Pregh. eucar. IV). Così, nel nuovo messale, la regola della
preghiera della Chiesa corrisponde alla sua costante regola della fede; questa ci dice
che, fatta eccezione per il modo di offrire che è differente, vi è piena identità tra il
sacrificio della croce e la sua rinnovazione sacramentale nella messa, che Cristo
Signore ha istituito nell'ultima cena e ha ordinato agli apostoli di celebrare in memoria
di lui; e per conseguenza, la messa è insieme sacrificio di lode, di azione di grazie, di
propiziazione e di espiazione» (EV 3, 2018).

10 Un discorso a parte meriterebbero le traduzioni, che, in generale, snervano
ulteriormente il testo latino.
Su questo problema si veda: J. RENIÉ, Missale Romanum
et Missel Romain, (Ed. du Cèdre, Parigi 1975). Le osservazioni di Renié riguardano la
traduzione francese, ma si applicano ampiamente anche a quella italiana. Per il card.
RATZINGER «è urgente una revisione della traduzione tedesca del Messale di Paolo VI»
(Op. cit., p. 47). Xavier da Silveira ha fatto uno studio sulla versione portoghese, non
riportato nella traduzione francese del suo libro. Il disagio è avvertito un po' da tutti.
11 Cfr. RIGHETTI, La Messa (Milan 19663) pp. 305-341.
12 «Consecratione ... sacrificium offertur» (III q. 82, a. 10).
13 Ciò non toglie evidentemente l'opportunità che una successiva revisione del
messale metta di nuovo in migliore evidenza questo significato oblazionistico.
Cfr.
l'interessante proposta di dom PAUL TIROT, Histoire des prières d'offertoire dans la
liturgie romaine du II au VII siècle (suite et fin), in: Ephemerides liturgicae 3-4 (1984)
pp. 390-391.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 14:16]
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NOVUS ORDO MISSAE
E PRESENZA REALE
Come ha affermato recentemente il Papa, il Concilio di Trento ha
richiamato e interpretato «con autorità definitiva le parole espresse da
Gesù sia nel discorso del Pane di Vita (Gv c. 6) sia nell'ultima Cena»1.
Il dogma tridentino della presenza reale si articola in tre punti:
a. La presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo sotto le
specie del pane e del vino;
b. L'assenza della sostanza del pane e del vino sotto le specie
sacramentali;
c. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e
del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane
e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù.

Il Tridentino afferma che questa «mirabile conversione» è stata
rettamente denominata dalla Chiesa «transustanziazione». La
definizione porta dunque sul fatto della conversione totale, non sul
termine in se stesso. Questo termine però la Chiesa lo considera
indispensabile per la preservazione del dogma. Non si può quindi
rifiutarlo senza attentare, almeno indirettamente, all'integrità del dogma
e all'infallibilità e santità della Chiesa2.
Questo terzo punto è sempre stato considerato particolarmente
importante. Lo testimonia soprattutto3 l'episodio del Sinodo di Pistoia.
Dal 18 al 28 settembre 1786 il vescovo di Pistoia Scipione Ricci
convocò un sinodo diocesano in cui furono emanati decreti di riforma
orientati in senso decisamente giansenistico. Nel 1794, il Papa Pio VI
intervenne condannando 85 proposizioni estratte da questi decreti. La
proposizione 29 riguarda il dogma della presenza reale e condanna
l'omissione del termine «transustanziazione». Il sinodo aveva formulato
una dottrina eucaristica esatta in ciò che enunciava positivamente.
Anziché però parlare di «conversione» si limitava ad affermare la
cessazione del pane e del vino per lasciar posto alla presenza di Cristo.
«La dottrina del Sinodo nella parte in cui intende insegnare la
dottrina della fede sul rito della consacrazione, che lascia da parte le
questioni scolastiche sul modo per cui Cristo è nell'Eucaristia, da cui il
parroco è esortato ad astenersi, e proporre soltanto questi due punti: 1)
Cristo dopo la consacrazione è veramente, realmente, sostanzialmente
presente sotto le specie; 2) allora cessa ogni sostanza del pane e del vino
e rimangono solo le specie, omettendo completamente di far menzione
della transustanziazione (cioè della conversione di tutta la sostanza del
pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue, che il Concilio
di Trento aveva definito come articolo di fede e che è contenuta nella
solenne professione di fede [dello stesso Concilio]); in quanto, a causa di
questa inconsulta e sospetta omissione, non dà conoscenza sia
dell'articolo di fede, sia anche del termine consacrato dalla Chiesa per
garantirne la professione contro gli eretici, e tende perciò ad indurre alla
sua dimenticanza, quasi che si tratti di una questione soltanto
scolastica: – pericolosa, manchevole quanto all'esposizione della verità
cattolica sul dogma della transustanziazione, favorevole agli eretici» (DS
2629).
La prassi di omettere nella predicazione, quando si spiega la
presenza reale, il punto di dottrina riguardante il modo della sua
realizzazione, cioè la «conversione totale», nonché l'omissione di quel
termine che la Chiesa indica come adatto per designarla è considerata
da Pio VI pericolosa per la fede. Al di là del punto specifico, questa
prassi continua ad essere stigmatizzata anche oggi dalla Chiesa.
L'ecumenismo non deve significare, secondo il pensiero ufficiale della
Chiesa espresso nei documenti del Vaticano II, omissione dei punti di
dottrina controversi: «Bisogna assolutamente esporre con chiarezza
tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo, quanto
quel falso irenismo, dal quale ne viene a soffrire la purezza della
dottrina cattolica e ne viene oscurato il suo senso genuino e preciso»
(Unitatis redintegratio, n. 11: EV 1, 534).
L'ecumenismo riguarda
piuttosto il «modo» con cui esporre la dottrina: «con più profondità ed
esattezza» (Ibid.: 535); «con amore della verità, con carità e umiltà» (Ibid.:
536), cioè evitando le spigolosità polemiche gratuite e le terminologie
che aggravano inutilmente le differenze. Si tratterà cioè di aver riguardo
alla «gerarchia nelle verità» (Ibidem): cioè al fatto che non tutte le verità
hanno la stessa importanza4. Questo però sempre nell'adesione a tutta
la verità e nella professione di tutta intera la verità.
L'«ecumenismo per omissione» non si giustifica (così come non si
giustifica una «catechesi per omissione»5 (5)...).

Dobbiamo considerare anche il nostro testo (IGMR) come affetto
da un tale ecumenismo distorto?
Xavier da Silveira6 rivolge ad esso, dallo specifico punto di vista
del dogma della presenza reale, tre accuse:
a. Le espressioni «presenza reale» e «transustanziazione» sono assenti
nell'edizione del '69.
b. Il passo di Mt 18, 20 «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io
sono in mezzo a loro», che si riferisce senz'altro alla presenza morale
di Cristo in mezzo ai suoi, nel n. 7 è applicato, senz'altra spiegazione,
alla presenza di Cristo nell'eucaristia, che è presenza sostanziale.
c. Il testo parla con insistenza di «presenza» di Cristo oltre a quella
eucaristica.
L'accusa più grave è quella del punto «a» che concerne una grave
omissione. Anticipando le conclusioni, diciamo che la dobbiamo
senz'altro rilevare e, in una certa misura, anche deprecare. Nello stesso
tempo però, consideriamo anche due cose: 1) L'eventuale errore di
omissione è stato corretto nella versione del '70, che è quella definitiva;
2) Entrambe le versioni si muovono in un contesto magisteriale che
riafferma vigorosamente la dottrina della «transustanziazione» (la
Mysterium fidei è dello stesso Paolo VI che ha promulgato l'IGMR)
. Un
esatto parallelo con il caso del sinodo di Pistoia non è dunque fattibile.
Certamente non troviamo nell'IGMR una dottrina organica e
completa sul dogma della presenza reale e della transustanziazione.
Non soltanto il termine «transustanziazione», nella versione del '69, è
assente, ma anche la realtà non vi figura neppure in termini
equivalenti.

Vi sono espressioni che la lasciano supporre come: «Nella
Preghiera eucaristica si rendono grazie a Dio per tutta l'opera della
salvezza, e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo. Mediante la
frazione di un unico pane si manifesta la unità dei fedeli, e per mezzo
della comunione i fedeli ricevono il Corpo e il Sangue del Signore allo
stesso modo col quale gli apostoli li hanno ricevuti dalle mani del
medesimo Cristo» (n. 48).
«All'inizio della liturgia eucaristica si portano all'altare i doni, che
diventeranno il Corpo e il Sangue di Cristo» (n. 49).
«Epiclesi: per mezzo della quale la Chiesa con particolari
invocazioni implora la virtù divina affinché vengano consacrati i doni
offerti dagli uomini, cioè diventino il Corpo e il Sangue di Cristo, e perché
l'ostia immacolata ricevuta in comunione giovi per la salvezza di coloro
che vi partecipano» (n. 55).
«I sacri pastori abbiano cura di ricordare nel modo più opportuno
ai fedeli che partecipano al rito o che vi assistono, la dottrina cattolica

sulla forma della comunione, secondo il Concilio di Trento. E
innanzitutto ricordino ai fedeli che la fede cattolica insegna che, anche
sotto una sola specie si riceve Cristo nella sua totalità e nella sua
integrità...» (n. 241).
«Si raccomanda vivamente che il luogo della conservazione della
santissima Eucaristia sia posto in una cappella idonea per la preghiera
(la versione del '70 aggiunge: "e l'adorazione") privata dei fedeli» (n. 276).
L'espressione «le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo» e
similari (48, 49, 55) non sono, come abbiamo visto, sufficienti – di per
sé – per distinguere la dottrina cattolica da quella protestantica che
vanifica il significato ovvio e pieno delle parole dell'istituzione.
Tuttavia, già nel n. 55 troviamo un'espressione che ha sapore
inequivocabilmente cattolico: «l'ostia immacolata ricevuta in
comunione». Il riferimento sacrificale soprattutto la pone nell'ambito
semantico del dogma,
ma essa parla anche il linguaggio del realismo
eucaristico.
Ciò è ancora più evidente per i nn. 241 e 276. Il n. 241, nel
mentre ristabilisce la possibilità della comunione sotto le due specie,
richiama la dottrina di Trento sulla totalità della presenza di Cristo
anche sotto una sola specie. Come abbiamo già visto, infatti, in forza
delle parole sono resi presenti, separatamente, il Corpo e il Sangue.
Sono però il Corpo e il Sangue di Gesù come si trova ora: cioè Gesù
risorto e vivo. Dunque, per concomitanza naturale, è presente – sotto
ogni specie – tutta l'umanità di Gesù e, in virtù dell'unione ipostatica,
anche la divinità. Sotto ogni specie è presente Gesù – lo stesso Gesù
nato dalla Vergine Maria, che è morto e risorto e ora siede alla destra
del Padre – in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Quello che ci interessa
è (oltre al richiamo al Tridentino) la terminologia («sotto una sola specie
si riceve Cristo») che fa parte dell'ambito semantico del dogma.

Ancora più importante e decisivo è il n. 276. Più importante
perché enuncia un atteggiamento pratico, in consonanza con le finalità
proprie dell'IGMR e la natura della liturgia. Decisivo perché esprime una
differenza radicale con la prassi protestantica. Vi si parla infatti della
conservazione e del culto dell'Eucaristia «post Missam». Questa prassi
implica necessariamente la dottrina della presenza permanente, quindi
sostanziale, di Cristo nell'Eucaristia. Dottrina che fa corpo con tutto il
dogma della presenza reale e anche con la transustanziazione.
Prova ne
è che i protestanti più vicini alle posizioni cattoliche, pur disposti a
tollerare il termine «transustanziazione», ridotto al rango di espressione
di una particolare tradizione teologica, continuano a manifestare
fortissime perplessità nei confronti di una presenza eucaristica
permanente, che dura fin tanto che durano le specie7.
Certo l'assenza del termine «transustanziazione» è difficilmente
giustificabile in un documento che non è soltanto pratico-liturgico
(anche se lo è certamente principalmente). Tuttavia si tratta di un
peccato di omissione che è stato provvidenzialmente corretto (le critiche
non sono state inutili..). Il Proemio aggiunto nel '70 dedica un
importante passaggio al dogma della presenza reale. Innanzitutto viene
evidenziato il legame dell'IGMR con il contesto del Magistero passato e
recente: dal Concilio di Trento al Vaticano II, passando attraverso
l'Humani generis e la Mysterium (idei
. Quindi, mentre qualifica
chiaramente il modus praesentiae come «transustanziazione», pone
l'indice sugli elementi rituali che enunciano, col linguaggio proprio del
gesto, questo dogma8.
Altro punto critico è quello costituito dall'articolo 7. La redazione
primitiva di questo articolo era certamente
– come constateremo anche
in seguito – fortemente equivoca: «La Cena del Signore, ossia la Messa, è
la sacra assemblea o adunanza del popolo di Dio, che si riunisce
insieme, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del
Signore. Pertanto a riguardo dell'adunanza locale della santa Chiesa,
vale in modo eminente la promessa di Cristo: "Dove sono due o tre riuniti
nel mio nome, là sono io in mezzo a loro" (Mt 18, 20)». Soprattutto
l'inserimento del passo scritturistico di Mt 18, 20 in un contesto in cui
ci si aspetterebbe un chiaro riferimento alla presenza sostanziale di
Cristo è tale da deviare facilmente l'interpretazione. Il passo infatti si
riferisce chiaramente ad una presenza reale di Cristo di natura morale9.
L'espressione «in modo eminente» è insufficiente per mettere
inequivocabilmente sulla strada di una lettura essenzialmente
differenziata di questa presenza. L'articolo andava certamente corretto.
La correzione riporta il testo nell'alveo della concezione della
Mysterium fidei, che vede la presenza reale di Cristo che si differenzia in
varie modalità, di cui la principale è quella eucaristica perché
sostanziale e permanente (vedremo in seguito più dettagliatamente
questa importantissima dottrina). La nuova versione infatti interpreta il

passo biblico come rivolto alla presenza differenziata di Cristo: «Nella
messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme
sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo, per
celebrare il memoriale del Signore, cioè il sacrificio eucaristico.
Per questa riunione locale della santa chiesa vale perciò in modo
eminente la promessa di Cristo: (...). Infatti nella celebrazione della
messa, nella quale si perpetua il sacrificio della croce, Cristo è realmente
presente nell'assemblea dei fedeli, riunita in suo nome, nella persona del
ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le
specie eucaristiche». Il riferimento a Mt 18, 20 continua a rimanere
accomodatizio e a rendere l'articolo disorganico e impreciso (forse non lo
si è eliminato del tutto solo per non dare un riconoscimento troppo
aperto alle contestazioni...), tuttavia l'inciso spiega inequivocabilmente
in che senso si deve intendere la «presenza eminente» di Cristo nella
celebrazione della Messa.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 14:40]
09/02/2011 17:56
 
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La nota 15 all'art. 7, anch'essa aggiunta nel '70, rimanda a
Sacrosanctum Concilium, n. 7; Mysterium fidei, n. 41 e Eucharisticum
mysterium, n. 9. Sono i documenti che enunciano la dottrina della
presenza differenziata di Cristo, che culmina nella presenza eucaristica,
reale non per esclusione ma «per antonomasia».

Giungiamo così al problema costituito dalla particolare insistenza
del testo sui modi di presenza altri che la presenza eucaristica. Viene
soprattutto sottolineata la presenza di Cristo nella sua parola.
Oltre all'art. 7, già esaminato, in cui si fa cenno alla presenza
nell'assemblea, nel ministro e nella parola, abbiamo:
«Nella Messa si imbandisce la mensa tanto della parola di Dio
quanto del Corpo di Cristo perché da essa i fedeli vengono istruiti e
nutriti» (n. 8).
«Quando si legge la sacra Scrittura nella Chiesa, è Dio stesso che
parla al suo popolo e Cristo, presente nella sua parola, annuncia il
Vangelo» (n. 9).
«Lo stesso Cristo per mezzo della sua parola è presente in mezzo
ai fedeli» (n. 33).
«Alla lettura evangelica si deve attribuire la massima venerazione
... sia da parte del ministro ... sia da parte dei fedeli che per mezzo delle
acclamazioni riconoscono e professano essere Cristo presente, che parla
loro» (n. 35).
Notiamo innanzitutto che il parallelismo mensa della
parola/mensa del Corpo di Cristo ha solide radici nella Tradizione.
Senza citare le fonti patristiche (e scritturistiche!)10, basti
richiamare il più caratteristico degli autori post-tridentini, san Roberto
Bellarmino. «Il sacramento dell'altare – dice il santo dottore – che è uno
dei principali sussidi dell'anima, è detto pane in Gv 6, 51-58 e in 1 Cor
11, 26-28; e la parola di Dio, della cui predicazione pure ci nutriamo,
può essere detta anche essa pane, come dice l'Apostolo in 1 Tim 4, 6:
"nutrito dalle parole della fede"; e Ebr 6,5: "e gustarono la buona parola
di Dio"»11.
La nota 15 al n. 8 (poi diventata 17) rimanda al fondamentale
passo conciliare su questa dottrina:
«La Chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto
per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella
sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di
Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei verbum, n. 21).

Il come del testo conciliare non significa uguale venerazione.
Significa che a Scrittura e a Eucaristia è dovuta ugualmente
venerazione, però in modo e aspetto diverso, come si arguisce da SC 7,
MF 41 e EM 912.
Il n. 7 della SC (importante, come vedremo, per la dottrina della
presenza «differenziata» di Cristo) è richiamato in nota due volte: nella
nota 16 (n. 9) e 30 (n. 33) della versione del '69 e nella nota 15 (n. 7) e
32 (n. 33) della versione del '70.
L'insistenza dunque è soltanto una sottolineatura, nel contesto
della dottrina sulla presenza reale «differenziata». Questa dottrina è –
come è evidente – di particolare importanza per capire le affermazioni
dell'IGMR. Si tratta di una concezione non nuova nella sostanza, anche
se nuova nella sua formulazione sistematica.
Enunciata innanzitutto
nella SC al n. 7 è stata ripresa e spiegata, nel contesto di una profonda
e impeccabile esposizione del Mistero Eucaristico, dalla Mysterium fidei
(Ibid., n. 38), per essere poi riassunta e codificata al fine di informare la
prassi liturgica, nell'istruzione Eucharisticum mysterium (Ibid., n. 41).
L'IGMR non può essere dissociata da questa dottrina e da questi
documenti.
Dopo aver affermato che Cristo è presente nella sua Chiesa che
prega, che esercita le opere di misericordia, che anela al porto della vita
eterna, che predica, che regge e governa il popolo di Dio, che celebra il
sacrificio della Messa e amministra i sacramenti – specificando che ciò
avviene con modalità diverse e «intensità» diverse – Paolo VI, nella MF,
sottolinea che «ben altro è il modo, veramente sublime, con cui Cristo è
presente alla sua Chiesa nel sacramento della Eucaristia... Tale
presenza si dice reale non per esclusione, quasi che le altre non siano
reali, ma per antonomasia, perché anche corporale e sostanziale, e in
forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente».

Certamente questa dottrina (come quella della hierarchia
veritatum dell'UR) risponde ad una istanza ecumenica. Vi si vede la
volontà di «decongestionare» l'arroccamento cattolico post-tridentino sul
bastione della presenza reale eucaristica, che ha portato a lasciare
(comprensibilmente) nell'ombra le altre, pur realissime, presenze di
Cristo.
Questa volontà ecumenica passa massicciamente
(prudentemente?) nella riforma liturgica.
Si riflette in particolare
nell'IGMR quando si parla di presenza senza specificazione, sottolinea
con insistenza la presenza nella Parola, lascia alle note il compito di
rimandare alla dottrina integrale e tace – nella sua prima versione – il
termine imbarazzante transustanziazione. Se questa massiccia tensione
ecumenica dà la netta impressione di uno squilibrio, tuttavia non esce –
essendo soprattutto intervenute importanti correzioni – dal contesto di
una strategia che sottolinea ciò che unisce senza rinnegare la dottrina
integrale.

