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Novus Ordo Missae e Fede Cattolica

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    00 09/02/2011 17:32
    Per fugare i dubbi e la validità del NOM ,questo scritto molto completoecco perchè i Papi non sono eretici,nemmeno i vescovi e i fedeli

    www.opusmariae.it/libro_novusordo.pdf

    PREFAZIONE
    Rileggendo le pagine di questo studio a distanza di qualche anno (esso è
    nato come dissertazione di licenza in sacra teologia, discussa nell'ottobre 1984),
    soprattutto in considerazione del fatto che la sua elaborazione è ancora più
    remota nel tempo, provo quella sensazione che penso sia di tutti quelli che
    hanno scritto qualcosa e ritornano dopo un po' di tempo sul frutto della loro
    fatica. Una sensazione che si può riassumere così: oggi non scriverei più le
    stesse cose...
    Non intendo con queste parole sconfessare quanto ho scritto ed è già
    venuto a conoscenza del pubblico attraverso la rivista Renovatio. Se così fosse
    mi asterrei ora dal raccogliere in volume questi articoli per riproporli alla lettura
    nel loro insieme. Intendo solo sottolineare che il modo con cui affronterei
    l'argomento sarebbe certamente diverso.
    Il clima in cui è nato l'interesse che ha motivato questa ricerca – si tratta
    di avvenimenti che mi hanno coinvolto in prima persona – non è più. In fondo
    sono passati pochi anni, ma la cosiddetta «accelerazione della storia» è un fatto e
    non soltanto una suggestiva ipotesi. Tuttavia i problemi allora roventi
    conservano la loro importanza, anche perché, pur essendo cambiato il clima,
    continuano ad essere ampiamente irrisolti. Nella Chiesa è in atto una divisione
    che vede tanti cattolici in una posizione di rifiuto o comunque di distacco nei
    confronti del cammino che la Chiesa ha compiuto da vent'anni a questa parte.
    Non vi è solo la Messa. La Messa sta al centro, perché quello è il suo posto, ma
    vi sono tanti altri problemi che meriterebbero una attenzione almeno altrettanto
    sofferta, anche se certamente qualitativamente ben più adeguata, di quella da
    me prestata al problema della celebrazione eucaristica. Sono questioni di peso:
    la libertà religiosa, l'ecumenismo, i rapporti Chiesa-mondo nel Concilio
    Vaticano II. Questioni spinose se affrontate a partire da questo particolare punto
    di vista: in che senso le attuali posizioni sono eco dell'immutabile Tradizione
    della Chiesa? In che modo sono momenti di quello sviluppo che, come ha
    osservato recentemente il cardinale Ratzinger, fa «parte del numero di concetti
    fondamentali del Cattolicesimo» (Chiesa, Ecumenismo e Politica, Ed. Paoline,
    Milano 1987, p. 12)? Quell'idea di sviluppo che fece da ponte alla conversione
    del cardinale Newman e che dovrebbe stare a cuore al «tradizionalista» almeno
    altrettanto, se non di più, che al «progressista». Solo lo sviluppo infatti garantisce
    la vivente identità con l'origine che è il nocciolo stesso dell'idea di Tradizione. Si
    tratta di autentiche «aporie», ma la teologia che non vuole ridursi a mera
    ripetizione o a vuota chiacchiera, parte proprio di lì, come ci insegnano le liste di
    obiezioni con il sed contra che aprono quel vivo e «drammatico» dialogo che sono
    gli articoli della Summa theologica di san Tommaso d'Aquino. Purtroppo mi pare
    che l'acutezza teologica venga dispiegata più nell'evitare elegantemente le
    difficoltà reali che nell'affrontarle con coraggio e passione per la verità.
    Anche da un punto di vista strettamente scientifico la rilettura di uno
    studio come quello di José Miguel Sustaeta (peraltro già qui citato) mi indurrebbe
    oggi a vedere il problema teologico del Novus Ordo Missae ancora più immerso
    nel contesto della concreta celebrazione (perché questa è la natura della
    liturgia), quindi tenendo conto di tutte le preghiere che la costituiscono e che non
    sono soltanto quelle dell'ordinario (qui unicamente prese in considerazione), ma
    anche quelle del proprio: introiti, collette, sulle offerte, antifone, postcommunî,
    ecc. Sarebbe un utilissimo complemento. Tuttavia l'argomentazione, anche così,
    conserva la sua sostanziale validità.
    Coinvolto negli avvenimenti, come ho già detto, non posso non pensare
    con simpatia a coloro cui in questo studio «contraddico» (in particolare l'autore del
    testo principalmente preso in considerazione: Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira,
    che scrive sotto gli auspici della TFP brasiliana, il cui apostolato politico–sociale
    mi pare degno di speciale apprezzamento). Neppure l'ombra di disistima vorrei
    che trasparisse da un linguaggio e da una terminologia la cui freddezza è
    solamente lo scotto che si paga inevitabilmente alla ricerca della massima
    oggettività.
    Non vorrei neppure che questo studio desse l'impressione di spirito
    incorreggibilmente «antiecumenico». È difficile fare dell'ecumenismo ad intra e
    nello stesso tempo anche ad extra. Le buone intenzioni non modificano certo il
    risultato; penso però che la loro conoscenza possa contribuire ad una migliore
    disposizione del lettore che lo deve giudicare.
    Se, in una misura anche minima, queste pagine potessero servire in
    qualche modo alla causa dell'unità della Chiesa, mi sentirei profondamente
    gratificato e reputerei la mia fatica, anche se certamente tanto manchevole, non
    del tutto inutile.
    Infine tengo ad aggiungere una formula oggi un po' desueta, correndo il
    rischio di alimentare l'impressione che tutto questo libro sia un po' desueto:
    sottopongo quanto ho scritto al giudizio della Chiesa Cattolica Romana e intendo
    fin d'ora per ritrattato tutto quello che dovesse risultare, per suo insindacabile
    giudizio, non in perfetta conformità con la sana dottrina.
    Massa, 1 gennaio 1988
    PIERO CANTONI
    INTRODUZIONE
    Solo chi ha vissuto con intensità le vicende che hanno
    accompagnato l'introduzione delle riforme post-conciliari nel corpo della
    Chiesa sa quale groviglio di passioni si sia prodotto attorno a quelli che
    potrebbero apparire, ad uno sguardo superficiale (o ad una fede
    tiepida...), nient'altro che sterili diatribe teologiche, «erbacce» che
    possono crescere solo nell'humus di un freddo ipercriticismo di stampo
    razionalistico o di uno zelo non illuminato. Solo chi ha veramente
    partecipato a .queste vicende sa come si tratti invece di problemi vitali e
    assolutamente concreti.
    Disorientamento, ribellione, fideismo cieco e rinunciatario,
    abbandono e superficialità si sono dati appuntamento e hanno
    caratterizzato tanti aspetti di questo irrequieto «postconcilio». Gli storici
    si premurano di assicurarci che – in fondo in fondo – dopo i Concili «è
    sempre andata così». Ma – oltre al fatto che, se anche la storia si ripete,
    non si ripete mai nello stesso modo e le crisi, se possono presentare
    tante analogie, possono presentare aspetti assolutamente nuovi e avere
    delle «intensità» diverse – i problemi restano problemi. Soprattutto per
    chi sente l'esigenza di «pensare la fede», non perché la voglia sottoporre
    al vaglio della propria povera soggettività, ma perché vuol fare della fede
    il centro della propria vita di essere intelligente e razionale e non
    soltanto una sua eterogenea appendice1.
    Quello che mi propongo di fare è – essendo passato un po' di
    tempo, e il tempo conta molto, anche in questo genere di cose – portare
    un contributo alla chiarificazione. Il noto storico Joseph Lortz ha scritto
    che «la mancanza di chiarezza teologica da parte cattolica fu nel XIV
    secolo una delle più efficaci cause della Riforma»
    2. Non facciamo
    certamente fatica a credergli in questo scorcio di secolo XX... Sarebbe
    certamente dar prova di un intellettualismo ingenuo pensare che le
    divisioni si possano ricomporre solo con un po' di «chiarezza di idee»,
    però non si può neppure negare che questa ponga validissimi
    presupposti.
    Si tratta dunque di far luce attorno ad uno di questi problemi
    tanto dibattuti nel postconcilio. Certamente il più importante, perché,
    se è vero come è vero che «l'Eucaristia fa la Chiesa», non c'è nella Chiesa
    bene più importante3. E se l'Eucaristia nella sua nuda essenza esiste
    solo nei manuali e nella mente dei teologi, mentre è vissuta nella
    concretezza della liturgia, occuparsi del Novus Ordo Missae e delle
    critiche di eterodossia che gli sono state rivolte non vuol dire occuparsi
    di cosa di poco conto.
    Il compito è anzi difficilissimo ed estremamente delicato.
    Affrontarlo sarebbe presuntuoso se volesse dire aggiungersi ad una
    lunga lista di competenti che se ne sono occupati con serietà ed
    impegno. Ma quando pochi o nessuno si occupa di queste cose da
    questo specifico punto di vista, allora portare il proprio modesto
    contributo è semplicemente doveroso.
    Il problema è ritornato improvvisamente alla ribalta delle
    cronache con l'indulto concesso per la celebrazione della S. Messa
    secondo il rito tradizionale4. Il documento richiede infatti che l'opzione
    per questo rito non implichi in nessun modo il dubbio sulla «legittimità
    e l'esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato da Papa
    Paolo VI nel 1970»; ed è soprattutto a chi è turbato da questo genere di
    perplessità che queste pagine possono essere in qualche modo utili,
    quindi rappresentare un contributo alla ricomposizione dell'unità e,
    comunque, motivare ad una pratica liturgica che ritrovi, dove lo ha
    smarrito, il senso della tradizione, della trascendenza e della sacralità.
    Preciso che non intendo fare «dell'apologetica», almeno in una
    certa accezione corrente del termine, cioè quella della difesa a tutti i
    costi (anche a quello dell'uso di «mezzucci», per non dire della
    menzogna), dell'accettazione aprioristica e monolitica, dello
    schieramento acritico. Certamente dell'apologetica nel significato
    dignitosissimo che questa parola ha assunto e rappresentato nella
    storia della Chiesa. Vorrei mostrare – anticipo qui le conclusioni – che la
    Chiesa non ha tradito i suoi figli. Perché non può tradire, e perché non lo
    ha fatto. Vorrei mostrare che la verità dell'Eucaristia e della Messa
    continua nelle sue espressioni «ufficiali» a rimanere vita della Chiesa
    nonostante tanti abusi e tante mistificazioni5.
    Il NOM ha avuto un iter promulgativo piuttosto articolato e
    «accidentato»6. «Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a
    Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una
    cosiddetta "messa normativa", ideata dal Consilium ad exequendam
    Constitutionem de Sacra Liturgia. Tale messa suscitò le più gravi
    perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non
    placet), moltissime e sostanziali riserve (62 iuxta modum) e 4 astensioni
    su 187 votanti»7. Il 6 aprile 1969 abbiamo la prima edizione tipica
    dell'Ordo Missae (ce ne saranno in tutto tre) che – secondo il Breve
    esame critico – riproduce «identica nella sua sostanza la stessa "messa
    normativa"». Il volume Ordo Missae contiene il decreto Ordine Missae
    (EV 3, 1009), la costituzione apostolica Missale Romanum (EV 3, 996
    ss.), una Institutio generalis (introduzione generale di «genere letterario»
    non ben definito che costituirà il documento più discusso) e infine
    l'Ordo Missae vero e proprio con i testi della Messa e le rubriche.
    Il 18 novembre 1969 esce una ristampa del volume Ordo Missae
    con una dichiarazione sull'IGMR in cui si afferma che «la stessa
    Institutio riassume fedelmente e porta a compimento [ad rem adducit] i
    principi dottrinali e le norme pratiche che, sul culto del mistero
    eucaristico, sono contenute sia nella stessa Costituzione conciliare
    Sacrosanctum Concilium (4 dic. 1963), sia nella lettera enciclica
    Mysterium Fidei (3 settembre 1965) di Paolo VI, sia nell'istruzione
    Eucharisticum Mysterium (25 maggio 1967). Questa Institutio non deve
    però essere considerata un documento dottrinale o dogmatico, ma una
    istruzione pastorale e rituale, con la quale sono descritte la celebrazione
    e le sue parti, tenendo conto dei principi dottrinali contenuti nei
    documenti sopra citati» (EV 3, pp. 1271-1273 in nota). In questa
    seconda edizione tipica il testo della Costituzione risulta, secondo il
    Salleron, sostanzialmente modificato: vi è l'aggiunta del paragrafo sulla
    data di entrata in vigore.
    Il 26 marzo 1970 viene promulgata l'edizione tipica del Messale
    Romano. Il volume contiene: il decreto Celebrationis eucharisticae (EV 3,
    2414), la Costituzione Missale Romanum, l'IGMR con delle importanti
    variazioni che toccano i punti fatti oggetto delle critiche più accese (EV
    3, 2017-2414), l'Ordo Missae che rimane invece invariato.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:30]
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    00 09/02/2011 17:37
    Nel 1973 avremo la prima ristampa del Messale Romano.
    Il 23 dicembre 1972 esce un decreto della Congregazione per il
    Culto Divino con variazioni da introdurre, in relazione ai documenti
    usciti nel frattempo.
    Il 27 marzo 1975 infine abbiamo la seconda edizione tipica del
    Messale Romano con il decreto Cum Missale Romanum (EV 3, 2016), la
    Costituzione MR, l'IGMR e l'OM. Da allora l'unica novità di rilievo è
    rappresentata, per l'Italia (se si eccettua la riforma del rito Ambrosiano),
    dalla nuova edizione italiana del Messale, che qui però non prendo in
    considerazione.
    La querelle attorno alla «nuova Messa» si è sviluppata soprattutto
    in riferimento al suo carattere spiccatamente ecumenico. Ecumenismo
    che, nella fattispecie, ha per principale, per non dire unico,
    interlocutore il Protestantesimo.
    La conclusione del noto e fondamentale Breve esame critico del
    NOM – il testo che, accompagnato e avallato da una lettera dei cardd.
    Bacci e Ottaviani, ha aperto la polemica – suona così: «Il NOM,
    considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione,
    che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme
    come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia
    cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del
    Concilio Tridentino, il quale, fissando i "canoni" del rito, eresse una
    barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse la integrità
    del Mistero».
    Posto che il Concilio di Trento è la risposta cattolica alle negazioni
    protestantiche, si tratterebbe di una protestantizzazione della Messa.
    Da allora la letteratura sul problema del nuovo rito si è fatta
    abbondante, segno anch'esso dell'ampiezza del malcontento e del
    disagio provocato dalla riforma. La bibliografia che conclude questo
    studio – senza avanzare nessuna pretesa di completezza – può fornire
    una certa esemplificazione del fatto. Tuttavia, se tale fatto ha una
    evidente importanza sociologica, non riflette però un altrettanto
    massiccio approfondimento dell'argomento. Le opere a carattere
    veramente scientifico sono poche. Abbiamo già fatto cenno al famoso
    Breve Esame Critico. Nella lettera di accompagnamento dei cardinali
    Bacci e Ottaviani il testo è attribuito a «uno scelto gruppo di teologi,
    liturgisti e pastori». I due porporati fanno proprie le argomentazioni del
    Breve Esame («Come dimostra sufficientemente») e ne enucleano la
    conclusione che abbiamo appena riportato. Il valore di questo testo non
    risiede soltanto nell'autorità dei firmatari della lettera, ma anche nel suo
    intrinseco tenore scientifico8. Purtroppo non diede vita, come sarebbe
    stato opportuno, ad un elevato dibattito, soprattutto per mancanza di
    contraddittori seri. Il problema fu per lo più sottovalutato, favorendo il
    diffondersi di opinioni prive di fondamento e un progressivo
    irrigidimento delle posizioni dette «tradizionaliste».
    Accanto al Breve Esame devono però essere ricordati, per la loro
    serietà, L. SALLERON, La nouvelle Messe (1971); M. DAVIES, Pope Paul's
    new mass (1980) e A. VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, La nouvelle Messe de
    Paul VI: qu'en penser? (1975) (diffuso però soltanto a partire dal 1982)
    che sarà oggetto particolare della nostra attenzione. Questi sono i
    principali interventi veramente consistenti (senza però dimenticare i
    contributi di: Calmel, Philippe de la Trinité, Guérard de Lauriers,
    Gamber, May) di carattere critico nei confronti del NOM.
    Di questi pochi quello di Xavier da Silveira è il solo ad arrivare,
    anche se in modo più implicito che esplicito, a conclusioni di assoluta
    drasticità.
    In difesa del NOM c'è veramente poco: che tratti ex professo del
    problema, prendendo in considerazione direttamente le critiche e
    mantenendosi ad un livello scientifico, vale la pena di ricordare il solo
    dom G. OURY, La Messe de St Pie V à Paul VI (1975).
    Il nocciolo del problema è la «protestantizzazione della Messa».
    Che qualcosa sia cambiato – e qualcosa di consistente – è evidente
    anche all'osservatore più distratto. Che questo cambiamento abbia
    avvicinato, almeno esteriormente, la pratica cattolica a quella
    protestantica, è altrettanto evidente. Un certo «allontanamento» dal
    Concilio di Trento (o, perlomeno, dal «tridentinismo») è dunque qualcosa
    che rientra più nell'ordine dei fatti che in quello delle ipotesi. Quello che
    importa stabilire è però se questo allontanamento include un distacco
    sostanziale dalla dottrina e dalla pratica cattoliche, oppure se si tratta
    soltanto di un avvicinamento dialogico alle posizioni protestantiche
    mediante la scelta di espressioni in cui la differenza risulta con minore
    perspicuità. Posizione questa certamente discutibile, su un piano
    prudenziale però e non più strettamente dogmatico9.
    Il quesito a cui si vuole rispondere è questo: il NOM rappresenta,
    rispetto al rito tradizionale, un cambiamento sostanziale o accidentale?
    Sono giustificate le critiche secondo cui non si tratterebbe più di un rito
    cattolico?
    Questa ottica non vuole minimamente sottovalutare l'importanza,
    soprattutto pratica, delle differenze accidentali, degli spostamenti di
    accento, delle sfumature. I riti liturgici sono fatti per essere
    concretamente vissuti e non per essere letti e studiati a tavolino. Sono
    soprattutto pratica e solo conseguentemente, riflessivamente e
    radicalmente, dottrina. Tuttavia, pur mantenendo nella loro validità e
    gravità queste considerazioni, non si può prescindere da una
    constatazione dottrinale che distingua ciò che è strettamente necessario
    perché il dogma sia salvo e una pratica possa essere detta cattolica, con
    tutta la sua efficacia salvifica ex opere operato, e quanto sarebbe
    auspicabile «ad bene vel melius esse» perché il complesso rituale
    favorisca il più possibile le disposizioni soggettive che sono di enorme
    importanza pratica («esistenziale») per una fruttuosa partecipazione al
    mistero della Eucaristia. Le sobrie esigenze del dogma (che non sono
    dettate dalla nostra sensibilità, ma dal Magistero della Chiesa) sono cioè
    da distinguersi accuratamente dalle esigenze della devozione, per non
    cadere in una prospettiva che presenta analogie con la giansenistica
    confusione fra consigli e precetti.

    «Il fine comanda i mezzi»: se il nostro scopo è quello di cercare i
    punti discriminanti, il nostro metodo procederà con un andamento
    opposto a quello «ecumenico». Procederemo cioè sottolineando le
    differenze e lasciando in secondo piano gli elementi comuni10.
    Per soppesare le critiche rivolte al NOM, in ordine alla sua
    presunta «protestantizzazione», ci serviremo soprattutto dell'opera di
    Xavier da Silveira. Si tratta infatti – assieme al Breve Esame Critico – del
    testo più qualificato e, nello stesso tempo, più drastico11.
    1 Una fede «non interamente pensata» è «una fede che non diventa cultura», cioè
    una fede che non incide nella vita e nella storia (Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al I
    Congresso Nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale del 16 gennaio
    1982).
    Per una sintetica lettura della crisi postconciliare si veda: GIOVANNI CANTONI, Il
    Concilio integrale, in: Cristianità 56 (1979) pp. 10-12. Alle parole del Papa per cui
    occorre «entrare sulla retta via della realizzazione del Vaticano II» (radiomessaggio del
    17 ottobre 1978), retta via che non era dunque quella finora percorsa, fa eco il drastico
    giudizio del Card. Ratzinger: «la vera recezione del Concilio non è ancora affatto
    incominciata (die richtige Rezeption des Konzils hat noch gar nicht begonnen)»
    (Theologische Prinzipienlehre, E. Wewel Verlag, Monaco 1982, pp. 391.408-409).
    2 Cit. in: G. MAY, Der Glaube..., p. 261.
    3 «Bonum commune spirituale totius Ecclesiae continetur substantialiter in ipso
    eucharistiae sacramento» (san Tommaso d'Aquino, Sum. Theol. III q. 65, a. 3, ad 1).
    4 Sacra Congregazione per il Culto Divino, Lettera Circolare ai Presidenti delle
    Conferenze Episcopali, 3 ottobre 1984: L'Osservatore Romano, 17 ottobre 1984, p. 2.
    5 Come è a tutti noto il postconcilio ha conosciuto, e in gran parte continua a
    conoscere, dei tali disordini nelle celebrazioni eucaristiche, da indurre il Santo Padre
    ad usare espressioni di eccezionale gravità: «Vorrei chiedere perdono – in nome mio e
    di tutti voi, venerati e cari fratelli nell'episcopato – per tutto ciò che per qualsiasi
    motivo, e per qualsiasi umana debolezza, impazienza, negligenza, in seguito anche
    all'applicazione talora parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del concilio
    Vaticano II, possa aver suscitato scandalo e disagio circa l'interpretazione della
    dottrina e la venerazione dovuta a questo grande sacramento. E prego il Signore Gesù
    perché nel futuro sia evitato, nel nostro modo di trattare questo sacro mistero, ciò che
    può affievolire o disorientare in qualsiasi maniera il senso di riverenza e di amore dei
    nostri fedeli» (Dominicae cenae, 24 febbraio 1980: EV 7, 224).
    6 Un elenco delle anomalie ci è offerto da L. SALLERON, Solesmes e la Messa, pp.
    11-14. Per la ricostruzione di una storia della riforma liturgica è di fondamentale
    importanza l'opera postuma di Mons. A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948–1975),
    Roma 1983. Sono 930 pagine di testimonianze e documenti, assai preziose, anche se
    hanno tutto il sapore di una appassionata autodifesa. Interessante dal punto di vista
    storico è però inutilizzabile per l'aspetto teologico della questione: «Quanto al merito
    delle obiezioni sollevate, non è il caso di controbatterne l'infondatezza» (p. 284, la
    sottolineatura è nostra). Un intero capitolo (pp. 275-299) è dedicato alle opposizioni,
    ma manca una analisi attenta delle loro cause. L'Autore, molto sbrigativamente e
    riduttivamente, le riconduce a preoccupazioni meramente culturali-estetiche, politiche
    (p. 275) o a «ignoranza teologica» (p. 284). La sua appassionata polemica riconosce
    come interlocutori soltanto gli elementi più sentimentali ed emotivi della critica
    (Casini, Bellucco), mentre autori come Xavier da Silveira, Davies, Salleron (viene citato
    solo un articolo sulla questione giuridica), Gamber, Philippe de la Trinité sono del
    tutto ignorati. Il libro di Xavier da Silveira è stato diffuso, è vero, solo a partire dal
    1982, ma il suo testo era accessibile da tempo agli ambienti interessati. Esso è citato,
    per es., da dom Oury nel 1975 in un libro che Mons. Bugnini conosceva certamente
    bene (cfr. pp. 284-285). Stupisce poi un atteggiamento così sbrigativo, tranchant e
    pieno di indebite generalizzazioni da parte di chi scrive proprio lamentando di essere
    stato vittima di tanta incomprensione.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:40]
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    7 Breve Esame Critico, in: Cristianità 19-20 (1976) p. 7.
    8 Pare che vi abbiano lavorato – secondo diverse indiscrezioni –: Mons. Renato
    Pozzi (l'estensore materiale dell'enciclica di Giovanni XXIII Veterum sapientia), esperto
    liturgista; p. Guérard de Lauriers O.P., allora docente di dogmatica alla Lateranense;
    p. Philippe de la Trinité O.C.D., allora consultore del Sant'Uffizio; nonché un laico: il
    prof. Agostino Sanfratello.
    9 Un esempio di questa metodologia ecumenica conciliare ci è offerto da Mons.
    Philippe Delhaye, attuale segretario della Commissione teologica internazionale. Perito
    al Concilio, ebbe modo di seguire dall'interno l'elaborazione dei testi. A proposito della
    famosa questione sul sacerdozio dei fedeli, quando si trattò di parlarne, soprattutto
    nel contesto della Lumen Gentium, si fecero strada diverse tendenze. Nessuno pensava
    di negare il dato indiscutibile di questo sacerdozio, tuttavia alcuni manifestarono
    perplessità nei confronti di una sottolineatura troppo vivace. «Mons. Phillips mi aveva
    chiesto di aiutarlo – racconta Mons. Delhaye – a livello di segretariato, su questo
    punto di dottrina. Un giorno mi fece parte dei suoi timori davanti a certe esperienze
    olandesi già realizzate. Si voleva ridurre il numero dei preti, organizzare parrocchie
    senza preti ordinati e affidare a laici, scelti dalla comunità, le funzioni e i poteri dei
    precedenti ministri. Ciò implicava evidentemente la trasformazione dell'eucaristiasacrificio
    in convito-cena, così come implicava la fine della confessione (...). Verso la
    stessa epoca Mons. Charue, vescovo di Namur e vice-presidente della commissione
    conciliare per la fede e la morale, mi confidava analoghi timori, che peraltro non
    nascevano originariamente da lui, ma da un osservatore appartenente a una delle
    comunità ecclesiali della Riforma. Questo pastore gli aveva detto: "Commettete un
    errore privilegiando i testi sul sacerdozio comune. Noi abbiamo commesso lo stesso
    errore nel sedicesimo secolo e non siamo più riusciti a ristabilire la situazione"» (Ph.
    DELHAYE, Il metaconcilio, in: Rivista del clero italiano 1 (1981) p. 28. Prevalse
    l'ottimismo e ne uscì una formulazione che, se ricordava in termini inequivocabili la
    distinzione «essentia et non gradu tantum» (LG 10) fra sacerdozio ministeriale e
    comune, era tutta tesa ad esaltare quest'ultimo. «Qui si può cogliere dal vivo
    l'ottimismo (in sé lodevole ma forse smentito dai fatti) di certe grandi personalità del
    Vaticano II. Queste ritenevano che andando il più lontano possibile avrebbero chiuso
    la strada agli eccessi. La "politica" del Concilio di Trento era stata, al contrario,
    pessimistica: "siccome alcuni hanno abusato del sacerdozio comune, non parliamone
    più". (Ibidem, nota 26).
    10 Non riteniamo però che si tratti di una metodologia antiecumenica.
    Circoscrivere i punti di permanente differenza, portandoli al centro della discussione,
    non può che giovare ad un dialogo ecumenico improntato a chiarezza e lealtà. Non
    pensiamo, infatti, che l'occultamento delle differenze sotto una coltre di ambiguità e
    confusione sia vero e sano ecumenismo. Riteniamo invece che il vero dialogo passi
    soprattutto attraverso l'approfondimento, cioè attraverso la soluzione dei punti
    controversi, mediante la loro riduzione (nel senso di «concentrazione») a punti comuni.
    È mostrando il nesso necessario con ciò che è accettato da tutti che si risolve ciò che è
    controverso, lasciando eventualmente da parte terminologie che esaltano inutilmente le
    differenze, urtano cioè la suscettibilità senza essere affatto indispensabili a questo
    approfondimento. È ovvio, però, che questo procedimento postula la massima
    chiarezza sui punti in discussione. Qualsiasi dialogo non può mai procedere
    fruttuosamente a spese della chiarezza. Cfr. UR 11: «Bisogna assolutamente esporre
    con chiarezza tutta quanta la dottrina».
    11 Non rientra nelle mie finalità fare una recensione completa del libro: quindi
    non ne esaurirò tutto il contenuto, ma mi limiterò ad alcuni punti che giudico
    essenziali, per mettere a fuoco quelle che sono le critiche di fondo al NOM. Sarà utile
    però riassumere il suo contenuto. Il libro si divide in due parti: nella prima si esamina
    la «questione della Messa»; nella seconda un problema connesso: l'ipotesi del Papa
    eretico. Perché problema connesso? Perché se il giudizio sul NOM dovesse risultare di
    eterodossia, allora si imporrebbe l'esame della posizione canonica di chi lo ha
    promulgato. È una conseguenza assolutamente logica e non ci sono sotterfugi
    sentimentali che la possano eludere. Non intendo esaminare questa seconda parte: la
    cosa ci porterebbe troppo lontano. Si tratta poi di una questione che si pone solo se si
    pone una determinata conclusione nella prima parte. Penso che questa conclusione
    non si ponga, ritengo quindi superfluo trattare di questo argomento. Mi permetto solo
    una osservazione: allo stato attuale delle cose (diverso da quello in cui il libro fu
    pubblicato per la prima volta: 1970-71) le conseguenze di un giudizio di eterodossia
    sarebbero ben più ampie e non coinvolgerebbero più soltanto la persona del Papa che
    ha promulgato il NOM. Si imporrebbe la conseguenza a cui è arrivato – del tutto
    logicamente – il p. Guérard de Lauriers: l'autorità (tutta l'autorità) della Chiesa è
    venuta meno. Essa sussiste solo materialmente, come un cadavere (cfr. M.L. GUERARD
    DES LAURIERS, O.P., Le Siège Apostolique est-il-vacant? (Lex orandi, lex credendi), in:
    Cahiers de Cassiciacum 1 (1979) pp. 5-99). Infatti il NOM gode oggi dell'accettazione
    moralmente unanime di tutta la Chiesa. Anzi – dopo le dimissioni di Mons. de Castro
    Mayer dalla diocesi di Campos – dell'accettazione fisicamente unanime di tutto
    l'episcopato residenziale di rito latino. È ormai rito praticato dalla unanimità morale
    della Chiesa da più di dieci anni. Quindi le difficoltà ecclesiologiche di un giudizo di
    eterodossia sono oggi ben più cospicue di quelle – già di per sé notevoli – che comporta
    la quaestio (tradizionale, ma tuttora irrisolta) «de papa haeretico». Oggi si sarebbe
    perlomeno vicini alla quaestio «de Ecclesia haeretica». Ci si dovrebbe accingere a
    investigare la possibilità di una «morte della Chiesa», ridotta, nella sua gerarchia, a
    una «struttura» priva di vita... Si dovrebbe cioè entrare in una prospettiva decisamente
    apocalittica, esoterica e in definitiva assurda se esaminata alla luce di una sana
    ecclesiologia

    Capitolo
    Primo

    CATTOLICESIMO E PROTESTANTESIMO
    A CONFRONTO
    BREVE PREMESSA STORICA

    Per situare correttamente il nostro studio sono molto utili, per
    non dire indispensabili, alcuni richiami di carattere storico-dottrinale,
    che mettano sotto i nostri occhi gli aspetti salienti della controversia
    protestantica sull'Eucaristia e la Messa. Inutile dire che si tratta
    soltanto di un abbozzo che intende evidenziare la reale portata dei punti
    discriminanti: che cosa veramente differenzia, al di là della pura
    terminologia, cattolicesimo e protestantesimo in tema eucaristico1.