1 GIOVANNI PAOLO II, Alle religiose di Milano e della Lombardia, 20 maggio 1983:
La Traccia 5 (1983) p. 495.
2 «Factum transubstantiationis, scilicet desitio totius substantiae panis et vini et
conversio eius in Corpus et Sanguinem Christi, est de fide divina et catholica
definitum. Vocem ipsam transubstantiationis aptissimam esse ac retinendam, est
doctrine catholica» (J.A. DE ALDAMA, De sacramento unitatis christianae seu de
sanctissima Eucharistia: Sacrae Theologiae Summa, vol. IV [BAC, Madrid 19624] p.
276).
3 Non è l'unico testo. L'importanza di questo punto di dottrina per l'integrità del
dogma della presenza reale, nonché del termine dogmatico atto a preservarlo con
sicurezza, sarà nuovamente ribadita dall'Humani generis di Pio XII, dalla Mysterium
fidei di Paolo VI e, recentemente da Giovanni Paolo II. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Omelia
del 23 febbraio 1980: La parola di Giovanni Paolo II 2-3 (1980) p. 23; IDEM, Omelia a
Rio de Janeiro, 1 luglio 1980: Ibid. 7 (1980) pp. 31-32; IDEM, Allocuzione ai
pellegrinaggi delle diocesi di Milano e Alessandria, 14 novembre 1981: La Traccia 10
(1981) p. 680.
4 Su questo punto, fondamentale per l'ecumenismo, si veda l'ottima
puntualizzazione di CARLOS CARDONA, La «Jerarquia de las verdades» y el orden de lo
real, in: Scripta theologica 4 (1972), pp. 123-144.
5 Cfr. Card. JOSEPH RATZINGER, Trasmissione della fede e fonti della fede, in:
Cristianità 96 (1983), pp. 5-11.
6 Cfr. Op. cit., pp. 16-20, 38-40, 118-119.
7 «Una divergenza che rimane consiste certamente nel problema della
conservazione e adorazione dell'ostia consacrata, non distribuita, dopo la celebrazione
eucaristica... Essa è strettamente connessa con i diversi modi di intendere il modus
praesentiae...» (Gemeinsame römisch-katolische evangelisch-lutherische Kommission,
Das Herrenmahl, cit., pp. 89-90). Max Thurian, che può rappresentare la posizione
protestantica «ecumenicamente» più vicina, si attesta
– nel suo importante libro del
1963 – su posizioni agnostiche: «Sebbene il fine dell'eucaristia sia la comunione..., noi
non oseremmo definire la natura della relazione di Cristo con le specie eucaristiche
che rimangono dopo la comunione. Non ci sentiamo autorizzati a pronunciarci né per
la permanenza della presenza reale, né per la sua cessazione. Qui è necessario
rispettare il mistero.
In questo atteggiamento di rispetto, è bene che le specie
eucaristiche che rimangono siano consumate dopo la celebrazione» (L'Eucaristia
memoriale del Signore, cit., pp. 299-300). La sua posizione sembra però mutata in un
testo più recente: «La presenza del corpo risorto di Cristo rimane legata ai segni
eucaristici, perché la chiesa non dispone di quella presenza che è frutto della Parola di
Dio e dell'azione dello Spirito Santo. Con quale diritto potrebbe essa fissare il momento
in cui le specie del pane e del vino non sarebbero più segni del corpo e del sangue di
Cristo? Ciò sarebbe contrario alla fede nella grazia efficace di Dio. "I doni e la chiamata
di Dio sono irrevocabili" (Rm 11, 29). La certezza che la presenza di Cristo continua
dopo la celebrazione e la comunione, sotto le specie del pane e del vino che restano, è un
importante segno della fede eucaristica» (Il mistero dell'eucaristia, Roma 1982, p. 99).
8 «Anche il mistero mirabile della presenza reale del Signore sotto le specie
eucaristiche è affermato dal Concilio Vaticano II (SC 7, 47; PO 5, 18) e dagli altri
documenti del magistero della Chiesa (Pio XII, Humani generis; Paolo VI, Mysterium
fidei; Solenne professione di fede; Eucharisticum mysterium), nel medesimo senso e con
la medesima dottrina con cui il concilio di Trento l'aveva proposto alla nostra fede
(Trid., sess. XIII: DS 1635-1661).
Nella celebrazione della messa, questo mistero è
posto in luce non soltanto dalle parole stesse della consacrazione, che rendono il Cristo
presente per mezzo della transustanziazione, ma anche dal senso e dall'espressione
esterna di sommo rispetto e di adorazione di cui è fatto oggetto nel corso della liturgia
eucaristica. Per lo stesso motivo, al giovedì santo e nella solennità del corpo e del
sangue del Signore, il popolo cristiano è chiamato a onorare in modo particolare, con
l'adorazione, questo ammirabile sacramento» (EV 3, 2021).
9 Cfr. Mysterium fidei: EV 2, 422.
10 Cfr. C.M. MARTINI, La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa, in: La Costituzione
dogmatica sulla divina Rivelazione (LDC, Torino-Leumann 1967), pp. 423-425 (con
bibl.). Classico è il cap. XI del libro IV dell'Imitazione di Cristo: «Due cose sento che mi
sono sommamente necessarie in questa vita... Esse si potrebbero anche chiamare due
mense situate di qua e di là nel tesoro di Santa Chiesa. L'una è la mensa del Sacro
Altare che ha il Pane santo, cioè il Corpo prezioso di Cristo. L'altra è la mensa delle
legge divina ...».
11 Opera oratoria postuma, vol. VI (Roma 1945) p. 255. Sottolineo come queste
espressioni si ritrovano nel vivo della predicazione del santo. Predicazione biblica
quant'altre mai. Una scorsa lo testimonia anche al più disattento dei lettori. Prova che
le accuse di allontanamento dalla Scrittura lanciate affrettatamente alla (cosiddetta)
Controriforma (ma si pensi anche al Catechismo del Concilio di Trento!) poggiano su
una superficiale conoscenza degli autori. Per Bellarmino la Parola di Dio predicata e
ascoltata ha un valore sacramentale: «signum et effectus gratiae praesentis, et simul...

causa eiusdem» (Ibid., vol. I, p. 339). Ha un valore più grande della stessa parola
soltanto letta. «Anche le persone colte, pur potendo capire da sole la Scrittura,
debbono andare alle prediche perché la parola pronunciata ha una energia che non
possiede la parola scritta» (Ibid., p. 215). La predicazione poi deve sempre essere
spiegazione della Parola di Dio e non deve perdersi in considerazioni teologiche,
filosofiche o storiche...
12 Si veda a questo proposito la risposta della Pontificia Commissione per
l'interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II del 5 febbraio 1968 (AAS 60, 1968,
p. 362).
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 15:06]
09/02/2011 17:57
 
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NOVUS ORDO MISSAE
E SACERDOZIO MINISTERIALE


Per i protestanti tutti i cristiani battezzati sono depositari dei
poteri sacerdotali, quindi tutti hanno in uguale misura il potere di
celebrare la santa Cena. Se uno presiede la cerimonia, non lo fa in
quanto depositario di un potere speciale che viene da Cristo, ma in
quanto delegato dalla comunità.
Il Concilio di Trento afferma – contro i protestanti – che esiste un
sacerdozio esterno e visibile, istituito da Cristo, conferito mediante un
sacramento (l'ordine sacro) che abilita a consacrare. Abbiamo già
osservato che il fine del Concilio è quello di difendere il sacro deposito
contro le deformazioni protestantiche – in questo caso difendere
l'esistenza di un sacerdozio gerarchico, solo ad essere depositario di
determinati poteri – non quello di fare una esposizione esauriente della
materia.
Non ci deve dunque meravigliare che il Concilio dedichi solo
fuggevoli accenni1 al sacerdozio dei fedeli, di cui pure parlano Scrittura
e Tradizione. Il tema non «costituiva problema», anzi, si temeva,
parlandone, di recar danno alla saldezza della nozione di sacerdozio
ministeriale che incominciava allora ad essere messa in pericolo. È
comprensibile che nel periodo post-tridentino il capitolo «sacerdozio dei
fedeli» sia stato lasciato un po' in ombra, nel timore di creare confusioni
pericolose; tuttavia – come vedremo – è stata una verità sempre
presente.

Se teniamo conto di questa Tradizione innegabile2 dobbiamo
enucleare la differenza fondamentale fra concezione cattolica e
concezione protestantica, non tanto nell'attribuzione o negazione di
facoltà sacerdotali a tutti i battezzati, quanto nel porre una differenza
essenziale e non soltanto di funzione fra sacerdozio ministeriale e
sacerdozio dei fedeli. Differenza che comporta una speciale «potestas»
per cui si possono compiere azioni che non può assolutamente compiere
chi non la possiede. In particolare, per quanto riguarda l'eucaristia, il
potere di consacrare, di «fare» (conficere) l'eucaristia.
È ovvio dunque che «confondere il sacerdozio del popolo con
quello del prete significa adottare (...) un principio protestantico, infatti,
se si deve credere agli pseudo-riformatori del XVI secolo, il celebrante è
prete allo stesso titolo del popolo, non fa che presiedere l'assemblea
eucaristica come delegato degli assistenti». Questa è la critica che Xavier
da Silveira rivolge alla IGMR: essa «conserva qualche espressione della
dottrina tradizionale, ma introduce anche nozioni e principi che
insinuano o contengono le tesi protestantiche»3 (3).
Quali sono i punti in cui vengono introdotte queste nozioni e
principi devianti o erronei?
L'autore, esaminando la versione del '69, indica quattro punti e
trova che anche quanto affermato dal Proemio del '70 – evidentemente
introdotto per controbattere le accuse – continua ad essere erroneo.
Esamina poi, considerandole insufficienti, le modifiche apportate negli
articoli.
Si tratta dunque, complessivamente, di sei punti:
1. Osservazione generale: si ritrovano spesso, lungo tutto il documento,
delle espressioni secondo cui è il popolo di Dio a celebrare la Messa.
2. Nel n. 7 (versione '69) il prete è qualificato semplicemente come
presidente dell'assemblea del popolo di Dio. Le modifiche del '70 non
tolgono affatto le perplessità. «L'errore più grave consiste
nell'affermare che è il popolo a celebrare il memoriale del Signore o
sacrificio eucaristico»4.
3. «Nel n. 10, immediatamente dopo l'affermazione che il prete presiede
l'assemblea, rappresentando Cristo, 1'Institutio" [del '69] dichiara
che la preghiera eucaristica costituisce una "preghiera
presidenziale". Ora, nello stesso articolo, le "preghiere presidenziali"
sono definite come quelle "che sono indirizzate a Dio a nome di tutto
il popolo santo e di tutti quelli che sono presenti". Ogni lettore, dopo
questo passaggio, sarà indotto a pensare che nella consacrazione il
prete parla principalmente a nome del popolo. Indubbiamente alcune
parti della preghiera eucaristica sono indirizzate a Dio a nome del
popolo. Ma la sua parte principale, la consacrazione, è pronunciata
dal prete esclusivamente a nome di Nostro Signore. È impossibile a
un cattolico ammettere su questo punto delle ambiguità. Così il n.
10 dell"'Institutio" è uno dei più biasimevoli di tutto il documento»5.
Il n. 10 non è stato modificato nel '70.
4. Al n. 12 è detto che «La natura delle parti "presidenziali" esige che
siano pronunciate con voce chiara e elevata e che da tutti siano
ascoltate con attenzione». «Dunque, le parole della consacrazione
devono essere pronunciate anch'esse in questo modo – il che
insinua, una volta di più, che in questo momento il prete agisce
specificamente come delegato del popolo»6 (6).
5. Anche la posizione del celebrante deve trovarsi in armonia con la sua
funzione presidenziale: «La sede del celebrante deve significare il suo
ufficio di presiedere all'assemblea e di dirigere la preghiera, perciò il
suo luogo più adatto è rivolto verso il popolo alla sommità del
presbiterio ...» (n. 271). Secondo l'Ordo romano tradizionale invece il
prete si trova normalmente rivolto all'altare perché è soprattutto il
sacrificatore che, «in persona Christi», si presenta davanti al Padre.
Ecco che la modifica contrappone la nozione di «presidente» a quella
di «sacrificatore». Xavier da Silveira riconosce che la pratica
tradizionale della Chiesa non è affatto esclusivista su questo punto:
in molti riti la Messa è celebrata versus populum. L'elemento negativo
è visto nel fatto che l'Institutio considera la pratica tradizionale come
meno appropriata, insinuando un ambiguo primato della funzione
presidenziale7.
6. Il Prologo aggiunto nel '70 lungi dal risolvere le ambiguità – sempre
per Xavier da Silveira – le conferma. Vi troviamo infatti l'affermazione
che «la celebrazione dell'eucaristia è azione di tutta la Chiesa». Ora,
Pio XII ha condannato la dottrina secondo cui «il sacrificio
eucaristico è una vera e propria concelebrazione» del prete e del
popolo presenti8. Se è vero che il termine «celebrazione» in un senso
analogo può avere dei significati diversi, non è legittimo ricorrere a
questi significati per insinuare che al popolo appartiene una funzione
di celebrare propriamente detta9.

Prima di entrare nel dettaglio di queste osservazioni, penso sia
utile fare una esposizione generale di quella che mi sembra essere la
dottrina di fondo del documento, alla luce del Vaticano II e di tutta la
Tradizione.
Il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione nella persona
di Cristo, tuttavia, poiché Cristo ha compiuto il suo sacrificio come capo
della Chiesa, il sacerdote agisce nella persona di Cristo capo. Questa
verità è più volte affermata dalla Tradizione e dal Magistero10.
Soprattutto quando si sottolinea il carattere essenzialmente pubblico di
ogni celebrazione della Messa, anche quando i fedeli sono fisicamente
assenti.
Il Concilio di Trento afferma che il Sacrificio è immolato dalla
Chiesa per mezzo dei sacerdoti: «(Cristo) istituì la nuova Pasqua, cioè se
stesso da immolarsi sotto segni visibili da parte della Chiesa mediante i
sacerdoti... (novum instituit Pascha, se ipsum ab Ecclesia per
sacerdotes sub signis visibilibus immolandum...)» (DS 1741).
Ciò significa che i sacerdoti operano sempre come mediatori fra
Dio e il popolo. Se consideriamo l'azione eucaristica nel suo senso
discendente, dobbiamo dire che il sacerdote agisce esclusivamente in
persona di Cristo, in quanto è solo per l'azione di Cristo e del sacerdote
che si compie la transustanziazione (tuttavia sempre a favore della
Chiesa); però, considerando la stessa azione nel suo senso ascendente,
dobbiamo dire che il sacerdote agisce a nome della Chiesa, in quanto
tutta la Chiesa offre per le mani di lui il sacrificio di Cristo a Dio Padre.

«Il battezzato è capace di emettere un "actus religionis
christianae", nel quale, in virtù del carattere a) internamente si unisce
all'oblazione attuale di Cristo, in cui ottiene una dignità particolare, e
viene moralmente unificato con le oblazioni degli altri fedeli; b)
esternamente poi è manifestato dalla stessa immolazione sacramentale,
ch'è compiuta dal sacerdote validamente ordinato, non solo come
"vicarius et minister Christi", ma anche come intermediario di tutti i fedeli
e come membro qualificato (membrum electum) di tutto il Corpo Mistico. Si
può pertanto asserire che la "communitas fidelium" offre
immediatamente, o meglio, insieme con il sacerdote ministro; immola
però soltanto "mediante" il sacerdote, secondo la definizione del Concilio
di Trento: "Cristo lasciò se stesso per essere immolato dalla Chiesa
mediante i sacerdoti" e secondo la dottrina dei teologi medioevali, da cui
il sacerdote è esaltato come "bocca della Chiesa", "procuratore degli
interessi comuni", "voce del popolo"»11.

L'agire in persona di Cristo capo comporta sempre una qualche
unione con il Corpo. Quando i fedeli sono presenti rappresentano le
membra di Cristo e quindi contribuiscono a manifestare il carattere
comunitario che ogni Messa ha in se stessa (cfr. Concilio di Trento,
Sessione XXII, cap. 6). Padre Tromp espone questa dottrina rifacendosi
all'autorità di san Giovanni Crisostomo:
«Infatti, come nella Messa solenne, teste il Crisostomo, quando
viene offerta a Dio quella tremenda vittima, tutto il popolo, stese le
mani, presenta come plèròma ieratikon, cioè come pleroma (pienezza) del
sacerdote celebrante: così in ogni Sacrificio della Messa tutti i fedeli
sono presenti invisibilmente come pleroma dello stesso Cristo, che
rappresenta tutti presso il Padre sia in sé Sacerdote che in sé Vittima»12.

Si potrebbe anche dire che il soggetto integrale della celebrazione
è la Chiesa. Tutta la Chiesa come Corpo organizzato gerarchicamente.
In esso si differenziano funzioni essenzialmente diverse: il sacerdote
ministro agisce in persona del Capo, i fedeli rappresentano le membra.
Ciò non implica affatto che la presenza fisica dei fedeli sia
indispensabile per la realizzazione del sacrificio. Il sacerdote può agire
da solo perché può supplire la rappresentanza dei fedeli, essendo lui
stesso anche fedele (anzi: originariamente e primariamente fedele):
tuttavia soggetto è sempre la Chiesa che offre – secondo le parole del
Tridentino – «per sacerdotes». Questa concezione, non definita
solennemente, ma presente almeno come dottrina cattolica nei
documenti del magistero, differisce sostanzialmente da quella
protestantica
per cui i fedeli, in modo indifferenziato, sono soggetto
della celebrazione e il sacerdote un loro semplice delegato13. Questa
differenza teologica si esprime ritualmente, con particolare chiarezza,
nella cosiddetta «Messa privata».
A Trento la Chiesa ha difeso, contro i protestanti, la liceità e la
dignità della celebrazione individuale – senza fisica presenza del popolo
– detta «privata». Si trattava di difendere una lunga tradizione della
Chiesa latina e, soprattutto, l'efficacia ex opere operato dell'azione
sacramentale del ministro validamente ordinato, contro la concezione
protestantica del sacramento come semplice segno che suscita la fede
dei presenti, impensabile quindi senza una assistenza di fedeli. Tuttavia
il Concilio non afferma che si tratta della forma di celebrazione più
consona alla natura della Messa.
Se pensiamo alla distinzione scolastica fra «esse simpliciter»,
«bene esse» e «melius esse», potremmo dire – per esempio – che una
Messa celebrata da un ministro valido ma illegittimo assicura l'esse
simpliciter della Messa. Una Messa celebrata dal solo sacerdote valido e
legittimo ne assicura il bene esse. Se alle stesse condizioni si aggiunge
anche una devota partecipazione di fedeli abbiamo il melius esse.
Fermo
restando che ogni Messa, che è tale, ha un valore infinito in se stessa e
quindi, se consideriamo la sua nuda essenza, non sono possibili
paragoni. Se consideriamo invece la sua celebrazione concreta, allora
possiamo auspicare, con la Chiesa, che essa venga celebrata nelle
migliori condizioni che la situazione consente per una più piena
manifestazione della sua natura comunitaria. Ed ecco infatti che il
Codice pio-benedettino prescriveva che «Il sacerdote non celebri la
Messa senza un ministro che lo assista e gli risponda»14. Qualcosa di
analogo troviamo nei rapporti che legano il potere di giurisdizione con
quello di ordine: il potere di giurisdizione episcopale può risiedere in un
individuo non ordinato vescovo, tuttavia la tradizione della Chiesa è
unanime nel ritenere che conviene che i due poteri si trovino riuniti.
Così il nuovo Codice, che, da una parte, preferisce la Messa cum populo
(can. 906); dall'altra, invita il sacerdote a celebrare quotidianamente,
anche quando non è possibile che il popolo assista, ribadendo l'uguale
liceità e dignità della celebrazione cum et sine populo (can. 904). L'IGMR
non ha – come vedremo – un atteggiamento diverso.

Vediamo ora i singoli punti contestati:
1. Nel corso dell'IGMR troviamo spesso affermazioni secondo cui il
soggetto della celebrazione della Messa è «la Chiesa» o «il popolo di
Dio». L'art. 1 recita: «La celebrazione della Messa (...) è azione di
Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente ordinato».
Si tratterà di verificare qual è il senso oggettivo di questa
espressione, facendo uso di un corretto metodo interpretativo, che
tenga conto del contesto prossimo, costituito dai passi paralleli e,
soprattutto, dalle note.
Già l'espressione «popolo di Dio gerarchicamente ordinato», che
ricorre spesso, ci fa capire che il soggetto non è un tutto
indifferenziato, né designa esclusivamente i fedeli, ma la Chiesa, il
«popolo di Dio» inteso come unità di gerarchia e fedeli.
Fa capire
anche che il termine «celebrare» è preso qui in senso analogico: esso
comporta cioè una gradualità di predicazioni differenti. Il termine –
come vedremo meglio in seguito – non ha assolutamente di suo, un
significato univoco. I testi citati in nota richiamano un contesto in
cui questa interpretazione diventa l'unica possibile. Così la nota 1
dell'art. 1 rimanda a LG 11 e a PO 2. Ora in LG 11 leggiamo che, nel
sacrificio eucaristico «tutti, sia con l'oblazione che con la santa
comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però
ugualmente, ma chi in un modo chi in un altro» (le sottolineature,
anche in seguito, sono nostre). Ancora più importante è tutto il n. 2
della PO, specialmente questi passaggi: «lo stesso Signore ...
promosse alcuni ... come ministri, in modo che... avessero il sacro
potere dell'ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati»;
«il
sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i sacramenti
dell'iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare
sacramento per il quale i presbiteri... sono segnati da uno speciale
carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire
in nome e nella persona di Cristo capo».
L'art. 4 riprende la dottrina cattolica sulla legittimità della
celebrazione individuale: «Sebbene la presenza e la partecipazione
attiva dei fedeli, che esprimono più apertamente la natura ecclesiale
della celebrazione, non si possono sempre avere, la celebrazione
eucaristica mantiene sempre la sua efficacia e dignità, in quanto è
azione di Cristo e della Chiesa, nella quale il sacerdote agisce sempre
per la salvezza del popolo». Si afferma che la presenza dei fedeli non è
necessaria per l'«esse» della celebrazione, ma per esprimere «più
apertamente la sua natura ecclesiale», cioè per il suo «melius esse»
nel senso spiegato prima. La contrapposizione con la concezione
protestantica è netta. Se il soggetto della sacra azione è Cristo e la
Chiesa, la sua celebrazione da parte del sacerdote è essenzialmente
diversa da quella dei fedeli e segno di questa differenza specifica è
che l'una è assolutamente indispensabile, l'altra solo conveniente.
La nota 9 (PO 13) richiama la prassi cattolica tradizionale per cui si
raccomanda la celebrazione quotidiana della Messa che, anche senza
fedeli, «è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa».
È rinnovata
dunque implicitamente la condanna dell'atteggiamento secondo cui
«è meglio che i sacerdoti "concelebrino" insieme con il popolo
presente (cioè assistano come semplici fedeli) piuttosto che, nella
assenza di esso, offrano privatamente il Sacrificio» (Mediator Dei:
Insegnamenti pontifici, vol. 8: La liturgia (Roma 19592) n. 563).
La stessa dottrina è presente nell'art. 14, secondo il quale «la
celebrazione della Messa ha per natura sua un'indole "comunitaria"».
La nota 20 allo stesso articolo (nel '70 diventa 22) rimanda a SC 27,
in cui si afferma che la celebrazione comunitaria «è da preferirsi, per
quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata (...)
salva sempre la natura pubblica e sociale di qualsiasi Messa».
Ancora una volta: la presenza di fedeli è da preferirsi perché
manifesta meglio ciò che è nella natura della Messa e che quindi la
Messa non perde anche quando è celebrata dal solo sacerdote. «Onde
nessuna messa – dice EM 3d, l'altro documento citato dalla nota 20
– ... è azione puramente privata, ma celebrazione della chiesa, in
quanto società costituita in diversi ordini e funzioni, nella quale i
singoli agiscono secondo il loro grado e i propri compiti».
In definitiva, allora, dire che la Messa è «celebrazione di tutta la
Chiesa» non è altro che affermare la sua intrinseca natura
comunitaria.