    Riteniamo insufficiente un puro e semplice rimando ai capitoli e
    ai canoni del Tridentino: il Concilio deve essere interpretato nel suo
    contesto storico. Le sue affermazioni e le sue condanne si rivolgono a
    interlocutori determinati, sapere – anche se a grandi linee e con
    indispensabili approssimazioni – quello che questi interlocutori
    dicevano, non è evidentemente senza importanza per comprendere non
    superficialmente il dettato conciliare. Le sue affermazioni hanno un
    valore assoluto, perché intendono proporre autenticamente e
    definitivamente la fede della Chiesa, ma per comprenderle appieno è
    indispensabile vederle nel loro contesto.

    Pur essendo consapevoli, con san Tommaso, che: «non si tratta
    tanto di sapere che cosa gli uomini abbiano pensato, ma come
    veramente sia la realtà delle cose»2, non possiamo però dimenticare il
    monito di san Gerolamo: «molti cadono in errore, perché non conoscono
    la storia»3.


    Va innanzitutto notato come la controversia eucaristica sia uno
    dei punti più importanti nel più vasto contesto della controversia
    protestantica. È noto il detto di Lutero: «triumphata vero Missa puto nos
    totum Papam triumphare»4. Questo ci conferma nella convinzione che,
    con l'eucaristia e la Messa, ci troviamo al centro della fede e della vita
    della Chiesa.
    Tratteggiare una dottrina protestantica univoca in materia è
    difficile e questo per la natura stessa del Protestantesimo. Il rifiuto del
    magistero ecclesiastico conduce per forza di cose alla frammentazione
    delle opinioni, tanto che qualcuno ha potuto affermare che «non esiste il
    Protestantesimo, esistono soltanto dei protestanti».
    Fu proprio la dottrina eucaristica il terreno su cui si svilupparono
    le più violente controversie all'interno del protestantesimo stesso. Le
    prime divisioni in seno alla «Riforma» ancora incipiente (1529) sorgono
    infatti in occasione della disputa sollevata dai «sacramentari» sulla
    presenza reale. Calvino, davanti al fallimento dei suoi tentativi di
    mediazione, esterna a Melantone tutto il suo disappunto con parole che
    esprimono bene la piega preoccupante che il movimento stava
    fatalmente prendendo: «È molto importante che i secoli a venire non
    sospettino neppure delle divisioni che ci sono fra noi; perché è ridicolo
    al di là di ogni immaginazione, che dopo aver rotto con tutti, noi ci
    mettiamo tanto poco d'accordo fra di noi fin dall'inizio della nostra
    riforma»5.
    Il Protestantesimo si presenta esteriormente come una reazione
    contro degli abusi, come un movimento di «Riforma» che intende
    purificare e rinnovare la Chiesa riportandola all'autenticità originaria.

    Non è difficile però constatare come, dietro la polemica contro l'abuso, si
    celi la negazione di qualcosa di sostanziale della dottrina cattolica,
    qualcosa che la Chiesa ha sempre creduto e praticato e considerato
    come irrinunciabile.
    Riguardo al nostro tema specifico questi punti sostanziali sono
    fondamentalmente tre : 1) il carattere sacrificale della Messa, 2) la
    presenza reale sostanziale di Cristo nell'Eucaristia, 3) il sacerdozio
    ministeriale essenzialmente distinto da quello dei semplici fedeli.
    Attorno a questi tre punti ruota tutta la polemica.
    Se a riguardo della presenza reale sorgono fra i protestanti – fin
    da subito – divergenze, tutti sono d'accordo nella negazione radicale del
    carattere sacrificale della Messa
    e – quindi – conseguenza
    assolutamente logica, di un sacerdozio esterno e visibile, che costituisce
    un ministero permanente in seno alla Chiesa.
    Fin dal 1522 Lutero conduce «questa lotta contro la Messa
    ininterrottamente lungo tutta la sua vita»6. Anche quando gli estremisti
    (i «sacramentari»: Carlostadio, Zwinglio, Ecolampadio) porteranno alle
    ultime conseguenze le sue dottrine, arrivando alla negazione della
    presenza reale e suscitando le ire del «riformatore», Lutero non cesserà
    di negare caparbiamente che la Messa è un sacrificio.
    Sono note le sue
    espressioni violente, che lasciano intravedere – su questo punto – una
    passionalità veramente sconcertante.
    Abbiamo già ricordato come il monaco tedesco abbia visto nel
    sacrificio della Messa il baluardo della cittadella cattolica. Per lui
    concepire la Messa come un sacrificio è «il peggiore degli abusi»7, che si
    manifesta concretamente soprattutto nello «scandalo della messa
    privata»8. «La Messa costituisce nel papato il massimo e orrendo
    abominio»9. Da essa derivano tutti gli altri mali: «questa coda del
    dragone, cioè la Messa, partorisce una moltitudine di abomini e di
    idolatrie». Di fronte alla fermezza e all'impegno con cui tanti cattolici
    scendono in campo per difendere il Santo Sacrificio minacciato, Lutero
    osserva che i «papisti» «sanno perfettamente che una volta caduta la
    Messa è finito anche il papato». Per parte sua, afferma di essere
    «disposto a lasciare bruciare il suo corpo per la causa di Dio, piuttosto
    che equiparare il ventre dei messari (= i preti) a Gesù Cristo»10. «Tutte le
    case chiuse, che pure Dio ha severamente condannato, tutti gli omicidi,
    gli assassini, gli stupri e gli adulteri sono meno nocivi dell'abominazione
    della Messa papista»11.
    Che cosa è allora la Messa?
    Nella liturgia eucaristica – secondo Lutero – bisogna distinguere
    accuratamente la Messa e la preghiera, il sacramento e l'opera, il
    testamento e il sacrificio. L'uno (Messa-sacramento-testamento) viene
    da Dio a noi mediante il ministero del presbitero e l'altro (la preghiera,
    l'opera, il sacrificio) si eleva verso Dio dalla nostra fede mediante il
    sacerdote12.
    La Messa è innanzitutto un testamento, vale a dire la «promessa
    della remissione dei peccati, promessa fatta da Dio, rafforzata dalla
    morte del figlio di Dio»13, e che si accompagna ad un segno visibile, cioè
    il sacramento del pane e del vino. Questo sacramento non ha altro fine,
    né altro effetto che quello di eccitare in noi la fede che, sola, giustifica. È
    empio dunque volerne fare un'opera buona applicabile agli altri: questo
    carattere può tutt'al più convenire alle preghiere di cui la Messa è la
    occasione e che costituiscono come la risposta da parte dell'uomo al
    testamento del Signore. La Messa non è un sacrificio perché Cristo non
    ha celebrato un atto rituale, ma un banchetto, e tutto quello che è stato
    aggiunto in seguito alla semplicità di quella prima cena è un
    cerimoniale senza valore. «C'è contraddizione nell'opinione per cui si
    considera come sacrificio la Messa: noi riceviamo la Messa, offriamo
    invece un sacrificio»14. Se qualche formula della liturgia parla ancora di
    sacrificio (Lutero si riferisce alla liturgia romana del suo tempo, perché
    dalla sua cercherà di espungere ogni anche lontano ricordo di
    sacrificio), bisogna intenderlo delle preghiere che accompagnavano una
    volta il rito dell'offerta (la processione con cui si portavano i doni
    all'altare) e che gli sono sopravvissute.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:53]
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    00 09/02/2011 17:42
    Il sacrificio, nella liturgia eucaristica, si riduce alla ricezione
    soggettiva, cioè alla fede che riceve il sacramento. Anche la concezione
    del sacerdozio si trova ad essere radicalmente modificata da questa
    impostazione: non si può dire che il sacerdote offra realmente il
    sacrificio, perché questa offerta la fa la fede, che è propria di ciascun
    fedele. La fede costituisce il ministero sacerdotale. Allora è ovvio che
    tutti sono sacerdoti, in quanto tutti offrono il sacrificio, accogliendo con
    la fede la promessa di Dio che rimette i peccati in Gesù Cristo.
    L'aspetto sacrificale dell'eucaristia non è dunque oggettivo ma
    soggettivo. Il solo sacrificio autorizzato dalle Scritture del Nuovo
    Testamento, oltre a quello della Croce, è quello della nostra
    mortificazione e delle nostre penitenze (Rm 12, 1), un sacrificio
    «spirituale». Oppure si può parlare – in modo improprio però,
    metaforico – di sacrificio di azione di grazie o di lode: le preghiere elevate
    a Dio in occasione della Messa. Non sacrificio esterno, visibile, vero e
    proprio. Questo è solo quello del Calvario, offerto una volta per tutte:
    «Cristo non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di
    offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo,
    perché egli ha fatto questo una volta per tutte (ephapax, semel),
    offrendo se stesso» (Ebr 7, 27)15.
    Dunque, per Lutero, il sacrificio è qualcosa di assolutamente
    diverso dal sacramento, perché è l'atto di riceverlo e di usarlo (quindi
    ricevendolo ed usandolo tutti i fedeli offrono il sacrificio). La tradizione
    aveva lasciato una nozione ancora molto viva e feconda, ma che proprio
    il protestantesimo contribuirà a svuotare: quella di memoriale. Le prime
    argomentazioni cattoliche anti-luterane si muovono ancora in questo
    ambito: la Messa è sacrificio perché è rappresentazione, memoria, del
    sacrificio di Cristo. Sottolineano però adeguatamente che non è una
    memoria vuota, ma tale da essere una sua ri-presentazione, per cui
    partecipiamo per essa all'efficacia del Calvario. Anche al Concilio di
    Trento il linguaggio non sarà diverso: Missa, licet a sacerdote celebratur
    tota tamen Christi actio est, et nihil nisi Christi nomine in ea agitur. Et
    licet illa oblatio crucis unica fuerit, et in aeternum consummet
    sanctificatos, tamen hoc in altari illi non derogat, quia est illius memoria
    et per hanc de illa partecipamus16. Per Lutero invece la Messa non è
    neppure un sacrificio-memoriale, perché non è un'opera, ma solo un
    sacrificio di rendimento di grazie. Egli contesta fortemente che dal
    concetto di memoria
    si possa passare a quello di sacrificio. «Come potete
    essere così audaci da fare di una memoria un sacrificio?... Se infatti fate
    della memoria del suo sacrificio un sacrificio e lo offrite di nuovo, perché
    non fate della memoria della sua nascita un'altra nascita, in modo tale
    che lui rinasca di nuovo?»17. In questo modo rinnega il carattere
    oggettivo e ontologicamente intensivo del «memoriale». Per lui il
    memoriale è un qualsiasi ricordo soggettivo e non una rappresentazione
    che è, nello stesso tempo, ripresentazione. Il nocciolo della risposta alla
    sua ironica obiezione era già contenuto in san Tommaso18: la Messa è
    sacrificio perché è imago quaedam repraesentativa passioni Christi (III,
    q. 83, a. 1) e la sua relazione alla Croce è del tutto peculiare, perché
    essa sola, nel mentre raffigura la passione nell'atto della consacrazione
    separata del pane in Corpo e del vino in Sangue, rende presente
    sull'altare l'ipsum Christum passum (III, p. 73, a. 5 ad 2).
    Se non è un sacrificio-memoriale che è sostanzialmente identico
    al sacrificio di Cristo, non è neppure – logicamente – un sacrificio
    propiziatorio, cioè un sacrificio di riconciliazione, che applica la virtù del
    Sacrificio di Cristo per la remissione dei peccati che si commettono ogni
    giorno. Sacrificio propiziatorio è soltanto quello del Calvario. Il sacrificio
    eucaristico, per Lutero, di suo, non riconcilia, ma è offerto piuttosto dai
    cristiani già riconciliati.
    Il fondamento teologico profondo è quello fornito dal principio
    fondamentale della «Riforma»: solus Deus. Per Lutero non si può
    neppure parlare di sacrificio propiziatorio di Gesù in quanto uomo19,
    perché solo Dio opera la salvezza. La partecipazione dell'umano alla
    salvezza per opera di quel Dio che procede esaltando l'efficacia delle
    cause seconde è radicalmente negata. La salvezza viene da Dio e basta,
    l'uomo non c'entra in nessun modo.
    Un sacrificio vero e proprio, con un fine propiziatorio, sarebbe un
    atto di idolatria in quanto si metterebbe in concorrenza con la salvezza
    operata da Dio. Il protestantesimo, in fondo, non concepisce che l'azione
    di Dio e l'azione dell'uomo siano entrambe reali senza annullarsi.

    Anche quando viene ammesso dunque un sacrificio eucaristico, di
    azione di grazie o di lode, si intende qualcosa di essenzialmente diverso
    da quello che intende il cattolicesimo.
    Secondo la concezione cattolica, infatti, la Messa è «eucaristia»,
    cioè una restituzione dei doni a Dio, in quanto, e soprattutto, è offerta
    del sacrificio di Cristo, il dono perfetto e sommamente gradito e che,
    solo, rende graditi gli altri doni e tutte le altre preghiere. La Messa è
    adorazione perché il sacrificio di Cristo, in essa presente, è la somma
    adorazione prestata a Dio, che dignifica e valorizza tutte le nostre
    adorazioni.
    Il rifiuto della finalità propiziatoria da parte protestante si produce
    soprattutto perché in essa si manifesta la presenza oggettiva o meno del
    sacrificio di Cristo nella nostra offerta20.
    Volendo trovare allora lo «specifico» protestantico in questa
    delicata questione, senza nasconderci le difficoltà di una semplificazione
    in un campo così complesso e, strutturalmente, differenziato, potremmo
    arrestarci a questa affermazione di principio: ogni «offerta» che
    dall'uomo sale a Dio, soprattutto dopo il sacrificio di Cristo – con
    pretese espiatorie e meritorie – che non sia quella di una semplice
    preghiera, è un atto di idolatria. Anche un «sacrificio anamnestico»,
    l'offerta di un «memoriale» che contenga la realtà ricordata, non sfugge a
    questa legge. Se alcuni teologi protestanti più recenti ammettono una
    nozione «piena» di memoriale
    , lo intendono sempre come un
    ripresentarsi della Passione di Cristo, non come una ripresentazione
    operata dalla Chiesa per il ministero dei sacerdoti21.
    Quali sono le conseguenze rituali di questa teologia?
    Innanzitutto, la rigorosa espunzione di tutto ciò che, in qualche
    modo, sa di sacrificio dalla liturgia eucaristica. Se si spazio ad una
    accezione traslata del termine sacrificio, si tende però ad eliminarlo
    nella pratica. La Messa si riduce concretamente ad un banchetto.
    Poi l'abolizione delle Messe cosiddette «private»: non si deve
    ammettere celebrazione eucaristica se non in vista della comunione. Il
    prete celebrante, secondo Lutero, deve farsi, anche lui, comunicare da
    un altro. Per un po' di tempo il monaco agostiniano aveva tollerato
    queste celebrazioni «private»: se un prete vuole assolutamente, extra
    exemplum Christi, dire la Messa per comunicarsi lui stesso, si preoccupi
    però di non essere mai solo e di dare ugualmente la comunione ad altri.
    Poi però procedette, con logica più rigorosa, a estinguere questa pratica,
    che rimane ancora uno dei punti più differenzianti, a livello rituale, fra
    protestanti e cattolici22.
    Gli altri protestanti non si discostano sostanzialmente da Lutero
    su questo punto.
    Anche per Calvino la Messa-sacrificio è un «errore di Satana»23. La
    Messa «privata», cioè quella che non comporta comunione dei presenti, è
    particolarmente contraria all'istituzione divina24.
    Se Lutero si era mostrato molto disinvolto riguardo alle massicce
    e inequivocabili testimonianze dell'antichità,
    Calvino si preoccupa di
    interpretarle. Se i Padri hanno parlato di sacrificio a proposito della
    Messa «dichiarano anche che non intendono parlare d'altro che della
    memoria di quel vero e unico sacrificio che Cristo ha compiuto sulla
    croce»25. Non può però non riconoscere che non si trattava per loro di
    una memoria vuota; tuttavia, pur non osando respingere il loro
    linguaggio, non ne tiene in pratica conto. La nota caratteristica di
    Calvino, nell'ambito delle grandi personalità della «Riforma», è quella di
    una impossibile mediazione fra proposizioni contraddittorie, e di una
    conseguente confusione26.
    L'apporto di Zwinglio sarà quello di una argomentazione che farà
    molta fortuna e influenzerà anche, in un certo senso, la speculazione
    cattolica: Christus illuc tantum offertur ubi patitur, sanguinem fudit,
    moritur: haec enim aequipollent.... Christus non potest ultra mori, pati,
    sanguinem fundere. ... Ergo Christus ultra offeri non potest: mori etiam
    non potest27.
    Da nessun'altra parte meglio che in questo scintillante sillogismo
    è percepibile l'incomprensione per il realismo sacramentale della
    Tradizione, che aveva sempre compreso senza scandalo l'identità di
    Calvario e di Messa come qualcosa di realissimo, pur essendo in
    imagine, in mysterio, in sacramento.
    Riguardo alla presenza reale, le posizioni all'interno della
    «Riforma» si fanno più complesse.

    Immediatamente c'è chi porta il discorso della salvezza per la sola
    fede alle estreme conseguenze, negando ai sacramenti ogni valore che
    non sia puramente simbolico, cioè di segno atto ad eccitare la fede, ma
    in se stesso privo di ogni contenuto reale.
    Sono i cosiddetti «sacramentari», che si ergono anche contro il
    padre stesso della «Riforma», Martin Lutero.
    Il grave problema, di fronte
    alla innegabile logica interna del «sistema», era costituito dalle chiare,
    chiarissime, parole dell'istituzione: «questo è il mio corpo, questo è il
    mio sangue». Carlstadio non teme di cadere nel ridicolo affermando che,
    nel pronunciare quelle parole, Gesù aveva certamente indicato se stesso
    ... Per Zwinglio, più abile argomentatore, la parola «è» deve essere
    tradotta con «significa». Per Ecolampadio «il mio corpo» deve essere reso
    con «la figura del mio corpo»28. In ogni caso nell'eucaristia non c'è né
    miracolo né mistero, ma un semplice simbolo (nel senso moderno,
    depauperato, del termine) per animare la fede. «Che il corpo di Cristo –
    dice Zwinglio – sia presente essenzialmente e realmente ... come dicono
    i papisti e certi altri ... [i luterani],
    non soltanto lo neghiamo, ma lo
    riteniamo un errore che contraddice la parola Dio»29.
    Lutero rimane invece un assertore della presenza reale, anche se
    rifiuta la spiegazione in termini di «transustanziazione». Però, la sua
    posizione su questo punto non pare ben definita: se da una parte porta
    attacchi contro la transustanziazione, dall'altra, in alcune occasioni,
    sembra ammetterla almeno come «opinione di scuola»30. Positivamente
    propende per una presenza concomitante di pane e vino e persona di
    Cristo: Cristo presente nel pane e nel vino, col pane e col vino, unendosi
    a questi elementi come con una nuova unione ipostatica ... Si tratta
    della teoria conosciuta come della «impanazione» o «consustanziazione»,
    che aveva sostenitori anche prima di Lutero. Non rifugge neppure
    dall'ubiquismo (che sembra godere oggi di nuova fortuna): unita alla
    divinità, l'umanità di Cristo partecipa alla sua onnipresenza ...

    Tuttavia sembra che la sua posizione personale si caratterizzi
    soprattutto come il rifiuto di ogni tentativo di fissare concettualmente i
    termini precisi del mistero, tentativo da lui considerato senz'altro come
    viziato di razionalismo, come momento di una theologia gloriae che si
    contrappone alla sola possibile e legittima theologia crucis31.
    Anche riguardo alla durata della presenza eucaristica la posizione
    di Lutero non è affatto esente da tentennamenti, e oscilla fra una
    presenza soltanto in usu e una presenza che dura fin che durano le
    specie32. La tradizione luterana si attesterà però sulla posizione del
    rifiuto. Non si dà presenza eucaristica al di fuori della celebrazione. Così
    i luterani saranno anche sostenitori della permanenza degli elementi
    accanto alla presenza di Cristo. Il culto eucaristico extra Missam è
    fortemente negato e, in ogni caso, tutto è compromesso, nella pratica,
    dall'estinzione di un sacerdozio validamente ordinato.
    Calvino cerca la mediazione tra Lutero e Zwinglio. Mediazione
    impossibile che gli vale un pensiero assai confuso. Si esprime ora in un
    modo, ora in un altro (sia detto tra parentesi: questo deve mettere in
    guardia contro una certa faciloneria «ecumenica» che si fonda su testi
    isolati...). «Questi aspetti così divergenti della dottrina di Calvino
    possono essere messi insieme solo con grande difficoltà. Allora come in
    seguito il tutto fu capito come una negazione della presenza reale»33.
    A proposito del pensiero di Calvino è utile osservare come un
    riformato (calvinista) odierno, molto impegnato in campo ecumenico, il
    pastore Max Thurian, faccia di tutto per ricondurre il «riformatore»
    francese nell'alveo della presenza reale. Ma si tratta di sforzi ben poco
    convincenti34. D'altra parte quello che conta non è tanto quello che ha
    veramente pensato Calvino, quanto quello che ha veramente costituito
    per secoli il credo calvinistico e, soprattutto, quello che lo costituisce
    ancor oggi.
    La negazione di un sacrificio sacramentale comporta, come logica
    conseguenza, la negazione di un sacerdozio sacramentale. Non si dà un
    sacrificio compiuto nel sacramento, dunque non c'è necessità di un
    sacrificatore costituito anch'esso tale da un sacramento.
    Basandosi su alcuni passi del Nuovo Testamento, interpretati
    unilateralmente e fuori dell'alveo della Tradizione della Chiesa,
    soprattutto 1 Pt 2, 9 («voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la
    nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere
    meravigliose di lui ...»), Lutero proclama che la fede ha fatto preti tutti i
    cristiani35.
    Esiste un solo sacerdozio, quello che ha la sua origine nel
    battesimo36. In virtù di questo sacerdozio tutti hanno gli stessi poteri in
    ordine al culto. Non esiste un sacramento dell'ordine di istituzione
    divina, ma soltanto una cerimonia ecclesiastica per scegliere i
    predicatori.
    È necessario che ci siano dei ministri, perché, se tutti sono
    sacerdoti, non per questo «sind (...) alle Pfarrer» (sono (...) tutti
    parroci)37. Questo ministero può essere considerato di istituzione divina,
    ma non come sacramento, perché non ha uno speciale potere in ordine
    ad uno speciale sacramento. Svuotato del suo contenuto sacramentale,
    questo ministero non necessita più, per essere vero, di essere trasmesso
    da chi ha il potere di farlo e con un rito speciale. «Se i vescovi
    compissero le loro funzioni conformemente agli insegnamenti del
    Vangelo, i ministri riformati potrebbero andare a chiedere loro
    l'imposizione delle mani. Ma, poiché i vescovi non vogliono abbandonare
    tutte le commedie, scimmiottature e pompe, prese in prestito dal
    paganesimo, non vogliono cioè essere veri vescovi, ma intendono agire
    da politici, che non predicano, non battezzano, non amministrano la
    Cena, né compiono alcuna funzione ecclesiastica, accontentandosi di
    perseguitare e condannare quelli che si sentono chiamati a compiere
    queste funzioni (...). ... noi ordiniamo noi stessi quelli che sono chiamati
    al ministero»38.
    Questo punto costituisce ancora oggi, nella pratica, l'elemento di
    bruciante contrapposizione cattolico-protestantica in tema di ministero.

    Il ministero non ha origine, essenzialmente e pena l'invalidità, nel rito
    sacramentale conferito dal vescovo, nella delega del popolo39.
    Ovviamente in questa concezione non c'è posto per un carattere
    indelebile. Di per sé, chi è stato deputato al ministero con l'imposizione
    delle mani, può poi ridiventare semplice laico.
    Vediamo che la concezione protestantica – su questo punto sono
    tutti concordi – è una concezione inorganica della Chiesa. Non si danno
    due partecipazioni diverse allo stesso sacerdozio di Cristo, ma tutti sono
    sacerdoti allo stesso modo. La differenziazione è solo strettamente
    funzionale e – di suo – non permanente. Non è radicata nella natura
    della Chiesa «corpo mistico di Cristo».
    Da parte cattolica si reagì sottolineando fortemente la stretta
    connessione fra vero sacrificio sacramentale e sacerdozio sacramentale,
    senza però negare che si dava anche un sacerdozio spirituale e interiore
    (quello di 1 Pt 2, 9). Se il Concilio di Trento ne parla solo implicitamente,
    il Catechismo Tridentino conta l'argomento in esplicito40.
    Tutti i fedeli sono sacerdoti nel senso che sono chiamati ad offrire
    se stessi, tutta la loro vita, prestando in questo modo a Dio un «culto
    spirituale» (Rm 12, 1). Tutti i fedeli sono, in altri termini, chiamati a
    riprodurre in sé il sacrificio perfetto di Cristo che fu insieme sacerdote e
    vittima. Questo sacrificio spirituale è insieme il modo più proprio di
    partecipare al sacrificio della Messa e l'effetto di questo sacrificio. Il
    sacrificio sacramentale infatti è ordinato a portare a compimento,
    unendoli a quello di Cristo, i sacrifici dei cristiani. Nello stesso tempo
    rende possibili questi sacrifici con la sua virtù salvifica.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 11:18]
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    Heleneadmin
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    00 09/02/2011 17:43
    Tuttavia, poiché Cristo ha lasciato alla Chiesa il sacramento del
    suo sacrificio da perpetuare fino alla sua definitiva venuta, deve esserci
    anche un sacerdozio a ciò deputato: un sacerdozio pubblico che, per la
    Chiesa e a nome della Chiesa, compia il segno sacramentale che
    riattualizza e applica il sacrificio di Cristo. Dire che esiste un sacerdozio
    esterno e visibile (oggi si preferisce chiamarlo «ministeriale») e un
    sacerdozio interno e spirituale («universale» o «comune») non significa
    affermare che quest'ultimo non abbia nessun ruolo esterno anche
    liturgico da compiere o che questo ruolo sia soltanto passivo. Affermare
    che solo il sacerdote-ministro compie il gesto sacramentale che
    riattualizza il sacrificio, non significa escludere il sacerdote-fedele da
    ogni attiva partecipazione. È comprensibile che questo punto di
    dottrina, proprio come reazione alle negazioni protestantiche, abbia
    subito una certa eclissi. Tuttavia è sempre stato almeno implicito nella
    dottrina e nella prassi della Chiesa.
    San Tommaso aveva già ben chiaro che il carattere, in generale (e
    quindi anche quello battesimale), importat quamdam potentiam
    spiritualem ordinatam ad ea quae sunt divini cultus (III, q. 63, a. 2, c). Se
    questa potenza è principalmente «recettiva» (il potere di ricevere i
    sacramenti), è secondariamente anche attiva: statim baptizati idonei
    sunt ad spirituales actiones (Contra Gentes, 1. IV, c. 59). Questa
    partecipazione attiva si esprime liturgicamente nel consenso
    manifestato all'azione del sacerdote (implicito nella presenza devota,
    esplicito nel dialogo). Si esprime compiutamente nella comunione
    sacramentale e può esprimersi anche nell'offerta dei doni, simbolo
    dell'offerta dei propri sacrifici spirituali.
    Il punto discriminante col protestantesimo non consiste dunque
    nell'attribuzione o meno ai fedeli di una certa funzione sacerdotale e
    quindi nel riconoscimento di una parte attiva nella celebrazione
    eucaristica, quanto nel fatto che i cattolici ammettono due modi,
    essenzialmente distinti41, di partecipare all'unico sacerdozio di Cristo,
    mentre i protestanti ne riconoscono uno solo. È ovvio che il
    riconoscimento di due partecipazioni essenzialmente diverse comporta
    due relazioni essenzialmente diverse rispetto all'eucaristia (agere
    sequitur esse). Solo il sacerdote-ministro agisce in persona Christi e
    compie immediatamente il gesto sacrificale. Il sacerdote-fedele partecipa
    a questo sacrificio della Chiesa come membro del Corpo mistico di
    Cristo, agendo il ministro nella persona di Cristo Capo, immola il
    sacrificio solo mediante il sacerdote e offre i suoi sacrifici personali,
    unendoli al sacrificio di Cristo, insieme con lui.
    Questa partecipazione si differenzia essenzialmente da quella del
    ministro perché non è tale da porre in essere il sacrificio sacramentale,
    quindi non è strettamente richiesta perché esso ci sia (di qui la validità
    e la legittimità delle Messe celebrate dal solo sacerdote-ministro).
    Tuttavia il sacrificio compiuto dal solo presbitero non diventa per questo
    affare privato, perché egli non cessa di prestare la sua persona come
    strumento della virtù divina di Cristo in quanto ministro della Chiesa e
    non cessa di rappresentare tutta la Chiesa essendo anche – anzi, in
    certo senso, soprattutto – sacerdote-fedele.
    La negazione di questa partecipazione differenziata che costituisce
    l'ossatura della gerarchia della Chiesa, che va, logicamente, di pari
    passo con la negazione della sua visibilità, costituisce lo specificum
    protestantico in tema di ministero.
    Col Concilio di Trento la Chiesa si leva per difendere il deposito
    della fede. Le proteste dei «riformatori», se si agganciano a veri o pretesi
    abusi, coinvolgono però verità che i cristiani hanno sempre creduto con
    fede fermissima. Non su tutti questi punti esiste, è vero, una teologia
    perfettamente elaborata.
    Esistono, anzi, opinioni molto varie fra i teologi cattolici. In tutti
    però vi è la convinzione che, quale che sia la spiegazione (il «come») che
    di certe verità si può dare, il «fatto» che queste verità enunciano è fuori
    discussione.
    In questo caso il Magistero non interviene per dirimere
    controversie di scuola, ma per difendere la fede, per chiarire quali sono i
    limiti che non si possono superare senza «far naufragio nella fede» (1
    Tim 1, 19) e compromettere così, oggettivamente, la propria salvezza
    .
    L'autorità si premura anche di difendere certe pratiche ecclesiastiche
    che, anche se non costituiscono, di per sé, oggetto di fede, sono tuttavia
    strettamente collegate a dogmi e sono come barriere per la sua difesa.
    In particolare il Concilio si preoccupa di difendere la Chiesa dall'accusa
    di aver favorito, con la sua disciplina, pratiche superstiziose, idolatriche
    e contrarie al Vangelo. Anche in questo caso è, indirettamente, in gioco
    un dogma, quello della santità della Chiesa. Quindi ci si preoccupa,
    mediante canoni disciplinari, di attuare la vera Riforma della Chiesa.
    Una Riforma che sopprima gli abusi senza sconvolgere gli usi legittimi e,
    soprattutto, senza coinvolgere in alcun modo la sostanza intangibile
    della fede. Che risponda insomma, autenticamente, al principio
    dell'Ecclesia semper reformanda.
    D'altra parte sappiamo – e questo
    rende problematica la terminologia recepta di «Riforma-Controriforma» –
    che la vera Riforma cattolica non aveva aspettato la ribellione di Lutero,
    ma aveva avuto inizio ben prima e con ben altri orientamenti42. Segno
    che la Sposa di Cristo ha sempre in se stessa le risorse per superare le
    sue crisi, senza che nessuno possa mai sentirsi autorizzato a dettarle
    dall'esterno quello che deve fare.

    Noi qui ci occuperemo degli aspetti disciplinari, sia per quanto
    riguarda la difesa della disciplina vigente, sia per quanto riguarda la
    disciplina da introdursi; ci occuperemo innanzitutto di ciò che è
    strettamente dogmatico.
    È facile comprendere che lo scopo del Concilio Tridentino, in
    campo dogmatico, non è quello di fare una esposizione completa della
    dottrina sull'Eucaristia e sulla Messa, ma soltanto quello di distinguere
    con chiarezza ciò che il cattolico deve credere in contrapposizione agli
    errori e alle deformazioni dei protestanti.
    Per questo si guarda bene
    dall'esplicitare oltre quello che è necessario per difendere punti di
    dottrina ben precisi, dall'entrare nelle questioni ancora disputate fra
    teologi cattolici, dal toccare tutta quanta la materia. Trattandosi di
    attacchi a punti essenziali, ne risulta una risposta che esplicita quanto
    vi è di essenziale, ma che non esclude integrazioni.

    1) Innanzitutto il Concilio chiarisce che la Messa è un vero e
    proprio sacrificio.
    Nostro Signore Gesù Cristo «nell'ultima Cena (...) per lasciare alla
    Chiesa, sua diletta sposa, un sacrificio visibile (come esige la natura
    umana), col quale fosse rappresentato [repraesentaretur] quel sacrificio
    cruento da compiersi una volta sulla croce, e la sua memoria
    perdurasse fino alla fine del tempo, e inoltre la sua salutare virtù si
    applicasse in remissione di quei peccati che si commettono da noi ogni
    giorno (...), offrì il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del
    vino a Dio Padre e sotto le medesime specie lo diede, perché ne
    mangiassero, agli Apostoli (che allora costituiva sacerdoti del Nuovo
    Testamento) e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, che
    l'offrissero, con queste parole "Fate questo in memoria di me"»43.
    Il Concilio, nell'esporre la dottrina, ha presente sullo sfondo la
    fondamentale obiezione protestantica che fa leva sulla unicità e
    irripetibilità del sacrificio del Calvario. A Trento si risponde che il
    sacrificio della Messa non deroga a quello del Calvario perché non è un
    altro sacrificio ma ne è la rappresentazione e l'applicazione. Croce e
    Messa sono unum et idem44 infatti:
    «Una sola e medesima è l'offerta, lo stesso è anche ora l'offerente
    per il ministero dei sacerdoti, il quale un giorno offrì se stesso sulla
    croce, soltanto diverso è il modo di offrire»45.
    Quindi, nei canoni, si afferma perentoriamente che la Messa è
    «vero e proprio sacrificio» (can. 1). Possiamo dire che questa è
    l'affermazione centrale. Per valutarla nella sua reale portata, dobbiamo
    ricordare, lo abbiamo già accennato, che i protestanti parlano anch'essi
    di «sacrificio». Il termine è però assunto in sensi impropri. Sacrificio
    perché nell'Eucaristia il pane e il vino sono offerti in cibo ai fedeli,
    perché offriamo al Padre le nostre preghiere in cui gli ricordiamo il
    sacrificio del Figlio ... Non sacrificio «vero e proprio», cioè avente in se
    stesso una efficacia propiziatoria (per la remissione dei peccati). La
    stessa efficacia del Sacrificio del Calvario. Nel cap. 2 della XXII sessione,
    che espone il fine propiziatorio della Messa, il Concilio argomenta a
    partire dall'identità fra il sacrificio della Croce e il sacrificio della Messa.
    Questo ultimo è propiziatorio perché, essendo sacramentalmente lo
    stesso del Calvario, ne ha la stessa efficacia. Un pasto, per quanto
    sacro, o una semplice preghiera che ricorda quel sacrificio avvenuto una
    volta per tutte, non ha nessuna efficacia propiziatoria propria.
    Il Concilio, contro queste riduzioni, dà un significato preciso
    all'espressione «sacrificio vero e proprio»:
    a. Esso non consiste soltanto nel «darsi di Cristo a noi in cibo» (can. 1).
    b. Non è «soltanto (un sacrificio) di lode e di ringraziamento» (can. 3).
    Non soltanto una preghiera («sacrificio delle labbra»).
    c. Non è «una memoria vuota (nudam commemorationem) del sacrificio
    compiuto sulla croce» (ibidem).
    d. È «propiziatorio» (ibidem). Contiene cioè la stessa virtus del Calvario.
    Il Concilio difende anche la liceità della Messa in cui «solo il
    sacerdote partecipa sacramentalmente» (can. 8). Abbiamo visto come,
    per Lutero, sono messe «private» non soltanto quelle in cui celebra il
    solo sacerdote, ma anche quelle in cui solo il sacerdote fa la comunione
    sacramentale. E questo perché la Messa si riduce per lui
    sostanzialmente alla comunione. Queste Messe invece non sono da
    condannarsi come «private», perché in realtà, essendo sempre offerte da
    un ministro pubblico per tutti i fedeli, sono sempre «Messe veramente
    comunitarie (Missae vere communes)» (cap. 6).
    Prima di affrontare il secondo punto dottrinale, soffermiamoci un
    momento sugli interrogativi che solleva la dottrina prospettata dal
    Concilio. Come è possibile che la Messa «sacrificio vero e proprio» non
    deroghi al Calvario, posto che sono indubbiamente, almeno dal punto di
    vista storico-fenomenico, due realtà diverse? La risposta più tecnica il
    Concilio la lascia ai teologi. Suo compito è quello di difendere la fede,
    mostrando dove si situano le verità da credere.
    Ogni spiegazione
    teologica, per non svuotare il mistero, deve tenere i due anelli della
    catena: la Messa è vero e proprio sacrificio, tuttavia non «un altro»
    sacrificio rispetto a quello del Calvario.
    Per non avventurarsi in un campo che era ancora assai disputato
    anche fra i teologi cattolici, il Concilio ripropone la terminologia
    tradizionale: la Messa non deroga al Calvario perché è repraesentatio di
    quest'ultimo. Solo che questa repraesentatio non equivale a una nuda
    commemoratio. Nel linguaggio tradizionale troviamo i termini: figura,
    sacramento, memoria o memoriale, rappresentazione o ripresentazione
    (è l'ambiguità non casuale del termine repraesentatio46, rinnovamento,
    applicazione. Tutti questi termini sono legittimi e convengono in uno
    stesso, fondamentale (anche se sempre misterioso) significato. Non è del
    tutto corretto invece parlare di «ripetizione», perché il sacrificio della
    Croce è avvenuto una volta per tutte e non può più essere ripetuto.
    Il Concilio dunque non condanna l'espressione commemoratio
    applicata alla Messa. La condanna porta non sul termine in se stesso,
    ma sull'aggettivo nuda. Il Concilio intende cioè condannare la
    concezione soggettiva di memoriale dei protestanti, non la nozione in se
    stessa che è assolutamente tradizionale. È comprensibile tuttavia che,
    in seguito, i teologi abbiano abbandonato (meglio: relegato in un canto)
    questo termine, a causa dell'ambiguità di cui l'interpretazione
    protestantica lo aveva rivestito.

    L'insistenza del Concilio sulla natura veramente sacrificale
    dell'eucaristia non deve neppure far dimenticare la ricchezza del mistero
    che non si esaurisce qui. Questa sottolineatura non intende escludere
    altri aspetti. Per esempio, accanto alla verità che la Messa è sacrificio
    vero e proprio, resta vero che essa è anche convito, comunione, «sinassi»

    (cfr. III q. 73, a. 4), ecc.47.
    2) In una sessione distinta (la XIII), il Concilio afferma che nel
    sacramento dell'Eucaristia Cristo è presente «veramente, realmente e
    sostanzialmente». Il modo con cui si opera questa presenza è una
    «mirabile conversione» che si dice appropriatamente
    «transustanziazione».
    «Mediante la consacrazione del pane e del vino si ha una
    trasformazione (conversione) di tutta la sostanza del pane nella
    sostanza del corpo di Cristo nostro Signore, e di tutta la sostanza del
    vino nella sostanza del sangue di lui. E questa trasformazione
    convenientemente e propriamente è stata chiamata dalla santa Chiesa
    cattolica transustanziazione»48.
    «Se alcuno dicesse che nel SS. Sacramento dell'Eucaristia
    rimanesse la sostanza del pane e del vino insieme con il corpo e il
    sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, e negasse quella mirabile e
    singolare trasformazione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di
    tutta la sostanza del vino nel sangue, rimanendo soltanto le specie del
    pane e del vino, la quale trasformazione viene chiamata molto
    opportunamente transustanziazione dalla Chiesa cattolica: sia
    scomunicato»49.
    Le verità affermate sono dunque fondamentalmente tre:
    a. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono presenti sotto le specie
    (apparenze) del pane e del vino.
    b. Sotto le specie sacramentali non vi è più la sostanza del pane e del
    vino.
    c. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e
    del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane
    e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù. Questa
    conversione totale si chiama transustanziazione.
    Questa dottrina ha come conseguenza due importanti pratiche
    rituali, nelle quali si trova come verificata in concreto: quella della
    conservazione dell'Eucaristia (cann. 4 e 7) e quella della sua adorazione
    (can. 6).
    3) Per poter pronunciare efficacemente le parole della
    consacrazione, dando luogo alla presenza reale di Cristo e realizzando il
    sacrificio, occorre essere investiti di un potere dall'alto che abilita ad
    agire in persona Christi. Potere con origine sacramentale, radicato in un
    carattere indelebile.
    Il Concilio ha già fatto una importante affermazione sul
    sacramento dell'ordine nella XXII sessione, quando ha detto che Cristo
    ha costituito sacerdoti del Nuovo Testamento gli Apostoli nell'ultima
    Cena, comandando loro di offrire il suo corpo e il suo sangue:
    «Se alcuno dicesse, che con quelle parole "Fate questo in memoria
    di me" (...) Cristo non abbia costituito gli Apostoli sacerdoti oppure non
    abbia ordinato che essi stessi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo
    e il suo sangue: sia scomunicato» (can. 2).
    Nella XXIII sessione però viene affrontato ex professo l'argomento.
    Argomento importante e complesso: accanto a quello sulla
    giustificazione questo decreto è quello che ha richiesto la più difficile
    fase di preparazione. Lo stretto legame col tema del sacrificio è rilevato
    in partenza e costituisce come la base di tutta l'esposizione:
    «Il sacrificio e il sacerdozio sono talmente uniti nei disegni di Dio,
    che si ebbero entrambi sotto ogni legge. Avendo la Chiesa cattolica
    ricevuto nel Nuovo Testamento, per istituzione del Signore, il santo
    sacrificio visibile dell'Eucaristia, occorre anche affermare, che in essa vi
    è un nuovo sacerdozio visibile ed esterno (...) nel quale l'antico
    sacerdozio è stato trasferito (...). La S. Scrittura lo mostra, e la
    tradizione della Chiesa cattolica ha sempre insegnato, che questo
    sacerdozio fu istituito dallo stesso Signore, nostro Salvatore, e fu dato il
    potere agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio di consacrare, di
    offrire e di distribuire il suo corpo e il suo sangue nonché di rimettere e
    di ritenere i peccati»50.
    All'origine del ministero sacerdotale vi è un vero e proprio
    sacramento (cap. III e can. 3) che imprime un carattere indelebile (cap.
    IV e can. 4). Non tutti i cristiani sono «indifferentemente sacerdoti del
    Nuovo Testamento»; non «tutti godono di eguale potere spirituale». Chi
    affermasse il contrario proporrebbe un'immagine inorganica della
    Chiesa: «come se, contro l'insegnamento di S. Paolo, tutti fossero
    Apostoli, Profeti, Evangelisti, Pastori e Dottori (cfr. 1 Cor 12, 29; Ef 4,
    11)».
    1 Su questo punto cfr.: J. RIVIERE, La Messe durant la période de la Réforme et du
    concile de Trente: DrhC X/1 (1928) coll. 1085-1142; L. GODEFROY, Eucharistie d'après
    le concile de Trente: Ibid. V/2 (1913, 1924) coll. 1326-1356; A. BAUDRILLART,
    Calvinisme: Ibid. 11/2 (1923), coll. 1398-1422; B. NEUNHEUSER, Eucharistie in
    Mittelalter und Neuzeit: Handbuch der Dogmengeschichte IV/4 b (Herder, Freiburg i.B.
    1963); J. PAQUIER, Luther. Le nouveau culte: DThC IX/1 (1926), coll. 1304-1308; J.
    POLLET, Zwinglianisme. Eucharistie: Ibid. XV/1 (1950) coll. 3825-3842; A. MICHEL,
    Ordre: Ibid. XI/2 (1932), coll. 1333-65.
    2 San TOMMASO D'AQUINO, Comm. in Aristotelem, De caelo et mundo, lib. I, cap.
    10, lect. 22, n. 8.
    3 In Mattheum, lib. I, cap. 2: ML 26, 29.
    4 Contra Henricum regem Angliae (1522): W 10/II, 220, 13.
    5 «Nec vero pauci refert ne qua ad posteros exeat ullius nos exortae discordiae
    suspicio. Plus quam enim absurdum est, postquam discessionem a toto mundo facere
    coacti sumus inter ipsa principia alios ab aliis dissilire» (lettera di Calvino a Melantone
    del 28 nov. 1552: Corpus Reformatorum, vol. 42, col. 415).
    6 E. ISERLOH, Der Kampf um die Messe in den ersten Jahren der
    Auseinandersetzung mit Luther (Münster 1952) p. 11: cit. in: NEUNHEUSER, op. cit., p.
    53.
    7 Ein Sermon von dem neuen Testament, das ist von der heiligen Messe (1520): W
    6, 365, 23-25.
    8 «Rogemus autem dominum, ut mittat operarios in messem suam et angelos
    suos, qui colligant de regno eius omnia scandala. Multa enim sunt valde, sed nunc
    nobis unum istud insigne petitur, quod si tulerimus, non unum tulerimus, cum sit
    ferme caput omnium» (De abroganda missa privata Martini Lutheri sententia, 1521: W
    8, 412, 23-27).
    9 «Quod Missa in papatu sit maxima et horrenda abominatio, simpliciter et
    hostiliter e diametro pugnans contra articulum primum» (Articuli Smalcaldici, pars II,
    art. II, De Missa: J.T. MUELLER, Die Symbolischen Bücher der evangelisch-lutherischen
    Kirche deutsch und lateinisch (Gütersloh 192812) p. 301, 1). L'articolo primo è quello
    che enuncia la dottrina della giustificazione per sola fede, senza le opere: «Quod Iesus
    Christus, Deus et Dominus noster, sit propter peccata nostra mortuus, et propter
    iustitiam nostram resurrexit Rom 4; et quod ipse solus sit agnus Dei, qui tollit peccata
    mundi Joh. 1, et quod Deus omnium nostrum iniquitates in ipsum posuerit Esaiae
    53; Omnes peccaverunt et iustificantur gratis absque operibus seu meritis propriis, ex
    ipsius gratia, per redemptionem, quae est in Christo Jesu, in sanguine eius Rom. 3.
    Hoc cum credere necesse sit, et nullo opere, lege aut merito acquiri et apprehendi
    possit, certum est et manifestum solam hanc fidem nos iustificare ...» (Ibid., p. 300, 1-
    4).
    10 Il secondo degli Articoli Smalcaldici è tutto dedicato ai «papisti più ragionevoli»
    («sanioribus pontificiis», «vernünftige Papisten») al fine di convincerli che la Messa è
    un'invenzione umana. Per Lutero questo è il punto di fondamentale divisione,
    destinato addirittura a proiettarsi nell'eternità, per cui, mentre egli si rende conto che
    il cattolicesimo fa un tutt'uno con la Messa, si dice disposto a morire piuttosto che
    accettare una tale pratica: «Et ego etiam per Dei opem in cineres corpus meum redigi
    et concremari patiar prius, quam ut missariorum ventrem, vel bonum vel malum,
    aequiparar Christo Jesu, Domino et Servatori meo, aut eo superiorem esse feram. Sic
    scilicet in aeternum disiungimur et contraria invicem sumus. Sentiunt quidem optime,
    cadente missa cadere papatum. Hoc priusquam fieri patiantur, omnes nos
    trucidabunt, si poterunt. Ceterum draconis cauda ista (missam intelligo) peperit
    multiplices abominationes et idololatrias» (Ibid., p. 302, 10-11).
    11 «Ich sag, das alle gmeyne hewser, die doch gott ernstlich verbotten hat, ja alle
    todtschleg, diebstal, mord and eebruch nitt also schedlich seyn als diser grewel des
    Papisten Mess» (Predigt am 1. Advent, 27 novembre 1524: W 15, 774, 19-21).
    12 Cfr. De captivitate Babylonica ecclesiae praeludium (1520): W 6, 522-523.
    13 «Vides ergo, quod Missa quam vocamus sit promissio remissionis peccatorum,
    a deo nobis facta, et talis promissio, quae per mortem filii dei firmata sit» (Ibid., p. 513,
    34-36).
    14 «Repugnat Missam esse sacrificium, cum illam recipiamus, hoc vero demus»
    (Ibid., pp. 523-524).
    15 La Tradizione aveva sempre interpretato quest'affermazione in perfetta
    armonia con la fede nel carattere veramente sacrificale di ogni Messa. La Messa non è
    «un altro sacrificio» rispetto a quello irripetibile del Calvario. Sacrificio che ne
    denuncerebbe – in modo blasfematorio – l'insufficienza. La sua realtà di sacrificio sta
    nell'essere rappresentazione (la rappresentazione di un sacrificio deve essere a sua
    volta sacrificale), raffigurazione, del Sacrificio del Calvario e quindi nell'essere –
    sacramentalmente – tutt'uno con esso. In questa prospettiva l'«una volta per tutte»
    viene ad avere il valore opposto a quello che gli vogliono attribuire i protestanti:
    irripetibile come fatto storico definitivamente trascorso nella sua realtà puramente
    fenomenica (come sacrificio cruento) è infinitamente ripresentabile nel «sacramento»
    (nel rito eucaristico che è sacrificio incruento), perché la sua virtus salvifica è infinita e
    trascende lo spazio e il tempo. «Forse che con la Messa sradichiamo la Croce? – dice
    san Roberto Bellarmino, il più grande controversista cattolico –. Niente affatto, la
    stabiliamo invece [statuimus] (...). Affermiamo che il sacrificio della Croce ha una
    efficacia salvifica infinita e eterna (...), neghiamo però che ne consegua che non si
    possa, senza offendere la Croce di Cristo, moltiplicare i sacrifici rappresentativi del
    sacrificio della Croce che ci applicano i suoi frutti» (De Missa, cap. 25: Respondeo II,
    cit. in: S. TROMP, De Christo capite Mystici Corporis (Università Gregoriana, Roma 1960)
    pp. 194-195).
    16 B. NEUNHEUSER, cit., p. 62. Cfr. anche pp. 54-57; RIVIERE, cit., coll. 1102-1112;
    i capitoli dottrinali non promulgati in: BETZ, L'eucarestia come mistero centrale:
    Mysterium salutis 8 (Queriniana, Brescia 19772) p. 346.
    17 «Sagt uns, yhr pfaffen Baal: Wo steht geschrieben, das die Mess eyn Opffer ist,
    odder wo hatts Christus gelernt, das man gesegnet brott und weyn gott opffern soll?
    Hort yhr nicht? Christus hatt eyns sich selbst geopffert, er wil von keyn andern
    hynnfort werden geopffert. Er wil, das man seyns opffers gedenken soll. Wie seytt yhr
    denn so kuene, dass yhr aus dem gedechtnis eyn opffer macht? Sollt yhr aus ewrm
    eygen kopff, on alle schrifft, so torich seyn? Denn so yhr aus dem gedechtnis seyns
    opffers eyn opffer macht und yhn noch eyns opffert, warumb macht yhr denn auch nit
    aus dem gedechtnis seyner gepurt eyn ander gepurt, das er also noch eyn mal geporn
    wuerde?» (Vom Missbrauch der Messen, 1521: W 8, 493, 19-28).
    18 «I maestri del giovane monaco, Trutvetter, Usingen e Paltz, erano nominalisti
    riconosciuti e Martino stesso si vantò di essere "della fazione", della "setta" d'Ockham
    (...) P. Denifle fa rilevare, a ragione, che Lutero non conosceva la vera dottrina dei
    grandi maestri della teologia medioevale, in particolare quella di san Tommaso» (A. DE
    MOREAU, Lutero e il luteranesimo: Storia della Chiesa, a c. di A. Fliche e L. Martin, vol.
    XVI, ed. it. SAIE, Torino 1968, p. 46).
    19 Cfr. TH. BEER, Der fröhliche Wechsel und Streit. Grundzüge der Theologie Martin
    Luthers (Johannes Verlag, Einsiedeln 1980) pp. 526-527.
    20 «L'offerimus cattolico (...) contrasterebbe con il principio solus Deus solus
    Christus, che in questioni di salvezza deve essere fatto valere in maniera
    incondizionata; contrasterebbe anche con la struttura fondamentale dell'evento della
    croce, che per sua natura dovrebbe essere determinato non come autosacrificio di
    Gesù, ma come sua donazione ad opera del Padre; infine un sacrificio dei cristiani,
    soprattutto inteso come sacrificio espiatorio, significherebbe il tentativo di una
    rinnovata espiazione e di un completamento del sacrificio della croce, che è
    autosufficiente, sarebbe quindi un'opera» (J. BETZ, cit., p. 355).
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 12:23]
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    21 «L'anàmnesis del sacrificio della croce di Cristo viene cioè concepita volentieri
    come rendersi presente di quest'ultimo» (Ibidem).
    22 Cfr. RIVIERE, cit., coll. 1086-1089.
    23 «Par ces inventions et autres semblables, Satan s'est efforcé d'espandre et
    mesler ses tenebres en la sacrée Cene de Jesus Christ, pour la corrompre, depraver et
    obscurcir: a tout le moins, afin que la pureté d'icelle ne fust retenue et gardée en
    l'Eglise. Mais le chef de 1'horrible abomination a esté, quand il a dressé un signe par
    lequel ceste sacrée Cene non seulement fust obscurcie et pervertie, mais du tout
    effacée et abolie s'evanouist et decheust de la memoire des hommes: c'est assavoir,
    quand il a aveuglé quasi tout le monde de cest erreur pestilentieux, qu'on creust la
    Messe estre sacrifice et oblation pour impetrer la remission des pechez» (Institution
    chrestienne, livre IV, chapitre XVIII, 1: Corpus Reformatorum, vol. 32, col. 1057).
    24 «Afin qu'aucun ne soit trompé, j'appelle Messes privées, toutes fois et quantes
    qu'il n'y a nulle participation de la Cene de nostre Seigneur entre les fideles, quelque
    multitude qu'y assiste pour regarder. (...) Je dy que les Messes privées repugnent à
    l'institution de Christ: et pourtant que c'est autant de profanation de la sainte Cene»
    (Ibid., coll. 1065-1066).
    25 «Ils usent bien du mot de Sacrifice: mais ils declairent quant et quant, qu'ils
    n'entendent autre chose que la memoire de ce vray et seul sacrifice qu'a parfait Jesus
    Christ en la croix» (Ibid., col. 1068).
    26 Cfr. RIVIERE, cit., col. 1096.
    27 Ibid., col. 1095.
    28 Cfr. GODEFROY, cit., coll. 1341-1342.
    29 «Quod Christi corpus per essentiam et realiter, hoc est corpus ipsum naturale,
    in coena aut adsit aut ore dentibusque nostris mandatur, quemadmodum papistae et
    quidam qui ad ollas aegypticas respectant perhibent, id evro non tantum negamus sed
    errorem esse qui verbo Dei adversetur, constanter adseveramus» (cit. in: J.-V.-M.
    POLLET, Zwinglianisme: DThC XV/2, col. 3840).
    30 Cfr. Gemeinsame römisch-katolische evangelisch-lutherische Kommission,
    Das Herrenmahl (Verlag Bonifacius-Druckerei, Paderborn 1979) pp. 85-86.
    31 Cfr. B. GHERARDINI, Theologia crucis. L'eredità di Lutero nell'evoluzione teologica
    della Riforma (Ed. Paoline, Roma 1978).
    32 Cfr. GODEFROY, cit., col. 1352.
    33 B. NEUNHEUSER, cit., p. 54. La sottolineatura è mia.
    34 Cfr. L'Eucaristia memoriale del Signore, sacrificio di azione di grazia e
    d'intercessione (AVE, Roma 19712) pp. 284 ss. Questo è un libro molto importante per
    il nostro argomento. L'autore è stato fra gli osservatori protestanti ammessi ai lavori
    per la redazione del NOM e le sue idee, soprattutto quelle espresse in questo testo,
    hanno certamente avuto una grande influenza. Assieme a Watteville, von Allmen e
    altri rappresenta la posizione protestantica più vicina al cattolicesimo in tema di
    Eucaristia: una posizione che si è delineata nell'alveo del movimento liturgico e di più
    approfonditi studi patristici.
    Valutazione cattolica del volume di Thurian in: F.
    SPADAFORA, L'Eucaristia nella S. Scrittura (Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo
    1971) pp. 25-28. Esprime dubbi sulla sua interpretazione di Calvino B. NEUNHEUSER,
    cit., p. 54, nota 18.
    35 «Denn alle die, sso den glauben haben, das Christus fur sie ein pfarrer sey ym
    hymell fur gottis augen, und auff yhn legen, durch yhn furtragen, yhre gepett, lob, nod
    und sich selbst, nit dran zweyffeln, er thu das selb und opffer sich selb fur sie,
    nehmen drauff leyplich oder geystliche das sacrament unnd testament als ein zeychen
    allis desselbenn, unnd zweyffeln nit, es ist da alle sund vorgeben, gott gnediger vatter
    worden und ewiges leben bereyt, sihe, alle die, wo sie sein, das seyn rechte pfaffen,
    und halten warhafftig recht mess, erlangen auch damit, was sie wollen» (Ein Sermon
    von dem neuen Testament, das ist von der heiligen Messe, 1520: W 6, 370, 16-24). Per
    una succinta ma documentata esposizione del pensiero di Lutero sull'argomento cfr.
    B. GHERARDINI, La Chiesa nella storia della teologia protestante (Borla, Torino 1969) pp.
    46-57.
    36 «Dan alle Christen sein warhafftig geystliche stands, unnd ist unter yhn kein
    unterscheyd, denn des ampts halben allein, wie Paulus I Corint. XII sagt, das wir alle
    sampt eyn Corper seinn, doch ein yglich glid sein eygen werck hat, damit es den
    andern dienet, das macht allis, das wir eine tauff, ein Evangelium, eynen glauben
    haben, unnd sein gleyche Christen, den die tauff, Evangelium und glauben, die
    machen allein geistlich und Christen volck. Das aber der Bapst odder Bischoff salbet,
    blatten macht, ordiniert, weyhet, anders dan leyen kleydet, mag einen gleysner and
    olgotzen machen aber nymmer mehr ein Christen odder geystlichen menschen. Dem
    nach sso werden wir allesampt durch die tauff zu priestern geweyhet» (An den
    christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung, 1520: Ibid.,
    407, 13-23).
    37 «Alle Christen sind priester, Aber nicht alle Pfarrer ... Der beruff and befehl
    macht Pfarrer and Prediger» (Der 82, Psalm ausgelegt, 1530: W 31/1, 211). «Dan weyl
    wir alle gleich priester sein, muss sich niemant selb erfur thun und sich unterwinden,
    an unsser bewilligen und erwelen das zuthun, des wir alle gleychen gewalt haben, Den
    was gemeyne ist, mag niemandt on der gemeyne willen and befehle an sich nehmen»
    (An der christl. Adel..., cit., p. 408, 13-17).
    38 «Si episcopi suo officio rette fungerentur et curam ecclesiae et evangelii
    gererent, posset illis nomine caritatis et tranquillitatis, non ex necessitate, permitti, ut
    nos et nostros concionatores ordinarent et confirmarent, hac tamen conditione, ut
    seponerentur omnes larvae, prestigiae, deliramenta et spectra pompae ethnicae. Quia
    vero nec sunt nec esse volunt veri episcopi, sed politici dynastae et principes, qui nec
    concionantur et docent, nec baptizant, nec coenam administrant, nec ullum opus et
    officium ecclesiae prestant, sed eos, qui vocati munus illud subeunt, persequuntur et
    condemnant: profecto ipsorum culpa ecclesia non deserenda, nec ministris spolianda
    est. Quapropter, sicut vetera exempla ecclesiae et patrum nos docent, idoneos ad hoc
    officium ipsi ordinare debemus et volumus. Et hoc nobis prohibere non possunt, etiam
    secundum sua iura, quae affirmant etiam ab haereticis ordinatos vere esse ordinatos,
    et illam ordinationem non debere mutari. Et Hieronymus scribit de ecclesia
    Alexandrina, eam primum absque episcopis, presbyteris et ministris communi opera
    gubernatam fuisse» (Articuli Smalcaldici, pars III, art. X: Müller , cit ., p. 323).
    39 «Drumb ist des Bischoffs weyhen nit anders, den als wen er an stat und
    person der ganzen samlung eynen ausz dem hauffen nehme, die alle gleiche gewalt
    haben, und yhm befilh, die selben gewalt fur die andern auszzurichten (...). Wen ein
    heufflin fromer Christen leyen warden gefangen unnd in ein wusteney gesezt, die nit
    bey sich hetten einen geweyheten priester von einem Bischoff, unnd wurden alda der
    sachen eynisz, erweleten eynen unter yhn er were ehlich odder nit, und befihlen ym
    das ampt zu teuffen, mesz halten, absolvieren und predigenn der wer warhafftig ein
    priester, als ob yhn alle Bischoffs unnd Bepste hetten geweyhet» (An den christl. Adel
    ... cit pp 407-408, 29-1). «Si ordo in hoc modo intelligatur, neque impositionem
    manuum vocare sacramentum gravemur. Habet enim ecclesia mandatum de
    constituendis ministris, quod gratissimum esse nobis debet, quod scimus Deum
    approbare ministerium illud et adesse in ministerio» (FILIPPO MELANTONE, Apologia
    Confessionis Augustanae, art. XIII (VII): Müller, cit., p. 203, 12-13).
    40 Cfr. Catechismo tridentino (Ed. Cantagalli, Siena 1981) parte II, n. 284, PP.
    364-367.
    41 «Non si deve negare né mettere in dubbio – dice Pio XII – che anche i fedeli
    hanno un certo sacerdozio; né è lecito disprezzarlo o svalutarlo. (...) Ma qualunque sia
    il vero e pieno senso di questo titolo onorifico e della cosa stessa, bisogna tuttavia
    ritenere che questo comune sacerdozio di tutti i fedeli, per quanto alto ed arcano,
    differisce non solo nel grado, ma anche essenzialmente dal vero e proprio sacerdozio,
    che consiste nel potere di operare il sacrificio dello stesso Gesù Cristo, impersonando
    Cristo Sommo Sacerdote» (Alloc. Magnificate Dominum del 2 novembre 1954: Discorsi e
    radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVI, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma
    1955, p. 248).
    L'espressione «non solo nel grado, ma anche essenzialmente» sarà ripresa dal
    Vaticano II: LG 10.
    42 Cfr. su questo punto L. CRISTIANI-A. GALUZZI, La Chiesa al tempo del Concilio di
    Trento: Storia della Chiesa, a c. di A. Fliche e V. Martin, volume XVII (SAIE, Torino
    1977), pp. 9-82. «Tutto il programma dei riformatori cattolici è riassunto in queste
    righe: non nuove dottrine, perché sarebbe una offesa al Signore Gesù e allo Spirito
    Santo pensare che la Chiesa possa essere stata abbandonata al punto di aver perduto
    la capacità di insegnare la verità rivelata, ma bensì vita nuova, con il ritorno al perfetto
    ideale evangelico» (p. 44).