Una particolare importanza rivestono poi, per chiarire il significato
autentico di questa espressione, gli artt. 54, 58, 60 e 62 con i relativi
contesti.
Art. 54: nella preghiera eucaristica il sacerdote «associa a sé» il
popolo, in modo tale che «tutta l'assemblea dei fedeli si unisca con
Cristo... nell'offerta del sacrificio». L'espressione «associare a sé»
implica una differenza fra l'azione del sacerdote e quella dei fedeli.
L'art. 60, che riporta la stessa espressione, è stato modificato nella
versione del '70, con l'aggiunta di un inciso con cui viene specificato
di quale differenza si tratta: il sacerdote «nella comunità dei fedeli è
insignito del potere sacerdotale, derivatogli dall'ordine stesso, di
offrire il sacrificio nella persona di Cristo». La nota 49, aggiunta
anch'essa nel '70, chiarisce ancor meglio – rifacendosi a LG 28 – il
significato di quell'«associare a sé»: «i presbiteri uniscano i voti dei
fedeli al sacrificio del loro capo».

Art. 62: «Nella celebrazione della Messa i fedeli costituiscono la gente
santa, il popolo di acquisto e il regale sacerdozio, perché rendano
grazie a Dio, offrano l'ostia immacolata, non soltanto per le mani del
sacerdote, ma insieme con lui e imparino a offrire se stessi». Questa
espressione è ripresa letteralmente da SC 48, citato in nota (n. 48:
50 nel '70), che a sua volta fa eco alla Mediator Dei (cfr. La Liturgia,
n. 569). L'altro documento citato nella stessa nota (EM 12) ci fornisce
una precisazione ancora più dettagliata: «Certo, solo il sacerdote, in
quanto rappresenta Cristo, consacra il pane e il vino. Tuttavia
l'azione dei fedeli nell'eucaristia consiste nel fatto che essi, memori
della passione, della risurrezione e della gloria del Signore, rendono
grazie a Dio e offrono l'ostia immacolata non solo per le mani del
sacerdote, ma uniti a lui ...».
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 15:50]
09/02/2011 17:58
 
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2. L'art. 7 prima maniera parla solo di «presidenza del sacerdote».
Certamente questo articolo è il punto più discutibile di tutto il
documento che stiamo esaminando, posto che ha – perlomeno –
tutta l'apparenza di una definizione. «È stato riconosciuto – dice
l'insospettabile p. Congar – che questo testo, pur non essendo
assolutamente falso, non esprimeva abbastanza chiaramente e
compiutamente ciò che la Chiesa ha coscienza di fare quando celebra
l'eucaristia»15. È assai curioso – per esempio – che il recentissimo
documento sul sacerdozio ministeriale richiami la concezione della
Messa che sta a fondamento della confusione fra sacerdozio comune
e ministeriale, per condannarla, con termini che riecheggiano l'art. 7
prima maniera: «A tale conclusione (facoltà delle singole comunità di
designare il proprio presidente conferendogli il potere di presiedere e
consacrare) porta anche il fatto che la celebrazione dell'Eucaristia
viene spesso intesa semplicemente come un atto della comunità
locale radunata per commemorare l'ultima cena del Signore
mediante la frazione del pane»16.
È certamente vero che il termine «presidente dell'assemblea» è
perfettamente legittimo e designa una funzione reale e importante del
sacerdote, ma non coglie l'elemento essenziale
. Tuttavia abbiamo in
nota il richiamo a PO 5: «i presbiteri sono consacrati a Dio, mediante
il vescovo, in modo che...»; «con la celebrazione della messa offrono
sacramentalmente il sacrificio di Cristo». SC 33 ricorda che il
sacerdote presiede l'assemblea nella persona di Cristo. Soprattutto
abbiamo la modifica del '70 che porta l'espressione di SC 33 nel
testo: «agisce nella persona di Cristo».
Agire «in persona Christi» è un
termine tradizionale che ha un significato obiettivo ben determinato:
per leggerlo in un altro senso ci si dovrebbe appoggiare su qualcosa
di almeno altrettanto oggettivo e di molto esplicito, che però manca.
Non manca invece una interpretatio autentica susseguente: «"in
persona Christi..." vuol dire di più che "a nome", oppure "nelle veci"
di Cristo. "In persona": cioè nella specifica, sacramentale
identificazione col "sommo ed eterno sacerdote", che è l'autore e il
principale soggetto di questo suo proprio sacrificio, nel quale in
verità non può essere sostituito da nessuno»17.

3. Xavier da Silveira attribuisce una particolare importanza all'art. 10.
In esso viene affermato che la preghiera eucaristica è indirizzata a
Dio a nome di tutto il popolo. Ne seguirebbe che anche la
consacrazione sarebbe pronunciata a nome del popolo. Ciò vorrebbe
dire che il sacerdote agisce solo come delegato: è questo l'errore che
aveva presente Pio XII quando ricorreva alla distinzione fra
«immolazione» e «offerta» per chiarire che «l'immolazione incruenta
per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole
della consacrazione, Cristo è presente sull'altare in stato di vittima, è
compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di
Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli» (Mediator
Dei: Insegnamenti pontifici, cit., n. 569).

Ora, l'interpretazione del sacerdote come delegato contraddirebbe
tutta la concezione presente nel testo e nel contesto: una
contraddizione di questo peso potrebbe essere ammessa solo di
fronte ad un testo formale ed esplicito, che non tolleri assolutamente
nessun'altra interpretazione.
Certamente l'assenza di precisazioni è da biasimare, però la
affermazione che il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione
a nome dei fedeli non è, in sé, inaccettabile. Anche in quel momento
infatti il sacerdote compie un'azione pubblica, di natura comunitaria.
Di per sé agire in nome di qualcuno non implica affatto fungibilità o
rapporto di delega. Non implica cioè che chi è rappresentato possa –
radicalmente – fare quello che fa chi lo rappresenta.
Così possiamo
dire in tutta verità che Cristo si è immolato a nostro nome. Altro
valore ha il termine più specifico di «agire nella persona di Cristo».
Esso implica identificazione sacramentale: è Cristo la causa
principale, il sacerdote è solo causa strumentale. In tutta l'IGMR solo
del sacerdote è detto che agisce in persona Christi, mai dei fedeli.
Siccome poi Cristo agisce come Capo di un Corpo, anche le membra
non sono assenti nel suo sacrificio. Di qui il carattere comunitario
che affetta intrinsecamente la celebrazione eucaristica. Come
abbiamo già visto, Piolanti non ha timore di affermare che la «stessa
immolazione sacramentale ... è compiuta dal sacerdote validamente
ordinato, non solo come "vicarius et minister Christi", ma anche
come intermediario di tutti i fedeli e come membro qualificato
(membruni electum) di tutto il Corpo Mistico». Così, per esempio,
dire che un Re agisce a nome di tutto il suo popolo non implica
affatto far propria una concezione democratica (in senso moderno)
del potere.
Mi pare che anche questa espressione si inserisca oggettivamente
nella concezione «organica» descritta. Bisogna però ammettere ,che si
presta molto facilmente ad interpretazioni devianti. L'ultimo
documento sul sacerdozio ministeriale testimonia – una volta di più –
come le cose siano andate effettivamente in questo senso, dando
ragione a chi se ne era preoccupato fin dall'inizio. Ciò non toglie che
il testo, nel suo senso oggettivo, non dica affatto quello che può
suggerire ad una prima lettura.

4. Il n. 12 si trova in stretto collegamento col n. 10. L'esigenza di
pronunciare a voce alta le parole della consacrazione è una
conseguenza del loro carattere «presidenziale». Inoltre l'espressione
«natura sua» (per loro natura) comporterebbe una implicita condanna
della pratica del canone silenzioso, pratica che viene difesa
strenuamente dal Tridentino: «Se alcuno dicesse, che il rito della
Chiesa Romana, per il quale si pronunciano a voce bassa parte del
canone e le parole della consacrazione, deve essere condannato ...
sia scomunicato» (Sessione XXII, can. 9: FdC, p. 426).

Per l'aspetto dottrinale del problema ho già detto al numero
precedente. Per quello disciplinare si osservi semplicemente che
l'affermazione che a una cosa ne conviene un'altra secondo la sua
natura non implica affatto la condanna di una pratica che non tiene
conto di questa convenienza. Per la semplice ragione che ci possono
essere altre ragioni di opportunità che la rendono prudente.
Una cosa può appartenere all'essenza in due modi: come
intrinsecamente o metafisicamente connessa, oppure come
estrinsecamente o fisicamente connessa. La privazione di qualcosa di
intrinsecamente connesso comporta l'annientamento dell'essenza
(per esempio: la razionalità per l'uomo). La privazione di qualcosa di
estrinsecamente connesso può essere giustificato in vista di un bene
maggiore (per esempio: la rinuncia all'attività generativa «per il Regno
dei cieli»).
Così la pronuncia delle parole della consacrazione a voce bassa non
affetta la validità della Messa, perché le parole conservano la loro
significanza almeno per chi le pronuncia, pur essendo nella loro
natura di essere udite da altri. Cioè: l'essere pronunciata ad alta
voce non appartiene all'essenza metafisica della preghiera
eucaristica. La Chiesa ha avuto le sue buone ragioni per adottare (a
partire già dai primi secoli) questa pratica, soprattutto quella di
evidenziare il carattere misterioso («ineffabile») di quello che le parole
attuano.
Esse operano non tanto per quello che significano agli
orecchi degli astanti, quanto per la virtù soprannaturale di cui sono
cariche per il mandato di Cristo: «fate questo in memoria di me». La
Chiesa ha avuto buone ragioni anche per difendere questa pratica
quando è stata messa in discussione dai protestanti. La concezione
soggiacente era infatti questa: se non c'è ascolto e quindi ratifica non
c'è validità. Tuttavia rimane vero che le parole della preghiera
eucaristica sono fatte per essere udite, posto il carattere pubblico
che essa ha in se stessa.
Questa era la pratica primitiva18 e quella tradizionale delle liturgie
orientali.
5. La posizione del celebrante. Ecco un punto certamente discutibile
della riforma liturgica19.
Tuttavia lo stesso Xavier da Silveira
constata come la pratica della Chiesa su questo punto non sia affatto
esclusivista anche nel passato. Non si tratta dunque di una forma
celebrativa in se stessa inaccettabile. Inoltre, pur privilegiando la
celebrazione «versus populum», i documenti interpretativi non
considerano neanche questa una pratica da introdursi in modo
esclusivistico: «per una liturgia vivente e partecipata non è
necessario che l'altare sia verso il popolo»20.

6. Il Prologo aggiunto nel '70 fornisce certamente una importante
messa a punto sulla natura del sacerdozio ministeriale:
«Quanto alla natura del sacerdozio ministeriale, che è proprio del
presbitero, in quanto egli offre il sacrificio nella persona di Cristo e
presiede la assemblea del popolo santo, essa è posta in luce,
nell'espressione stessa del rito, dal posto eminente del sacerdote e
dalla sua funzione. I compiti di questa funzione sono indicati e
ribaditi con molta chiarezza nel prefazio della messa crismale del
giovedì santo, giorno in cui si commemora l'istituzione del
sacerdozio. Il testo sottolinea la potestà sacerdotale conferita per
mezzo dell'imposizione delle mani, e descrive questa medesima
potestà enumerandone tutti gli uffici: è la continuazione della
potestà sacerdotale di Cristo, pontefice della nuova alleanza»21.
Tuttavia anche il Proemio non desiste dall'affermare che «la
celebrazione dell'eucaristia è azione di tutta la Chiesa». Abbiamo
visto che la concezione generale che sorregge questa espressione non
può essere confusa con quella condannata da Pio XII: dire che il
popolo di Dio è soggetto integrale della celebrazione non implica
affatto una «concelebrazione» in senso stretto.

Riguardo al ruolo di sacerdote e fedeli nella Messa si possono
dare, in assoluto, tre possibilità:
1) La Messa è tutta ed esclusivamente azione del Sacerdote. La
partecipazione dei fedeli è pura assistenza e recezione passiva.
2) La Messa è azione del Sacerdote e dei fedeli «alla pari». Il
Sacerdote non è che un delegato dell'assemblea e non ha dunque poteri
in proprio che lo distinguono essenzialmente dagli altri fedeli. È un
«primus inter pares». L'azione del sacerdote e dei fedeli è
«concelebrazione» nel senso tecnico più recente di questo termine22.
3) La Messa è azione del Sacerdote e dei fedeli congiuntamente,
ma non in modo indifferenziato. La partecipazione dei fedeli, reale e
attiva, dipende essenzialmente dall'azione specifica del Sacerdote in
modo tale che, senza di essa, non sussisterebbe la realtà a cui
partecipare. Fra il sacerdozio del ministro e quello dei fedeli non esiste
soltanto una differenza di grado, ma anche di essenza (cfr. LG 10).
Di queste tre possibilità, la seconda è l'unica che riflette la
posizione protestantica e non è quella espressa dal senso ovvio del
nostro testo. In esso troviamo piuttosto la terza posizione. La differenza
essenziale fra la seconda e la terza posizione è evidenziata
inequivocabilmente dal fatto che il Sacerdote da solo è sufficiente per la
celebrazione dell'Eucaristia, mentre i fedeli senza il Sacerdote ne sono
incapaci. Questo significa che nel sacerdozio ministeriale sussiste un
«plus» di potere irriducibile al sacerdozio comune.
Non mi pare dunque esatto quanto dice Xavier da Silveira quando
afferma che «in questo delicato problema, la questione non consiste
soltanto, né soprattutto, nel sapere se il sacrificio è dipendente [affecté]
in qualche modo dalla partecipazione dei fedeli. Essa consiste
innanzitutto nel sapere se, quando partecipano, i fedeli concelebrano la
messa con il prete. Vale a dire se anch'essi sono, come il prete, dei
rappresentanti ufficiali di Nostro Signore per l'esecuzione delle funzioni
liturgiche»23 (23). La questione infatti è proprio lì: se la presenza o meno
dei fedeli non è tale da toccare la validità dell'Eucaristia, significa che il
ruolo del Sacerdote è irriducibile a quello di un mero delegato e
differisce sostanzialmente dal ruolo dei semplici fedeli, appunto
«essentia et non gradu tantum» (LG 10).
Si potrebbe, è vero, in pura ipotesi, immaginare che tutti i fedeli
partecipino come «concelebranti» e non abbiano nessun potere in meno
rispetto al sacerdote che celebra da solo. Nel qual caso questa azione
potrebbe essere compiuta anche da ogni singolo fedele e se ciò non
succede è solo per ragioni di ordine e di legittimità... Ma questa
interpretazione è troppo in contrasto col senso ovvio del testo e contesto
della IGMR per poter essere seriamente presa in considerazione.
Certamente, nell'insieme, troviamo una sottolineatura insistente
del ruolo dei fedeli, tanto da poter ingenerare l'impressione che la loro
partecipazione sia indispensabile e sullo stesso piano di quella del
sacerdote gerarchico. Una lettura più attenta però, che valuti il
significato delle espressioni alla luce dei rimandi in nota e legga le
espressioni equivocabili alla luce delle affermazioni nette e precise, ci fa
comprendere che si tratta soltanto di una sottolineatura, che intende
realizzare il massimo avvicinamento alle posizioni protestantiche nel
rispetto però dell'ortodossia cattolica.
Ritroviamo cioè quella scelta
pastorale così ben descritta da Dalhaye24.
Una parola ancora sul termine «celebrare». Xavier da Silveira
attribuisce una grande importanza – come abbiamo visto – alle
espressioni che pongono «tutta la Chiesa» o il «popolo di Dio» come
soggetti della «celebrazione». Se «celebrare» dovesse significare sempre e
inequivocabilmente qualcosa di equivalente a «conficere Eucharistiam»
(consacrare, operare la transustanziazione, cioè l'azione specifica del
sacerdote-ministro), allora quelle espressioni indicherebbero una
autentica «concelebrazione» dei fedeli alla Messa, quella concelebrazione
condannata da Pio XII.
In realtà mi sembra dimostrato che «celebrare» ha, nel suo
significato tradizionale, un valore più vasto, che ricopre tutto un
insieme di azioni che vanno dalla immolazione all'offerta, dalla
predicazione al festeggiamento, ecc.25. Questo significato è rimasto fino
ad oggi; anche se l'accento si è andato spostando sull'azione specifica
del sacerdote non ha mai preso un significato esclusivo in questo senso.