    43 FdC, pp. 419-420.
    44 L'espressione non è del Concilio ma del Catechismo tridentino che qui lo
    interpreta in modo autorevolissimo: pars II, cap. IV, 76 (trad. it. Cantagalli, cit., p.
    292).
    45 FdC, p. 421.
    46 Il termine repraesentare è portatore di una certa ambiguità, non solo perché
    oscilla fra due significati storicamente dati: quello classico di praesens sistere aliquid e
    quello moderno di rappresentare, raffigurare, simboleggiare (cfr. BRUNERO GHERARDINI,
    Prefectio omnium prefectionum, IV Sent 8, 1, 1, 1 ad 1. La SS. Eucaristia in un recente
    volume di Mons. A. Piolanti, in: Divinitas 2 (1984) pp. 157-159), ma anche perché il suo
    originario senso forte – che è quello caseliano di Vergegenwärtigung,
    Gegenwärtigsetzung – non perde l'allusione ad un render presente in signo, in imagine.
    Il termine stesso cioè si trova ad essere portatore di una intrinseca affinità con la
    misteriosa dinamica del sacramento che significando causat. Il significato di
    «rappresentare» sottolinea che la realtà è resa presente nel modo misterioso del segno.
    Quando si traduce repraesentatio con rappresentazione, occorre allora precisare che è
    una rappresentazione efficace e di una efficacia non soltanto psicologico-morale. Il
    significato di «render presente di nuovo» sottolinea che la realtà stessa irrompe di
    nuovo nel presente, creandosi fra la rappresentazione e la realtà una sostanziale
    identità.
    Per dare ragione però del fatto che questa identità rimane velata nel segno e
    non deve essere intesa come una iterazione o come un impossibile annullamento delle
    circostanze di spazio e di tempo, occorre qualificarla come «mistica, misterica,
    sacramentale».
    47 Tuttavia bisogna sottolineare, contro la tendenza odierna a mettere tutti questi
    aspetti sullo stesso piano (tendenza a cui il NOM non ci sembra estraneo), come essi si
    gerarchizzano sotto la nozione di sacrificio. Solo questa nozione dà il reale significato a
    tutti gli altri aspetti secondari. Necesse est invenire principium in omnibus in quibus est
    ordo (san Tommaso, In Iohannem, cap. I, lect. I).
    48 FdC, p. 411.
    49 Ibid., pp. 412-413.
    50 FdC, pp. 478-479.

    Capitolo
    Secondo


    UN PROBLEMA DI INTERPRETAZIONE
    Il problema è soprattutto ermeneutico. Stiamo infatti parlando
    delle critiche che si possono fare, e sono state fatte, ad un testo. È
    allora ovvio che i criteri di interpretazione dovranno rivestire un ruolo
    fondamentale.
    I criteri ermeneutici dovranno essere quelli comuni, ma bisognerà
    anche tener conto delle peculiarità di un testo liturgico e di un testo che
    emana dal supremo magistero della Chiesa.

    Nell'ambito dei criteri comuni rientra per esempio il principio base
    che «bisogna interpretare ciò che è confuso alla luce di ciò che è chiaro».
    Poi che occorre tenere in debito conto il contesto prossimo (gli elementi
    di interpretazione presenti nell'immediata vicinanza: i passi paralleli
    dello stesso testo e le note) e quello remoto (soprattutto le interpretazioni
    esterne al testo che emanano da chi ne è formalmente l'autore:
    interpretatio autentica)1.

    Nell'ambito di quelli peculiari, occorrerà tener conto del fatto che
    la funzione di un testo liturgico non è direttamente quella di proporre la
    dottrina
    (non è né un catechismo, né un testo di teologia e neppure può
    essere una «definizione dogmatica», che è sempre atto del magistero
    formalmente insegnante) ma quella di regolamentare e guidare una
    prassi cultuale. La liturgia è soprattutto azione e solo secondariamente,
    riflessivamente e radicalmente dottrina.

    Occorrerà poi tener conto da chi emana il testo. Nel caso esso è
    espressione della suprema autorità della Chiesa. Varrà allora il criterio
    «in dubio standum est pro auctoritate» che, se vale per ogni autorità,
    vale a fortiori per un'autorità divinamente assistita. Occorrerà tener
    conto che il magistero della Chiesa è strutturalmente «tradizionale».
    Cioè rimanda, per sua propria natura, a ciò che ha già insegnato per
    gettare luce su ciò che sta insegnando. Occorrerà tener conto della sua
    unità morale che richiede di leggere un singolo pronunciamento nel
    contesto più ampio di tutto il suo insegnamento.

    Anche Xavier da Silveira si rende conto dell'importanza dei criteri
    di interpretazione e vi dedica un intero capitolo. In particolare esamina
    il seguente argomento: «Vi sono nell'Institutio (edizione del 1969 e
    soprattutto edizione del 1970) certi passaggi che affermano i principi
    tradizionali su quei punti che alcuni pensano esservi esposti in modo
    insufficiente o sospetto.
    Ora, i testi confusi devono essere interpretati con l'aiuto di testi
    più chiari, e quelli che sembrano eterodossi con l'aiuto di quelli che
    sono ortodossi.
    Così, una volta che il documento è stato considerato nel suo
    insieme, non può essere giudicato come sospetto».
    «Questa obiezione sembra, a prima vista, così valida che
    vorremmo esaminarla qui con tutta la nostra attenzione, consacrandole
    un capitolo speciale»2.
    Rilevata l'importanza dell'obiezione, che punta il dito sul nocciolo
    del problema, l'autore si addentra in una risposta articolata che
    esamineremo nel dettaglio.
    Innanzitutto fa un'osservazione di fatto: «l'affermazione
    tradizionale è in qualche modo (nel nostro testo) messa in secondo
    piano rispetto all'affermazione contraria»3. Questo rilievo mi sembra già
    evidenziare una certa ambiguità di fondo. Esso infatti può significare
    due cose:
    a. Accanto alla verità c'è l'errore e l'errore sta in primo piano.
    b. La formulazione esplicita dei punti contestati dal protestantesimo è
    in una posizione di sottofondo rispetto a formulazioni – in sé non
    errate – ma non esplicitamente anti-protestantiche.
    Quindi l'autore avanza tre risposte: una di carattere direttamente
    ermeneutico, una di ordine storico e una di ordine metafisico.
    A. Risposta fondamentale di ordine ermeneutico
    La regola invocata (ciò che è confuso deve essere interpretato alla
    luce di ciò che è chiaro) è vera, tuttavia essa non si applica sempre e
    comunque, ma conosce restrizioni nella sua applicazione. La regola
    può essere applicata solo se i passaggi sospetti o eterodossi appaiono
    raramente, come per errore.
    Essa non ha più valore se i passaggi sono numerosi (ciò che si
    produce per errore è – di sua natura – fortuito e non frequente):
    allora bisogna ricorrere ad altre regole o criteri di interpretazione.
    Allorché questi passaggi confusi, sospetti e eterodossi, considerati
    nel loro insieme, formano un sistema dì pensiero, la regola di
    interpretazione invocata non è più valida, ma si applica la regola
    inversa: è necessario chiedersi se non sono i testi ortodossi che
    devono essere interpretati alla luce dei passi confusi, sospetti e
    eterodossi.
    Mi sembra, in definitiva, che, più che di una vera e propria eccezione
    alla regola, si tratti piuttosto di una sua applicazione a livello più
    approfondito. Una volta individuato il «sistema» soggiacente ai
    numerosi passi confusi, sospetti e eterodossi, allora sono essi,
    rispetto ai pochi chiari, a diventare veramente «chiari» e a costituire il
    punto di partenza per una corretta interpretazione.
    Rileviamo tuttavia come questo «ribaltamento» sia possibile solo nel
    caso in cui:
    1. Ci si trovi di fronte a passi confusi, sospetti e eterodossi. Cioè
    quando il testo, oltre ad essere confuso, presenta anche qualche
    punto obiettivamente e inequivocabilmente erroneo.
    2. Quando questi passi sono i più frequenti, mentre i passi
    ortodossi hanno l'aria di essere degli «obiter dicta».
    3. Quando questi passi costituiscono un «sistema».
    B. Risposta sul piano della storia: «modus operandi» degli eretici
    Tutti gli eretici, almeno fino alla rottura definitiva con la Chiesa
    cattolica, hanno cercato di dissimulare le loro vere intenzioni. Gli
    eretici poi hanno l'abitudine di ammettere – se necessario – principi
    apertamente contraddittori.

    C. Risposta che prende come punto di partenza la metafisica neomodernista
    Non è solo per tattica che i modernisti accettano la contraddizione
    dottrinale, ma anche per sistema. Un esempio significativo lo
    troviamo nella riduzione fenomenologica del tomismo, che comporta
    una «messa fra parentesi» dell'oggettivismo tomistico.

    Fin qui il nostro autore. Vengo ora alle mie osservazioni.
    Niente da dire quanto alle risposte B e C. Anche la risposta A
    contiene una osservazione verissima. Rilevo soltanto come si tratta solo
    apparentemente di una eccezione alla regola: in realtà l'interpretazione
    globale dei passi confusi, sospetti e eterodossi, conferisce loro una
    nuova chiarezza (accresciuta dal fatto che si trovano in primo piano) e
    consentono un'applicazione più approfondita della stessa regola.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 12:39]
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    Tuttavia questo procedimento, in sé validissimo, esige delle
    condizioni ben precise:
    a. Che vi siano nel testo singoli passaggi che manifestino per se stessi
    esplicita opposizione alla dottrina cattolica. Passaggi cioè
    chiaramente erronei.
    b. Oppure che i singoli passi che possono avere un senso ortodosso,
    costituiscano inequivocabilmente un sistema, in modo tale da
    rivelarsi, alla luce del contesto, come solo materialmente
    interpretabili pro bono, ma formalmente erronei.
    Ora, nel caso presente, mi sembra di poter dire che:
    1. Nessun passo può essere – preso in se stesso – dichiarato
    assolutamente falso. Non è possibile parlare cioè di passi «confusi,
    sospetti e eterodossi». Ciascuno anzi può essere interpretato, senza
    violentare il testo, in senso cattolico. Qualche passo di difficile – non
    impossibile – interpretazione, può essere considerato come «obiter
    dictum».
    2. L'interpretazione che deve far emergere il «sistema» dominante deve
    estendersi a tutto il contesto prossimo e remoto: — Alle note che
    costituiscono un elemento importantissimo per ogni interpretazione
    e soprattutto per quella di un testo di Magistero
    (Xavier da Silveira le
    trascura completamente); — Ai documenti in cui l'autore formale del
    testo (Papa e Santa Sede) manifesta – anche senza specifico
    riferimento al documento in questione – il suo pensiero sulla materia
    in oggetto; — Deve tener conto del genere letterario che si desume
    non solo dal tono del testo stesso, ma anche (e soprattutto)
    dall'intenzione dell'estensore4.

    Xavier da Silveira ricorre ad elementi estrinseci al documento per
    farne emergere il «sistema»: fa ampio riferimento al commento
    Nuevas normas de la misa (BAC, Madrid 1969). Questa scelta non è
    arbitraria: fra gli autori vi sono personalità che hanno partecipato ai
    lavori di redazione del NOM. Tuttavia si tratta pur sempre di un
    «luogo improprio». Chi ha redatto materialmente il NOM, ne è
    soltanto l'autore materiale (come si dice che l'allora padre Billot e
    padre Lemius siano stati gli «autori» dell'enciclica Pascendi di san
    Pio X o padre Tromp della Mystici Corporis di Pio XII) mentre l'autore
    formale è il Papa. Un riferimento a queste fonti per orientare la
    propria interpretazione può essere utile, ma non è assolutamente
    determinante, soprattutto se si tace quasi completamente dei testi
    del Magistero che sono il «luogo proprio» da cui desumere il pensiero
    dell'autore formale.

    3. Una lettura integrale, alla luce di tutto il contesto e prossimo e
    remoto, dà ragione insieme: — della fondamentale ortodossia del
    sistema; — del perché dell'uso di espressioni edulcorate. La
    spiegazione ovvia è l'ecumenismo. Ecumenismo inteso però come
    scelta pastorale, non come posizione dottrinale (indifferentismo).
    Questo non esclude affatto che altre intenzioni ben più pericolose e
    distorte abbiano avuto il loro ruolo nella fase di materiale redazione
    del testo. È anzi assai verosimile che le cose siano andate così.
    Tuttavia quello che conta è quanto il testo dice oggettivamente come
    testo del Magistero, non quanto avrebbero voluto dire alcuni suoi
    estensori materiali.
    Vedremo infatti, esaminando i principali punti
    critici del NOM (soprattutto la Institutio generalis) che: — nessuna
    espressione, anche singolarmente presa, è qualificabile come eretica;

    — l'ambiguità di molte espressioni si scioglie alla luce del contesto
    prossimo e del contesto remoto proprio; — il tutto risulta abbastanza
    confuso, ma non di una confusione tale da rendere impossibile ad
    una lettura attenta di riconoscere la dottrina cattolica.

    Posto che rientra nelle funzioni del magistero quella di chiarire, di
    «spezzare il pane», di proporzionare le verità di fede anche ai non
    «addetti ai lavori», esso si mostra difettoso quando è bisognoso di
    troppo attenta e sofisticata ermeneutica per rivelare le sue vere
    intenzioni. Tuttavia un atto anche difettoso non è per ciò stesso
    anche inaccettabile.

    Una volta invece adottato il criterio ermeneutico che consiste, in
    ultima analisi, nel mettere tra parentesi l'origine magisteriale del testo,
    per elevare a chiave interpretativa la lettura progressistica più radicale,
    si impongono conseguenze assai gravi:

    1. Il NOM e, in modo particolare 1'IGMR, anche se le loro singole parti
    possono essere intese in senso cattolico, costituiscono nell'insieme
    un testo eretico. L'eresia non si esplicita in nessuna delle singole
    affermazioni (o almeno assai raramente), tuttavia risulta chiaramente
    da un esame di insieme. Si tratta insomma di un testo che è
    «occultamente» eretico. Potremmo quindi dire: favens haeresi in
    senso intrinseco.
    2. Quindi, posto che il testo è stato promulgato dal Papa e accettato dai
    suoi successori e dall'unanimità dei vescovi residenziali, oltre che
    dall'unanimità morale dei fedeli (si consideri che non tutti i fedeli che
    assistono anche abitualmente alla Messa tradizionale oppongono un
    rifiuto di principio al NOM), discendono da queste altre conseguenze
    ecclesiologiche:
    − Il papa, tutti i vescovi residenziali e la totalità morale dei fedeli
    sono almeno eretici materiali.
    − Il fedele cattolico si può oggi salvare nella misura in cui: o rompe
    ogni comunione liturgica con la gerarchia e la maggioranza dei
    fedeli della Chiesa cattolica romana, o agisce in stato di ignoranza
    invincibile (né più né meno come il fedele di una qualsiasi setta).
    − La Chiesa gerarchica e visibile avrebbe dunque cessato di essere
    vivente mezzo di salvezza. Non ci si salva più mediante essa, ma
    nonostante essa.
    Né l'una né l'altra di queste conseguenze è esplicitamente tratta
    dal nostro autore. Mi sembra che questo derivi anche dalla natura
    interlocutoria dell'opera. Nella sua intenzione originaria essa voleva
    provocare un salutare dibattito sulla questione, che purtroppo non si è
    sviluppato. Tuttavia esse si impongono – mi pare – a fil di logica.
    1 «Leges ecclesiasticae intelligendae sunt secundum propriam verborum
    significationem in textu et contextu consideratam; quae si dubia et obscura manserit,
    ad locos parallelos, si qui sint, ad legis finem ac circumstantias et ad mentem
    legislatoris est recurrendum» (Codex Iuris Canonici, can. 17). Il nuovo Codice riprende
    il vecchio can. 18 del Pio-benedettino, estendendo semplicemente – come è nella
    natura delle cose – il contesto a tutto l'ambito delle leggi ecclesiastiche e non soltanto
    a quello del Codice.
    2 ARNALDO XAVIER DA SILVEIRA, op. cit., p. 43.
    3 Ibid., p. 44.
    4 Cfr. la Dichiarazione della Congregazione per il Culto Divino «Institutio
    generalis» del 18 novembre 1969: EV 3, pp. 1272-1273 in nota. Cfr. anche Missale
    Romanum: EV 3, 1000. Questi testi sottolineano il carattere più pratico-descrittivo che
    dottrinale dell'Institutio generalis. La versione italiana ufficiale del 1973 ha tradotto
    Institutio generalis con «Principi e norme per l'uso del Messale Romano» confermando
    questa tendenza a ridurre la portata dottrinale del documento.
    Capitolo
    Terzo
    SACRIFICIUM MISSAE
    MEMORIALE MORTIS DOMINI
    «L'eucaristia è soprattutto un sacrificio» (Dominicae Cenae: App.
    28). Per comprendere questa verità che fa eco oggi, sulla bocca del
    Papa, all'affermazione solenne del Concilio di Trento e di tutta la
    Tradizione della Chiesa, ci dobbiamo riportare «in illo tempore»,
    all'avvenimento istitutivo: all'Ultima Cena e, in particolare, alle parole
    che hanno istituito il «mysterium fidei».
    Qualcuno (Bouyer) ha criticato la teologia eucaristica classica
    giudicandola impoverita, circoscritta com'è a pochi passi scritturistici e,
    soprattutto, alle parole dell'istituzione. Ora, se è vero che un
    allargamento del quadro, soprattutto nella direzione delle tradizioni
    liturgiche, non può che giovare all'approfondimento, ciò non toglie che
    le parole e il gesto dell'istituzione «concentrano» in sé tutto il mistero
    dell'eucaristia, in modo tale che sacramento e sacrificio trovano lì la loro
    sorgente, il loro essere e il loro significato.
    Il sacrificio della messa si attua tutto nell'azione sacra della
    consacrazione. Così come il sacramento si fa con la consacrazione.
    Facendo il sacramento si offre il sacrificio. «Rendendo veramente
    presenti il Corpo e il Sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino,
    (...) (la celebrazione eucaristica) rende – nello stesso tempo – attuale e
    accessibile, alla nostra generazione, il Sacrificio della Croce» (Giovanni
    Paolo II: App. 29).
    Andiamo dunque all'Ultima Cena. Già il contesto di
    quell'avvenimento parla un chiarissimo linguaggio sacrificale. Il Signore
    compie quel gesto e pronuncia quelle parole nel rito della Pasqua
    ebraica. Rito complesso, ma, innanzitutto, manducazione dell'agnello
    precedentemente sacrificato nel Tempio. Il banchetto dipende da quel
    sacrificio, da cui trae tutto il suo significato. Si tratta di un «convito
    sacrificale».
    Quando Gesù, in due momenti distinti (gli esegeti discutono
    attorno alla loro esatta collocazione nella sequenza rituale), compie il
    gesto di prendere del pane e del vino accompagnando questo gesto con
    parole che ne determinano il significato, compie un «gesto simbolico», o
    meglio, un «gesto profetico». Segno profetico del tipo di quelli che si
    ritrovano spesso nella S. Scrittura (si pensi a Osea) col particolare,
    peculiare, valore di segni che non si limitano a favorire l'apprendimento
    di un insegnamento, ma denunciano e attuano un intervento di Dio.
    Gesù annuncia, profetizza, il sacrificio dell'indomani e, nello stesso
    tempo, lo rende misteriosamente già attuale. Il significato sacrificale del
    suo gesto è palese. Risulta dall'insieme e anche da ogni singola parte. Il
    pane è il suo corpo (forse «carne», basar) «dato», offerto, «per voi».
    Nell'offerta del calice si ha «per molti», evidente richiamo ad una
    importantissima profezia dell'AT, quella del Messia – «servo sofferente»,
    che si sacrifica per i peccatori, di Is 53. «Dopo il suo intimo tormento
    vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo
    giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in
    premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato
    se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli
    portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori» (53, 11-12).
    Nel
    richiamare le parole della profezia, Cristo chiaramente manifesta di
    compierla in quell'atto stesso. Il sangue è «per la nuova ed eterna
    Alleanza», riferimento trasparente al gesto di Mosè che sancisce
    l'Alleanza con Dio aspergendo con il sangue delle vittime sacrificate
    l'altare e il popolo (cfr. Es 24, 3-8). Anche pane e vino in quanto alimenti
    hanno (sempre nel contesto biblico) un significato sacrificale: il pane si
    spezza per distribuirlo. Il vino è il sangue dell'uva (cfr Gen 49, 11). Il
    calice dice sofferenza («Padre (...) allontana da me questo calice!» Lc 22,
    42). I due segni combinati insieme accentuano questo significato: carne
    e sangue sono i due elementi del sacrificio espiatorio (cfr. Lv 1, 2-9). La
    loro presenza separata parla un chiaro linguaggio di morte. In forza
    delle parole infatti sono resi presenti separatamente corpo e sangue: per
    concomitanza naturale poi sotto le specie del pane è reso presente
    anche il sangue e viceversa. In forza dei simboli messi in opera dunque,
    che sono «simboli di morte» (Mediator Dei), è direttamente la morte
    sacrificale ad essere significata e, per essa, è significato il sacrificio nella
    sua globalità. Il sacrificio nella sua globalità comporta l'accettazione da
    parte di Dio. Questa accettazione è implicata nella Risurrezione, che si
    inserisce così in pieno nella dinamica del sacrificio. È dunque vero che
    la Messa è «memoriale mortis et resurrectionis», anche se, nella misura
    in cui i due aspetti sono messi sullo stesso piano, non si rende con
    precisione il fatto che essa è «direttamente» memoriale della morte e solo
    «per concomitanza» della Risurrezione.
    È un limite della terminologia
    dell'IGMR e anche del rito. Il Canone Romano dice, con molta finezza
    (nell'originale latino però ...): «unde et memores (...) tam beatae
    passionis, nec non et ab inferis resurrectionis».
    Il pane e il vino, mentre hanno un indubbio significato sacrificale,
    non cessano di essere alimenti. Segno che sono stati prescelti perché la
    partecipazione al sacrificio possa perfezionarsi mediante la
    manducazione («prendete e mangiate...»). Il sacrificio è «sacrificio
    conviviale»1.
    Abbiamo detto che il gesto di Cristo è un «gesto profetico» che, nel
    ricordare le antiche profezie e fatti profetici, le compie, indicando ed
    attuando l'intervento divino che è la realtà prefigurata. È dunque un
    segno che attua ciò che significa. In altri termini, un «sacramento».
    San Tommaso e, sulla sua scia, il Concilio di Trento, distinguono
    nell'eucaristia sacrificio e sacramento.
    Si tratta di una distinzione
    importante: negarla, o anche minimizzarla, è un errore pericoloso2.
    Tuttavia questa distinzione deve guardarsi bene dal diventare
    separazione, dimenticando che si tratta di aspetti intimamente
    congiunti in una stessa realtà. Essi si richiamano a vicenda e non è
    possibile comprendere adeguatamente l'uno senza aver presente anche
    l'altro. Questa verità ha subito un certo oscuramento nel periodo posttridentino,
    in cui la distinzione si è accentuata in modo un po'
    unilaterale, mentre è evidente in san Tommaso: per lui l'eucarestia è
    insieme sacrificio e sacramento
    «quod quidem et offertur ut sacrificium,
    et consecratur ut sacramentum» (III q. 83, a. 4 c). Sono due formalità di
    una stessa concreta realtà, due formalità che ne designano l'aspetto
    anabatico (ascendente) di sacrificio offerto dall'uomo a Dio, e l'aspetto
    catabatico (discendente) di strumento mediante il quale Dio opera la
    santificazione dell'uomo. È il sacramento stesso, preso nella sua
    totalità, che è sacrificio. Il che implica, reciprocamente, che il sacrificio è
    tutto intero nel sacramento3.
    È merito del card. Billot l'aver riportato, in linea col rinnovamento
    tomistico,
    la ratio sacrificii nell'ambito della sacra-mentalità4. Se
    l'eucaristia è un sacramento, la sua natura sacrificale deve essere, alla
    radice, sacramentale.
    Il rito eucaristico è rappresentativo del Sacrificio
    del Calvario. Lo rappresenta e lo ri-presenta. È segno efficace della
    Passione di Cristo5.
    Per comprendere come la natura sacrificale della eucaristia si
    inscriva nella sacramentalità è opportuno ricostruire a grandi linee la
    struttura del sacramento, seguendo sempre le orme del Dottore
    comune.
    Nella teologia tomistica sono fondamentali due nozioni per
    comprendere il sacramento. Quella di segno e quella di strumento. Il
    sacramento è innanzitutto segno e poi strumento.
    È infatti strumento
    nelle mani di Dio per causare la grazia in quanto innanzitutto significa,
    rappresenta, questo intervento di Dio che salva. L'intervento
    fondamentale è l'Incarnazione
    (con tutta l'opera della Redenzione che ne
    segue), per cui i sacramenti possono essere detti «reliquiae
    incarnationis». La causalità del sacramento si trova così, in qualche
    modo, in dipendenza dal suo significato: produce quello che significa,
    significandolo (significando causat, causando significat).
    Il sacramento però è un segno molteplice. Rimanda direttamente al
    gesto del Verbo Incarnato, che rende presente significandolo. In questo
    modo rende possibile che questo gesto, evocato e ri-presentato, produca
    il suo effetto. Quindi non rimanda a questo effetto (grazia) che in quanto
    significa e rappresenta la causa che lo produce, dunque indirettamente.
    È quanto insegna san Tommaso quando definisce il sacramento «segno
    di una realtà che santifica l'uomo» (III q. 60, a. 2 c; a. 3, ob. 2 e ad 2).
    Questo doppio significato fondamentale del sacramento (1. Gesto
    di Cristo reso presente significandolo, 2. Produzione dell'effetto
    significato nella significazione rappresentativa della causa) si esprime in
    una classica tripartizione.

    Essa affonda le sue radici nella speculazione
    medioevale, gioca un ruolo fondamentale nella teologia tomistica ed è
    ancora merito del Cardinal Billot l'averla riportata in auge a dar nuova
    prova della sua fecondità.

    È la tripartizione in sacramentum tantum, res
    et sacramentum, res tantum.
    Il sacramentum tantum è il segno sacramentale nella sua realtà
    sensibile e percepibile in quanto segno. Materia, gesto parole. «Materia e
    forma» secondo un'applicazione analogica del binomio ilemorfico
    mutuato dalla cosmologia.
    La res et sacramentum è la realtà direttamente significata. Realtà
    che opera la santificazione dell'uomo e la gloria di Dio. Se a fondamento
    vi è l'Incarnazione con tutta l'opera della Redenzione, la realtà
    direttamente significata è sempre la Passione, in quanto la sola
    formalmente meritoria.
    La res tantum è la realtà significata nella precedente, in quanto da
    essa procede. È la grazia che santifica l'uomo e costruisce la Chiesa.
    Quando si dice che il segno rende presente l'evento salvifico,
    bisogna intendere questo non nella sua fattualità storica, e è irripetibile,
    ma nella realtà soprastorica ormai raggiunta in Cristo, Verbo di Dio
    incarnato, morto e risorto. L'oblazione di Cristo è ormai
    inscindibilmente legata alla sua persona. Il Risorto, che siede alla destra
    del Padre, continua ad offrire il suo sacrificio. Il sacramento lo rende
    presente, cioè Cristo lo offre di nuovo al Padre attraverso la persona del
    ministro e il segno sacramentale.
    Il merito di aver recentemente esplicitato questo aspetto è del
    p. Garrigou-Lagrange6. Ripresentando il sacrificio di Cristo, il rito
    consacratorio rende a Dio un culto perfetto. Lo stesso identico a Lui
    reso sul Calvario. Nello stesso tempo l'evento ri-presentato è causa di
    salvezza per chi vi partecipa con le dovute disposizioni. Sia offrendo con
    e per mezzo del sacerdote. Sia, soprattutto, partecipando al banchetto
    sacro che è la logica conseguenza del sacrificio. Non solo: essendo
    applicazione del sacrificio del Calvario, il sacrificio della Messa può
    essere offerto anche per i vivi non presenti e per i defunti e – in quanto
    offerto sempre a nome della Chiesa – giova di fatto sempre a tutta la
    Chiesa.
    Questo aspetto di culto a Dio è presente in ogni sacramento.
    Come in ogni sacramento è presente il riferimento al sacrificio di Cristo.
    Solo questo però è il «sacramentum perfectum passionis» (III q. 73, a. 5
    ad 2), perché contiene il protagonista stesso dell'evento salvifico
    commemorato: Cristo in corpo, sangue, anima e divinità (sacramentum
    perfectum Dominicae passionis tanquam continens ipsum Christum
    passum).
    Questo «sacramento della Croce»non è dunque una nuda
    commemorazione per due motivi:
    a. Uno comune a tutti i sacramenti: perché contiene la virtus salvifica
    che profluisce dall'evento riattualizzato.
    b. L'altro suo specifico: perché «continet ipsum Christum passum». Da
    intendersi non di un Cristo attualmente sofferente, ma di un Cristo
    che, in virtù della sua passione, continua a meritare davanti al
    Padre. Il Cristo presente nell'eucaristia è il Cristo glorioso. Tuttavia
    sempre offerente al Padre il suo sacrificio. L'evento è ripresentabile in
    quanto «eternizzato» nella persona del suo protagonista.
    Alla luce di quanto abbiamo detto si comprende facilmente come
    il sacrificio della Messa sia, in se stesso, immolazione. Abbia cioè un
    valore assoluto di sacrificio senza essere «un altro» sacrificio rispetto a
    quello del Calvario. È sacrificio in quanto il segno sacramentale realizza
    nel modo suo proprio l'atto compiuto allora da Cristo sul Calvario,
    ripetendo il «gesto profetico» dell'Ultima Cena. È proprio del sacramento
    realizzare rappresentando: «imago quaedam est repraesentativa
    passionis Christi, quae est vera eius immolatio» e producendo: «per hoc
    sacramentum particeps efficimur fructus Dominicae passionis» (III q.
    83, a. 1 c). È dunque nell'ordine del segno che la Messa è immolazione.
    Appunto: immolazione sacramentale (o «mistica»). Non nell'ordine reale,
    altrimenti ci troveremmo di fronte fatalmente ad «un altro» sacrificio. Il
    sacrificio sacramentale non contraddice all'unicità del Sacrificio di
    Cristo per la semplice ragione che, non essendo dello stesso ordine, non
    si può «sommare» con lui. Due realtà di ordine diverso non possono
    entrare in concorrenza. E questo vale anche per il gesto dell'Ultima
    Cena, che non costituisce, sacramentalmente, un'altra cosa rispetto al
    Sacrificio del Calvario, anche se la sua collocazione temporale (prima
    del Calvario) lo connota differentemente rispetto alle Sante Messe
    celebrate in seguito. È anticipazione e non ancora memoria. Rispetto
    all'Ultima Cena la Messa «ripete», mentre rispetto al Calvario
    «ripresenta».
    Il sacrificio è lo stesso («unum et idem» dice il Catechismo
    tridentino) ma compiuto in due modi differenti: nell'Ultima Cena e nella
    Messa nel modo del segno e del rito sacramentale (modo «incruento»);
    sulla Croce nella realtà della vita e della storia (modo «cruento»).
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 13:10]
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    00 09/02/2011 17:47
    «Il primo di questi due modi è ordinato al secondo nel quale si
    compie, trovandovi il suo significato e la sua piena realizzazione. E il
    secondo, quello del sacrificio di Cristo in Croce, è destinato ad
    estendersi a tutti gli uomini. Ora, è proprio il gesto sacramentale della
    Cena rinnovato alla Messa, in tutte le Messe, come era stato prefigurato
    dai sacrifici rituali dell'Antica Alleanza e della legge di natura, che
    permette a Cristo di estendere il sacrificio della sua vita a tutti i membri
    del suo Corpo Mistico e, con ciò, di prendere e di ricapitolare tutti i loro
    sacrifici per offrirli al Padre nel suo»7

    Abbiamo detto che il sacramento è un segno molteplice. Questa
    caratteristica si manifesta anche nel suo snodarsi lungo un'altra linea:
    quella che potremmo chiamare delle tappe della salvezza. L'evento
    passato agisce nel presente per compiersi definitivamente nel futuro.

    «Unde sacramentum est et signum rememorativum eius quod
    praecessit, scilicet passionis Christi; et demonstrativum eius quod in
    nobis efficitur per Christi Passionem, scilicet gratiae; et prognosticum,
    idest praenuntiativum, futurae gloriae» (III q. 60, a. 3 c).
    L'aspetto prognostico è stato particolarmente sottolineato dal
    NOM rispetto al vetus ordo.
    Lo constatiamo, per esempio in tre punti:
    1. In due delle acclamazioni previste dopo la consacrazione (la prima,
    che è la più frequentemente usata, dice: «Annunziamo la tua morte,
    Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua
    venuta»);
    2. Nelle parole che precedono la comunione: «Ecce Agnus Dei, ecce qui
    tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt», dove il
    riferimento a Apoc 19, 9 è evidentissimo: il banchetto eucaristico è
    anticipazione del «banchetto delle nozze dell'Agnello» escatologico;

    3. Nell'aggiunta apportata alla preghiera dopo il Pater: «Liberaci, o
    Signore, da tutti i mali, concedi benigno la pace ai nostri giorni:
    perché con il soccorso della tua misericordia, sempre liberi dal
    peccato e sicuri da ogni turbamento, viviamo nella attesa che si
    compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo».
    La nozione di sacramento si trova in strettissima relazione (e
    dipendenza) con la nozione di «memoriale». È questo un concetto molto
    importante in se stesso e in relazione al nostro tema specifico. Sarebbe
    troppo lungo seguirne le vicende nella Scrittura e nella Tradizione: ci
    limitiamo qui a fornire delle conclusioni8.
    Il concetto di memoriale biblico implica:
    a. Un aspetto «reale»: di cosa, gesto, rito che opera il ricordo.
    b. Un aspetto di efficacia oggettiva: non soltanto in virtù della
    considerazione del soggetto.
    Dunque il «memoriale» non deve essere confuso con un semplice
    ricordo soggettivo, psicologico. È una oggettiva ripresentazione. Il
    termine ha declinato in senso soggettivo-psicologico per influsso della
    deviazione nominalistico-concettualistica del pensiero occidentale (le
    essenze universali si risolvono nelle idee della mente).
    Nel memoriale biblico troviamo tutte le caratteristiche del
    sacramento, per cui i termini diventano pressoché sinonimi. Il
    memoriale, come il sacramento, è innanzitutto una realtà oggettiva
    (gesto, parole, cose); una realtà oggettiva che si ricollega ad un evento
    passato per renderlo in qualche modo presente con una sua efficacia
    indipendente dalla considerazione del soggetto. È un rito che perpetua
    l'avvenimento salvifico passato, costituendone quindi un «ricordo»
    oggettivo (aspetto anamnestico), che è strumento del suo influsso sul
    presente (aspetto dimostrativo) nella prospettiva del suo definitivo
    compimento futuro (aspetto prognostico).
    Naturalmente c'è il problema che il termine «memoriale» non ha
    più oggi lo stesso valore semantico.
    Ed ha cominciato a non averlo ben
    presto, se è vero – come pensa p. Bouyer – che l'inserimento di termini
    esplicitamente sacrificali nella preghiera eucaristica fu come una
    traduzione per gli ambienti ellenistici della nozione biblica di
    «memoriale»9. Esso richiede dunque una catechesi attenta e insistente
    per evitare di essere inteso come semplice ricordo soggettivo.

    Rimane la sua utilità ecumenica (oltre che l'indubbia profondità
    teologica che racchiude). Ma anche questa non è priva di ambiguità: se
    da una parte certi teologi protestanti hanno riscoperto tramite il
    «memoriale» biblico il valore sacrificale della Messa, continua però il
    rifiuto della sua efficacia propiziatoria e quindi del suo valore
    propriamente «sacramentale»10.
    A noi però interessa soprattutto constatare come l'uso del termine
    non comporta affatto la negazione del carattere sacrificale
    dell'eucaristia11.

    1 Cristo, dicendo «fate questo», non si riferisce al contesto del banchetto – che era
    la parte caduca, legata al rito ebraico, di quanto stava facendo – ma al «gesto
    simbolico» appena compiuto. Il gesto, che si riferiva al Calvario, dava un significato
    nuovo (quello vero rispetto alla «figura» costituita dal rito ebraico) alla Pasqua e
    costituiva l'elemento fondamentale e da ripetersi come «memoriale». Questa
    osservazione ha una notevole importanza per i suoi risvolti rituali. Il «segno
    fondamentale» del sacrificio eucaristico non è il banchetto – che sarebbe segno del
    sacrificio solo in virtù della relazione essenziale fra Cena e Calvario – ma la preghiera
    eucaristica, che, nella sua essenza, si risolve nella consacrazione. La consacrazione è
    essa stessa un sacrificio (anche se sacramentale) e, in quanto sacrificio, memorialerinnovazione
    del Sacrificio del Calvario. Il segno, per essere segno di un sacrificio, deve
    essere esso stesso sacrificale. Ciò che fa della Messa un sacrificio non è il solo fatto
    che essa «fa riferimento» all'oblazione del Calvario. Anche l'affermazione che la Messa è
    un «sacrificio relativo»può essere ambigua. La Messa infatti è un sacrificio in quanto è
    rappresentativa del Calvario. Ora, la rappresentatività è una relazione «secundum
    dici», cioè tale da comportare in se stessa l'ordine alla realtà rappresentata. La Messa è
    costituita dunque «in esse sacrificii» da ciò che fonda la sua relazione all'immolazione
    della Croce come alla realtà rappresentata: cioè dal segno sacramentale. Il puro e
    semplice fatto di essere ripetizione dell'Ultima Cena che si trova nel contesto del
    Sacrificio del Calvario non è sufficiente per fare della Messa in se stessa (anche se
    sacramentalmente) un sacrificio. Un banchetto non è, di per sé rappresentativo di un
    sacrificio (cfr. L. BILLOT, De Ecclesiae sacramentis, t. I [Roma 19246] p. 624, n. 1).
    Evidentemente il fatto che la «materia» sia costituita da alimenti implica una
    fondamentale relazione con un banchetto, che però, nella struttura del segno, è
    l'elemento secondario, derivato, non quello principale. Il non aver tenuto conto di
    questo ha condotto a una incomprensione per certi aspetti rituali tradizionali e ad un
    accentuarsi squilibrante degli aspetti conviviali nella celebrazione eucaristica. Cfr. J
    .
    RATZINGER, Das Fest des Glaubens (Einsiedeln 1981) pp. 31-54.
    2 «Il Concilio di Trento restando legato a questa distinzione di origine teologica e
    non basata in alcun modo sulla fede nell'eucaristia, quale si poteva dedurre dalla
    Scrittura e dalla Tradizione della Chiesa, ha fatto il gioco dei protestanti»
    (S. MARSILI,
    Teologia della celebrazione dell'eucaristia, in Anamnesis 3/2 [Casale Monferrato 1983]
    p. 62). Il rifiuto di questa distinzione conduce, puramente e semplicemente, a
    obliterare l'aspetto anabatico: il sacrificio si rende di nuovo presente e vi si partecipa
    nel sacramento, ma non è di nuovo offerto a Dio. In sostanza si ricalcano le orme di
    Lutero.
    3 Cfr. III q. 80, a. 12, ad 3; q. 82, a. 10 c e ad 1. Questo importante punto di
    dottrina contribuisce a risolvere un dubbio corrente in certi ambienti tradizionalisti. Si
    ammette generalmente che la Messa celebrata secondo il NOM è valida. Ma ciò non
    significa ancora – si dice – che sia «buona». Una Messa valida può essere cattiva e
    costituire una «offesa per Dio» anziché l'atto di adorazione per eccellenza quando è
    celebrata illegittimamente o con intento blasfematorio. Sarebbe questo il caso della
    «Messa nera». Anche il NOM rientrerebbe in questa categoria di riti validi ma negativi
    nei loro effetti. Di qui il rifiuto assoluto. Ora, abbiamo visto che l'Eucaristia si realizza
    tutta nella consacrazione. L'Eucaristia come sacramento (presenza di Cristo che si dà
    in cibo per i fedeli e si offre alla loro adorazione), l'Eucaristia come sacrificio (presenza
    di Cristo che si offre al Padre per la salvezza degli uomini). Se il gesto consacratorio è
    valido, esso realizza il sacramento e il sacrificio con tutto il suo infinito valore
    latreutico e propiziatorio, di gloria resa a Dio e di salvezza per l'uomo. Mi pare
    contraddittorio perciò ipotizzare una Messa valida ma offensiva nei confronti di Dio.
    Non vale invocare contro questa osservazione, che sorge sempre spontaneamente nella
    reazione di puro buon senso della gente semplice (se è valida allora è buona!), che si
    dà anche la Messa valida ma illegittima. La Messa .illegittima è una Messa celebrata o
    da una persona non autorizzata (per esempio un sacerdote sospeso a divinis o
    scismatico) o mediante un rito non autorizzato. Concerne elementi esterni al rito o
    comunque attinenti al modo, non alla sostanza. La Messa, se c'è, è, in se stessa,
    santa.
    Né vale invocare il caso della Messa nera, cioè di una messa la cui intrinseca
    finalità è di rendere culto al Demonio offendendo Dio. Prima di tutto perché non è ad
    rem, poi – mi pare – per una ragione teologica di fondo: una consacrazione attuata con
    l'intenzione di offendere Dio non può essere una consacrazione, perché l'intenzione –
    intendo l'intenzione che si manifesta nel contesto prossimo del rito – contraddice il
    significato oggettivo del gesto, vanificandolo nella sua essenza di segno. Sarebbe un
    altro segno e, quindi, privo del contenuto sacro che gli compete in quanto è quel segno.
    La Messa nera – a mio sommesso avviso – non può essere che una parodia blasfema,
    oppure la profanazione di ostie precedentemente consacrate nel contesto di un rito
    veramente sacro. Sul problema della Messa nera cfr. EGON VON PETERSDORFF,
    Dämonologie, vol. II (Christiana-Verlag, Stein am Rhein 19822) pp. 91-92.
    4 «... oblationis essentiam in eo reperiri, unde habet Eucharistiae celebratio ut sit
    passionis Christi memoriale et imago. Hoc accipimus ex doctrina Patrum asserentium,
    incruentum sacrificium esse antitypum passionis, et repraesentationem mortis
    Unigeniti per mysterium». «... Missam inde habere quod sit verum et proprium
    sacrificium de praesenti, unde habet esse vivan imaginem unici illius sacrificii cuius
    memoria erat conservanda in populo redempto» (De Ecclesiae sacramentis I, cit., pp.
    623-624).
    5 Ecco qualche riferimento tomistico: «Sacrificium autem quod quotidie in
    Ecclesia offertur, non est aliud a sacrificio quod ipse Christus obtulit, sed eius
    commemoratìo. Unde Augustinus dicit, in X de Civ. Dei: Sacerdos ipse Christus
    offerens, ipse et oblatio: cuius rei sacramentum quotidianum esse voluit Ecclesiae
    sacrificium». (III q. 22, a. 3, ad 2); «Eucharistia est sacramentum perfectum Dominicae
    passionis, tanquam continens ipsum Christum passum» (III q. 73, a. 5 ad 2);
    «Sacramentum illud fuit institutum in Cena ut in futurum esset memoriale Dominicae
    passionis, ea perfecta»(Ibid., ad 3); III q. 75, a. 1 c primo; «Hoc sacramentum non
    solum est sacramentum, sed etiam est sacrificium. Inquantum enim in hoc
    sacramento repraesentatur passio Christi... habit rationem sacrificii; inquantum vero
    in hoc sacramento traditur invisibilis gratia sub visibili specie, habet rationem
    sacramenti. Sic ergo hoc sacramentum sumentibus quidem prodest et per modum
    sacramenti et per modum sacrificii, quia pro omnibus sumentibus offertur ... Sed aliis,
    qui non sumunt, prodest per modum sacrificii, inquantum pro salute eorum
    offertur...» (III q. 79, a. 7 c); III q. 79, a. 2 c, ad 1 e ad 2; «Hoc sacrificium, quod est
    memoriale Dominicae passionis...»(III q. 79, a. 7, ad 2); Ibid. ad 1 e ad 3; q. 83, a. 1 c.
    Su questo aspetto della dottrina di san Tommaso si veda: J.P. NAU, Le mystère du
    Corps et du Sang du Seigneur (Solesmes 1976).
    6 Cfr. De Eucharistia (Torino 1943) pp. 290-300.
    7 J. DE SAINTE-MARIE, L'Eucharistie salut du monde (Parigi 1982) pp. 292-293. Per
    tutta questa esposizione siamo ampiamente debitori a questo libro.
    8 Verificabili per esempio in: E. GALBIATI, L'Eucaristia nella Bibbia (Milano 1982)
    pp. 27-35,180-187; A. PIOLANTI, Il mistero eucaristico (Vaticano 19833) pp. 56-61,74-
    78; B. GHERARDINI, Eucaristia ed ecumenismo, in: Il mistero eucaristico, cit., pp. 643-
    649. Chi desidera una documentazione più abbondante vedrà: M. THURIAN,
    L'Eucaristia memoriale del Signore, cit. e O. CASEL, Das Mysteriengedächtnis des
    Messliturgie im Lichte der Tradition, in: Jahrbuch für Liturgiewissenschaft 6 (1926) pp.
    113-204.
    9 «Bisognerà dunque aspettarsi di veder sorgere nell'anamnesi (...) le prime
    formule esplicitamente sacrificali dell'eucaristia. Esse non saranno altro che la
    traduzione, in un linguaggio più immediatamente accessibile per i non-ebrei, di tutto
    ciò che il memoriale giudaico implicava» (Eucaristia. Teologia e spiritualità della
    preghiera eucaristica [Torino – Leumann 1969] p. 165).
    10 Cfr. l'attenta analisi a cui B. GHERARDINI sottopone il documento di Lima del
    1982, espressione di convergenza ecumenica fra le maggiori confessioni cristiane su
    Battesimo, Eucaristia e ministero: Eucaristia ed ecumenismo, cit., pp. 637-649. Nel
    documento la nozione di memoriale svolge un ruolo importantissimo, per cui vi si
    afferma che: «L'Eucaristia è il sacramento del sacrificio unico di Cristo». Viene però
    subito precisato che «quello che Dio ha voluto compiere nell'incarnazione, nella vita
    morte risurrezione ascensione di Cristo, egli non lo ripete. Questi avvenimenti sono
    unici e non possono essere né ripetuti né prolungati». Sacramento allora non è più
    qualcosa che «manifesta e compie», come il concetto di memoriale perentoriamente
    suggerisce. L'evento rimane chiuso in se stesso e il memoriale torna fatalmente ad
    essere un ricordo privo di verità. Così M. THURIAN, mentre sottolinea il valore
    sacramentale dell'Eucaristia-memoriale, non può trattenersi dall'affermare che «non è
    un sacrificio espiatorio» (L'Eucaristia ..., cit., p. 245). Cfr. anche L. MEROZ, Recensione
    a F.-J. Leenhardt, Ceci est mon corps, Neuchâtel 1955, in: Nova et Vetera 1 (1956) pp.
    76-80.
    11 È anche l'opinione di GHERARDINI: «A proposito della discussione sul sacrificio,
    e intendo sul sacrificio eucaristico, mi dissocio nettamente da quei cattolici che
    gridano allo scandalo soltanto perché la riforma liturgica parla di "memoriale", e le
    rimproverano perciò d'aver ridotto la messa a pura commemorazione dell'ultima Cena
    e, in essa, del sacrificio della Croce. La ragione del mio dissociarmi insorge dall'idea
    biblica di memoriale...»
    (op. cit., p. 643).