Lo ha solo quando è usato in forma assoluta, per esempio: «Oggi ho già
celebrato (ho già detto Messa)»26. La forma assoluta infatti, in un
termine analogo, rende naturalmente l'«analogatum princeps».
Quando poi il soggetto è il «popolo di Dio» lo si deve intendere nel
senso che il termine ha ormai preso nel linguaggio teologico, canonistico
e pastorale a partire dalla Lumen Gentium. Se prima del Concilio aveva il
significato prevalente di «fedeli laici», oggi è diventato semplicemente
sinonimo di «Chiesa». Questo fatto appare, per esempio, con tutta
chiarezza, nel nuovo Codice, quando, sotto il titolo «De populo Dei», il
Liber II rubrica insieme i «christifideles» (Pars I), la gerarchia (Pars II) e i
religiosi (Pars III).
1 Quando afferma che la Messa non è mai un sacrificio privato del sacerdote, ma
pubblico, di tutta la Chiesa: «la Chiesa non condanna come private e illecite quelle
Messe, nelle quali il sacerdote soltanto si comunica sacramentalmente, ma anzi le
approva e le raccomanda, in quanto anche quelle Messe devono ritenersi veramente
comunitarie, sia perché in esse il popolo partecipa spiritualmente, sia perché sono
celebrate dal ministro pubblico della Chiesa non solo per sé, ma anche per tutti i fedeli
appartenenti al Corpo di Cristo» (Sess. XXII, cap. 6: Fdc, p. 423). Quando dice che
Cristo ha lasciata il sacrificio eucaristico alla Chiesa (Ibid., cap. 1: FdC, p. 419) e che,
in questo sacrificio, Lui stesso è immolato dalla Chiesa per mezzo dei sacerdoti (Ibid.,
cap. 1: FdC, p. 420).
2 Si possono consultare: A. PIOLANTI, Il mistero eucaristico, cit., pp. 521-546, con
ampia bibliografia, e S. TROMP, De Christo capite (Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1960) pp. 323-338. Utile, soprattutto per l'abbondante documentazione di Santi
Padri, teologi pre e post-tridentini: Y.M-J. CONGAR, Per una teologia del laicato
(Morcelliana, Brescia 1967) pp. 248-310.
3 A. XAVIER DA SILVEIRA, Op. cit., p. 31.
4 Ibid., pp. 117-118.
5 Ibid., p. 32.
6 Ibidem.
7 Cfr. p. 33 con la nota 59.
8 Cfr. Mediator Dei, in: Insegnamenti pontifici, vol. 8: La Liturgia, cit., n. 563.
9 Cfr. A. XAVIER DA SILVEIRA, cit., pp. 102-105.
10 Cfr. URBANO VIII, Sancta mater, 5 marzo 1633, cit. in: S. TROMP (edit.), Litterae
encyclicae Pius Papa XII de mystico Iesu Christi Corpore deque nostra in eo cum Christo
coniunctione «Mystici Corporis Christi» 29 iun. 1943 (Pontificia Università Gregoriana,
Roma 19634) p. 122; PIO XII, Lett enc. Mystici Corporis, in: Insegnamenti pontifici, vol.
12: La Chiesa (Roma 1961) nn. 1046.1083; IDEM, Lett. enc. Mediator Dei, 20 novembre
1947, in: Insegnamenti pontifici, vol. 8: La Liturgia, cit., nn. 565, 569-572.
11 A. PIOLANTI, Op. cit., pp. 538. La sottolineatura è nostra.
12 Op. cit., p. 334.
13 Questa differenza si può, analogicamente, paragonare a quella fra la
concezione democratica moderna del potere, per cui il soggetto originario è il popolo
come somma di individui e quella tradizionale-suareziana, secondo cui è lo stesso
popolo, ma come unità organica. Fra Chiesa e società civile permane naturalmente la
fondamentale differenza che in questa c'è libertà di espressione concreta della forma di
governo, mentre in quella essa è prestabilita dal divin Fondatore.
14 Can 813, 1. La norma si ritrova anche nel nuovo Codice, pur con una certa
attenuazione che era però già entrata nella pratica: «Il sacerdote non celebri il
Sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per
giusta e ragionevole causa» (Can. 906).
15 La crisi nella Chiesa e Mons. Lefebvre (Brescia 1976), p. 32, nota 12. Cfr.
anche J.M. SUSTAETA, Misal y Eucaristia (Valencia 1979), p. 197.
16 Lettera «Sacerdotium ministeriale» su questioni concernenti il ministro
dell'Eucaristia del 6 agosto 1983, parte II, n. 3: L'Osservatore Romano, 9 settembre
1983.
17 GIOVANNI PAOLO II, Dominicae Cenae, 24 febbraio 1980: EV 7, 186; testo ripreso
nel documento citato alla nota precedente: parte II, n. 4.
18 Cfr. M. RIGHETTI, La Messa ..., cit., pp. 245 ss.
19 Si vedano le documentate critiche di KLAUS GAMBER, Der Altarraum in der Ostund
Westkirche in seiner geschichtlichen Entwicklung, in Una Voce Korrespondenz 2
(1976) pp. 123-132; IDEM, La riforma della Liturgia Romana. Cenni storici –
Problematica, (Una Voce, Roma 1980) pp. 52-60; Card. JOSEPH RATZINGER, Das Fest
des Glaubens (Einsiedeln 1981) pp. 121-126. In sostanza i critici fanno notare che: 1)
La celebrazione «versus populum» non può essere qualificata come «primitiva», in
quanto l'antichità conosce soltanto un comune rivolgersi a Oriente (o verso la croce
che si trova sulla parete orientale) di sacerdote e fedeli; 2) Questa forma di
celebrazione comporta – nel contesto attuale – il rischio di mettere la comunità al
centro, dimenticando l'orientamento trascendente del rito.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 16:40]
09/02/2011 18:00
 
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20 Card. G. LERCARO, Presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem
liturgicam, Lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali, 25 gennaio 1966, n. 6:
Notitiae 18 (1966) p. 160.
21 IGMR, Proemio, n. 4: EV 3, 2022. Il testo del Prefazio dice: «Con l'unzione dello
Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza,
e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli non
soltanto comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, ma con affetto di
predilezione sceglie alcuni tra i fratelli e mediante l'imposizione delle mani li fa
partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio
redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo,
lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti».
22 Per il senso più antico (prefisso «con» che designa intensificazione del verbo), si
veda: BENEDICTA DROSTE O.S.B., «Celebrare» in der römischen liturgiesprache: Eine
liturgie-theologische Untersuchung (Max Hueber Verlag, München 1963) p. 90.
23 Op. cit., p. 112. Mi pare che l'autore non tenga debitamente conto del fatto che
il carattere battesimale conferisce una reale «deputazione al culto». Se primariamente
esso abilita alla ricezione passiva dei sacramenti, secondariamente abilita anche ad un
ruolo attivo nel culto, per cui anche il fedele offre – mediante il sacerdote ministro – la
vittima eucaristica, ed è dunque, seppure subordinatamente, rappresentante ufficiale
di Cristo nel culto. La posizione di fondo di Xavier da Silveira risulta assai
minimalistica nei confronti del sacerdozio comune. Sostenibile forse come opinione
teologica, non può però mai assurgere a «dottrina cattolica» e, men che meno, a dogma
definito, da contrapporre ad un documento del Magistero.

24 Cfr. Introduzione, p. 11, nota 9.
25 «Abbiamo dimostrato che la parola "celebrare" a partire dai primi tempi della
latinità classica fino alla lingua liturgica cristiana è rimasta intatta nel suo significato
fondamentale. "Celebrare" è un agire comunitario, pubblico, che si perfeziona
soprattutto in una certa solennità e si stacca dalla quotidianità»
(B. DROSTE, cit., p.
196). «In "celebrare" sono visibili il significato di "congregare" e "in unum convenire",
l'agire creativo del "facere" e l'intensività dell'"agere", quello sempre rinnovantesi del
"recurrere" e il ricordo affettuoso che si può rendere con "recolere". In rapporto
all'oggetto corrispondente la parola si carica del senso di sacrificio o di rendimento di
lode, con l'aspetto del "predicare" ed "esultare"» (Ibid., p. 197). È interessante rilevare
che anticamente il soggetto di "celebrare" era per lo più al plurale: «Soggetto del
"celebrare" è nei Sacramentari il più delle volte "nos", oppure questo è contenuto nella
forma verbale "celebramus – celebremus"... Si tratta del "noi" della Chiesa e proprio
quella hic et nunc riunita che compie il sacrificio, rappresenta il mistero, festeggia la
solennità» (Ibid., p. 75).

26 Cfr. Lessico Universale Italiano (Treccani), volume IV (Roma 1970) sub voce.
L'espressione «dir Messa» indica inequivocabilmente, nell'italiano corrente, l'azione
specifica del sacerdote. Il fondamento teologico esiste: solo il sacerdote «dice» le parole
essenziali, quelle della consacrazione. Così «sentir Messa» rende univocamente il ruolo
del fedele.


Capitolo
Settimo


NOVUS ORDO MISSAE
E INFALLIBILITÀ

Il problema dei rapporti fra NOM e infallibilità del Magistero
ecclesiastico è un problema assai complesso, perché non esiste ancora
una dottrina teologica compiutamente sviluppata sull'infallibilità
e –
soprattutto – sui criteri per discernere la sua portata concreta. C'è una
certa anarchia, almeno nel linguaggio. Naturalmente questa complessità
si rivela quando ci si pone sul piano della riflessione più approfondita
sull'atto di fede e sulla sua intrinseca dimensione ecclesiale, perché
altrimenti il fedele vive naturalmente questa infallibilità («prius vita
quam doctrina» dice san Tommaso...). Il problema è quindi certamente
risolvibile almeno a grandi linee, che sono quelle che ci interessano
praticamente.
È tesi pacifica che la Chiesa è infallibile nelle leggi universali.
Comunemente si dice che c'è infallibilità quando c'è «definizione
dogmatica». La Chiesa, si ripete, è infallibile quando «definisce». Tuttavia
i teologi, in ossequio alle fonti della Rivelazione, hanno sempre esteso
l'infallibilità oltre il campo di una definizione dogmatica in senso stretto.
Anche oltre il campo di un magistero strettamente dottrinale.
Normalmente, nei manuali classici, si ritengono oggetto «secondario»
(essendo oggetto «primario» le verità formalmente rivelate) di infallibilità:
─ Le verità speculative connesse con i dati rivelati, cioè quelle dalla cui
negazione, logicamente e metafisicamente segue la negazione della
verità rivelata.
─ I fatti dogmatici come la legittimità di un Concilio o il senso
ortodosso o eterodosso di un testo umano.
─ Le leggi universali che promanano dalla suprema autorità della
Chiesa, come le leggi contenute nel Codex Iuris Canonici, le leggi
liturgiche, le canonizzazioni dei santi, le approvazioni degli ordini
religiosi1.
Non mi pare seriamente contestabile che il NOM debba essere
rubricato come legge universale. Il termine «universale» non deve trarre
in inganno. Nell'uso tradizionale esso ha un significato più qualitativo
che quantitativo2. L'obiezione tuttavia è stata sollevata (non però da
Xavier da Silveira).
Si è negato in particolare che si possa parlare a suo proposito di
«legge della Chiesa». Sono stati avanzati dubbi di carattere formale:
esisterebbero vizi decisivi nella sua promulgazione, oltre che di carattere
sostanziale: è un provvedimento che non è ordinato al bene comune,
quindi non è una legge3.
Ora, che all'inizio si sia potuto produrre un dubbio sulla
autenticità della Missale Romanum a causa di tante cose poco chiare
nella forma della promulgazione, è anche comprensibile4, ma, una volta
che l'autorità, almeno con la sua pratica di ormai quasi tre lustri, ha
mostrato chiaramente di considerare come sua questa Costituzione
Apostolica, il dubbio non ha più ragione di esistere.

D'altra parte, promulgato o non promulgato, questo rito è
utilizzato dalla totalità morale della Chiesa docente. Accettato a
malincuore da una parte forse considerevole di quest'ultima, ma sempre
ritus approbatus di quell'approvazione minimale che consiste nel
considerarlo almeno come utilizzabile.
Passando dalla forma alla sostanza, osserviamo che la valutazione
di un atto di magistero, in quanto magistero, deve essere fatta secondo
criteri innanzitutto esterni (è veramente l'autorità che parla o legifera?
Qual è l'entità del suo impegno? ecc.), altrimenti si accantona
puramente e semplicemente il principio di autorità. Dire che un atto di
magistero non è infallibile perché è sbagliato vuol dire semplicemente
vanificare il magistero nel momento in cui lo si afferma.
La perplessità
riguardo al contenuto mi spingerà a verificare più da vicino le condizioni
in cui tale insegnamento si è dato. Verificate le condizioni che mi
assicurano dell'infallibilità, dovrò allora ritornare sulle mie perplessità
per espungerle in nome dell'obedientia fidei. Fermo restando che in ogni
caso – nel caso sia di insegnamento infallibile, sia di insegnamento
soltanto autentico – la presumptio veritatis è tutta dalla parte del
magistero. Sostenere il contrario è, ancora una volta, svuotare la parola
«autorità» di ogni suo contenuto reale.

Quindi, che una legge universale (garantita – secondo la dottrina
comune – dall'infallibilità) sia contro il bene comune, lo devo valutare,
da cattolico, sulla base, prima di ogni altra considerazione, della sua
«universalità», reale o fittizia.
Obiezione più consistente è quella avanzata da Xavier da Silveira,
che chiama in causa l'intenzione dell'autorità.
L'infallibilità è prerogativa che accompagna l'impegno supremo
dell'autorità, il suo impegno «pieno». Questo impegno è un «atto umano»
che deve essere libero, consapevole, per essere veramente tale. Ci deve
essere cioè l'intenzione di pronunciarsi compiutamente perché ci sia
l'infallibilità. Quando l'autorità stessa, interpretando il suo gesto,
esclude questa intenzione, è chiaro che, nonostante le eventuali
apparenze in contrario, l'infallibilità deve essere parimenti esclusa.
Innanzitutto ci pare che il problema sia visto in un'ottica
eccessivamente volontaristica. L'intenzione che è qui decisiva, non è
l'intenzione puramente soggettiva, ma quella che si manifesta
esteriormente in un atto discernibile e interpretabile in se stesso. La
interpretatio autentica ha ragion d'essere quando l'atto, in se stesso, è
indeterminato e nella misura in cui lo è. Non quando, per la sua stessa
natura esige un impegno ben preciso. Così quando il Magistero
interviene in determinate materie delicate, che sono – a prescindere da
condizioni esterne – di interesse vitale, quale il modo con cui deve
essere celebrato il Mysterium fidei, l'entità dell'impegno è tutta
deducibile dall'importanza della materia.
Entità tanto più «densa», quanto più ci si trova al centro del
mistero5. Un po' diverso è il caso di un testo puramente dottrinale, la
cui incidenza nella vita della Chiesa è influenzata in modo determinante
dall'importanza che l'autorità stessa, o anche tutta la Chiesa – sempre
sotto il controllo dell'autorità – vi attribuisce.
In pratica poi il punctum stantis et cadentis è tutto costituito da
un intervento di Paolo VI: l'interpretatio autentica, appunto, che
escluderebbe l'impegno supremo e quindi l'infallibilità.
«Il rito e la rubrica relativa non sono di per sé una definizione
dogmatica, e sono suscettibili di una qualificazione teologica di valore
diverso a seconda del contesto liturgico a cui si riferiscono; sono gesti e
termini riferiti ad un'azione religiosa vissuta e vivente di un mistero
ineffabile di presenza divina, non sempre realizzata in forma univoca,
azione che solo la critica teologica può analizzare ed esprimere in
formule dottrinali logicamente soddisfacenti»6.
In questo testo però non troviamo tanto l'enunciazione di una
intenzione, quanto piuttosto la constatazione di un fatto: un rito non è
una formulazione dogmatica. L'impegno del magistero deve dunque
essere letto in esso tenendo conto della sua natura.
Innanzitutto un rito ha una finalità eminentemente pratica. Ha
caratteristiche sue proprie che lo differenziano nettamente sia da una
definizione dogmatica, sia da un manuale di catechesi o di teologia. Da
questa sua specifica natura discende che una certa ambiguità è insita
strutturalmente nelle sue espressioni (si pensi, per esempio, alle
rubriche del Messale tradizionale che contemplano ripetute benedizioni
sulle sacre specie già consacrate, con l'uso di formule che lascerebbero
supporre una consacrazione non avvenuta). Ambiguità relativa,
naturalmente, rispetto alla precisione di una enunciazione dogmatica o
di una formula catechistica. Ambiguità che deriva dall'uso di un
linguaggio più simbolico che concettuale. Dunque, quando si esamina il
suo valore teologico, occorre distinguere: – il valore teologico suo
proprio, secondo la sua finalità specifica; – la deducibilità di dogmi dai
suoi testi e dalle sue rubriche. Mi pare non abbia del tutto torto
Vagaggini quando dice che dalla liturgia (isolatamente presa) sono
pochissimi i dogmi che si possono dedurre con certezza7.
La sua infallibilità dottrinale riflessa è quindi ridotta. Diversa è
invece l'infallibilità che gli compete in relazione al suo valore teologico
proprio (una infallibilità nell'ordine pratico) che però, per essere
compreso, necessita di essere inserito in un vasto contesto. Parliamo
dell'infallibilità nell'ordine dottrinale e dell'infallibilità nell'ordine
pratico, perché l'assistenza divina – che fonda l'infallibilità – deve essere
considerata una nozione analogica, che si applica diversamente a
materie diverse8.
L'infallibilità non si riduce senz'altro alle definizioni dogmatiche9.
Il magistero è sempre assistito, anche quando non c'è definizione in
senso stretto e anche quando non si può parlare propriamente di
infallibilità. La ragione ultima dell'assenso dovuto al magistero
autentico non è tanto il suo essere infallibile, quanto il suo essere
divinamente assistito: «Chi ascolta voi, ascolta me»
(Lc 10, 16).

Seguendo le orme del card. Journet distinguiamo il potere della
Chiesa in dichiarativo e canonico. Il potere dichiarativo è il potere di
dichiarare, svelare, manifestare le decisioni che emanano direttamente
da Dio: ciò che Dio ha rivelato. Dio si degna di parlarci immediatamente
e la sua Verità e la sua Autorità sono la causa, il fondamento, il fine,
dell'adesione che diamo alla sua parola. Dio però – nella logica
economica che ha scelto – vuole servirsi di un mezzo creato (la Chiesa)
per manifestarci quali sono le verità alle quali vuole che aderiamo. Qui
la Chiesa interviene come semplice conditio sine qua non, necessaria per
metterci in contatto con la parola divina. Il potere canonico è il potere di
fondare, stabilire, promulgare delle decisioni immediatamente
ecclesiastiche. Esso si distingue dal potere dichiarativo perché, mentre
questo agisce solo come condizione manifestatrice del diritto
immediatamente divino, il potere canonico agisce come fondamento del
diritto immediatamente ecclesiastico, che non è che mediatamente
divino. Qui la Chiesa non è soltanto condizione, ma vera e propria
causa, anche se sempre assistita dalla Causa suprema che è Dio.
Questo potere canonico è esigito dal potere dichiarativo stesso, si
trova come contenuto in esso. Il potere di dichiarare con autorità le
decisioni immediatamente divine contiene il potere di legiferare, cioè di
promulgare le decisioni puramente ecclesiastiche o canoniche, come il
ramo contiene le foglie. Cristo, che ha affidato ai suoi ministri il compito
di diffondere la buona novella, non può averli lasciati senza i poteri
necessari per eseguirlo concretamente e immediatamente10.
Dunque:
dichiarativo: dichiara la
Rivelazione
speculativa
pratica
Potere
canonico: dispone tutto ciò che
rende accessibile la Rivelazione
speculativa
pratica
È ovvio che la Chiesa deve essere assolutamente infallibile
quando dichiara che una proposizione (speculativa o pratica) è
contenuta nel deposito della Rivelazione. Ma non si può pensare che
l'infallibilità si riduca a questo. La Chiesa deve essere infallibile anche
in tutte quelle provvidenze che sono atte a condurre alla Rivelazione o
ad allontanare gli ostacoli che ne impediscono o offuscano l'accesso.
Cosa servirebbe avere a disposizione il nutrimento con cui soccorrere
degli affamati se non si fosse in grado di salvaguardare la distribuzione?
La Chiesa è maestra riguardo al vero rivelato a cui si deve aderire,
vero speculativo e pratico (fede e costumi). Ma la Chiesa è anche guida a
cui ci si deve poter affidare per vivere concretamente la fede e i costumi
insegnati da Dio.
Riguardo a questo potere canonico i teologi hanno sempre distinto
le leggi universali e le leggi particolari. Journet dal canto suo parla di
«misure di interesse generale» e «misure di interesse particolare». Il
riconoscimento di infallibilità per queste «misure di interesse generale» è
sempre stato unanime nella Chiesa. Troppo stretto è il legame che
intrattengono la santità e indefettibilità della Chiesa. «La Chiesa – dice
Gregorio XVI – che è la colonna e il sostegno della verità e che
manifestamente riceve di continuo dallo Spirito Santo l'insegnamento di
ogni verità, non può comandare, né concedere, né permettere una cosa
che sia a detrimento della salute delle anime, e che torni a disprezzo o a
danno di un sacramento istituito da Gesù Cristo»11.
Evidentemente
queste misure non sono infallibili esattamente nello stesso modo di una
dichiarazione secondo cui tale dottrina è rivelata da Dio (definizione
dogmatica). In questo caso abbiamo qualcosa di strettamente
irreformabile (anche se l'enunciazione – rispettando rigorosamente
l'identità di senso – può essere perfezionata). La Rivelazione infatti si è
chiusa con la morte dell'ultimo degli Apostoli. Una legge invece, che
ordina una materia contingente è sempre riformabile, in quanto le
ragioni che l'hanno resa opportuna in un contesto, possono non valere
più in un contesto mutato. L'infallibilità allora sarà assoluta
«radicalmente». Cioè i presupposti dogmatici della legge (per scoprire i
quali è necessaria spesso l'esplorazione di un vasto contesto) saranno
certamente veri. La dottrina riflessivamente contenuta nella legge deve
essere vera, perché, anche se lo scopo della legge non è direttamente,
quello di promulgare la dottrina rivelata, tuttavia si muove nell'ambito
della dottrina rivelata e ne dipende.
«La Chiesa – dice Melchiorre Cano – quando stabilisce in materie
gravi e concernenti la formazione di costumi cristiani leggi riguardanti il
popolo intero, non può mai ordinare niente di contrario al Vangelo o alla
ragione naturale (...) come non può definire vizioso ciò che è onesto, né
onesto ciò che è vizioso, così non può, promulgando le sue leggi,
approvare qualcosa contraria al Vangelo o alla ragione. Se, mediante un
giudizio espresso o stabilendo una legge, approvasse ciò che è disonesto
o riprovasse ciò che è onesto, un errore di tale natura non solo sarebbe
una peste e un disastro per i fedeli, ma in questo caso la Chiesa si
opporrebbe in un certo modo alla fede, che approva ogni virtù e
condanna ogni vizio. Inoltre, poiché Cristo ci ha ordinato di obbedire
alle leggi della Chiesa dicendo: "fate tutto quello che vi diranno..." e:
"Chi ascolta voi ascolta me ...", se la Chiesa sbagliasse sarebbe Lui
l'autore dei nostri errori»12. San Roberto Bellarmino dice che è
impossibile che il Papa possa sbagliare «nei precetti indirizzati a tutta la
Chiesa» e concernenti «le cose necessarie alla salvezza, o per sé buone o
cattive».
Non potrebbe mai succedere, per esempio, che il Papa «si sbagli
prescrivendo qualcosa di contrario alla salvezza, come la necessità della
circoncisione e la osservanza del sabato, o proibendo qualcosa di
necessario alla salvezza, come il battesimo o l'eucaristia»13. Le
testimonianze si potrebbero moltiplicare.
Bisogna osservare come Cano, mentre afferma senza reticenza la
dottrina sull'infallibilità delle leggi universali, dice anche che non
intende approvarle tutte e che ne conosce alcune mancanti di prudenza
e di misura. Così i teologi posteriori – come Suarez e Giovanni di S.
Tommaso – sono giunti a distinguere la sostanza delle leggi
ecclesiastiche dalla loro prudenza
(cioè dall'applicazione, circostanze,
rigore, opportunità, molteplicità e altre componenti più legate a fattori
contingenti) ed hanno affermato che le leggi ecclesiastiche sono
infallibili nella loro sostanza.
Journet precisa questo concetto dicendo
che è nel loro fondamento, nel loro principio, nella loro radice che sono
infallibili in modo assoluto.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:17]
09/02/2011 18:01
 
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Il discorso riguardo alla prudenzialità si fa necessariamente più
complesso e più sfumato. Anche qui dobbiamo ammettere un'assistenza
divina, assistenza divina che deve garantire questo risultato minimale:
che non possano causare positivamente il male. La ragione è in stretta
coerenza con quanto detto: una legge talmente inopportuna da essere
positiva fonte di perversione sarebbe incompatibile con la santità della
Chiesa e le promesse di Cristo, e a nulla varrebbe una sua eventuale,
astratta, correttezza dottrinale. L'assistenza è promessa alla Chiesa non
per risolvere i problemi degli apologeti del futuro, ma per garantire la
sua missione nella quotidiana concretezza della vita («Io sarò con voi
tutti i giorni...» Mt. 28, 20).

Tuttavia dire che una misura di interesse generale non può essere
intrinsecamente cattiva, sia quanto al fondamento, sia quanto alla
prudenzialità, non vuol dire che rappresenti sempre quanto di meglio
possibile nelle circostanze. Gli scopi fondamentali della Chiesa debbono
risultare assicurati, ma le mende possono anche essere relativamente
gravi.
Una legge può essere erronea o corretta, buona (tale da assicurare
il fine per cui è stata promulgata) o cattiva (tale da ostacolarlo
positivamente),
ma la sua «prudenzialità» tollera il più o meno. Le fonti
della Rivelazione e il Magistero, oltre che le esperienze della storia, non
suppongono affatto un'assistenza divina tale da garantire la massima
prudenzialità delle misure di interesse generale della Chiesa. Può
essere, per esempio, che, rispetto ad una normativa precedente, la legge
rappresenti un passo indietro, anche importante. Nulla ci obbliga a
credere il contrario. «Come Dio non vien meno nelle cose necessarie,
così non abbonda in quelle superflue»14. Anche questo punto, pur con
diversità di sottolineature, costituisce dottrina comune15.
Invece le cose cambiano parecchio per le misure di ordine
particolare. L'assistenza divina non le garantisce una per una, ma
soltanto nell'insieme. Se una deficienza nell'atto singolo è possibile, ciò
avviene «per accidens», «singillatim» e non «per sé», «ut in pluribus».
Altrimenti ritorneremmo ad attribuire alla Chiesa una deficienza
intrinseca.
Bisogna però dissipare un equivoco possibile sul termine «di
interesse particolare». Esso si riferisce alla materia, di carattere più
contingente, non tanto al soggetto da cui emana (autorità particolare) o
al fatto che interessa solo una parte della Chiesa. Qui si parla
dell'assistenza promessa alla Chiesa universale. Una chiesa particolare
gode di questa assistenza solo nella misura in cui agisce in comunione
con la Chiesa universale,
di cui centro e criterio è Pietro. Una parte della
Chiesa, in quanto si contrappone al tutto, non gode di nessuna
assistenza. Su di lei le porte dell'Inferno possono prevalere.
L'ambito dell'infallibilità non è ancora finito: l'assistenza divina
investe infatti tutto il complesso dell'azione della Chiesa, anche se in
modo non univoco ma differenziato. Il principio che comanda la sua
gradualità è questo: essa si fa tanto più debole quanto minore è
l'impegno e quanto più ci si allontana dai fini propri della Chiesa.
È ovvio che gli atti di quella che potremmo chiamare la «politica»
della Chiesa (e la sua diplomazia) non sono garantiti in se stessi.
Certamente molto meno degli atti, anche particolari, di interesse
direttamente religioso. Anche qui però il fine della Chiesa deve essere
raggiungibile: cioè deve essere garantita almeno la sopravvivenza della
Chiesa universale. E quello che Journet chiama potere «biologico».
L'assistenza è qui minimale: garantisce la vita della Chiesa nella sua
consistenza sociologica ed è infallibile quanto a questo effetto. La Chiesa
è indefettibile non soltanto quanto alla dottrina rivelata e ai sacramenti,
ma anche quanto alla sua realtà sociale e istituzionale. Anche se questo
evidentemente non vuol dir nulla sulla sua consistenza
quantitativamente considerata: nulla impedisce – di per sé – che subisca
forti ridimensionamenti nell'estensione e nei membri16.
quanto al fondamento
dottrinale:
di assistenza assoluta
interesse
generale
quanto alla prudenzialità:
assistenza tale da
garantire l'ottenimento
del fine
misure atte
a rendere
accessibile la
Rivelazione
di interesse particolare:
assistenza che garantisce
la loro riuscita «ut in pluribus» POTERE
CANONICO
misure per assicurare l'esistenza empirica
della Chiesa: assistenza globale che garantisce
per lo meno la sopravvivenza della Chiesa
Il NOM ci fornisce un esempio patente di «misura di interesse
generale» o legge universale. Si tratta infatti della regolamentazione
della S. Messa, per cui il potere canonico stabilisce le norme concrete
per attuare il comando di Cristo: «fate questo in memoria di me».
Universale quanto alla causa finale: il bene comune che intende
garantire è quello supremo dell'Eucaristia. Si può dire che non esiste
punto più nevralgico e componente più intima del bene comune della
Chiesa, se è vero, come è vero, che «la Eucaristia fa la Chiesa».
Legge universale quanto alla causa formale: un rito liturgico è
certamente una legge in senso proprio e una legge di carattere
permanente.
Universale quanto alla causa efficiente: emana dalla suprema
autorità della Chiesa.
Universale quanto alla causa materiale: interessa i fedeli di rito
romano (si può dire di tutti i riti latini). È la parte materialmente più
cospicua della Chiesa ed è considerata moralmente (per la «potior
principalitas» della Chiesa di Roma e la sua conseguente esemplarità)
come coincidente con la Chiesa universale17.
Anche ad esso quindi compete quell'assistenza che abbiamo visto
essere propria di ogni «misura di interesse generale».
Assistenza assoluta e quindi infallibilità assoluta quanto al
fondamento, alla radice dottrinale. Assistenza solo relativa quanto alla
prudenzialità: cioè tale da garantire l'ottenimento dello scopo specifico
del rito. Infallibilmente dunque, in virtù di questo rito, l'Eucaristia sarà
degnamente offerta a Dio come sacrificio e efficacemente distribuita
come sacramento.
Poiché le disposizioni rituali, anche accessorie,
hanno un notevole effetto sulle disposizioni atte a ricevere
fruttuosamente le grazie della celebrazione sacramentale, una loro
maggiore o minore perfezione riveste una notevolissima importanza,
senza giudicare con ciò la validità e l'intrinseca dignità della «substantia
sacramenti». In altri termini: se la legge è sostanzialmente «buona» non
è detto che sia la migliore possibile. Essa può portare in sé delle mende
anche gravi, che impongono una sua sollecita revisione.

1 Cfr. SALAVERRI, De Ecclesia Christi, in: Sacrae theologiae summa, vol. I (Madrid
19625), pp. 721-724. Per oggetto secondario o indiretto dell'infallibilità si intende tutto
ciò che è necessario per assicurare la trasmissione dell'oggetto primario, che sono le
verità rivelate.
2 Cfr. Ch. JOURNET, L'Eglise du Verbe incarné, vol. I (Brouges 19623), pp. 473-
474. Nel corso di questa esposizione ci serviremo abbondantemente delle pagine lucide
e penetranti che questo autore ha dedicato al problema del magistero infallibile. Penso
che siano, a tutt'oggi, quanto di più completo sia stato scritto dal punto di vista
speculativo.
3 «Come può essere antipastorale una legge disciplinare ecclesiastica universale,
quale è quella che ha per oggetto la nuova Messa? Innanzitutto rovesciamo la frase:
siccome è antipastorale – et contra factum non valet argumentum – non può essere
oggetto di legislazione ecclesiastica, vuoi universale, vuoi particolare: la legge non può
avere per oggetto che il bonum communitatis» (Pro Missa Traditionali, suppl. al n. 58 di
Notizie, pro manuscripto, Torino s.d., p. 12).
4 Cfr. L. SALLERON, Solesmes e la Messa (Roma 1976).
5 Quindi le diverse parti di un rito sacramentale hanno valore diverso secondo il
legame oggettivo che intrattengono con la substantia sacramenti.
6 Allocuzione all'udienza generale del 19 novembre 1969: Insegnamenti di Paolo
VI, vol. VII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1970, p. 1123.
7 Cfr. Il senso teologico della liturgia, cit., pp. 493-496 e 535-536.
8 Cfr. CH. JOURNET, Op. cit., p. 433.
9 «Infatti anche se si trattasse di quella sottomissione da prestarsi attualmente
alla Fede divina, non dovrebbe limitarsi tuttavia a quanto è stato definito con pubblici
decreti dai Concili ecumenici o dai Romani Pontefici di questa Sede, ma deve
estendersi anche a quanto è comunicato come rivelato da Dio per magistero ordinario
di tutta la Chiesa sparsa nel mondo, e quindi per consenso universale e costante è
ritenuto dai teologi cattolici come di Fede»
(Lettera di Pio IX all'Arcivescovo di Monaco-

Frisinga, 1862: FdC, p. 272).
10 In tutta questa esposizione seguo passo passo il JOURNET, di cui riporto anche
letteralmente certe espressioni.
11 Enciclica Quo graviora del 4 ottobre 1833: Insegnamenti pontifici, vol. 11, La
Chiesa (Roma 1961) n. 173.
12 De locis theologicis, 1. V, cap. V, concl. 2, cit. in: JOURNET, cit., pp. 470-471.
13 De Romano Pontifice, 1. IV, cap. V, cit. in: JOURNET, cit., p. 471.
14 M. CANO, De locis theologicis, 1. V, cap. V, concl. 2: Ibid., p. 470.
15 Citiamo a titolo di esempio, il più classico dei commentari del vecchio Codex, il
WERNZ-VIDAL: «I romani Pontefici non sono per niente impediti di legiferare contro gli
statuti disciplinari dei loro predecessori (poiché non vi è autorità di "par in parem") o
contro il diritto comune di veneranda antichità... E sebbene può accadere che i romani
Pontefici promulghino eventualmente, per breve tempo, leggi meno opportune che
dovrebbero essere corrette o ritrattate da lui stesso o dai suoi successori, tuttavia non
può succedere e non succederà mai che venga promulgata dal romano Pontefice per la
Chiesa universale una legge disciplinare contraria alla retta fede e ai buoni costumi.
Infatti, sebbene non sia stato promesso ai Papi il supremo grado di prudenza nel
promulgare leggi disciplinari, tuttavia certamente godono di quell'infallibilità di cui
gode la Chiesa circa le leggi universali disciplinari» (Jus canonicum, t. I [Roma 19522]

pp. 268-269). Si senta anche il SUAREZ: «Bisogna comprendere questo (l'infallibilità
assoluta), quanto alla sostanza o quanto all'onestà dei costumi: infatti, per quanto
riguarda le circostanze o di moltiplicare i precetti o il rigore o pene eccessive, non è
sconveniente talvolta incorrere in qualche umano difetto, poiché questo non va contro
la santità della Chiesa; ma approvare cose turpi per oneste o, al contrario, condannare
cose oneste per inique, ripugna alla verità e alla santità della Chiesa, e pertanto anche
in queste cose il Pontefice non può errare» (Cit. in: Jus canonicum, cit., p. 269, nota

28).
16 San Roberto Bellarmino ritiene possibile che la Chiesa si riduca anche solo ad
una «provincia». Cfr. BILLOT, De Ecclesia Christi, t. I (Roma 1927) p. 223, nota 1.
17 Un caso analogo è costituito dal Codex Iuris Canonici che, pur regolamentando
la sola Chiesa latina, è considerato legge universale.

[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:33]
09/02/2011 18:02
 
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TESTI LITURGICI
A DIRETTO CONFRONTO