    Capitolo
    Quarto

    NOVUS ORDO MISSAE
    E SACRIFICIO

    Punto critico (cioè di distinzione) fra dottrina cattolica e pensiero
    protestantico è il carattere propriamente sacrificale del rito eucaristico.
    Come abbiamo visto (capp. I e III) il problema non consiste tanto in una
    pura e semplice contrapposizione fra commemorazione e sacrificio. Né i
    cattolici rifiutano assolutamente la nozione di commemorazione, né i
    protestanti quella di sacrificio. La questione verte piuttosto sul
    contenuto preciso di queste nozioni. Per il cattolico la Messa non è un
    puro ricordo psicologico-soggettivo, ma è piuttosto un ricordo oggettivo
    che rende presente ciò che è ricordato. Per il protestante si può parlare
    di sacrificio solo in un senso lato: sacrificio-preghiera. Quindi, in questo
    senso, sacrificio di lode, sacrificio di ringraziamento. Mai sacrificio
    propiziatorio o espiatorio.
    Di qui l'importanza di due concetti: quello di «memoriale» e quello
    di «sacrificio propiziatorio o espiatorio».
    Sul problema dell'Eucarestia-sacrificio, Xavier da Silveira avanza
    fondamentali riserve nei confronti del NOM.
    Esse possono ridursi a tre:
    1. L'art. 7 dell'IGMR, che si presenta con tutte le apparenze di una
    definizione, non fa parola del sacrificio. «Per una definizione della
    messa, anche soltanto descrittiva, è impossibile, in qualsiasi
    contesto, che sia assente il suo elemento principale, che è la nozione
    di sacrificio»1. Dunque, «se l'articolo in questione pretende di
    presentare una definizione della messa, si tratta di una definizione
    falsa, contraria al concilio di Trento»2. La versione del '70 introduce
    sì il termine «sacrificio eucaristico», ma tace sulla sua finalità
    propiziatoria.
    2. È vero che l'IGMR, altrove, parla di sacrificio. Però «le allusioni alla
    nozione di sacrificio fatte dall"'Institutio" sono tutte insufficienti per
    distinguere la concezione cattolica dalle nozioni protestantiche della
    cena del Signore»3, perché «il carattere propiziatorio della messa non
    è affermato da nessuno di essi»4. Le modifiche del '70 non cambiano
    sostanzialmente questo stato di cose5.
    3. L'offertorio, nella Messa tradizionale, svolgeva un ruolo
    importantissimo in ordine all'evidenziazione del carattere sacrificalepropiziatorio
    della Messa. Ora, nelle nuove preghiere offertoriali «non
    c'è alcun riferimento alla vera vittima, che è Gesù Cristo; all'offerta
    dei doni per noi e per i nostri peccati; al carattere propiziatorio
    dell'oblazione; al sacerdozio gerarchico del celebrante; al principio
    che il sacrificio deve essere accettato da Dio perché sia gradito»6.
    Vediamo come le difficoltà si riconducono al significato da dare
    all'espressione «ad memoriale Domini celebrandum» dell'art. 7 ed al fine
    propiziatorio del sacrificio eucaristico.
    Per valutare queste critiche non ci si può soffermare soltanto sui
    singoli passi, ma occorre innanzitutto tracciare – se pure a grandi linee
    – la concezione di fondo dell'IGMR e delle nuove preghiere eucaristiche,
    alla luce di tutto il contesto prossimo (note e passi paralleli) e remoto
    (documenti conciliari e susseguenti).
    Al centro sta certamente il concetto di memoriale.
    Anche ad una scorsa superficiale, balza agli occhi come il termine
    ricorra insistentemente nel testo e in tutta la sua area ermeneutica. Gli
    anni che hanno preceduto il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica,
    hanno visto il sorgere di uno straordinario interesse per questa nozione,
    del tutto tradizionale, anche se un po' dimenticata.
    I fattori che hanno
    portato a questa «riscoperta» sono di vario genere. Innanzitutto abbiamo
    lo sviluppo della teologia cattolica, che si orienta in questa direzione
    sotto la spinta del rinnovamento tomistico.
    Dopo il Concilio di Trento i
    teologi si impegnarono a giustificare – contro le negazioni dei protestanti
    – il carattere di sacrificio attuale della Messa. Si trattava di un aspetto
    del dogma eucaristico che era sempre stato presente nella fede della
    Chiesa, ma – nel tranquillo possesso di questa verità – la teologia non vi
    aveva ancora riflettuto in modo specifico e tematico. In san Tommaso
    troviamo tutti gli elementi per un approfondimento, ma non troviamo
    una riflessione approfondita già fatta. Tutta la sua attenzione è
    concentrata sulla «presenza reale»,
    che è la dottrina in questione al suo
    tempo. Purtroppo il «quadro filosofico» dei teologi post-tridentini non è
    più quello medioevale, ma è quello ereditato dalla scolastica decadente
    (la stessa che ha influenzato Lutero). Determinanti sono l'influsso
    nominalistico e lo scadimento metafisico
    . La riflessione sull'«essenza del
    sacrificio»della Messa si frantuma così in un gran numero di teorie7 che
    vogliono trovare nella Messa la distruzione reale della vittima o, per lo
    meno, la sua diminuzione reale. Se la Messa è un sacrificio, deve
    realizzare le condizioni di ogni sacrificio: la distruzione della vittima. In
    queste teorie vi è qualcosa di insoddisfacente (il loro moltiplicarsi e la
    loro breve durata lo testimoniano), anche se hanno l'inestimabile merito
    di aver tenuto viva l'idea dell'immolazione nella S. Messa. Soprattutto
    insoddisfacente è il come danno ragione della essenziale relazione della
    S. Messa col Calvario. Messa e Calvario non sono due sacrifici, ma lo
    stesso sacrificio.
    Questa insoddisfazione, sotto la spinta del generale
    ritorno a san Tommaso, porta a cercare la soluzione nell'insegnamento
    del Dottor Comune. San Tommaso non affronta ovviamente la questione
    nella stessa ottica – non conosce il protestantesimo! – ma fornisce
    elementi importantissimi e fecondissimi per una soluzione. La Messa è
    sacrificio in quanto figura della Passione. Figura però che contiene
    l'evento col suo protagonista e ne applica la virtus. È il sacramentum
    perfectum Passionis. In san Tommaso troviamo ancora il termine
    «memoriale» nel suo tradizionale senso
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 13:37]
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    Heleneadmin
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    00 09/02/2011 17:52
    forte.
    Altro fattore che porta a riscoprire la nozione di memoriale sono le
    ricerche storico-liturgiche di Odo Casel8. Lo studio del culto misterico
    pagano e dei Padri lo porta ad elaborare la teoria della
    Mysteriengegenwart (presenza misterica). Se vi è tanto di discutibile in
    Casel, incontestabile però è il rilievo che la Tradizione conosce una
    nozione di memoria e rappresentazione (ri-presentazione) che è
    sensibilmente diversa da quella psicologico-soggettiva moderna.
    Non ultimo per importanza è il fattore ecumenico. Anche da parte
    protestantica un rinnovato interesse per la liturgia e i Padri, nonché
    l'approfondimento di alcuni concetti biblici, porta degli studiosi a
    riscoprire il significato «pieno» del termine «memoriale». Di fronte a
    questo stato di cose, in vista di un'intesa ecumenica, da parte cattolica
    si è sottolineato con forza il carattere di memoriale della Messa. L'IGMR
    non è altro che un tentativo (assai spinto) in questa direzione.

    Quello che a noi interessa è che i termini «memoriale» e
    «ripresentazione» vi devono essere letti tenendo conto di questa
    ambientazione storica. L'influsso caseliano in particolare è nettissimo.
    «Memoriale» deve essere inteso, dunque, come ricordo oggettivo
    che rende presente ciò che è ricordato, e «ripresentare» come rendere-dinuovo-
    presente.

    Il legame con questo indirizzo della teologia è forse ancora più
    marcato nelle nuove preghiere ambrosiane. Venute dopo la introduzione
    del NOM, dopo la sua sperimentazione, dopo le critiche che ha sollevato
    e l'evoluzione liturgica che ha determinato, possono essere anche viste
    come un tentativo di precisare quei concetti che, nelle nuove preghiere
    eucaristiche del rito romano (che l'ambrosiano fa pure proprie), sono
    troppo vaghi.

    Questa nozione di memoriale si configura nel suo significato
    proprio – che è quello appena descritto – accostando le espressioni
    equivalenti dell'IGMR:
    art. 2: «sacrificio eucaristico», «memoriale della sua (di Cristo
    Signore) passione e risurrezione»;
    art. 7: «Cena del Signore», «Messa», «Sacra sinassi riunita per
    celebrare il memoriale del Signore»;
    art. 48: «memoriale della sua (di Cristo) morte e della sua
    risurrezione», «sacrificio e banchetto pasquale»;
    art. 54: mediante la preghiera eucaristica tutta l'assemblea dei fedeli
    si unisce con Cristo nell'offerta del sacrificio;
    art. 55d: «sacramento della sua (di Cristo) Passione e Risurrezione»;
    art. 55f: nel memoriale la Chiesa offre l'ostia immacolata al Padre
    nello Spirito Santo;
    art. 56h: la Comunione è «partecipazione al sacrificio che si sta
    attualmente celebrando (quod actu celebratur)»;
    art. 62: i fedeli offrono l'ostia immacolata per le mani del sacerdote;
    art. 259: sull'altare «si rende presente mediante i segni sacramentali il
    sacrificio della croce»;
    art. 335: «La Chiesa offre per i defunti il sacrificio eucaristico,
    memoriale della Pasqua di Cristo».
    Ne emerge che il sacrificio eucaristico è memoriale della Passione
    e della Risurrezione in quanto ne è il sacramento. Cioè segno che
    rappresenta e produce.
    Infatti, nella Messa, Cristo offre attualmente il
    suo sacrificio, al quale i fedeli si associano per mezzo del sacerdote.
    Questo memoriale non può esser un ricordo vuoto, perché in esso
    la Chiesa offre l'ostia immacolata al Padre e, mediante la comunione, si
    partecipa al sacrificio attualmente celebrato, che non è altro che quello
    del Calvario reso presente sotto i segni sacramentali...
    Si noti come, almeno implicitamente, la finalità propiziatoria è
    affermata nell'affermare l'identità sacramentale con il Sacrificio del
    Calvario e l'applicazione del sacrificio eucaristico per i defunti.
    Pur desiderandosi una maggiore esplicitazione e chiarezza,
    riconosciamo i tratti fondamentali e necessari della definizione di
    Trento.

    L'espressione «sacrificio eucaristico», introdotta anche nell'art. 7
    dal rimaneggiamento del '70, se da una parte si presta ad essere
    confusa col semplice «sacrificio di rendimento di grazie» in senso
    protestantico, può avere il vantaggio di esprimere anche a livello
    lessicale l'importante compenetrazione fra sacrificio e sacramento nel
    contesto globale dell'eucaristia.

    Se poi passiamo al contesto prossimo, allora incontriamo fin
    dall'art. 2 (nota 6; ritornerà poi anche all'art. 48, nota 38) l'importante
    n. 47 della Sacrosanctum Concilium, che è la 'definizione più
    comprensiva che ci dà il Concilio della S. Messa:
    «Il nostro Salvatore nell'ultima Cena, la notte in cui fu tradito,
    istituì il Sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, onde
    perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della Croce, e per
    affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua
    Morte e Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di
    carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene
    ricolmata di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura».
    In questa definizione dobbiamo cercare il significato genuino dei
    termini «sacrificio eucaristico» e «memoriale» che ricorrono nella IGMR.

    La nota 12 all'art. 7 rimanda a Presbyterorum Ordinis 5, in cui si
    afferma che i presbiteri «offrono sacramentalmente il sacrificio di
    Cristo». Ecco che il memoriale si riconferma rappresentazione
    «sacramentale» del sacrificio di Cristo che ripresenta, rinnovandone
    l'offerta.
    La nota 49 all'art. 60 (aggiunta però nel '70) richiama PO 2, in cui
    è detto che «questo sacrificio di Cristo (...) per mezzo dei presbiteri e in
    nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'eucaristia in modo incruento e
    sacramentale». Il termine «incruento» rimanda al Tridentino e non è
    altro che un modo per designare il carattere sacramentale, di «segno»,
    del sacrificio della Messa.

    Lumen Gentium 28, cui si fa cenno nella medesima nota, dice che
    i presbiteri «nel sacrificio della messa rendono presente e applicano, fino
    alla venuta del Signore, l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, il
    Sacrificio cioè di Cristo, che una volta per tutte si offre al Padre quale
    vittima immacolata». Anche questa espressione: «rendono presente (o
    "rappresentano") e applicano» è del Tridentino.

    Le aggiunte del '70 interessano soprattutto l'articolo 7 e l'art. 55
    nel corpo della IGMR. Inoltre offrono una importante precisazione nel
    Proemio.
    Art. 7 ('69): «La Cena del Signore, ossia la Messa, è la sacra
    assemblea o adunanza del popolo di Dio, che si riunisce insieme, sotto
    la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore...».
    Art. 7 ('70): «Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è
    chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce
    nella persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, cioè il
    sacrificio eucaristico (...). Infatti nella celebrazione della messa, nella
    quale si perpetua il sacrificio della croce (...)».
    Innanzitutto vediamo che viene soppressa l'ambigua
    identificazione fra Cena-Messa e assemblea. Questo cambiamento toglie
    al passo l'andamento di una definizione. Non più «La Cena del Signore
    (...) è» ma «Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato
    (...)», il che ha più l'aria di una descrizione che di una definizione vera e
    propria.
    Si esplicita poi che «memoriale del Signore» equivale a «sacrificio
    eucaristico». Questo era già evidente dal contesto (cfr. art. 2, nel corpo e
    nella nota 6).

    Si dice inoltre che nella celebrazione si perpetua il sacrificio della
    croce. È una ripresa dell'espressione di SC 47, documento già citato
    nelle note 6 e 38.
    L'operazione si rivela dunque come un portare a livello di testo
    quello che era implicito in nota. Non si tratta cioè tanto di una vera e
    propria correzione (tranne però l'inizio dell'art. 7...) quanto di una
    esplicitazione. Esplicitazione tuttavia importante.
    La nota 14, aggiunta, rimanda al Concilio di Trento, al
    fondamentale cap. I della XXII sessione, che contiene l'essenza della
    dottrina tridentina sulla Messa, e alla Solenne Professione di Fede di
    Paolo VI.
    Perché le chiare espressioni tridentine non sono state riportate
    direttamente nel testo? Perché – in generale – non si è fatto uso della
    classica espressione «rinnovazione del Sacrificio del Calvario»?
    Evidentemente la preoccupazione ecumenica ha giocato un ruolo
    fondamentale.

    Veniamo ora all'art. 55d.
    Versione '69: «Narrazione dell'istituzione: mediante la quale con le
    parole e le azioni di Cristo, si ripresenta quell'ultima cena, nella quale lo
    stesso Cristo Signore istituì il sacramento della sua Passione e
    Risurrezione, quando diede agli Apostoli, sotto le specie del pane e del
    vino, il suo Corpo e il suo Sangue, da mangiare e da bere, e lasciò loro il
    comando di perpetuare lo stesso mistero».
    Versione '70: «Il racconto dell'istituzione e la consacrazione:
    mediante le parole e i gesti di Cristo si compie il sacrificio che Cristo
    stesso istituì nell'ultima cena, quando offrì il suo corpo e il suo sangue
    sotto le specie del pane e del vino, lo diede a mangiare e a bere agli
    apostoli e lasciò loro il mandato di perpetuare questo mistero».
    La correzione è di peso. Non più «ripresentazione dell'ultima
    cena», espressione certamente non erronea ma neppure teologicamente
    precisa, ma compimento del sacrificio istituito da Cristo nell'ultima
    cena. Sacrificio che è consistito nell'offerta del corpo e del sangue
    (aspetto anabatico) e nel darlo a mangiare ai discepoli (aspetto
    catabatico)
    . Il sacrificio si compie mediante le parole e i gesti di Gesù
    ripresi nel «racconto dell'istituzione» e «consacrazione» (prima si parlava
    solo di «narrazione dell'istituzione»). Il tutto è preciso e inequivocabile.
    Il Proemio9 vuole agganciare il carattere sacrificale alla nozione di
    memoriale: ricorda per questo SC 47, l'espressione del Sacramentarium
    veronense presente nel vecchio e nel nuovo Messale: «Ogni volta che
    celebriamo il memoriale di questo sacrificio si compie l'opera della
    nostra redenzione», e sottolinea gli aspetti sacrificali delle nuove
    preghiere eucaristiche. Inoltre è importante l'esplicito riferimento alle
    finalità del sacrificio: «di lode, di azione di grazie, di propiziazione e di
    espiazione».
    Questo richiamo del Proemio alle preghiere eucaristiche merita di
    essere verificato.
    La prima (Canone romano) – nonostante le modifiche – conserva
    un tono inequivocabilmente propiziatorio.

    La seconda è la più deficitaria (il Proemio infatti non ne fa
    menzione...).
    La terza presenta delle allusioni oggettive: «Guarda con amore e
    riconosci nell'offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra
    redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo
    Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo un solo
    corpo e un solo spirito». Il testo latino è ben più efficace: «Respice,
    quaesumus, in oblationem Ecclesiae tuae et, agnoscens Hostiam, cuius
    voluisti immolatione placari, concede, ut qui Corpore et Sanguine Filii tui
    reficimur Spiritu eius Sancto repleti, unum corpus et unus spiritus
    inveniamur in Christo»10. Ancora: «Per questo sacrificio di
    riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero».
    Nella quarta troviamo queste parole: «In questo memoriale della
    nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa
    agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo, dove
    siede alla tua destra, e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti
    offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la
    salvezza del mondo». «Guarda con amore, o Dio, la vittima che tu stesso
    hai preparato per la tua Chiesa...».
    Anche il dialogo che precede l'Offertorio contiene un'allusione al
    fine propiziatorio: «Pregate fratelli, perché il mio e il vostro sacrificio sia
    gradito a Dio Padre Onnipotente. – Il Signore riceva dalle tue mani
    questo sacrificio per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa».
    Anche qui il testo latino è ben altrimenti incisivo:
    «ad utilitatem quoque
    nostram».
    È certo che confrontando la chiarezza e la frequenza delle
    espressioni del Canone Romano e di tutto l'insieme del rito tradizionale
    con queste affermazioni piuttosto timide e allusive si può rimanere
    insoddisfatti. Soprattutto considerando il contesto dell'umanità di oggi
    con tutto il bisogno che ha di essere educata al senso del peccato,
    all'umiltà e al sacrificio. Ma di lì a dire che il testo è eretico o anche
    direttamente favens haeresi c'è un abisso.

    Un altro aspetto del problema poi che non deve essere trascurato
    è questo: tutta la sostanza della dottrina sulla Messa è formalmente
    oggettivamente contenuta nella parte essenziale costituita dalla
    consacrazione. I riti accessori non sono – in fondo – che spiegazione,
    esplicitazione e solennizzazione di questa parte fondamentale. E questo,
    evidentemente, lo possono fare in modo più o meno soddisfacente e
    pronunciato. Bisogna anzi riconoscere che l'aggiunta del «quod pro
    vobis tradetur» (1 Cor 11, 24) alle parole pronunciate sul pane accentua
    nella nuova formula il significato propiziatorio
    .
    Quando il ministro (che, secondo 1'IGMR, «agit in persona
    Christi»: nn. 7, 10, 60, 48) pronunzia le parole «Questo è il mio corpo
    offerto in sacrificio per voi» e «Questo è il calice del mio sangue per la
    nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei
    peccati» afferma oggettivamente nello stesso tempo la presenza reale e il
    sacrificio propiziatorio. Il «tradetur» e 1'«effundetur» (nel testo greco
    participi presenti con significato di futuro prossimo), con il «pro vobis et
    pro multis» e il «in remissionem peccatorum», significano chiaramente
    l'identità sacramentale fra questo gesto e quello dell'Ultima Cena con la
    sua relazione essenziale con il sacrificio redentore del Calvario. Non
    vedo che altro significato si potrebbe dare a queste parole alla luce
    dell'azione «in persona Christi» affermata dall'Institutio. Dice
    giustamente l'abbé de Nantes che i tradizionalisti dovrebbero stare
    attenti, nel calore della polemica, a non far coro con i protestanti nel
    negare un chiaro significato sacrificale a queste espressioni
    scritturistiche.

    Al NOM viene rimproverata anche una «pratica soppressione
    dell'offertorio». Le attuali preghiere offertoriali infatti testimonierebbero
    lo scivolamento da una offerta in chiave sacrificale ad una semplice
    «presentazione di doni». Un ulteriore impoverimento del significato
    oblativo del rito.
    C'è molto di vero in questa osservazione. Non bisogna però
    attribuirle una portata eccessiva.
    Innanzitutto le teorie che considerano l'offertorio (come rito) parte
    essenziale del sacrificio sono decisamente superate e non hanno più
    nessun serio sostenitore. Storicamente è accertato che le preghiere
    dell'offertorio si sono introdotte tardivamente nella Messa romana,
    sovrapponendosi al rito (che prima si compiva silenziosamente o con
    accompagnamento di canti) per sottolinearne il significato11. Nella sua
    essenza, poi, l'offertorio è tutto contenuto nella consacrazione12
    .
    L'antico rito di offertorio era anticipazione e evidenziazione dell'offerta
    tutta contenuta nella consacrazione.
    Le nuove preghiere sono certamente teologicamente più povere
    delle precedenti. In particolare non hanno più, in sé stesse quel ricco
    significato oblazionistico che avevano prima. Tuttavia, 1'IGMR afferma
    che il rito dell'offertorio «ha il suo valore e il suo significato spirituale»

    (n. 49). Valore e significato che Giovanni Paolo II interpreta così: «Tutti
    coloro (...) che partecipano all'Eucaristia, senza sacrificare come lui (il
    sacerdote), offrono con lui, in virtù del sacerdozio comune, i loro propri
    sacrifici spirituali, rappresentati dal pane e dal vino, sin dal momento
    della loro presentazione all'altare. (...) Il pane e il vino diventano, in
    certo senso, simbolo di tutto ciò che l'assemblea eucaristica porta, da
    sé, in offerta a Dio, e offre in spirito. È importante che questo primo
    momento della liturgia eucaristica, nel senso stretto, trovi la sua
    espressione nel comportamento dei partecipanti. A ciò corrisponde la
    cosiddetta processione con i doni, prevista dalla recente riforma
    liturgica (...). La consapevolezza dell'atto di presentare le offerte
    dovrebbe essere mantenuta durante tutta la Messa. Anzi deve essere
    portata a pienezza al momento della consacrazione e dell'oblazione
    anamnetica ...» (Dominicae Cenae: EV 7, 191-192). Il rito, pur
    accompagnato da preghiere decisamente meno espressive, continua
    dunque a conservare il suo valore oblazionistico e il suo legame
    profondo con il nucleo centrale del sacrificio della Messa.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 14:01]
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    Concludendo:
    1. La nozione di sacrificio è presente, anche nell'articolo 7, attraverso la
    nozione di memoriale, il cui valore sacrificale è evidente da tutto il
    contesto magisteriale, liturgico e teologico.
    2. La finalità propiziatoria emerge sempre dal concetto di memoriale,
    che è ripresentazione del sacrificio propiziatorio di Cristo, e da
    alcune espressioni delle preghiere eucaristiche.
    3. Il rito offertoriale, pur accompagnato da preghiere più povere
    teologicamente, conserva il suo significato tradizionale. Non esistono
    elementi oggettivi che debbano far pensare ad un cambiamento di
    significato13.

    1 A. VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, Op. cit., p. 20.
    2 Ibid., p. 21.
    3 Ibid., p. 24.
    4 Ibid., p. 25.
    5 Cfr. Ibid., pp. 100-121 e 335-336.
    6 Ibid., p. 69.
    7 Cfr. il classico M. LEPIN, L'idée du sacrifice de la Messe d'après les Théologiens
    depuis l'origine jusqu'à nos jours (Parigi 19262).
    8 Cfr. Das Mysteriengedächtnis des Messliturgie im Lichte der Tradition, in:
    Jahrbuch für Liturgiewissenschaft 6 (1926), pp. 113-204; Mysteriengegenwart, Ibid. 8
    (1928), pp. 145-224; Neue Zeugnisse für das Kultmysterium, Ibid. 13 (1933-35), pp.
    99-171; Il mistero del culto cristiano (Borla, Torino 1966). Per una valutazione critica
    della teoria misterica di Case!, si veda C. VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia,
    (Roma 19654), pp. 115-122.
    9 «La natura sacrificale della messa, solennemente affermata dal Concilio di
    Trento, in armonia con tutta la tradizione della chiesa (Trid.: DS 1738-1759), è stata
    riaffermata dal Concilio Vaticano II, che ha pronunziato, a proposito della messa,
    queste significative parole: "Il nostro Salvatore nell'ultima cena (...) istituì il sacrificio
    eucaristico del suo corpo e del suo sangue, al fine di perpetuare nei secoli, fino al suo
    ritorno, il sacrificio della croce, e affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il
    memoriale della sua morte e risurrezione"
    (SC 47; cfr. LG 3, 28; PO 2, 4, 5). Questo
    insegnamento del concilio lo si ritrova costantemente nelle formule della messa. Dice il
    sacramentario leoniano: "Ogni volta che celebriamo il memoriale di questo sacrificio si
    compie l'opera della nostra redenzione"; ebbene, la dottrina espressa con precisione in
    questa frase è sviluppata con chiarezza e con cura nelle preghiere eucaristiche: in
    queste preghiere, quando il sacer dote fa l'anamnesi, rivolgendosi a Dio in nome di
    tutto il popolo, gli rende grazie e gli offre il sacrificio vivo e santo, cioè l'oblazione della
    chiesa e la vittima per la cui immolazione Dio ha voluto essere placato (Pregh. eucar.
    III), e prega perché il corpo e il sangue di Cristo siano un sacrificio accetto al Padre per
    la salvezza del mondo intero (Pregh. eucar. IV). Così, nel nuovo messale, la regola della
    preghiera della Chiesa corrisponde alla sua costante regola della fede; questa ci dice
    che, fatta eccezione per il modo di offrire che è differente, vi è piena identità tra il
    sacrificio della croce e la sua rinnovazione sacramentale nella messa, che Cristo
    Signore ha istituito nell'ultima cena e ha ordinato agli apostoli di celebrare in memoria
    di lui; e per conseguenza, la messa è insieme sacrificio di lode, di azione di grazie, di
    propiziazione e di espiazione» (EV 3, 2018).