Al fine di valutare, come ci siamo proposti all'inizio del nostro
lavoro, se fra il NOM e i riti protestanti – nonostante l'innegabile
avvicinamento ecumenico – permanga una differenza essenziale,
abbiamo esaminato soprattutto l'IGMR alla luce delle posizioni
teologiche storiche dei riformatori. Abbiamo concluso per la permanenza
dei punti discordanti fondamentali: sacrificio vero e proprio; presenza
vera, reale, sostanziale; sacerdozio ministeriale e non soltanto comune.
Occorre tuttavia verificare questo fatto anche nei riti concretamente
celebrati, pur tenendo conto che un rito non è un trattato, e quindi non
vi dobbiamo cercare queste differenze espresse con la precisione di un
enunciato teologico. Già le abbiamo riscontrate in due pratiche rituali:
la Messa celebrata dal solo sacerdote e il culto eucaristico extra Missam.
A cui si potrebbe aggiungere l'applicazione della Messa per i defunti
(solo la Prex eucharistica IV manca di una formula particolare per un
defunto, mentre al n. 316 della IGMR si dice che «ogni Messa... è offerta
tanto per i vivi quanto per i defunti»).
Innanzitutto vedremo, nelle parti essenziali che ci interessano, le
liturgie «storiche» della Riforma: la liturgia di Lutero, quella di Calvino e
quella di Cranmer. Quindi la liturgia di Taizé, come massimo
avvicinamento, anche sul piano rituale alle posizioni cattoliche. Infine le
tre nuove preghiere eucaristiche del NOM e le preghiere eucaristiche V e
VI introdotte nel Rito Ambrosiano.
1. La liturgia eucaristica di Lutero1
Inizialmente Lutero cerca di interpretare i riti tradizionali nel
senso della sua teologia. Nel De captivitate babylonica riconosce che
soprattutto il Canone Romano ha un forte significato sacrificale.
Tuttavia pensa di potere interpretare le espressioni sacrificali
come interamente riferite all'offerta del pane e del vino, materia del
sacramento, o ai sacrifici spirituali dei cristiani, oppure alla preghiera,
«sacrificio delle labbra».
«Anche le parole del canone sembrano esprimere questa opinione
(l'erronea opinione che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio), dove è
detto: "Questi doni, queste offerte, questo santo sacrificio", e più giù:
"questa offerta". Similmente in modo chiarissimo si chiede che riesca
accetto a Dio il sacrificio, come fu gradito il sacrificio di Abele, ecc.
Perciò Cristo viene definito vittima dell'altare. Concordano con queste
opinioni le parole dei santi Padri, numerosi esempi ed una lunga
tradizione costantemente mantenuta nel mondo intero. (...) Quali
argomenti dunque contrapporremo al canone della messa e all'autorità
dei Padri? Innanzitutto rispondo che, se non c'è niente da dire, è meglio
negare tutto, piuttosto che considerare la messa come un'opera buona o
un sacrificio, per non andare contro la parola di Cristo, perdendo
insieme la fede con la messa. Tuttavia, per salvare gli argomenti dei
Padri, diremo che dall'Apostolo (1 Cor 11, 18) apprendiamo come i
cristiani erano soliti riunendosi per la messa portare con sé cibo e
bevande che chiamavano collette, da distribuire ai poveri, seguendo
l'esempio degli Apostoli (At 4,34); dalle collette si prendevano il pane e il
vino destinati alla consacrazione. E poiché erano consacrati con parole
e preghiere secondo il rito ebraico, per cui erano levati in alto, come si
legge in Mosè, sono rimaste le parole e il rito di sollevare il pane e il vino
in segno di offerta, pur essendo stato abolito da gran tempo l'uso di
raccogliere i cibi e le bevande da offrire. (...) Perciò le parole sacrificio e
offerta si devono riferire non al sacramento e al testamento di Cristo,
ma alle collette. Perciò è rimasta la parola colletta per le preghiere fatte
durante la messa.
Per il medesimo motivo è avvenuto che il sacerdote, dopo aver
consacrato il pane e il calice, li innalzasse [rito dell'elevazione] non con
l'intenzione di offrire a Dio qualche cosa, poiché neppure con una
parola ricorda la vittima o l'offerta; è anche questo un resto del rito
ebraico, per il quale si levavano in alto quelle offerte che venivano
considerate accette a Dio insieme con il rendimento di grazie (...).
I sacerdoti, in questo secolo di rovina e di dannazione, stiano
attenti, mentre celebrano la messa, innanzitutto a riferire le parole del
canone maggiore e minore, con le collette che apertamente parlano di
sacrificio, non al sacramento, ma al pane e al vino, oppure alle
preghiere; ma quando il pane è stato benedetto e consacrato non può
più essere offerto, ma viene ricevuto in dono da Dio ...»2.
In seguito però Lutero cercò di adattare il rito alle sue concezioni.
Gli scritti nei quali si occupò in modo particolare della riforma liturgica
sono i seguenti: Dell'ordine del servizio divino nella comunità («Von der
Ordnung des Gottesdienstes in der Gemeinde») preparato nel 1523 per
la comunità di Leisnig (Sassonia elettorale) che gli aveva chiesto un
ordinamento per il culto pubblico; la Formula missae et communionis,
del medesimo anno, composta per il predicatore Nicolaus Hausmann di
Zwickau, che si era lamentato con lui della eccessiva varietà di forme
liturgiche esistenti; e la Messa tedesca e ordine del servizio divino
(«Deutsche Messe und Ordnung des Gottesdienstes») del 1526.
La riforma liturgica di Lutero si risolve in una soppressione
radicale del Canone; nel suo «Servizio divino» non si riscontra neppure
la struttura di una preghiera eucaristica. Al suo posto (nella Deutsche
Messe) c'è un prefazio, trasformato in una esortazione, con le parole
dell'istituzione e della comunione. Il nucleo centrale della Messa, con
uno schematismo che riflette meccanicamente la teologia eucaristica
elaborata per es. nel De captivitate babylonica, consta di due parti: a) il
testamento divino, cioè le parole dell'istituzione e b) la distribuzione del
sacramento.
La struttura si articola così: Introito, Kyrie, Colletta, Epistola e
Vangelo, Professione di fede, Omelia, Parafrasi del Pater, Azione
eucaristica (testamento e distribuzione), Inno eucaristico, Sanctus,
Colletta e benedizione.
Riporto qui di seguito la parafrasi del Pater e l'azione eucaristica
che – nella Deutsche Messe – sostituiscono l'offertorio e la Preghiera
eucaristica della Messa cattolica. Le rubriche sono in corsivo:
Dopo la predica deve seguire una parafrasi pubblica del Padre Nostro e una
monizione per quelli che vogliono ricevere il sacramento, nel modo che segue
o in un modo migliore.
Segue una predica che sta al posto dell'Offertorio e del Prefazio
della Messa Romana. Riportiamo solo la fine
.. D'altra parte vi ammonisco nel Cristo, affinché accogliate con retta fede il
testamento di Cristo e soprattutto le parole, nelle quali Cristo ci dà il suo
corpo e il suo sangue per la remissione. Prendetele saldamente nel cuore,
affinché vi ricordiate dell'amore gratuito che ci ha dimostrato, salvandoci
tramite il suo sangue dall'ira divina e dalla morte e dall'inferno e quindi
prendiate esteriormente il pane e il vino, cioè il suo corpo e il suo sangue,
come vostra assicurazione e pegno. Dopo di che vogliamo compiere ed
usare il suo testamento nel suo nome e dietro suo ordine mediante le sue
proprie parole.
... Ma l'ammonizione può diventare una pubblica confessione.
ACTIO EUCHARISTICA
Poi segue l'azione [das Amt] e cioè nel modo che segue.
EXEMPLUM
Nostro Signore Gesù Cristo nella notte in cui fu tradito, prese il pane,
ringraziò e lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli e disse: Prendete e
mangiate. Questo è il mio corpo, che viene dato per voi. Tutte le volte che
fate questo, lo fate in memoria di me. Lo stesso fece col calice dopo la cena
e disse: Prendete e bevetene tutti, questo è il calice, un nuovo testamento
nel mio sangue che viene sparso per voi in remissione dei peccati. Tutte le
volte che fate questo bevete in memoria di me.
La differenza appare con evidenza nell'assenza totale di Preghiera
eucaristica e quindi di riferimento sacrificale.
Quello che Lutero ha inteso principalmente eliminare perché
particolarmente scomoda per la sua teologia è l'anamnesi offerta: «Unde
et memores ... offerimus ...»3, oltre che, naturalmente, le preghiere
dell'offertorio: «Suscipe, sancte Pater» e «offerimus tibi, Domine, calicem
salutaris ...».
L'anamnesi-offerta rimane però nelle tre preghiere eucaristiche
nuove, dando un chiaro e inequivocabile significato sacrificale all'azione
eucaristica. Per rendersi conto di come ci si allontani qui
sostanzialmente dalla teologia di Lutero, basta confrontare l'anamnesi –
offerta della Preghiera II (la più povera di significati sacrificali):
«Celebrando il memoriale (...) ti offriamo, Padre, il pane della vita e il
calice della salvezza ...», con la chiara posizione luterana: «Quando il
pane è stato benedetto o consacrato non può più essere offerto ma viene
ricevuto in dono da Dio»4.
Lutero avrebbe respinto questa formula con lo stesso vigore con
cui respinse l'«Unde et memores ...», perché, pur nella sua povertà,
racchiude il nocciolo della posizione cattolica. Si possono lecitamente
rimpiangere le ricchezze delle preghiere offertoriali soppresse e
l'insistenza delle non inutili ripetizioni, dobbiamo però riconoscere che
le nuove preghiere intendono accompagnare ed esprimere l'offerta di un
sacrificio.
In alcune forme liturgiche luterane attuali la preghiera eucaristica
ha fatto la sua ricomparsa, tuttavia sempre con riferimenti precisi alle
posizioni tipiche del luteranesimo: enfasi particolare nel sottolineare
l'unicità e la sufficienza del sacrificio della Croce, pane e vino come
«segno della presenza di Cristo», presenza di Cristo «nel pane e nel vino»
o «sotto il pane e il vino», ecc.5.
Così, per esempio, nell'attuale liturgia valdese (che ha però come
principale fonte di ispirazione la teologia di Calvino), se ha fatto la sua
ricomparsa una formula che riecheggia l'anamnesi-offerta, essa non
esce dallo schema luterano del testamento-comunione: «Noi vogliamo
ora commemorare il sacrificio del nostro Salvatore, partecipando alla
comunione del suo corpo e del suo sangue nella celebrazione della
santa cena».
L'anamnesi si consuma interamente nella comunione, mentre, se
di offerta si può parlare, essa è soltanto la offerta riconoscente della
nostra vita»6 intesa come ben distinta da quella di Cristo Salvatore.
Così, in un'altra formulazione: «Commemorando il sacrificio unico e
perfetto del Signore nostro Gesù Cristo sulla croce, nella gioia della
risurrezione e nell'attesa della sua venuta, ti offriamo noi stessi in
sacrificio vivente e santo ...»7. Il sacrificio attualmente offerto è dunque
il sacrificio vivente e santo di Rm 12, 1, non il sacrificio unico e perfetto
di Cristo presente sotto i segni sacramentali.
2. La liturgia eucaristica di Calvino8
Per Calvino la predicazione è l'unico mezzo di grazia che comunica
la salvezza, mentre i sacramenti si limitano a confermarla. La sua
riforma liturgica sfocia quindi naturalmente in un culto tutto incentrato
sulla predicazione.
La struttura che prende il «Servizio divino» con la riforma di
Calvino (1553) è la seguente: 1) Preghiera per la Chiesa; 2) Lettura della
narrazione dell'istituzione secondo Paolo; 3) Scomunica dei peccatori
scellerati; 4) Esortazione sulla dottrina della Cena; 5) Comunione; 6)
Ringraziamento; 7) Benedizione finale.
Riportiamo il testo del racconto dell'istituzione con la rubrica che
l'accompagna.
Poi, dopo aver fatto le preghiere e la confessione di fede per testimoniare a
nome del popolo che tutti vogliono vivere e morire nella dottrina e religione
cristiana, dice ad alta voce:
Ministro: Ascoltiamo come Gesù Cristo ci ha istituito la sua santa Cena
secondo che san Paolo lo racconta nell'undicesimo capitolo della prima ai
Corinti ...
Segue il testo di 1 Cor 11, 23-29 che costituisce l'«anamnesi».
È evidente il totale prevalere dell'aspetto di narrazione e quindi di
memoria puramente soggettiva.
Significative, fra tante altre, anche queste espressioni, contenute
nell'esortazione:
Eleviamo i nostri spiriti in alto, dove è Gesù Cristo nella gloria del suo
Padre e dove l'attendiamo in nostra redenzione. E non ci attardiamo su
questi elementi terreni e corruttibili, che vediamo con gli occhi e tocchiamo
con le mani, per cercarlo qui, come se fosse imprigionato nel pane e nel
vino ... Contentiamoci dunque, d'avere il pane e il vino per segni e
testimonianze, cercando spiritualmente la verità dove la parola di Dio
promette che la troveremo.
3. La liturgia eucaristica di Cranmer9
La liturgia di Cranmer è la liturgia anglicana introdotta col
decreto di Edoardo VI (1547), dopo l'approvazione del senato (21
gennaio 1549), nel «Book of the common prayer and administration of
the sacraments and other rites and ceremonies of the churche after the
use of the churche of England». In questa prima edizione Cranmer si
ispira agli ordinamenti luterani e zwingliani. Ne risulta un servizio
liturgico con questa struttura: Introito e Kyrie, Gloria, Collette, Lezioni e
professione di fede, Omelia o esortazione alla comunione, Offertorio,
Prefazio, Preghiera eucaristica, Anamnesi, Preghiera domenicale, Rito
della pace, Confessione prima della comunione, Invocazione
dell'assoluzione, Preghiera prima della comunione, Comunione sotto le
due specie, Canto alla comunione, Rendimento di grazie dopo la
comunione, Benedizione del popolo.
Non c'è elevazione né ostensione del Sacramento per i fedeli. Nella
II edizione del Prayer Book sono eliminate anche le intercessioni che,
tolte dal canone, si riducono alla preghiera dei fedeli e viene soppressa
anche l'anamnesi. Anamnesi che tuttavia, anche nella I edizione,
rispondeva alla dottrina teologica di Zwinglio, che è quella che accentua
maggiormente il carattere soggettivo del memoriale.
Ecco la preghiera eucaristica (le sottolineature sono nostre):
È veramente cosa degna e giusta, nostro dovere rendere grazie in ogni
tempo e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed
eterno. Per questo, con gli angeli e gli arcangeli, e con tutta la santa
compagnia dei cieli, noi lodiamo ed esaltiamo il tuo nome glorioso,
lodandoti senza fine e dicendo Santo, santo, santo, il Signore Dio degli
eserciti. Il cielo e la terra sono pieni della tua gloria! Osanna nel più alto
dei cieli. Benedetto è colui che viene nel nome del Signore: Gloria a te, o
Signore, nei cieli altissimi.
Dio onnipotente e da sempre vivente, che, per mezzo dei tuoi santi
apostoli, ci hai insegnato a rivolgerti preghiere e suppliche e a rendere a te
grazie per tutti gli uomini: noi umilmente ti supplichiamo di ricevere nella
tua grande misericordia queste preghiere che noi offriamo alla tua divina
maestà, supplicandoti di ispirare continuamente la chiesa universale con
lo Spirito di verità, di unità e di concordia; accorda a tutti coloro che
confessano il tuo santo nome di intendersi nella verità della tua santa
parola e di vivere nell'unità e nell'amore divino.
In modo particolare, noi ti preghiamo di salvare e difendere il tuo servo
Edoardo nostro re, in modo che sotto di lui possiamo essere governati nella
pietà e nella tranquillità. Accorda a tutto il suo Consiglio e a tutti coloro
che egli ha provvisto di autorità sotto di sé di amministrare la giustizia
vera ed equa, per punire la malvagità e il vizio e mantenere la divina
religione e la virtù.
O Padre celeste, dona a tutti i vescovi, pastori e parroci la grazia, sia per la
loro vita sia per la loro dottrina, di esporre la tua parola vivente e veritiera
e di amministrare degnamente e fedelmente i tuoi sacramenti; e a tutto il
popolo dona la tua grazia celeste perché, con cuore umile e conveniente
riverenza, esso ascolti e riceva la tua santa parola, servendoti veramente
nella santità e nella giustizia per tutti i giorni della vita. Noi ti
supplichiamo molto umilmente, o Signore, di consolare e soccorrere nella
tua bontà tutti coloro che, in questa vita passeggera sono nel turbamento,
nelle preoccupazioni, nelle necessità, nella malattia o in qualsiasi altra
avversità. Specialmente raccomandiamo alla tua bontà misericordiosa
questa comunità, qui radunata nel tuo nome per celebrare la
commemorazione della gloriosissima morte del tuo Figlio. E ti rendiamo la
più alta lode e le più sincere azioni di grazie per la grazia e la virtù
meravigliosa che hai fatto risplendere nei tuoi santi fin dall'inizio del
mondo; prima di tutto nella gloriosa e sovranamente beata Vergine Maria,
Madre del tuo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e nei santi
patriarchi, profeti, apostoli, e martiri: sia tua volontà, o Signore, accordarci
di seguire i loro esempi, la loro fermezza nella tua fede, e di osservare i tuoi
santi comandamenti.
Raccomandiamo alla tua misericordia, o Signore, tutti gli altri tuoi
servitori, che ci hanno lasciati con il segno della fede e ora riposano del
sonno della pace: accorda loro, te ne supplichiamo, la tua misericordia e la
pace eterna; nel giorno della risurrezione generale noi e tutti coloro che
appartengono al corpo mistico del tuo Figlio, potremo essere messi insieme
alla tua destra e sentire la sua gioiosa parola: Venite a me, o voi, benedetti
del Padre mio: possedete il regno che vi è stato preparato fin dall'inizio del
mondo; accordacelo, o Padre, per l'amore di Gesù Cristo, nostro unico
mediatore e avvocato.
O Dio, Padre celeste, nella tua commovente misericordia, ci hai dato il tuo
unico Figlio Gesù Cristo perché soffrisse la morte sulla croce per la nostra
redenzione: egli vi ha compiuto (con la sua unica oblazione offerta una sola
volta) un pieno, perfetto e sufficiente sacrificio, oblazione e soddisfazione per
i peccati del 'mondo intero; ha istituito e ci ha comandato nel suo santo
vangelo di celebrare una perenne memoria della sua preziosa morte fino a
che egli ritorni; ascoltaci, o Padre misericordioso, te ne supplichiamo e, con
il tuo Spirito santo e con la tua parola, sia tua volontà benedire e
santificare i tuoi doni qui presenti, queste creature di pane e di vino, in
modo che essi siano per noi il corpo e il sangue del tuo dilettissimo Figlio
Gesù Cristo. Egli, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, avendolo
benedetto e reso grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo:
Prendete e mangiate: questo è il mio corpo dato per voi; fate questo in
memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese la coppa e,
avendo reso grazie, la diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il
mio sangue del nuovo testamento, sparso per voi e per molti in remissione
dei peccati: fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me. Per
questo, o Signore e Padre celeste, secondo l'istruzione del tuo dilettissimo
Figlio, salvatore nostro Gesù Cristo, noi tuoi umili servi, celebriamo e
facciamo, alla presenza della tua divina maestà, con questi santi doni che
vengono da te, il memoriale che il tuo Figlio ha voluto che noi compissimo,
ricordando la sua beata passione, la sua possente risurrezione e la sua
gloriosa ascensione, rendendo a te le nostre più sincere azioni di grazie, per
i benefizi innumerevoli che egli ci ha così procurati, desiderando solamente
dalla tua bontà paterna che voglia accettare misericordiosamente questo
nostro sacrificio di lode e di azione di grazie: supplicandoti molto umilmente
di accordare, per i meriti e la parte del tuo Figlio Gesù Cristo, e per la fede
nel suo sangue, che noi e la tua chiesa intera, possiamo ottenere la
remissione di tutti i nostri peccati e tutti gli altri benefici della sua
passione.
E noi, o Signore, qui ti offriamo e ti presentiamo, noi stessi, le nostre anime, i
nostri corpi come sacrificio conveniente, santo e vivente ai tuoi occhi,
supplicandoti umilmente che tutti coloro che parteciperanno alla tua santa
comunione possano ricevere degnamente il preziosissimo corpo e sangue
del tuo Figlio Gesù Cristo, possano essere ripieni della tua grazia e della
tua benedizione celeste ed essere fatti un solo corpo con il tuo Figlio Gesù
Cristo in modo che egli dimori in essi ed essi in lui.
E sebbene noi siamo indegni (per i nostri numerosi peccati) di offrirti
qualunque sacrificio, tuttavia ti supplichiamo di accettare questo nostro
doveroso servizio, e di comandare che queste preghiere e suppliche, per il
ministero dei tuoi santi angeli, siano portate fino al tuo santo tabernacolo,
davanti alla tua divina maestà, non avendo riguardo ai nostri meriti, ma
perdonandoci le nostre offese: per Cristo nostro Signore, per il quale, e con
il quale siano a te, o Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito santo, ogni
onore e gloria, nei secoli dei secoli. Amen.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:44]
09/02/2011 18:03
 
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Si noti l'enfasi con cui si sottolinea l'unicità e la sufficienza del
sacrificio di Cristo, contrapposta alla memoria che viene ora celebrata.
Termini come memoria, commemorazione, ricevono incontestabilmente
dal contesto teologico in cui sono immersi e da cui nascono un senso di
semplice ricordo soggettivo. La «nuda commemorazione» appunto,
condannata da Trento.
I presupposti teologici traspaiono dalle formule liturgiche: che
cosa vien offerto nella celebrazione eucaristica? Non il sacrificio di
Cristo la cui «unica oblazione» è stata «offerta una sola volta». Il
sacrificio che attualmente si compie è «di lode e di azione di grazie» e
consiste nell'offerta di «noi stessi, le nostre anime, i nostri corpi» e di
«queste preghiere e suppliche». Si confronti la preghiera «ti
supplichiamo ... di comandare che queste preghiere e suppliche, per il
ministero dei tuoi santi angeli ...» con il «supplices te rogamus» del
Canone Romano (a cui certamente si ispira): nel Canone Romano quello
che l'angelo deve portare davanti alla maestà divina è «la vittima pura,
santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell'eterna
salvezza», che trova il suo tipo nei sacrifici di Abele, Abramo e
Melchisedech; nella preghiera di Cranmer sono soltanto «queste
preghiere e suppliche» ... Il memoriale di cui si parla è dunque vuoto
della Divina Vittima che rinnova la sua offerta e si risolve in una
preghiera-ricordo.
Questa influenza zwingliana si è fatta sentire anche nelle
confessioni protestanti nate in seno all'anglicanesimo.
Ecco come si esprime per es. Alexander McLuren, uno dei
massimi predicatori battisti del secolo XIX: «Tutte le teorie circa il
significato e il valore del servizio di comunione vanno rinchiuse dentro
quell'unica parola [in memoria]: si tratta di un rito commemorativo, e
assolutamente niente di più»10. In moltissimi casi dunque l'espressione
«memoriale», nel contesto liturgico del protestantesimo anglosassone,
deve essere letta tenendo conto di questa pesante ipoteca dottrinale.
Recentemente c'è stata, è vero, una certa riscoperta della nozione
tradizionale. Per es., sempre in campo battista, «nella guida esplicativa
sulla cena del Signore data in The Lord's Supper [pubblicazione del 1981
della Unione battista inglese] viene ricordato che la parte della liturgia
della cena chiamata Words of Institution (parole dell'istituzione)
"corrisponde a quella che è stata tradizionalmente conosciuta come
l'anamnesi o memoriale. Il memoriale, però, è assai più che un ricordare
eventi del passato (...). Esso, piuttosto, richiama ciò che appartiene al
passato e proclama la sua potenza vivente per il presente ... Il
memoriale ripete davanti alla congregazione lo spezzamento del corpo di
Cristo e il versamento del suo sangue mediante il quale noi siamo
redenti ora. È per questo che la morte e la resurrezione sono tanto
strettamente unite come simbolo e come presenza. Sono una sola cosa
nel sacramento. La storia diventa presente, il Cristo crocifisso è in
questo momento presente in mezzo al suo popolo, la potenza salvifica
del Signore è visibile ora per tutti coloro che la vogliono vedere"»11.
Tuttavia, l'anamnesi è sempre nel contesto della comunione:
«prendi questo pane nel ricordo...»12 e non comprende in sé l'«offerimus».
A Dio sono offerte «le nostre anime e i nostri corpi in sacrificio
vivente»13, mentre il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono solo ricevuti.
4. La liturgia di Taizé14
La punta dell'avvicinamento ecumenico protestante alle posizioni
cattoliche in campo liturgico è certamente rappresentata dalla liturgia di
Taizé.
Riportiamo solo la preghiera eucaristica. Le sottolineature sono
nostre.
Epiclèse
O notre Père, Dieu des forces du ciel,
rempli de ta gloire
notre sacrifice de louange
+
cette offrande,
benis-la, achève-la, accepte-la
comme la figure
du sacrifice unique de notre Seigneur
+
envoie ton Saint-Esprit
sur nous et notre eucharistie:
consacre ce pain au corps du Christ
et cette coupe au sang du Christ;
que le Saint-Esprit createur
accomplisse la parole de ton Fils bien-aimé
Institution
qui, dans la nuit où il fut livré,
prit du pain,
et, après avoir rendu grâces, le rompit
et le donna à ses disciples en disant:
prenez, mangez,
ceci est mon corps donné pour vous;
faites ceci en mémorial de moi.
+
De même, après avoir soupé,
il prit la coupe,
et, après avoir rendu grâces,
la donna à ses disciples en disant:
buvez-en tous,
cette coupe est la Nouvelle Alliance
en mon sang,
repandu pour vous, pour une multitude,
pour la rémission des pechés;
toutes les fois que vous en boirez.
Faites ceci en mémorial de moi.
+
Ainsi, toutes les fois
que nous mangeons ce pain
et que nous buvons cette coupe,
nous proclamons la mort du Seigneur,
jusqu'à ce qu'il revienne.
Mémorial
C'est pourquoi, Seigneur,
nous accomplissons dévant toi
le mémorial de l'Incarnation
et de la Passion de ton Fils,
de sa Résurrection du séjour des morts,
de son Ascension dans la gloire des cieux,
de son intercession perpétuelle
en notre faveur;
nous attendons et nous implorons son rétour.
+
Tout vient de toi et notre seule offrande
est de rappeler tes merveilles et tes dons.
+
Aussi, nous te présentons, Seigneur de gloire,
comme notre action de grâce
et notre intercession,
les signes du sacrifice éternel du Christ,
unique et parfait, vivant et saint,
le pain de la vie qui descend du ciel et
la coupe du répas en ton royaume
+
dans ton amour et ta miséricorde
accueille notre louange et notre prière
dans le Christ,
comme tu as bien voulu accepter
les présents de ton serviteur Abel le juste,
le sacrifice d'Abraham notre père
et celui de Melchisédech,
ton souverain prêtre.
Invocation
Nous t'en supplions, Dieu tout-puissant,
fais porter cette prière,
par les mains de ton Ange,
là-haut, sur ton autel, en ta présence;
et quand nous récevrons,
n communiant à cette table,
le corps et le sang de ton Fils,
puissions-nous tous être remplis du Saint-Esprit,
comblés des grâces
et des bénédictions du ciel,
par le Christ, notre Sauveur.
Conclusion
Par lui, Seigneur, toujours
tu crées, tu sanctifies, tu vivifies, tu bénis
et tu nous donnes tous tes biens.
+
Par lui,
et avec lui,
et en lui,
te sont rendus,
Père tout-puissant
dans l'unité du Saint-Esprit,
tout honneur et toute gloire,
à travers tous les siècles des siècles.
T Amen.
Il tentativo di avvicinamento al cattolicesimo è innegabile: se non
altro per l'insistenza con cui ricorrono i termini «oblazione» e «sacrificio».
Basta fare il confronto con la liturgia di Calvino («frère» Thurian, vicepriore
di Taizé, è calvinista). Tuttavia rimaniamo (purtroppo) nell'ambito
della concezione protestantica. L'offerta eucaristica non è che la «figura
del sacrificio unico di Cristo». Una figura vuota, perché «la nostra sola
offerta è di ricordare le tue meraviglie e i tuoi doni». Ciò che viene
presentato non è lo stesso sacrificio di Cristo, ma «i segni del sacrificio
eterno di Cristo». Come la liturgia di Cranmer, anche quella di Taizé
riprende alcune espressioni del Canone Romano: il parallelismo che ne
deriva permette di stabilire un confronto in cui la differenza teologica si
staglia in modo nettissimo. Riportiamo i due testi a fronte (quello del
Canone Romano nell'attuale traduzione italiana).
Canone Romano Taizé
... offriamo alla tua maestà divina,
tra i doni che ci hai dato,
la vittima, pura, santa e immacolata,
pane santo della vita eterna
e calice dell'eterna salvezza.
Volgi sulla nostra offerta Dans ton amour et ta miséricorde
il tuo sguardo sereno e benigno, accueille notre louange et notre prière
come hai voluto accettare dans le Christ,
i doni di Abele, il giusto, comme tu as bien voulu accepter
il sacrificio di Abramo, nostro padre nella les présents de ton serviteur Abel le juste,
[fede le sacrifice d'Abraham notre père
e l'oblazione pura e santa et celui de Melchisédech,
di Melchisedech, tuo sommo sacerdote ton souverain prêtre,
Ti supplichiamo, Dio onnipotente: Nous t'en supplions, Dieu tout-puissant,
fa' che questa offerta fais porter cette prière,
per le mani del tuo angelo santo, par les mains de ton ange,
sia portata sull'altare del cielo là-haut, sur ton autel, en ta présence ...
davanti alla tua maestà divina...
Questa differenza teologica, sebbene in modo molto meno definito,
permane anche nel confronto con le nuove preghiere eucaristiche. Ciò
che viene offerto non è una semplice preghiera, ma il Corpo e il Sangue
di Cristo e il suo sacrificio15.
II. «Ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza ... Per la
comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un
solo corpo».
III. «Ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e
santo. Guarda con amore e riconosci nell'offerta della tua Chiesa, la
vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del
corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché
diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito».
IV. «Ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la
salvezza del mondo».
5. Le nuove preghiere eucaristiche
Tralasciamo la I Preghiera eucaristica, perché si tratta del vecchio
Canone Romano. È vero che sono state introdotte modifiche, però – a
parte la formula di consacrazione – riguardano tutte punti di dettaglio.
Sono stati soppressi 24 segni di croce, le genuflessioni (nell'ambito del
canone) sono state portate da 5 a 2, inoltre la conclusione delle singole
preghiere (per Christum Dominum nostrum) è stata resa facoltativa in
latino e soppressa nella traduzione italiana.
La formula consacratoria merita un discorso a parte. Ecco i due
testi a fronte:
Formula antica Formula nuova
Hoc est enim Corpus meum Hoc est enim Corpus meum, quod
pro vobis tradetur
Hic est enim Calix Sanguinis Hic est enim calix Sanguinis
mei, novi et aeterni testamenti: mei novi et aeterni Testamenti,
mysterium fidei: qui pro vobis qui pro vobis et pro multis
et pro multis effundetur effundetur in remissionem
in remissionem peccatorum. peccatorum.
Haec quotiescumque feceritis, Hoc facite in meam
in mei memoriam facietis. commemorationem.
«L'espressione Mysterium Fidei, tolta dal contesto delle parole di
Cristo Signore, e detta dal sacerdote, serve da introduzione
all'acclamazione dei fedeli» (Missale Romanum). L'acclamazione, che si
presenta in tre versioni alternative, esprime l'aspetto «prognostico»
dell'eucaristia.
La modifica di una formula di consacrazione di uso plurisecolare
è certamente un fatto non trascurabile. Ci si può chiedere quale sia
stata la gravissima ragione che ha costretto ad un simile intervento: i
cambiamenti, quanto più toccano materie delicate, tanto più devono
essere solidamente motivati. Nella Missale Romanum, oltre ad
imprecisati «motivi di ordine pastorale», si adduce il «fine di facilitare la
Concelebrazione». La cosa rimane, almeno per noi, misteriosa.
Quello che soprattutto conta, però, è che il cambiamento
avvenuto è accidentale e non sostanziale. L'essenza della forma
sacramentale non è toccata.
Che cosa è cambiato? I mutamenti sono quattro:
1) alla formula di consacrazione del pane è stato aggiunto «quod pro
vobis tradetur», espressione tolta da 1 Cor 11, 24;
2) l'inciso Mysterium fidei viene spostato fuori dalla formula vera e
propria e introduce una acclamazione di carattere escatologico;
3) il comando di Cristo viene riportato secondo i termini della S.
Scrittura (Lc 22,19 e 1 Cor 11, 24);
4) «Pro multis» nelle traduzioni diventa, generalmente, «per tutti».
Nessuno di questi cambiamenti tocca l'essenza della forma.
Infatti, secondo l'opinione comune dei teologi (compreso san Tommaso)
la forma essenziale è «Hoc est corpus meum», «Hic est calix sanguinis
mei» (o anche: «Hic est sanguis meus»). Alcuni tomisti sostengono che le
parole che seguono la formula consacratoria del vino sono anch'esse
essenziali, perché esprimono il fine propiziatorio del sacrificio16 (16).
Nell'ipotesi della verità dell'una o dell'altra tesi la nuova formula
contiene sempre l'essenziale. Anzi, il «quod pro vobis tradetur» rinforza il
significato propiziatorio (l'espressione è presente anche in altre liturgie
venerabili). Il Mysterium f idei non è, con tutta evidenza, essenziale, non
tanto perché non ricorre nella Scrittura, quanto perché è assente da
altre liturgie venerabili17. Anche l'acclamazione escatologica (di origine
paolina: 1 Cor 11, 26) non fa difficoltà: «Cristo non ha concluso l'epopea
della salvezza; l'ha soltanto inaugurata. Essa è sempre in corso, in
attesa del suo compimento nel regno dei cieli. Questa è la vera
conclusione del processo salvifico, in Dio. Nella revisione del testo
arcaico [del Canone Romano] secondo il De Sacramentis, la clausola
escatologica finale paolina, comune a tutte le liturgie, è stata omessa; il
Canone ambrosiano l'ha mantenuta e largamente sviluppata: "Haec
quotiescumque feceritis, in meam commemorationem facietis...,
adventum meum sperabitis, donec iterum de coelis veniam ad vos". La
clausola si trovava ancora nel testo gregoriano del Messale di Stowe, ma
poi scomparve per motivi che non conosciamo»18.
Quanto al «pro multis» e «per tutti» bisogna considerare due cose:
a) Questa espressione è presa dalla Scrittura (il Catechismo del
Concilio di Trento dice: «Le parole: per voi e per molti, prese
separatamente da Matteo (26, 28) e da Luca (22, 20), sono riunite dalla
santa Chiesa, ispirata da Dio, per esprimere il frutto e l'utilità della
passione», n. 216, p. 261), è dunque nel contesto biblico che bisogna
innanzitutto cercare il suo significato pieno.
Ora, tutti gli interpreti
cattolici, soprattutto dopo gli abusi dei predestinaziani e dei calvinisti,
sono d'accordo nel vedere in questa espressione un equivalente di «pro
omnibus» o, meglio ancora, una espressione con un significato piuttosto
indefinito: «per una moltitudine»19. Nella spiegazione del catechismo
tridentino: «con ragione ... non è stato detto: per tutti, trattandosi qui
soltanto dei frutti della passione, la quale apporta salute soltanto agli
eletti» dobbiamo dunque vedere soltanto una ragione di convenienza,
non di necessità.
Si può dire convenientemente «per molti», ma non è
affatto sbagliato dire «per tutti», perché Cristo è morto per tutti.
b) In molti testi liturgici antichi si trova nel «Qui pridie» l'inciso
«pro nostra omniumque salute» o formule equivalenti. Questa
espressione è rimasta nel rito ambrosiano fino ai nostri giorni. Questo
mostra bene che l'espressione «pro multis» conserva nel contesto
liturgico il significato largo e indefinito che ha in quello biblico.
Naturalmente ci si può chiedere se questa traduzione non può
portare acqua al mulino di quell'esagerato ottimismo salvifico che c'è
oggi nell'aria (ottimismo del tutto antiscritturistico). È necessario
dunque spiegare accuratamente che il «per tutti», nell'indefinita formula
biblica, sottolinea il piano della redenzione oggettiva (la salvezza è alla
portata di tutti, perché Cristo ha meritato in modo sovrabbondante per
tutti), mentre lascia in ombra quello della redenzione soggettiva, che
comporta la cooperazione dei singoli ... Così come deve essere spiegato il
«pro multis», per evitare che sia inteso in senso giansenistico e
fatalistico.

La II Prex eucharistica è quella che ha sollevato (e solleva) più
problemi. Il riferimento sacrificale è in essa veramente assai tenue.
Generalmente, nel rispondere alle critiche, ci si è accontentati di
trincerarsi dietro l'origine venerabile per antichità di questa preghiera.
Così argomenta p. Congar: «... è del tutto inesatto che le nuove
preghiere eucaristiche mettano in ombra o perfino ignorino l'idea di
sacrificio. Il termine stesso figura due volte nell'offertorio; l'accenno è
ancora più formale nelle preghiere eucaristiche terza e quarta. Quanto
alla seconda, si noti che è presa quasi letteralmente dal più antico testo
liturgico conosciuto, quello della Tradizione apostolica di sant'Ippolito
(inizio del III secolo). Quello stesso Ippolito che, dopo essersi opposto al
papa Callisto da lui accusato d'essere troppo indulgente coi peccatori, si
ritrovò con il successore di questo pontefice, s. Ponziano, condannato
come lui per la fede, ad essere deportato in Sardegna!»20. Basta un
confronto, anche superficiale, con l'antica anafora per rendersi conto di
cosa valga questo argomento21. Anche p. Lanne, che non può
certamente essere annoverato fra gli avversari della riforma liturgica,
rileva che «nella nuova anafora romana... quanto si riferisce all'opera
salvatrice di Cristo è stato arbitrariamente abbreviato perché male si
adattava alla mentalità moderna.
Cristo con la sua Passione libera
coloro che credono in lui; egli ha spezzato i vincoli del diavolo,
calpestato l'inferno, illuminato i giusti ... Il testo ippolitiano dice: "Et
petimus ut mittas spiritum tuum sanctum in oblationem sanctae
ecclesiae, in unum congregans de omnibus qui percipiunt sanctis in
repletionem spiritus sancti ad confirmationem fidei in veritate ut ..." ...
È stata ritenuta... la domanda perché coloro che partecipano al Corpo e
al Sangue di Cristo siano uniti come una sola cosa mediante lo Spirito
Santo, mentre è scomparso l'oggetto di questa unione per opera dello
Spirito: la confermazione della fede nella verità. Si noterà che questa
soppressione corrisponde a quella fatta poco prima nella
commemorazione dei vari elementi dell'opera salvatrice di Cristo: la
Passione libera coloro che credono in lui. Per ben due volte quindi in
questa anafora d'Ippolito la fede viene posta al primo piano, mentre è
scomparsa nel nuovo testo. Tutta l'eucaristia come proclamazione della
fede risente di una certa incrinatura»22.
Tuttavia, benché tenue, il riferimento sacrificale, che specifica
quel «celebrando il memoriale del Signore» c'è. Lo sottolineiamo nel
testo. Per apprezzarlo nel suo valore, conviene considerare che si tratta
di un'aggiunta rispetto all'antica anafora di sant'Ippolito e confrontarlo
coll'analoga espressione del Canone Romano: «Ti offriamo... la vittima
pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice
dell'eterna salvezza».
Padre veramente santo,
fonte di ogni santità,
santifica questi doni
con l'effusione del tuo Spirito,
perché diventino per noi
il corpo e + il sangue di Gesù Cristo
nostro Signore.
Egli, offrendosi liberamente alla sua passione,
prese il pane e rese grazie,
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
QUESTO È IL MIO CORPO
OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI
.
Dopo la cena, allo stesso modo,
prese il calice e rese grazie,
lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
VERSATO PER VOI E PER TUTTI
IN REMISSIONE DEI PECCATI.
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.

Mistero della fede
Il popolo acclama dicendo:
1. Annunziamo la tua morte, Signore,
proclamiamo la tua risurrezione,
nell'attesa della tua venuta.
Oppure:
2. Ogni volta che mangiamo di questo pane
e beviamo a questo calice
annunziamo la tua morte, Signore,
nell'attesa della tua venuta.
Oppure:
3. Tu ci hai redenti con la tua croce
e la tua risurrezione:
salvaci, o salvatore del mondo.
Celebrando il memoriale
della morte e risurrezione del tuo Figlio,
ti offriamo, Padre,
il pane della vita e il calice della salvezza,
e ti rendiamo grazie
per averci ammessi alla tua presenza
a compiere il servizio sacerdotale.
Ti preghiamo umilmente:
per la comunione
al corpo e al sangue di Cristo
lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Ricordati, Padre, della tua Chiesa
diffusa su tutta la terra:
rendila perfetta nell'amore
in unione con il nostro Papa N.,
il nostro Vescovo N.,
tutto l'ordine sacerdotale.
Formula particolare per un defunto (omessa)
Ricordati dei nostri fratelli,
che si sono addormentati
nella speranza della risurrezione,
e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza:
ammettili a godere la luce del tuo volto.
Di noi tutti abbi misericordia:
donaci di aver parte alla vita eterna,
insieme con la beata Maria,
Vergine e Madre di Dio,
con gli apostoli e tutti i santi,
che in ogni tempo ti furono graditi:
e in Gesù Cristo tuo Figlio
canteremo la tua gloria.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te, Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:59]
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Anche nelle preghiere III e IV la «celebrazione del memoriale» viene
specificata come attuale offerta di un sacrificio. Questo sacrificio poi
non è altro che il sacrificio stesso di Cristo (III: «riconosci nell'offerta
della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione»; IV:
«guarda con amore... la vittima che tu stesso hai preparato per la tua
Chiesa»). Le espressioni «vittima immolata per la nostra redenzione»,
«sacrificio di riconciliazione», «sacrificio a te gradito per la salvezza del
mondo» indicano inequivocabilmente il fine propiziatorio del sacrificio,
anche se non con la stessa forza e lo stesso nitore del «Suscipe sancte
Pater...» dell'antico offertorio o dei passi equivalenti del Canone Romano
(«salvaci dalla dannazione eterna ...»)23.
Sottolineiamo i passi più significativi e omettiamo l'acclamazione,
uguale in tutte e quattro le preghiere.
Preghiera eucaristica III
Padre veramente santo,
a te la lode da ogni creatura.
Per mezzo di Gesù Cristo,
tuo Figlio e nostro Signore,
nella potenza dello Spirito Santo
fai vivere e santifichi l'universo,
e continui a radunare intorno a te un popolo,
che da un confine all'altro della terra
offra al tuo nome il sacrificio perfetto.
Ora ti preghiamo umilmente:
manda il tuo Spirito
a santificare i doni che ti offriamo,
perché diventino il corpo e + il sangue
di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato
di celebrare questi misteri.
Nella notte in cui fu tradito,
egli prese il pane,
ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
QUESTO È IL MIO CORPO
OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Dopo la cena, allo stesso modo,
prese il calice,
ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
VERSATO PER VOI E PER TUTTI
IN REMISSIONE DEI PECCATI.
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Acclamazione
Celebrando il memoriale del tuo Figlio,
morto per la nostra salvezza,
gloriosamente risorto e asceso al cielo,
nell'attesa della sua venuta
ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie
questo sacrificio vivo e santo.
Guarda con amore
e riconosci nell'offerta della tua Chiesa,
la vittima immolata per la nostra redenzione;
e a noi, che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo Figlio,
dona la pienezza dello Spirito Santo
perché diventiamo in Cristo
un solo corpo e un solo spirito.
Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito,
perché possiamo ottenere il regno promesso
insieme con i tuoi eletti:
con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,
con i tuoi santi apostoli,
i gloriosi martiri,
e tutti i santi,
nostri intercessori presso di te.
Per questo sacrificio di riconciliazione
dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero.
Conferma nella fede e nell'amore
la tua Chiesa pellegrina sulla terra:
il tuo servo e nostro Papa N.,
il nostro Vescovo N., il collegio episcopale,
tutto il clero
e il popolo che tu hai redento.
Ascolta la preghiera di questa famiglia,
che hai convocato alla tua presenza.
Ricongiungi a te, Padre misericordioso,
tutti i tuoi figli ovunque dispersi.
Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti
e tutti i giusti che, in pace con te,
hanno lasciato questo mondo;
concedi anche a noi di ritrovarci insieme
a godere per sempre della tua gloria,
in Cristo, nostro Signore,
per mezzo del quale tu, o Dio,
doni al mondo ogni bene.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo
a te, Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.
Preghiera eucaristica IV
Questa Preghiera eucaristica forma un tutt'uno con il suo prefazio ...
Omettiamo il dialogo iniziale del Prefazio.
È veramente giusto renderti grazie,
è bello cantare la tua gloria,
Padre santo, unico Dio vivo e vero:
prima del tempo e in eterno tu sei,
nel tuo regno di luce infinita.
Tu solo sei buono e fonte della vita,
e hai dato origine all'universo,
per effondere il tuo amore su tutte le creature
e allietarle con gli splendori della tua luce.
Schiere innumerevoli di angeli
stanno davanti a te per servirti,
contemplano la gloria del tuo volto,
e giorno e notte cantano la tua lode.
Insieme con loro anche noi,
fatti voce di ogni creatura,
esultanti cantiamo:
Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell'universo.
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
Osanna nell'alto dei cieli.
Osanna nell'alto dei cieli.
Padre santo, hai tanto amato il mondo
da mandare a noi, nella pienezza dei tempi,
Il tuo unico Figlio come salvatore.
Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo
ed è nato dalla Vergine Maria;
ha condiviso in tutto, eccetto il peccato,
la nostra condizione umana.
Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza,
la libertà ai prigionieri,
agli afflitti la gioia.
Per attuare il tuo disegno di redenzione
si consegnò volontariamente alla morte,
risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.
E perché non viviamo più per noi stessi
ma per lui che è morto e risorto per noi,
ha mandato, o Padre, lo Spirito Santo,
primo dono ai credenti,
a perfezionare la sua opera nel mondo
compiere ogni santificazione.
Ora ti preghiamo, Padre:
lo Spirito Santo
santifichi questi doni
perché diventino il corpo e + il sangue
di Gesù Cristo, nostro Signore,
nella celebrazione di questo grande mistero,
che ci ha lasciato in segno di eterna alleanza.
Egli, venuta l'ora d'essere glorificato da te,
Padre santo,
avendo amato i suoi che erano nel mondo,
li amò sino alla fine;
e mentre cenava con loro,
prese il pane e rese grazie,
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
QUESTO È IL MIO CORPO
OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Allo stesso modo,
prese il calice del vino e rese grazie,
lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
VERSATO PER VOI E PER TUTTI
IN REMISSIONE DEI PECCATI.
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Acclamazione
In questo memoriale della nostra redenzione
celebriamo, Padre, la morte di Cristo,
la sua discesa agli inferi,
proclamiamo la sua risurrezione
e ascensione al cielo, dove siede alla tua destra,
e, in attesa della sua venuta nella gloria,
ti offriamo il suo corpo e il suo sangue,
sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.
Guarda con amore, o Dio,
la vittima che tu stesso hai preparato
per la tua Chiesa;
e a tutti coloro
che mangeranno di quest'unico pane
e berranno di quest'unico calice,
concedi che,
riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo,
diventino offerta viva in Cristo,
a lode della tua gloria.
Ora, Padre, ricordati di tutti quelli
per i quali noi ti offriamo questo sacrificio:
del tuo servo e nostro Papa N.,
del nostro Vescovo N., del collegio episcopale,
di tutto il clero
e di coloro che si uniscono alla nostra offerta,
dei presenti e del tuo popolo
e di tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero.
Ricordati anche dei nostri fratelli
che sono morti nella pace del tuo Cristo,
e di tutti i defunti,
dei quali tu solo hai conosciuto la fede.
Padre misericordioso,
concedi a noi, tuoi figli, di ottenere
con la beata Maria Vergine e Madre di Dio,
con gli apostoli e i santi,
l'eredità eterna del tuo regno,
dove con tutte le creature,
oberate dalla corruzione del peccato e della morte,
canteremo la tua gloria,
in Cristo nostro Signore,
per mezzo del quale doni al mondo ogni bene.
per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te, Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli.
Le quattro preghiere non costituiscono alternative teologiche, ma
alternative rituali. Cioè offrono la possibilità di sottolineare, secondo
l'opportunità, aspetti che però si trovano tutti compresenti nello stesso
contenuto teologico.
Non possono dunque costituire, di per sé,
alternative per l'espressione di una fede protestantica o cattolica.
Appartengono tutte allo stesso contesto, che è un contesto cattolico.
6. Le preghiere eucaristiche ambrosiane
L'11 aprile 1976 è stato promulgato il nuovo Messale Ambrosiano.
Le prime quattro preghiere eucaristiche sono – salvo lievi differenze che
non interessano la nostra ricerca – identiche a quelle romane. La
preghiera V e VI sono invece peculiari a questo rito. La preghiera V è
riservata specialmente, oltre che alla Messa «nella Cena del Signore»,
alle ordinazioni, agli anniversari sacerdotali e alle riunioni sacerdotali.
Importante quindi come espressione della fede in tema di sacerdozio
ministeriale.
Venute dopo il NOM romano, sembrano aver recepito – almeno in
parte – le critiche che gli sono state mosse. Si notino in particolare le
espressioni forti come «ripresentare» e «rinnovare».
Sottolineiamo, come al solito, i passi degni di particolare
attenzione.
Preghiera eucaristica V
Veramente santo, veramente benedetto sei tu, o Dio; tu ci hai voluto in
comunione di vita col Figlio tuo, eredi con lui del tuo regno, cittadini del
cielo e compagni degli angeli, se però conserviamo con fede pura il mistero
cantato dalle schiere celesti.
E noi, elevati a tale dignità da poter presentare a te, per l'efficacia dello
Spirito Santo, il sacrificio sublime del corpo e del sangue del Signore nostro
Gesù Cristo, tutto possiamo sperare dalla tua misericordia.
Per la redenzione del mondo, egli andò incontro liberamente alla passione
che ricordiamo con venerazione e con amore.
E per istituire un sacrificio quale sacramento di imperitura salvezza, per
primo offrì se stesso come vittima e comandò di ripresentarne l'offerta.
(In questo giorno,) alla vigilia di patire per la salvezza nostra e del mondo
intero, stando a mensa tra i suoi discepoli, egli prese il pane e alzando gli
occhi al cielo a te, Dio, Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera
di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse:
PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
QUESTO È IL MIO CORPO
OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e alzando gli occhi al cielo a
te, Dio, Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione,
lo diede ai suoi discepoli e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
VERSATO PER VOI E PER TUTTI
IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Diede loro anche questo comando:
Ogni volta che farete questo
lo farete in memoria di me:
predicherete la mia morte,
annunzierete la mia risurrezione,
attenderete con fiducia il mio ritorno
finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
Mistero della fede.
Il popolo acclama:
Tu ci hai redento con la tua croce
e la tua risurrezione:
salvaci, o Salvatore del mondo.
Obbedendo al divino comando, noi celebriamo, o Padre, questo mistero e,
ricercando nel convito del corpo del Signore una comunione inseparabile
con lui, ne annunziamo la morte.
Manda a noi, o Padre onnipotente, l'unigenito tuo Figlio, tu che ce lo hai
mandato con amore spontaneo prima ancora che l'uomo potesse cercarlo.
Da te, che sei Dio ineffabile e immenso, lo hai generato Dio ineffabile e
immenso, a te uguale. Donaci ora, quale fonte di salvezza, il suo corpo che
ha sofferto per la redenzione degli uomini.
Guarda propizio a questo popolo che è tuo possesso e a tutta la tua
famiglia, che in comunione col nostro papa ... e col nostro vescovo ...,
rinnovando il mistero della passione del Signore, proclama le tue opere
meravigliose e rivive i prodigi che l'hanno chiamata a libertà.
Tu che ora ci raduni col vincolo di un amore sincero nell'unità della Chiesa
cattolica, serbaci per il banchetto del cielo e per la partecipazione alla tua
gloria con la beata vergine Maria e con tutti i santi.
Con il Signore nostro Gesù Cristo, nell'unità dello Spirito Santo, a te, o
Padre, è l'onore, la lode, la gloria, la maestà e la potenza, ora e sempre,
dall'eternità e per tutti i secoli dei secoli.
Preghiera eucaristica VI
Veramente santo, veramente benedetto è il Signore nostro Gesù Cristo,
Figlio tuo.
Egli, che è Dio infinito ed eterno, discese dal cielo, si umiliò fino alla
condizione di servo e venne a condividere la sorte di chi si era perduto.
Accettò volontariamente di soffrire per liberare dalla morte l'uomo che lui
stesso aveva creato; con amore che non conosce confini ci lasciò quale
sacrificio da offrire al tuo nome il suo corpo e il suo sangue, che la potenza
dello spirito santo rende presenti sull'altare.
La vigilia della sua passione, sofferta per la salvezza nostra e del mondo
intero, stando a mensa tra i suoi discepoli, egli prese il pane, ti rese grazie
con la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo diede a loro dicendo:
PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
QUESTO È IL MIO CORPO
OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI,
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e alzando gli occhi al cielo a
te, Dio, Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione,
lo diede ai suoi discepoli e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
VERSATO PER VOI E PER TUTTI
IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Diede loro anche questo comando:
Ogni volta che farete questo
lo farete in memoria di me:
predicherete la mia morte,
annunzierete la mia risurrezione,
attenderete con fiducia il mio ritorno
finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
Mistero della fede.
Il popolo acclama:
Tu ci hai redento con la tua croce
e la tua risurrezione:
salvaci, o Salvatore del mondo.
Il mistero che celebriamo, o Padre, è obbedienza al comando di Cristo.
Manda tra noi in questa azione sacrificale colui che l'ha istituita perché il rito
che noi compiamo con fede abbia il dono della presenza del Figlio tuo
nell'arcana sublimità del tuo sacramento. E a noi, che in verità partecipiamo
al sacrificio perennemente offerto nel santuario celeste, concedi di attingere
la viva e misteriosa realtà del corpo e del sangue del Signore.
Degnati, o Dio, di accogliere questo sacrificio pasquale: uniti alla beata
vergine Maria madre di Dio e a tutti i santi, insieme col papa nostro ... e
col vescovo nostro..., noi te lo offriamo con cuore umile e grato per la tua
santa Chiesa, diffusa su tutta la terra e radunata nello Spirito santo
dall'amore del tuo Redentore; te lo offriamo inoltre per i sacerdoti a te
consacrati, per questo tuo popolo che in te ha trovato misericordia e per i
nostri fratelli che ci hanno preceduto nella fiduciosa speranza della venuta
del tuo regno. Serba scritti nel libro della vita i nomi di tutti perché tu li
possa tutti ritrovare nella comunione di Cristo Signore nostro.
Con lui e con lo Spirito santo, a te, o Padre, è l'onore, la lode, la gloria, la
maestà e la potenza, ora e sempre, dall'eternità e per tutti i secoli dei
secoli.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 18:03]
09/02/2011 18:05
 