    10 Un discorso a parte meriterebbero le traduzioni, che, in generale, snervano
    ulteriormente il testo latino.
    Su questo problema si veda: J. RENIÉ, Missale Romanum
    et Missel Romain, (Ed. du Cèdre, Parigi 1975). Le osservazioni di Renié riguardano la
    traduzione francese, ma si applicano ampiamente anche a quella italiana. Per il card.
    RATZINGER «è urgente una revisione della traduzione tedesca del Messale di Paolo VI»
    (Op. cit., p. 47). Xavier da Silveira ha fatto uno studio sulla versione portoghese, non
    riportato nella traduzione francese del suo libro. Il disagio è avvertito un po' da tutti.
    11 Cfr. RIGHETTI, La Messa (Milan 19663) pp. 305-341.
    12 «Consecratione ... sacrificium offertur» (III q. 82, a. 10).
    13 Ciò non toglie evidentemente l'opportunità che una successiva revisione del
    messale metta di nuovo in migliore evidenza questo significato oblazionistico.
    Cfr.
    l'interessante proposta di dom PAUL TIROT, Histoire des prières d'offertoire dans la
    liturgie romaine du II au VII siècle (suite et fin), in: Ephemerides liturgicae 3-4 (1984)
    pp. 390-391.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 14:16]
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    NOVUS ORDO MISSAE
    E PRESENZA REALE
    Come ha affermato recentemente il Papa, il Concilio di Trento ha
    richiamato e interpretato «con autorità definitiva le parole espresse da
    Gesù sia nel discorso del Pane di Vita (Gv c. 6) sia nell'ultima Cena»1.
    Il dogma tridentino della presenza reale si articola in tre punti:
    a. La presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo sotto le
    specie del pane e del vino;
    b. L'assenza della sostanza del pane e del vino sotto le specie
    sacramentali;
    c. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e
    del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane
    e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù.

    Il Tridentino afferma che questa «mirabile conversione» è stata
    rettamente denominata dalla Chiesa «transustanziazione». La
    definizione porta dunque sul fatto della conversione totale, non sul
    termine in se stesso. Questo termine però la Chiesa lo considera
    indispensabile per la preservazione del dogma. Non si può quindi
    rifiutarlo senza attentare, almeno indirettamente, all'integrità del dogma
    e all'infallibilità e santità della Chiesa2.
    Questo terzo punto è sempre stato considerato particolarmente
    importante. Lo testimonia soprattutto3 l'episodio del Sinodo di Pistoia.
    Dal 18 al 28 settembre 1786 il vescovo di Pistoia Scipione Ricci
    convocò un sinodo diocesano in cui furono emanati decreti di riforma
    orientati in senso decisamente giansenistico. Nel 1794, il Papa Pio VI
    intervenne condannando 85 proposizioni estratte da questi decreti. La
    proposizione 29 riguarda il dogma della presenza reale e condanna
    l'omissione del termine «transustanziazione». Il sinodo aveva formulato
    una dottrina eucaristica esatta in ciò che enunciava positivamente.
    Anziché però parlare di «conversione» si limitava ad affermare la
    cessazione del pane e del vino per lasciar posto alla presenza di Cristo.
    «La dottrina del Sinodo nella parte in cui intende insegnare la
    dottrina della fede sul rito della consacrazione, che lascia da parte le
    questioni scolastiche sul modo per cui Cristo è nell'Eucaristia, da cui il
    parroco è esortato ad astenersi, e proporre soltanto questi due punti: 1)
    Cristo dopo la consacrazione è veramente, realmente, sostanzialmente
    presente sotto le specie; 2) allora cessa ogni sostanza del pane e del vino
    e rimangono solo le specie, omettendo completamente di far menzione
    della transustanziazione (cioè della conversione di tutta la sostanza del
    pane nel corpo, e di tutta la sostanza del vino nel sangue, che il Concilio
    di Trento aveva definito come articolo di fede e che è contenuta nella
    solenne professione di fede [dello stesso Concilio]); in quanto, a causa di
    questa inconsulta e sospetta omissione, non dà conoscenza sia
    dell'articolo di fede, sia anche del termine consacrato dalla Chiesa per
    garantirne la professione contro gli eretici, e tende perciò ad indurre alla
    sua dimenticanza, quasi che si tratti di una questione soltanto
    scolastica: – pericolosa, manchevole quanto all'esposizione della verità
    cattolica sul dogma della transustanziazione, favorevole agli eretici» (DS
    2629).
    La prassi di omettere nella predicazione, quando si spiega la
    presenza reale, il punto di dottrina riguardante il modo della sua
    realizzazione, cioè la «conversione totale», nonché l'omissione di quel
    termine che la Chiesa indica come adatto per designarla è considerata
    da Pio VI pericolosa per la fede. Al di là del punto specifico, questa
    prassi continua ad essere stigmatizzata anche oggi dalla Chiesa.
    L'ecumenismo non deve significare, secondo il pensiero ufficiale della
    Chiesa espresso nei documenti del Vaticano II, omissione dei punti di
    dottrina controversi: «Bisogna assolutamente esporre con chiarezza
    tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo, quanto
    quel falso irenismo, dal quale ne viene a soffrire la purezza della
    dottrina cattolica e ne viene oscurato il suo senso genuino e preciso»
    (Unitatis redintegratio, n. 11: EV 1, 534).
    L'ecumenismo riguarda
    piuttosto il «modo» con cui esporre la dottrina: «con più profondità ed
    esattezza» (Ibid.: 535); «con amore della verità, con carità e umiltà» (Ibid.:
    536), cioè evitando le spigolosità polemiche gratuite e le terminologie
    che aggravano inutilmente le differenze. Si tratterà cioè di aver riguardo
    alla «gerarchia nelle verità» (Ibidem): cioè al fatto che non tutte le verità
    hanno la stessa importanza4. Questo però sempre nell'adesione a tutta
    la verità e nella professione di tutta intera la verità.
    L'«ecumenismo per omissione» non si giustifica (così come non si
    giustifica una «catechesi per omissione»5 (5)...).

    Dobbiamo considerare anche il nostro testo (IGMR) come affetto
    da un tale ecumenismo distorto?
    Xavier da Silveira6 rivolge ad esso, dallo specifico punto di vista
    del dogma della presenza reale, tre accuse:
    a. Le espressioni «presenza reale» e «transustanziazione» sono assenti
    nell'edizione del '69.
    b. Il passo di Mt 18, 20 «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io
    sono in mezzo a loro», che si riferisce senz'altro alla presenza morale
    di Cristo in mezzo ai suoi, nel n. 7 è applicato, senz'altra spiegazione,
    alla presenza di Cristo nell'eucaristia, che è presenza sostanziale.
    c. Il testo parla con insistenza di «presenza» di Cristo oltre a quella
    eucaristica.
    L'accusa più grave è quella del punto «a» che concerne una grave
    omissione. Anticipando le conclusioni, diciamo che la dobbiamo
    senz'altro rilevare e, in una certa misura, anche deprecare. Nello stesso
    tempo però, consideriamo anche due cose: 1) L'eventuale errore di
    omissione è stato corretto nella versione del '70, che è quella definitiva;
    2) Entrambe le versioni si muovono in un contesto magisteriale che
    riafferma vigorosamente la dottrina della «transustanziazione» (la
    Mysterium fidei è dello stesso Paolo VI che ha promulgato l'IGMR)
    . Un
    esatto parallelo con il caso del sinodo di Pistoia non è dunque fattibile.
    Certamente non troviamo nell'IGMR una dottrina organica e
    completa sul dogma della presenza reale e della transustanziazione.
    Non soltanto il termine «transustanziazione», nella versione del '69, è
    assente, ma anche la realtà non vi figura neppure in termini
    equivalenti.

    Vi sono espressioni che la lasciano supporre come: «Nella
    Preghiera eucaristica si rendono grazie a Dio per tutta l'opera della
    salvezza, e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo. Mediante la
    frazione di un unico pane si manifesta la unità dei fedeli, e per mezzo
    della comunione i fedeli ricevono il Corpo e il Sangue del Signore allo
    stesso modo col quale gli apostoli li hanno ricevuti dalle mani del
    medesimo Cristo» (n. 48).
    «All'inizio della liturgia eucaristica si portano all'altare i doni, che
    diventeranno il Corpo e il Sangue di Cristo» (n. 49).
    «Epiclesi: per mezzo della quale la Chiesa con particolari
    invocazioni implora la virtù divina affinché vengano consacrati i doni
    offerti dagli uomini, cioè diventino il Corpo e il Sangue di Cristo, e perché
    l'ostia immacolata ricevuta in comunione giovi per la salvezza di coloro
    che vi partecipano» (n. 55).
    «I sacri pastori abbiano cura di ricordare nel modo più opportuno
    ai fedeli che partecipano al rito o che vi assistono, la dottrina cattolica

    sulla forma della comunione, secondo il Concilio di Trento. E
    innanzitutto ricordino ai fedeli che la fede cattolica insegna che, anche
    sotto una sola specie si riceve Cristo nella sua totalità e nella sua
    integrità...» (n. 241).
    «Si raccomanda vivamente che il luogo della conservazione della
    santissima Eucaristia sia posto in una cappella idonea per la preghiera
    (la versione del '70 aggiunge: "e l'adorazione") privata dei fedeli» (n. 276).
    L'espressione «le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo» e
    similari (48, 49, 55) non sono, come abbiamo visto, sufficienti – di per
    sé – per distinguere la dottrina cattolica da quella protestantica che
    vanifica il significato ovvio e pieno delle parole dell'istituzione.
    Tuttavia, già nel n. 55 troviamo un'espressione che ha sapore
    inequivocabilmente cattolico: «l'ostia immacolata ricevuta in
    comunione». Il riferimento sacrificale soprattutto la pone nell'ambito
    semantico del dogma,
    ma essa parla anche il linguaggio del realismo
    eucaristico.
    Ciò è ancora più evidente per i nn. 241 e 276. Il n. 241, nel
    mentre ristabilisce la possibilità della comunione sotto le due specie,
    richiama la dottrina di Trento sulla totalità della presenza di Cristo
    anche sotto una sola specie. Come abbiamo già visto, infatti, in forza
    delle parole sono resi presenti, separatamente, il Corpo e il Sangue.
    Sono però il Corpo e il Sangue di Gesù come si trova ora: cioè Gesù
    risorto e vivo. Dunque, per concomitanza naturale, è presente – sotto
    ogni specie – tutta l'umanità di Gesù e, in virtù dell'unione ipostatica,
    anche la divinità. Sotto ogni specie è presente Gesù – lo stesso Gesù
    nato dalla Vergine Maria, che è morto e risorto e ora siede alla destra
    del Padre – in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Quello che ci interessa
    è (oltre al richiamo al Tridentino) la terminologia («sotto una sola specie
    si riceve Cristo») che fa parte dell'ambito semantico del dogma.

    Ancora più importante e decisivo è il n. 276. Più importante
    perché enuncia un atteggiamento pratico, in consonanza con le finalità
    proprie dell'IGMR e la natura della liturgia. Decisivo perché esprime una
    differenza radicale con la prassi protestantica. Vi si parla infatti della
    conservazione e del culto dell'Eucaristia «post Missam». Questa prassi
    implica necessariamente la dottrina della presenza permanente, quindi
    sostanziale, di Cristo nell'Eucaristia. Dottrina che fa corpo con tutto il
    dogma della presenza reale e anche con la transustanziazione.
    Prova ne
    è che i protestanti più vicini alle posizioni cattoliche, pur disposti a
    tollerare il termine «transustanziazione», ridotto al rango di espressione
    di una particolare tradizione teologica, continuano a manifestare
    fortissime perplessità nei confronti di una presenza eucaristica
    permanente, che dura fin tanto che durano le specie7.
    Certo l'assenza del termine «transustanziazione» è difficilmente
    giustificabile in un documento che non è soltanto pratico-liturgico
    (anche se lo è certamente principalmente). Tuttavia si tratta di un
    peccato di omissione che è stato provvidenzialmente corretto (le critiche
    non sono state inutili..). Il Proemio aggiunto nel '70 dedica un
    importante passaggio al dogma della presenza reale. Innanzitutto viene
    evidenziato il legame dell'IGMR con il contesto del Magistero passato e
    recente: dal Concilio di Trento al Vaticano II, passando attraverso
    l'Humani generis e la Mysterium (idei
    . Quindi, mentre qualifica
    chiaramente il modus praesentiae come «transustanziazione», pone
    l'indice sugli elementi rituali che enunciano, col linguaggio proprio del
    gesto, questo dogma8.
    Altro punto critico è quello costituito dall'articolo 7. La redazione
    primitiva di questo articolo era certamente
    – come constateremo anche
    in seguito – fortemente equivoca: «La Cena del Signore, ossia la Messa, è
    la sacra assemblea o adunanza del popolo di Dio, che si riunisce
    insieme, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del
    Signore. Pertanto a riguardo dell'adunanza locale della santa Chiesa,
    vale in modo eminente la promessa di Cristo: "Dove sono due o tre riuniti
    nel mio nome, là sono io in mezzo a loro" (Mt 18, 20)». Soprattutto
    l'inserimento del passo scritturistico di Mt 18, 20 in un contesto in cui
    ci si aspetterebbe un chiaro riferimento alla presenza sostanziale di
    Cristo è tale da deviare facilmente l'interpretazione. Il passo infatti si
    riferisce chiaramente ad una presenza reale di Cristo di natura morale9.
    L'espressione «in modo eminente» è insufficiente per mettere
    inequivocabilmente sulla strada di una lettura essenzialmente
    differenziata di questa presenza. L'articolo andava certamente corretto.
    La correzione riporta il testo nell'alveo della concezione della
    Mysterium fidei, che vede la presenza reale di Cristo che si differenzia in
    varie modalità, di cui la principale è quella eucaristica perché
    sostanziale e permanente (vedremo in seguito più dettagliatamente
    questa importantissima dottrina). La nuova versione infatti interpreta il

    passo biblico come rivolto alla presenza differenziata di Cristo: «Nella
    messa o cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme
    sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo, per
    celebrare il memoriale del Signore, cioè il sacrificio eucaristico.
    Per questa riunione locale della santa chiesa vale perciò in modo
    eminente la promessa di Cristo: (...). Infatti nella celebrazione della
    messa, nella quale si perpetua il sacrificio della croce, Cristo è realmente
    presente nell'assemblea dei fedeli, riunita in suo nome, nella persona del
    ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le
    specie eucaristiche». Il riferimento a Mt 18, 20 continua a rimanere
    accomodatizio e a rendere l'articolo disorganico e impreciso (forse non lo
    si è eliminato del tutto solo per non dare un riconoscimento troppo
    aperto alle contestazioni...), tuttavia l'inciso spiega inequivocabilmente
    in che senso si deve intendere la «presenza eminente» di Cristo nella
    celebrazione della Messa.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 14:40]
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    00 09/02/2011 17:56
    La nota 15 all'art. 7, anch'essa aggiunta nel '70, rimanda a
    Sacrosanctum Concilium, n. 7; Mysterium fidei, n. 41 e Eucharisticum
    mysterium, n. 9. Sono i documenti che enunciano la dottrina della
    presenza differenziata di Cristo, che culmina nella presenza eucaristica,
    reale non per esclusione ma «per antonomasia».

    Giungiamo così al problema costituito dalla particolare insistenza
    del testo sui modi di presenza altri che la presenza eucaristica. Viene
    soprattutto sottolineata la presenza di Cristo nella sua parola.
    Oltre all'art. 7, già esaminato, in cui si fa cenno alla presenza
    nell'assemblea, nel ministro e nella parola, abbiamo:
    «Nella Messa si imbandisce la mensa tanto della parola di Dio
    quanto del Corpo di Cristo perché da essa i fedeli vengono istruiti e
    nutriti» (n. 8).
    «Quando si legge la sacra Scrittura nella Chiesa, è Dio stesso che
    parla al suo popolo e Cristo, presente nella sua parola, annuncia il
    Vangelo» (n. 9).
    «Lo stesso Cristo per mezzo della sua parola è presente in mezzo
    ai fedeli» (n. 33).
    «Alla lettura evangelica si deve attribuire la massima venerazione
    ... sia da parte del ministro ... sia da parte dei fedeli che per mezzo delle
    acclamazioni riconoscono e professano essere Cristo presente, che parla
    loro» (n. 35).
    Notiamo innanzitutto che il parallelismo mensa della
    parola/mensa del Corpo di Cristo ha solide radici nella Tradizione.
    Senza citare le fonti patristiche (e scritturistiche!)10, basti
    richiamare il più caratteristico degli autori post-tridentini, san Roberto
    Bellarmino. «Il sacramento dell'altare – dice il santo dottore – che è uno
    dei principali sussidi dell'anima, è detto pane in Gv 6, 51-58 e in 1 Cor
    11, 26-28; e la parola di Dio, della cui predicazione pure ci nutriamo,
    può essere detta anche essa pane, come dice l'Apostolo in 1 Tim 4, 6:
    "nutrito dalle parole della fede"; e Ebr 6,5: "e gustarono la buona parola
    di Dio"»11.
    La nota 15 al n. 8 (poi diventata 17) rimanda al fondamentale
    passo conciliare su questa dottrina:
    «La Chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto
    per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella
    sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di
    Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei verbum, n. 21).

    Il come del testo conciliare non significa uguale venerazione.
    Significa che a Scrittura e a Eucaristia è dovuta ugualmente
    venerazione, però in modo e aspetto diverso, come si arguisce da SC 7,
    MF 41 e EM 912.
    Il n. 7 della SC (importante, come vedremo, per la dottrina della
    presenza «differenziata» di Cristo) è richiamato in nota due volte: nella
    nota 16 (n. 9) e 30 (n. 33) della versione del '69 e nella nota 15 (n. 7) e
    32 (n. 33) della versione del '70.
    L'insistenza dunque è soltanto una sottolineatura, nel contesto
    della dottrina sulla presenza reale «differenziata». Questa dottrina è –
    come è evidente – di particolare importanza per capire le affermazioni
    dell'IGMR. Si tratta di una concezione non nuova nella sostanza, anche
    se nuova nella sua formulazione sistematica.
    Enunciata innanzitutto
    nella SC al n. 7 è stata ripresa e spiegata, nel contesto di una profonda
    e impeccabile esposizione del Mistero Eucaristico, dalla Mysterium fidei
    (Ibid., n. 38), per essere poi riassunta e codificata al fine di informare la
    prassi liturgica, nell'istruzione Eucharisticum mysterium (Ibid., n. 41).
    L'IGMR non può essere dissociata da questa dottrina e da questi
    documenti.
    Dopo aver affermato che Cristo è presente nella sua Chiesa che
    prega, che esercita le opere di misericordia, che anela al porto della vita
    eterna, che predica, che regge e governa il popolo di Dio, che celebra il
    sacrificio della Messa e amministra i sacramenti – specificando che ciò
    avviene con modalità diverse e «intensità» diverse – Paolo VI, nella MF,
    sottolinea che «ben altro è il modo, veramente sublime, con cui Cristo è
    presente alla sua Chiesa nel sacramento della Eucaristia... Tale
    presenza si dice reale non per esclusione, quasi che le altre non siano
    reali, ma per antonomasia, perché anche corporale e sostanziale, e in
    forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente».

    Certamente questa dottrina (come quella della hierarchia
    veritatum dell'UR) risponde ad una istanza ecumenica. Vi si vede la
    volontà di «decongestionare» l'arroccamento cattolico post-tridentino sul
    bastione della presenza reale eucaristica, che ha portato a lasciare
    (comprensibilmente) nell'ombra le altre, pur realissime, presenze di
    Cristo.
    Questa volontà ecumenica passa massicciamente
    (prudentemente?) nella riforma liturgica.
    Si riflette in particolare
    nell'IGMR quando si parla di presenza senza specificazione, sottolinea
    con insistenza la presenza nella Parola, lascia alle note il compito di
    rimandare alla dottrina integrale e tace – nella sua prima versione – il
    termine imbarazzante transustanziazione. Se questa massiccia tensione
    ecumenica dà la netta impressione di uno squilibrio, tuttavia non esce –
    essendo soprattutto intervenute importanti correzioni – dal contesto di
    una strategia che sottolinea ciò che unisce senza rinnegare la dottrina
    integrale.

    1 GIOVANNI PAOLO II, Alle religiose di Milano e della Lombardia, 20 maggio 1983:
    La Traccia 5 (1983) p. 495.
    2 «Factum transubstantiationis, scilicet desitio totius substantiae panis et vini et
    conversio eius in Corpus et Sanguinem Christi, est de fide divina et catholica
    definitum. Vocem ipsam transubstantiationis aptissimam esse ac retinendam, est
    doctrine catholica» (J.A. DE ALDAMA, De sacramento unitatis christianae seu de
    sanctissima Eucharistia: Sacrae Theologiae Summa, vol. IV [BAC, Madrid 19624] p.
    276).
    3 Non è l'unico testo. L'importanza di questo punto di dottrina per l'integrità del
    dogma della presenza reale, nonché del termine dogmatico atto a preservarlo con
    sicurezza, sarà nuovamente ribadita dall'Humani generis di Pio XII, dalla Mysterium
    fidei di Paolo VI e, recentemente da Giovanni Paolo II. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Omelia
    del 23 febbraio 1980: La parola di Giovanni Paolo II 2-3 (1980) p. 23; IDEM, Omelia a
    Rio de Janeiro, 1 luglio 1980: Ibid. 7 (1980) pp. 31-32; IDEM, Allocuzione ai
    pellegrinaggi delle diocesi di Milano e Alessandria, 14 novembre 1981: La Traccia 10
    (1981) p. 680.
    4 Su questo punto, fondamentale per l'ecumenismo, si veda l'ottima
    puntualizzazione di CARLOS CARDONA, La «Jerarquia de las verdades» y el orden de lo
    real, in: Scripta theologica 4 (1972), pp. 123-144.
    5 Cfr. Card. JOSEPH RATZINGER, Trasmissione della fede e fonti della fede, in:
    Cristianità 96 (1983), pp. 5-11.
    6 Cfr. Op. cit., pp. 16-20, 38-40, 118-119.
    7 «Una divergenza che rimane consiste certamente nel problema della
    conservazione e adorazione dell'ostia consacrata, non distribuita, dopo la celebrazione
    eucaristica... Essa è strettamente connessa con i diversi modi di intendere il modus
    praesentiae...» (Gemeinsame römisch-katolische evangelisch-lutherische Kommission,
    Das Herrenmahl, cit., pp. 89-90). Max Thurian, che può rappresentare la posizione
    protestantica «ecumenicamente» più vicina, si attesta
    – nel suo importante libro del
    1963 – su posizioni agnostiche: «Sebbene il fine dell'eucaristia sia la comunione..., noi
    non oseremmo definire la natura della relazione di Cristo con le specie eucaristiche
    che rimangono dopo la comunione. Non ci sentiamo autorizzati a pronunciarci né per
    la permanenza della presenza reale, né per la sua cessazione. Qui è necessario
    rispettare il mistero.
    In questo atteggiamento di rispetto, è bene che le specie
    eucaristiche che rimangono siano consumate dopo la celebrazione» (L'Eucaristia
    memoriale del Signore, cit., pp. 299-300). La sua posizione sembra però mutata in un
    testo più recente: «La presenza del corpo risorto di Cristo rimane legata ai segni
    eucaristici, perché la chiesa non dispone di quella presenza che è frutto della Parola di
    Dio e dell'azione dello Spirito Santo. Con quale diritto potrebbe essa fissare il momento
    in cui le specie del pane e del vino non sarebbero più segni del corpo e del sangue di
    Cristo? Ciò sarebbe contrario alla fede nella grazia efficace di Dio. "I doni e la chiamata
    di Dio sono irrevocabili" (Rm 11, 29). La certezza che la presenza di Cristo continua
    dopo la celebrazione e la comunione, sotto le specie del pane e del vino che restano, è un
    importante segno della fede eucaristica» (Il mistero dell'eucaristia, Roma 1982, p. 99).
    8 «Anche il mistero mirabile della presenza reale del Signore sotto le specie
    eucaristiche è affermato dal Concilio Vaticano II (SC 7, 47; PO 5, 18) e dagli altri
    documenti del magistero della Chiesa (Pio XII, Humani generis; Paolo VI, Mysterium
    fidei; Solenne professione di fede; Eucharisticum mysterium), nel medesimo senso e con
    la medesima dottrina con cui il concilio di Trento l'aveva proposto alla nostra fede
    (Trid., sess. XIII: DS 1635-1661).
    Nella celebrazione della messa, questo mistero è
    posto in luce non soltanto dalle parole stesse della consacrazione, che rendono il Cristo
    presente per mezzo della transustanziazione, ma anche dal senso e dall'espressione
    esterna di sommo rispetto e di adorazione di cui è fatto oggetto nel corso della liturgia
    eucaristica. Per lo stesso motivo, al giovedì santo e nella solennità del corpo e del
    sangue del Signore, il popolo cristiano è chiamato a onorare in modo particolare, con
    l'adorazione, questo ammirabile sacramento» (EV 3, 2021).
    9 Cfr. Mysterium fidei: EV 2, 422.
    10 Cfr. C.M. MARTINI, La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa, in: La Costituzione
    dogmatica sulla divina Rivelazione (LDC, Torino-Leumann 1967), pp. 423-425 (con
    bibl.). Classico è il cap. XI del libro IV dell'Imitazione di Cristo: «Due cose sento che mi
    sono sommamente necessarie in questa vita... Esse si potrebbero anche chiamare due
    mense situate di qua e di là nel tesoro di Santa Chiesa. L'una è la mensa del Sacro
    Altare che ha il Pane santo, cioè il Corpo prezioso di Cristo. L'altra è la mensa delle
    legge divina ...».
    11 Opera oratoria postuma, vol. VI (Roma 1945) p. 255. Sottolineo come queste
    espressioni si ritrovano nel vivo della predicazione del santo. Predicazione biblica
    quant'altre mai. Una scorsa lo testimonia anche al più disattento dei lettori. Prova che
    le accuse di allontanamento dalla Scrittura lanciate affrettatamente alla (cosiddetta)
    Controriforma (ma si pensi anche al Catechismo del Concilio di Trento!) poggiano su
    una superficiale conoscenza degli autori. Per Bellarmino la Parola di Dio predicata e
    ascoltata ha un valore sacramentale: «signum et effectus gratiae praesentis, et simul...

    causa eiusdem» (Ibid., vol. I, p. 339). Ha un valore più grande della stessa parola
    soltanto letta. «Anche le persone colte, pur potendo capire da sole la Scrittura,
    debbono andare alle prediche perché la parola pronunciata ha una energia che non
    possiede la parola scritta» (Ibid., p. 215). La predicazione poi deve sempre essere
    spiegazione della Parola di Dio e non deve perdersi in considerazioni teologiche,
    filosofiche o storiche...
    12 Si veda a questo proposito la risposta della Pontificia Commissione per
    l'interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II del 5 febbraio 1968 (AAS 60, 1968,
    p. 362).
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 15:06]
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    00 09/02/2011 17:57
    NOVUS ORDO MISSAE
    E SACERDOZIO MINISTERIALE


    Per i protestanti tutti i cristiani battezzati sono depositari dei
    poteri sacerdotali, quindi tutti hanno in uguale misura il potere di
    celebrare la santa Cena. Se uno presiede la cerimonia, non lo fa in
    quanto depositario di un potere speciale che viene da Cristo, ma in
    quanto delegato dalla comunità.
    Il Concilio di Trento afferma – contro i protestanti – che esiste un
    sacerdozio esterno e visibile, istituito da Cristo, conferito mediante un
    sacramento (l'ordine sacro) che abilita a consacrare. Abbiamo già
    osservato che il fine del Concilio è quello di difendere il sacro deposito
    contro le deformazioni protestantiche – in questo caso difendere
    l'esistenza di un sacerdozio gerarchico, solo ad essere depositario di
    determinati poteri – non quello di fare una esposizione esauriente della
    materia.
    Non ci deve dunque meravigliare che il Concilio dedichi solo
    fuggevoli accenni1 al sacerdozio dei fedeli, di cui pure parlano Scrittura
    e Tradizione. Il tema non «costituiva problema», anzi, si temeva,
    parlandone, di recar danno alla saldezza della nozione di sacerdozio
    ministeriale che incominciava allora ad essere messa in pericolo. È
    comprensibile che nel periodo post-tridentino il capitolo «sacerdozio dei
    fedeli» sia stato lasciato un po' in ombra, nel timore di creare confusioni
    pericolose; tuttavia – come vedremo – è stata una verità sempre
    presente.