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1 Cfr. E. LODI, Enchiridion euchologicum fontium liturgicorum (Roma 1979) nn.
3426-3432; IDEM, Clavis methodologica cum commentariis selectis (Bologna 1979) p.
247-249.
2 Scritti politici (Torino 1978) pp. 269-272. Il «canone minore» è l'offertorio.
3 Cfr. O. CASEL, Das Mysteriengedächtnis..., cit.; Y. CONGAR, Théologie de
l'eucharistie et christologie chez Luther, in: Rev. Sc. ph. th. 66 (1982) p. 179.
4 Scritti politici, cit., p. 272.
5 Cfr. Gemeinsame römisch-katolische Kommission, Das Herrenmahl, cit.: ampia
raccolta di forme liturgiche luterane attuali alle pp. 59-84.
6 G. SCUDERI, La cena del Signore: significato e celebrazione liturgica nella dottrina
e nella prassi delle chiese evangeliche in Italia, in Eucaristia sfida alle Chiese divise
(Padova 1984) p. 85.
7 Ibid., p. 87.
8 Cfr. E. LODI, Op. cit., nn. 3433-3438.
9 Cfr. Ibid., nn. 3439-3457. Qui riportiamo i nn. 3347-3348 tratti dal Prayer
Book del 1549. La traduzione è dello stesso Lodi, Liturgia della Chiesa. Guida allo
studio della liturgia nelle sue fonti antiche e recenti (Bologna 1981) pp. 534-537.
10 E. PASCHETTO, La celebrazione eucaristica nel movimento battista in: Eucaristia
sfida alle Chiese divise, cit., p. 141.
11 Ibid., p. 147.
12 Ibid., p. 150.
13 Ibidem.
14 Cfr. D. BONNETERRE, Le mouvement liturgique (Escurolles 1980) pp. 180-183.
Trad. it. in M. THURIAN, L'eucaristia..., cit., pp. 305-341.
15 Come mai allora lo stesso M. Thurian ha potuto scrivere, su la Croix del 30
maggio 1969, che «Le nouvel Ordo de la Messe, quelles que soient ses imperfections
relatives ... est un exemple de ce souci fécond d'unité ouverte et de fidélité dynamique,
de véritable catholicité: un des fruits en sera peut-être que des communautés non
catholiques pourront célébrer la sainte Cène avec les mêmes prières que l'Eglise
catholique. Théologiquement, c'est possible» (in: G. OURY, La messe de S. Pie V à Paul VI
[Solesmes 1975] p. 123)? Questa dichiarazione ha sollevato, comprensibilmente, molto
scandalo e l'iniziativa del quotidiano cattolico francese di far presentare il NOM da un
pastore protestante lascia – per usare un eufemismo – molto perplessi. Non è però
possibile concludere senza altro che la Messa di Paolo VI è protestante.
A mio avviso si
impongono alcune osservazioni:
a) ogni testo liturgico, in virtù del suo genere letterario proprio,
che non è quello didascalico ma piuttosto quello poetico e figurato, si
presta facilmente ad interpretazioni diverse. Non dimentichiamo che
anche Lutero – agli inizi delle sue riforme, ma già «luterano» – non
trovava troppe difficoltà ad interpretare le formule del Messale Romano
nel senso della sua teologia del sacrificio (
cfr. J. RIVIERE, La Messe...,
cit., col. 1087). Anche nel patrimonio tradizionale esistono preghiere
che, tolte dal loro contesto, si prestano con estrema facilità ad una
interpretazione impropria (si veda, a titolo di esempio, l'antifona di
offertorio della Messa dei defunti: «Domine Jesu Christe, Rex gloriae...»,
in cui si chiede al Signore di liberare le anime di tutti i fedeli defunti
dalle fiamme dell'inferno ... quasi che la sorte eterna dell'uomo non si
decida irrevocabilmente all'istante della morte...). I nuovi formulari poi
si prestano certamente più facilmente di quelli antichi ad essere
interpretati in senso protestantico;
b) la teologia di M. Thurian è tutt'altro che chiara ed univoca.
Abbiamo già rilevato, nel corso del nostro studio, qualche incoerenza.
Accanto ad una fedeltà, almeno nominale, alla tradizione calvinistica, si
fanno luce elementi decisamente cattolicheggianti ...;
c) la posizione di M. Thurian è lungi dal rappresentare quella della generalità dei
protestanti. Anzi, le sue dichiarazioni hanno provocato vivaci proteste. Per es. il
luterano GUNTHER WENZ (Die Lehre vom Opfer Christi im Herrenmahl als Problem
ökumenischer Theologie in Kerygma und Dogma 28/1/1982 pp. 7-41) ci offre una ben
diversa lettura della riforma della liturgia cattolica. Dopo aver constatato che «sarebbe
certamente un errore credere che il Concilio Vaticano II, per quanto riguarda il
rapporto fra avvenimento della Croce e sacrificio della Messa, rappresenti una radicale
revisione della concezione cattolica tradizionale» (p. 14), conclude che le nuove
preghiere eucaristiche esprimono una dottrina dell'offerta sacrificale molto più
esplicita di quella del Canone Romano!
Ad ogni modo, quali che siano le cause di ordine oggettivo o soggettivo che
hanno reso possibile questa dichiarazione, rimane fuori discussione che un protestante
che intenda professare il suo rifiuto dei dogmi cattolici attraverso le formule del NOM
deve necessariamente assumerle come distaccate dal loro contesto ed attribuire loro un
senso diverso da quello ovvio e proprio.

16 Cfr. P. RADO, Enchiridion Liturgicum (Roma 1961), vol. I, pp. 530-531.
17 Cfr. E theia leitourghia tou en aghiois patros emon Ioannou tou Krisostomou
(Roma 1967) p. 107.
18 M. RIGHETTI, La Messa, cit., p. 397.
19 Cfr. CORNELIUS A LAPIDE, in Mt 20,28; in Mt 26,28: «Qui pro multis, – id est pro
omnibus ...»; in Rom 5, 19; SIMON-DORADO, Praelectiones biblicae – Novum
Testamentum, vol. I (Torino 19608) pp. 896, 797-798; ZERWICK, Analysis philologica
N.T. gracci in Mt 26,28: «omnes qui multi sunt».
20 La crisi nella Chiesa..., cit., p. 32. questo pamphlet è un esempio di come
anche persone competenti abbiano affrontato con superficialità e pressappochismo
questo delicato problema.
21 La si può leggere nella traduzione latina dell'originale greco perduto per es. in:
J. SOLANO, Textos eucaristicos primitivos, vol. I (Madrid 19782) nn. 170-171.
22 E. LANNE, Introduzione a: M. Thurian, L'eucaristia.... cit., pp. XXIV-XXV. Anche
per E. Mazza «l'anafora II nasce per un radicale ridimensionamento del testo di
Ippolito, per conservare solo i tratti fondamentali» (Le odierne preghiere eucaristiche,
vol. I [Bologna 1984] p. 130).
23 Credo che non si possa seriamente contestare il valore sacrificale di queste
espressioni, anche se questa contestazione è stata fatta. Per Enrico Mazza (op. cit., pp.
180-184), la fonte dell'anamnesi-offerta della Prex III non è il testo mozarabico – che
peraltro padre Vagaggini stesso (che è l'autore materiale della Preghiera) indica come
tale – ma ha bensì una origine romana, anzi, in definitiva scritturistica: Rm 12, 1.
Ecco il testo mozarabico: «Questa è la vittima che pendette dal legno; questa è la
carne che è risorta dal sepolcro. Ciò che il nostro sacerdote (= Cristo) offri in verità,
questo stesso noi offriamo nella soavità del pane e del vino. Guarda (cognosce), ti
preghiamo, Dio onnipotente, la vittima per la cui intercessione sei stato placato e
accetta come adottivi coloro per i quali, per grazia, sei divenuto padre» (p. 181).
È evidente che qui abbiamo la identificazione (sacramentale) fra questa vittima
offerta nella liturgia e Gesù Cristo, mentre «il sacrificio vivente, santo, gradito a Dio» di
san Paolo è la vita santa dei cristiani. Nel significato preciso di questo vocabolo c'è
tutta la differenza fra la concezione protestantica e cattolica del sacrificio eucaristico.
Mazza parla, con notevole improprietà di linguaggio, di una teologia dell'anamnesi e di
una teologia del «di nuovo»: «questa discussione ci serve per concludere che non è
tanto un vocabolo che fa difficoltà per le sue implicazioni di "sacrificio cruento" quanto
piuttosto il sistema teologico basato sulla ripetizione del sacrificio. Questa
associazione tra l'uso del vocabolo "vittima" e la teologia della ripetizione del sacrificio
è chiara in Gregorio magno: "... dobbiamo immolare quotidiani sacrifici (hostias) della
sua carne e del suo sangue. Infatti unicamente questa vittima (victima) salva l'anima
dalla morte eterna dato che, per il mistero, rinnova (reparat) per noi proprio la morte
dell'Unigenito che, quantunque risorgendo da morte non muoia più e la morte non
domini più su di lui, pur vivendo in se stesso immortale e incorruttibile, per noi di
nuovo viene immolato in questo mistero del santo sacrificio" (Dialogorum libri quattuor
IV, 58: PL 77, 425). Qui il concetto di sacrificio è completamente sganciato dal "far
memoria", dall'ultima cena e dal "mandato" di cui la messa è obbedienza. Tutto questo
settore dei Dialoghi di Gregorio è pervaso di questa teologia della vittima dato che deve
mostrare la sua efficacia contro il peccato dei vivi e dei defunti. La traduzione
dell'anafora terza recepisce il termine "vittima"; ciò significa che recepisce anche
questa teologia del "di nuovo"? Non necessariamente. Il testo resta piuttosto neutro al
riguardo, ma dato che introduce il racconto istitutivo con il comando di Gesù di
"celebrare questi misteri", possiamo concludere che la teologia dell'anamnesi prevale
sulla teologia del di nuovo» (pp. 181-183).
A questo autore sembra sfuggire il valore dell'espressione «per il mistero» di san
Gregorio, per cui anamnesi e rinnovamento nel mistero sono la stessa cosa. In realtà
l'identità fra l'offerta della Messa e la vittima divina non è propria della teologia, ma del
dogma: «in divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur
et incruente immolatur, qui in ara crucis "semel se ipsum cruente obtulit"» (Conc.
Trid.: DS 1743), mentre la catalogazione di questa dottrina come «teologia del di
nuovo» ci riporta alla fondamentale incomprensione protestantica della realtà
sacramentale.
Tuttavia, quello che qui mi interessa è che il senso oggettivo dell'espressione
liturgica non può essere altro che quello che identifica questa vittima attualmente
offerta colla vittima del Calvario. Lo prova il senso ovvio del testo, il contesto
magisteriale in cui è inserito, oltre che, in questo caso specifico, l'origine materiale
della sua formulazione. Si noti poi che Mazza mette in opera la stessa interpretazione
anche per le espressioni corrispondenti del Canone Romano (pp. 108-110) e si lamenta
del crudo realismo della Prex IV: «ti offriamo il suo corpo e il suo sangue sacrificio a te
gradito per la salvezza del mondo».

146
CONCLUSIONE

Giunti al termine del nostro cammino, è arrivato il momento di
lanciare uno sguardo retrospettivo all'itinerario percorso.
Siamo partiti da questa domanda fondamentale: le critiche di
radicale protestantizzazione rivolte al NOM, che si .presenta con
caratteristiche tanto diverse dall'ordo tradizionale e con tante
somiglianze con la pratica protestantica, sono giustificate?
Per rispondere a questo quesito abbiamo, anche se
frettolosamente, interrogato la storia, per cogliere i punti essenziali di
divisione/distinzione fra concezione cattolica e protestantica della
Messa.
Identificatili nel carattere sacrificale, nella presenza reale e nel
sacerdozio ministeriale, ci siamo accinti a verificarne il permanere nel
nuovo rito, nella sua «introduzione generale» e nelle sue rubriche.
Ci è sembrato tuttavia necessario premettere due esposizioni di
carattere teologico e metodologico. Perché la Messa è sacrificio? Perché è
«imago repraesentativa passionis Christi», risponde san Tommaso.
Perché è il «memoriale della morte del Signore», dice la tradizione. Il
concetto chiave di memoriale si trova così inserito nella «sana dottrina».
Quali sono i criteri corretti di interpretazione di un testo liturgico e di
un atto del magistero (perché in casu si tratta dell'uno e dell'altro)?
Poiché si tratta di interpretare un testo, il problema di una corretta
metodologia che tenga conto della natura del testo si impone, e si rivela
in definitiva come il punto centrale. L'allargamento dell'orizzonte
ermeneutico alle note e ai pronunciamenti del Magistero nella loro
continuità costituisce un imprescindibile dovere. Solo in questo
contesto allargato si può cogliere il senso proprio e oggettivo dei nostri
testi ed esso si rivela inequivocabilmente cattolico.
La prova documentaria si snoda seguendo i punti dottrinali
cardine che si vuole verificare negli articoli dell'IGMR e nelle preghiere
dell'OM.
146
a) Si constata allora che il carattere sacrificale non è negato
coll'uso del termine «memoriale» e che il fine propiziatorio è affermato
con l'affermata identità di sacrificio del Calvario e sacrificio eucaristico e
con l'uso di termini equivalenti.
b) Si constata che il sospetto silenzio sul termine scottante
«transustanziazione» è stato corretto nel testo definitivo, che l'insistenza
su altre forme di presenza di Cristo, diverse da quella eucaristica, non
esce dall'ambito della concezione cattolica della presenza eucaristica
«reale non per esclusione ma per antonomasia» (Mysterium fidei).
c) Si constata che la differenza essenziale fra sacerdozio comune e
sacerdozio ministeriale è nuovamente affermata e l'insistenza sulla
partecipazione dei fedeli si inserisce in una concezione «organica» e non
ha niente a che vedere con la concezione indifferenziata dei protestanti.
Fatta la verifica che il rito è sostanzialmente cattolico, ci siamo
posti la domanda se – data la sua indiscutibile natura di «misura di
interesse generale» emanante dalla suprema autorità della Chiesa –
sarebbe stato, per ipotesi, possibile giungere ad una conclusione
contraria. La dottrina sull'infallibilità dottrinale e pratica della Chiesa
ha confermato i nostri rilievi. Problematica esaminata dopo nella
riflessione teologica, ma che viene prima nel concreto esercizio dell'atto
di fede.
Una raccolta di testi del Magistero viene a fornire il supporto
documentario (non completo, ma sufficientemente vasto) alla nostra
linea interpretativa, mentre qualche testo liturgico, esaminato nelle sue
parti più importanti, costituisce una ulteriore, preziosa, verifica.
Abbiamo detto all'inizio che era nostra intenzione fare
dell'apologetica autentica, la quale, fondata come è sulla verità e
sull'obiettività, non può esimersi dal registrare anche quello che le
critiche hanno di vero. Questo è importante per comprendere come le
critiche sono state possibili e per aprire la strada ad una soluzione che
dia soddisfazione ai malcontenti fondati.
Abbiamo così riscontrato uno sbilanciamento ecumenico
eccessivo che dà luogo ad una certa confusione. L'attenuazione dei
termini efficacemente propiziatori risulta poi tanto più pericolosa in
quanto avviene nel contesto edonistico contemporaneo che ha perduto –
è cosa evidente per tutti – il senso del peccato e ha dimenticato il valore
del sacrificio. La centralità della presenza eucaristica risulta anch'essa
attenuata, quando si tratta del nucleo centrale del mistero e di qualcosa
di particolarmente ostico per la mentalità moderna refrattaria al
«miracolo» e al «mistero» (e quindi bisognoso di più ferma professione).
Anche la sottolineatura unidirezionale del sacerdozio dei fedeli ci pare
146
molto
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 18:17]
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