    Se teniamo conto di questa Tradizione innegabile2 dobbiamo
    enucleare la differenza fondamentale fra concezione cattolica e
    concezione protestantica, non tanto nell'attribuzione o negazione di
    facoltà sacerdotali a tutti i battezzati, quanto nel porre una differenza
    essenziale e non soltanto di funzione fra sacerdozio ministeriale e
    sacerdozio dei fedeli. Differenza che comporta una speciale «potestas»
    per cui si possono compiere azioni che non può assolutamente compiere
    chi non la possiede. In particolare, per quanto riguarda l'eucaristia, il
    potere di consacrare, di «fare» (conficere) l'eucaristia.
    È ovvio dunque che «confondere il sacerdozio del popolo con
    quello del prete significa adottare (...) un principio protestantico, infatti,
    se si deve credere agli pseudo-riformatori del XVI secolo, il celebrante è
    prete allo stesso titolo del popolo, non fa che presiedere l'assemblea
    eucaristica come delegato degli assistenti». Questa è la critica che Xavier
    da Silveira rivolge alla IGMR: essa «conserva qualche espressione della
    dottrina tradizionale, ma introduce anche nozioni e principi che
    insinuano o contengono le tesi protestantiche»3 (3).
    Quali sono i punti in cui vengono introdotte queste nozioni e
    principi devianti o erronei?
    L'autore, esaminando la versione del '69, indica quattro punti e
    trova che anche quanto affermato dal Proemio del '70 – evidentemente
    introdotto per controbattere le accuse – continua ad essere erroneo.
    Esamina poi, considerandole insufficienti, le modifiche apportate negli
    articoli.
    Si tratta dunque, complessivamente, di sei punti:
    1. Osservazione generale: si ritrovano spesso, lungo tutto il documento,
    delle espressioni secondo cui è il popolo di Dio a celebrare la Messa.
    2. Nel n. 7 (versione '69) il prete è qualificato semplicemente come
    presidente dell'assemblea del popolo di Dio. Le modifiche del '70 non
    tolgono affatto le perplessità. «L'errore più grave consiste
    nell'affermare che è il popolo a celebrare il memoriale del Signore o
    sacrificio eucaristico»4.
    3. «Nel n. 10, immediatamente dopo l'affermazione che il prete presiede
    l'assemblea, rappresentando Cristo, 1'Institutio" [del '69] dichiara
    che la preghiera eucaristica costituisce una "preghiera
    presidenziale". Ora, nello stesso articolo, le "preghiere presidenziali"
    sono definite come quelle "che sono indirizzate a Dio a nome di tutto
    il popolo santo e di tutti quelli che sono presenti". Ogni lettore, dopo
    questo passaggio, sarà indotto a pensare che nella consacrazione il
    prete parla principalmente a nome del popolo. Indubbiamente alcune
    parti della preghiera eucaristica sono indirizzate a Dio a nome del
    popolo. Ma la sua parte principale, la consacrazione, è pronunciata
    dal prete esclusivamente a nome di Nostro Signore. È impossibile a
    un cattolico ammettere su questo punto delle ambiguità. Così il n.
    10 dell"'Institutio" è uno dei più biasimevoli di tutto il documento»5.
    Il n. 10 non è stato modificato nel '70.
    4. Al n. 12 è detto che «La natura delle parti "presidenziali" esige che
    siano pronunciate con voce chiara e elevata e che da tutti siano
    ascoltate con attenzione». «Dunque, le parole della consacrazione
    devono essere pronunciate anch'esse in questo modo – il che
    insinua, una volta di più, che in questo momento il prete agisce
    specificamente come delegato del popolo»6 (6).
    5. Anche la posizione del celebrante deve trovarsi in armonia con la sua
    funzione presidenziale: «La sede del celebrante deve significare il suo
    ufficio di presiedere all'assemblea e di dirigere la preghiera, perciò il
    suo luogo più adatto è rivolto verso il popolo alla sommità del
    presbiterio ...» (n. 271). Secondo l'Ordo romano tradizionale invece il
    prete si trova normalmente rivolto all'altare perché è soprattutto il
    sacrificatore che, «in persona Christi», si presenta davanti al Padre.
    Ecco che la modifica contrappone la nozione di «presidente» a quella
    di «sacrificatore». Xavier da Silveira riconosce che la pratica
    tradizionale della Chiesa non è affatto esclusivista su questo punto:
    in molti riti la Messa è celebrata versus populum. L'elemento negativo
    è visto nel fatto che l'Institutio considera la pratica tradizionale come
    meno appropriata, insinuando un ambiguo primato della funzione
    presidenziale7.
    6. Il Prologo aggiunto nel '70 lungi dal risolvere le ambiguità – sempre
    per Xavier da Silveira – le conferma. Vi troviamo infatti l'affermazione
    che «la celebrazione dell'eucaristia è azione di tutta la Chiesa». Ora,
    Pio XII ha condannato la dottrina secondo cui «il sacrificio
    eucaristico è una vera e propria concelebrazione» del prete e del
    popolo presenti8. Se è vero che il termine «celebrazione» in un senso
    analogo può avere dei significati diversi, non è legittimo ricorrere a
    questi significati per insinuare che al popolo appartiene una funzione
    di celebrare propriamente detta9.

    Prima di entrare nel dettaglio di queste osservazioni, penso sia
    utile fare una esposizione generale di quella che mi sembra essere la
    dottrina di fondo del documento, alla luce del Vaticano II e di tutta la
    Tradizione.
    Il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione nella persona
    di Cristo, tuttavia, poiché Cristo ha compiuto il suo sacrificio come capo
    della Chiesa, il sacerdote agisce nella persona di Cristo capo. Questa
    verità è più volte affermata dalla Tradizione e dal Magistero10.
    Soprattutto quando si sottolinea il carattere essenzialmente pubblico di
    ogni celebrazione della Messa, anche quando i fedeli sono fisicamente
    assenti.
    Il Concilio di Trento afferma che il Sacrificio è immolato dalla
    Chiesa per mezzo dei sacerdoti: «(Cristo) istituì la nuova Pasqua, cioè se
    stesso da immolarsi sotto segni visibili da parte della Chiesa mediante i
    sacerdoti... (novum instituit Pascha, se ipsum ab Ecclesia per
    sacerdotes sub signis visibilibus immolandum...)» (DS 1741).
    Ciò significa che i sacerdoti operano sempre come mediatori fra
    Dio e il popolo. Se consideriamo l'azione eucaristica nel suo senso
    discendente, dobbiamo dire che il sacerdote agisce esclusivamente in
    persona di Cristo, in quanto è solo per l'azione di Cristo e del sacerdote
    che si compie la transustanziazione (tuttavia sempre a favore della
    Chiesa); però, considerando la stessa azione nel suo senso ascendente,
    dobbiamo dire che il sacerdote agisce a nome della Chiesa, in quanto
    tutta la Chiesa offre per le mani di lui il sacrificio di Cristo a Dio Padre.

    «Il battezzato è capace di emettere un "actus religionis
    christianae", nel quale, in virtù del carattere a) internamente si unisce
    all'oblazione attuale di Cristo, in cui ottiene una dignità particolare, e
    viene moralmente unificato con le oblazioni degli altri fedeli; b)
    esternamente poi è manifestato dalla stessa immolazione sacramentale,
    ch'è compiuta dal sacerdote validamente ordinato, non solo come
    "vicarius et minister Christi", ma anche come intermediario di tutti i fedeli
    e come membro qualificato (membrum electum) di tutto il Corpo Mistico. Si
    può pertanto asserire che la "communitas fidelium" offre
    immediatamente, o meglio, insieme con il sacerdote ministro; immola
    però soltanto "mediante" il sacerdote, secondo la definizione del Concilio
    di Trento: "Cristo lasciò se stesso per essere immolato dalla Chiesa
    mediante i sacerdoti" e secondo la dottrina dei teologi medioevali, da cui
    il sacerdote è esaltato come "bocca della Chiesa", "procuratore degli
    interessi comuni", "voce del popolo"»11.

    L'agire in persona di Cristo capo comporta sempre una qualche
    unione con il Corpo. Quando i fedeli sono presenti rappresentano le
    membra di Cristo e quindi contribuiscono a manifestare il carattere
    comunitario che ogni Messa ha in se stessa (cfr. Concilio di Trento,
    Sessione XXII, cap. 6). Padre Tromp espone questa dottrina rifacendosi
    all'autorità di san Giovanni Crisostomo:
    «Infatti, come nella Messa solenne, teste il Crisostomo, quando
    viene offerta a Dio quella tremenda vittima, tutto il popolo, stese le
    mani, presenta come plèròma ieratikon, cioè come pleroma (pienezza) del
    sacerdote celebrante: così in ogni Sacrificio della Messa tutti i fedeli
    sono presenti invisibilmente come pleroma dello stesso Cristo, che
    rappresenta tutti presso il Padre sia in sé Sacerdote che in sé Vittima»12.

    Si potrebbe anche dire che il soggetto integrale della celebrazione
    è la Chiesa. Tutta la Chiesa come Corpo organizzato gerarchicamente.
    In esso si differenziano funzioni essenzialmente diverse: il sacerdote
    ministro agisce in persona del Capo, i fedeli rappresentano le membra.
    Ciò non implica affatto che la presenza fisica dei fedeli sia
    indispensabile per la realizzazione del sacrificio. Il sacerdote può agire
    da solo perché può supplire la rappresentanza dei fedeli, essendo lui
    stesso anche fedele (anzi: originariamente e primariamente fedele):
    tuttavia soggetto è sempre la Chiesa che offre – secondo le parole del
    Tridentino – «per sacerdotes». Questa concezione, non definita
    solennemente, ma presente almeno come dottrina cattolica nei
    documenti del magistero, differisce sostanzialmente da quella
    protestantica
    per cui i fedeli, in modo indifferenziato, sono soggetto
    della celebrazione e il sacerdote un loro semplice delegato13. Questa
    differenza teologica si esprime ritualmente, con particolare chiarezza,
    nella cosiddetta «Messa privata».
    A Trento la Chiesa ha difeso, contro i protestanti, la liceità e la
    dignità della celebrazione individuale – senza fisica presenza del popolo
    – detta «privata». Si trattava di difendere una lunga tradizione della
    Chiesa latina e, soprattutto, l'efficacia ex opere operato dell'azione
    sacramentale del ministro validamente ordinato, contro la concezione
    protestantica del sacramento come semplice segno che suscita la fede
    dei presenti, impensabile quindi senza una assistenza di fedeli. Tuttavia
    il Concilio non afferma che si tratta della forma di celebrazione più
    consona alla natura della Messa.
    Se pensiamo alla distinzione scolastica fra «esse simpliciter»,
    «bene esse» e «melius esse», potremmo dire – per esempio – che una
    Messa celebrata da un ministro valido ma illegittimo assicura l'esse
    simpliciter della Messa. Una Messa celebrata dal solo sacerdote valido e
    legittimo ne assicura il bene esse. Se alle stesse condizioni si aggiunge
    anche una devota partecipazione di fedeli abbiamo il melius esse.
    Fermo
    restando che ogni Messa, che è tale, ha un valore infinito in se stessa e
    quindi, se consideriamo la sua nuda essenza, non sono possibili
    paragoni. Se consideriamo invece la sua celebrazione concreta, allora
    possiamo auspicare, con la Chiesa, che essa venga celebrata nelle
    migliori condizioni che la situazione consente per una più piena
    manifestazione della sua natura comunitaria. Ed ecco infatti che il
    Codice pio-benedettino prescriveva che «Il sacerdote non celebri la
    Messa senza un ministro che lo assista e gli risponda»14. Qualcosa di
    analogo troviamo nei rapporti che legano il potere di giurisdizione con
    quello di ordine: il potere di giurisdizione episcopale può risiedere in un
    individuo non ordinato vescovo, tuttavia la tradizione della Chiesa è
    unanime nel ritenere che conviene che i due poteri si trovino riuniti.
    Così il nuovo Codice, che, da una parte, preferisce la Messa cum populo
    (can. 906); dall'altra, invita il sacerdote a celebrare quotidianamente,
    anche quando non è possibile che il popolo assista, ribadendo l'uguale
    liceità e dignità della celebrazione cum et sine populo (can. 904). L'IGMR
    non ha – come vedremo – un atteggiamento diverso.

    Vediamo ora i singoli punti contestati:
    1. Nel corso dell'IGMR troviamo spesso affermazioni secondo cui il
    soggetto della celebrazione della Messa è «la Chiesa» o «il popolo di
    Dio». L'art. 1 recita: «La celebrazione della Messa (...) è azione di
    Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente ordinato».
    Si tratterà di verificare qual è il senso oggettivo di questa
    espressione, facendo uso di un corretto metodo interpretativo, che
    tenga conto del contesto prossimo, costituito dai passi paralleli e,
    soprattutto, dalle note.
    Già l'espressione «popolo di Dio gerarchicamente ordinato», che
    ricorre spesso, ci fa capire che il soggetto non è un tutto
    indifferenziato, né designa esclusivamente i fedeli, ma la Chiesa, il
    «popolo di Dio» inteso come unità di gerarchia e fedeli.
    Fa capire
    anche che il termine «celebrare» è preso qui in senso analogico: esso
    comporta cioè una gradualità di predicazioni differenti. Il termine –
    come vedremo meglio in seguito – non ha assolutamente di suo, un
    significato univoco. I testi citati in nota richiamano un contesto in
    cui questa interpretazione diventa l'unica possibile. Così la nota 1
    dell'art. 1 rimanda a LG 11 e a PO 2. Ora in LG 11 leggiamo che, nel
    sacrificio eucaristico «tutti, sia con l'oblazione che con la santa
    comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però
    ugualmente, ma chi in un modo chi in un altro» (le sottolineature,
    anche in seguito, sono nostre). Ancora più importante è tutto il n. 2
    della PO, specialmente questi passaggi: «lo stesso Signore ...
    promosse alcuni ... come ministri, in modo che... avessero il sacro
    potere dell'ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati»;
    «il
    sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i sacramenti
    dell'iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare
    sacramento per il quale i presbiteri... sono segnati da uno speciale
    carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire
    in nome e nella persona di Cristo capo».
    L'art. 4 riprende la dottrina cattolica sulla legittimità della
    celebrazione individuale: «Sebbene la presenza e la partecipazione
    attiva dei fedeli, che esprimono più apertamente la natura ecclesiale
    della celebrazione, non si possono sempre avere, la celebrazione
    eucaristica mantiene sempre la sua efficacia e dignità, in quanto è
    azione di Cristo e della Chiesa, nella quale il sacerdote agisce sempre
    per la salvezza del popolo». Si afferma che la presenza dei fedeli non è
    necessaria per l'«esse» della celebrazione, ma per esprimere «più
    apertamente la sua natura ecclesiale», cioè per il suo «melius esse»
    nel senso spiegato prima. La contrapposizione con la concezione
    protestantica è netta. Se il soggetto della sacra azione è Cristo e la
    Chiesa, la sua celebrazione da parte del sacerdote è essenzialmente
    diversa da quella dei fedeli e segno di questa differenza specifica è
    che l'una è assolutamente indispensabile, l'altra solo conveniente.
    La nota 9 (PO 13) richiama la prassi cattolica tradizionale per cui si
    raccomanda la celebrazione quotidiana della Messa che, anche senza
    fedeli, «è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa».
    È rinnovata
    dunque implicitamente la condanna dell'atteggiamento secondo cui
    «è meglio che i sacerdoti "concelebrino" insieme con il popolo
    presente (cioè assistano come semplici fedeli) piuttosto che, nella
    assenza di esso, offrano privatamente il Sacrificio» (Mediator Dei:
    Insegnamenti pontifici, vol. 8: La liturgia (Roma 19592) n. 563).
    La stessa dottrina è presente nell'art. 14, secondo il quale «la
    celebrazione della Messa ha per natura sua un'indole "comunitaria"».
    La nota 20 allo stesso articolo (nel '70 diventa 22) rimanda a SC 27,
    in cui si afferma che la celebrazione comunitaria «è da preferirsi, per
    quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata (...)
    salva sempre la natura pubblica e sociale di qualsiasi Messa».
    Ancora una volta: la presenza di fedeli è da preferirsi perché
    manifesta meglio ciò che è nella natura della Messa e che quindi la
    Messa non perde anche quando è celebrata dal solo sacerdote. «Onde
    nessuna messa – dice EM 3d, l'altro documento citato dalla nota 20
    – ... è azione puramente privata, ma celebrazione della chiesa, in
    quanto società costituita in diversi ordini e funzioni, nella quale i
    singoli agiscono secondo il loro grado e i propri compiti».
    In definitiva, allora, dire che la Messa è «celebrazione di tutta la
    Chiesa» non è altro che affermare la sua intrinseca natura
    comunitaria.

    Una particolare importanza rivestono poi, per chiarire il significato
    autentico di questa espressione, gli artt. 54, 58, 60 e 62 con i relativi
    contesti.
    Art. 54: nella preghiera eucaristica il sacerdote «associa a sé» il
    popolo, in modo tale che «tutta l'assemblea dei fedeli si unisca con
    Cristo... nell'offerta del sacrificio». L'espressione «associare a sé»
    implica una differenza fra l'azione del sacerdote e quella dei fedeli.
    L'art. 60, che riporta la stessa espressione, è stato modificato nella
    versione del '70, con l'aggiunta di un inciso con cui viene specificato
    di quale differenza si tratta: il sacerdote «nella comunità dei fedeli è
    insignito del potere sacerdotale, derivatogli dall'ordine stesso, di
    offrire il sacrificio nella persona di Cristo». La nota 49, aggiunta
    anch'essa nel '70, chiarisce ancor meglio – rifacendosi a LG 28 – il
    significato di quell'«associare a sé»: «i presbiteri uniscano i voti dei
    fedeli al sacrificio del loro capo».

    Art. 62: «Nella celebrazione della Messa i fedeli costituiscono la gente
    santa, il popolo di acquisto e il regale sacerdozio, perché rendano
    grazie a Dio, offrano l'ostia immacolata, non soltanto per le mani del
    sacerdote, ma insieme con lui e imparino a offrire se stessi». Questa
    espressione è ripresa letteralmente da SC 48, citato in nota (n. 48:
    50 nel '70), che a sua volta fa eco alla Mediator Dei (cfr. La Liturgia,
    n. 569). L'altro documento citato nella stessa nota (EM 12) ci fornisce
    una precisazione ancora più dettagliata: «Certo, solo il sacerdote, in
    quanto rappresenta Cristo, consacra il pane e il vino. Tuttavia
    l'azione dei fedeli nell'eucaristia consiste nel fatto che essi, memori
    della passione, della risurrezione e della gloria del Signore, rendono
    grazie a Dio e offrono l'ostia immacolata non solo per le mani del
    sacerdote, ma uniti a lui ...».
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 15:50]
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    00 09/02/2011 17:58
    2. L'art. 7 prima maniera parla solo di «presidenza del sacerdote».
    Certamente questo articolo è il punto più discutibile di tutto il
    documento che stiamo esaminando, posto che ha – perlomeno –
    tutta l'apparenza di una definizione. «È stato riconosciuto – dice
    l'insospettabile p. Congar – che questo testo, pur non essendo
    assolutamente falso, non esprimeva abbastanza chiaramente e
    compiutamente ciò che la Chiesa ha coscienza di fare quando celebra
    l'eucaristia»15. È assai curioso – per esempio – che il recentissimo
    documento sul sacerdozio ministeriale richiami la concezione della
    Messa che sta a fondamento della confusione fra sacerdozio comune
    e ministeriale, per condannarla, con termini che riecheggiano l'art. 7
    prima maniera: «A tale conclusione (facoltà delle singole comunità di
    designare il proprio presidente conferendogli il potere di presiedere e
    consacrare) porta anche il fatto che la celebrazione dell'Eucaristia
    viene spesso intesa semplicemente come un atto della comunità
    locale radunata per commemorare l'ultima cena del Signore
    mediante la frazione del pane»16.
    È certamente vero che il termine «presidente dell'assemblea» è
    perfettamente legittimo e designa una funzione reale e importante del
    sacerdote, ma non coglie l'elemento essenziale
    . Tuttavia abbiamo in
    nota il richiamo a PO 5: «i presbiteri sono consacrati a Dio, mediante
    il vescovo, in modo che...»; «con la celebrazione della messa offrono
    sacramentalmente il sacrificio di Cristo». SC 33 ricorda che il
    sacerdote presiede l'assemblea nella persona di Cristo. Soprattutto
    abbiamo la modifica del '70 che porta l'espressione di SC 33 nel
    testo: «agisce nella persona di Cristo».
    Agire «in persona Christi» è un
    termine tradizionale che ha un significato obiettivo ben determinato:
    per leggerlo in un altro senso ci si dovrebbe appoggiare su qualcosa
    di almeno altrettanto oggettivo e di molto esplicito, che però manca.
    Non manca invece una interpretatio autentica susseguente: «"in
    persona Christi..." vuol dire di più che "a nome", oppure "nelle veci"
    di Cristo. "In persona": cioè nella specifica, sacramentale
    identificazione col "sommo ed eterno sacerdote", che è l'autore e il
    principale soggetto di questo suo proprio sacrificio, nel quale in
    verità non può essere sostituito da nessuno»17.

    3. Xavier da Silveira attribuisce una particolare importanza all'art. 10.
    In esso viene affermato che la preghiera eucaristica è indirizzata a
    Dio a nome di tutto il popolo. Ne seguirebbe che anche la
    consacrazione sarebbe pronunciata a nome del popolo. Ciò vorrebbe
    dire che il sacerdote agisce solo come delegato: è questo l'errore che
    aveva presente Pio XII quando ricorreva alla distinzione fra
    «immolazione» e «offerta» per chiarire che «l'immolazione incruenta
    per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole
    della consacrazione, Cristo è presente sull'altare in stato di vittima, è
    compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di
    Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli» (Mediator
    Dei: Insegnamenti pontifici, cit., n. 569).

    Ora, l'interpretazione del sacerdote come delegato contraddirebbe
    tutta la concezione presente nel testo e nel contesto: una
    contraddizione di questo peso potrebbe essere ammessa solo di
    fronte ad un testo formale ed esplicito, che non tolleri assolutamente
    nessun'altra interpretazione.
    Certamente l'assenza di precisazioni è da biasimare, però la
    affermazione che il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione
    a nome dei fedeli non è, in sé, inaccettabile. Anche in quel momento
    infatti il sacerdote compie un'azione pubblica, di natura comunitaria.
    Di per sé agire in nome di qualcuno non implica affatto fungibilità o
    rapporto di delega. Non implica cioè che chi è rappresentato possa –
    radicalmente – fare quello che fa chi lo rappresenta.
    Così possiamo
    dire in tutta verità che Cristo si è immolato a nostro nome. Altro
    valore ha il termine più specifico di «agire nella persona di Cristo».
    Esso implica identificazione sacramentale: è Cristo la causa
    principale, il sacerdote è solo causa strumentale. In tutta l'IGMR solo
    del sacerdote è detto che agisce in persona Christi, mai dei fedeli.
    Siccome poi Cristo agisce come Capo di un Corpo, anche le membra
    non sono assenti nel suo sacrificio. Di qui il carattere comunitario
    che affetta intrinsecamente la celebrazione eucaristica. Come
    abbiamo già visto, Piolanti non ha timore di affermare che la «stessa
    immolazione sacramentale ... è compiuta dal sacerdote validamente
    ordinato, non solo come "vicarius et minister Christi", ma anche
    come intermediario di tutti i fedeli e come membro qualificato
    (membruni electum) di tutto il Corpo Mistico». Così, per esempio,
    dire che un Re agisce a nome di tutto il suo popolo non implica
    affatto far propria una concezione democratica (in senso moderno)
    del potere.
    Mi pare che anche questa espressione si inserisca oggettivamente
    nella concezione «organica» descritta. Bisogna però ammettere ,che si
    presta molto facilmente ad interpretazioni devianti. L'ultimo
    documento sul sacerdozio ministeriale testimonia – una volta di più –
    come le cose siano andate effettivamente in questo senso, dando
    ragione a chi se ne era preoccupato fin dall'inizio. Ciò non toglie che
    il testo, nel suo senso oggettivo, non dica affatto quello che può
    suggerire ad una prima lettura.

    4. Il n. 12 si trova in stretto collegamento col n. 10. L'esigenza di
    pronunciare a voce alta le parole della consacrazione è una
    conseguenza del loro carattere «presidenziale». Inoltre l'espressione
    «natura sua» (per loro natura) comporterebbe una implicita condanna
    della pratica del canone silenzioso, pratica che viene difesa
    strenuamente dal Tridentino: «Se alcuno dicesse, che il rito della
    Chiesa Romana, per il quale si pronunciano a voce bassa parte del
    canone e le parole della consacrazione, deve essere condannato ...
    sia scomunicato» (Sessione XXII, can. 9: FdC, p. 426).

    Per l'aspetto dottrinale del problema ho già detto al numero
    precedente. Per quello disciplinare si osservi semplicemente che
    l'affermazione che a una cosa ne conviene un'altra secondo la sua
    natura non implica affatto la condanna di una pratica che non tiene
    conto di questa convenienza. Per la semplice ragione che ci possono
    essere altre ragioni di opportunità che la rendono prudente.
    Una cosa può appartenere all'essenza in due modi: come
    intrinsecamente o metafisicamente connessa, oppure come
    estrinsecamente o fisicamente connessa. La privazione di qualcosa di
    intrinsecamente connesso comporta l'annientamento dell'essenza
    (per esempio: la razionalità per l'uomo). La privazione di qualcosa di
    estrinsecamente connesso può essere giustificato in vista di un bene
    maggiore (per esempio: la rinuncia all'attività generativa «per il Regno
    dei cieli»).
    Così la pronuncia delle parole della consacrazione a voce bassa non
    affetta la validità della Messa, perché le parole conservano la loro
    significanza almeno per chi le pronuncia, pur essendo nella loro
    natura di essere udite da altri. Cioè: l'essere pronunciata ad alta
    voce non appartiene all'essenza metafisica della preghiera
    eucaristica. La Chiesa ha avuto le sue buone ragioni per adottare (a
    partire già dai primi secoli) questa pratica, soprattutto quella di
    evidenziare il carattere misterioso («ineffabile») di quello che le parole
    attuano.
    Esse operano non tanto per quello che significano agli
    orecchi degli astanti, quanto per la virtù soprannaturale di cui sono
    cariche per il mandato di Cristo: «fate questo in memoria di me». La
    Chiesa ha avuto buone ragioni anche per difendere questa pratica
    quando è stata messa in discussione dai protestanti. La concezione
    soggiacente era infatti questa: se non c'è ascolto e quindi ratifica non
    c'è validità. Tuttavia rimane vero che le parole della preghiera
    eucaristica sono fatte per essere udite, posto il carattere pubblico
    che essa ha in se stessa.
    Questa era la pratica primitiva18 e quella tradizionale delle liturgie
    orientali.
    5. La posizione del celebrante. Ecco un punto certamente discutibile
    della riforma liturgica19.
    Tuttavia lo stesso Xavier da Silveira
    constata come la pratica della Chiesa su questo punto non sia affatto
    esclusivista anche nel passato. Non si tratta dunque di una forma
    celebrativa in se stessa inaccettabile. Inoltre, pur privilegiando la
    celebrazione «versus populum», i documenti interpretativi non
    considerano neanche questa una pratica da introdursi in modo
    esclusivistico: «per una liturgia vivente e partecipata non è
    necessario che l'altare sia verso il popolo»20.

    6. Il Prologo aggiunto nel '70 fornisce certamente una importante
    messa a punto sulla natura del sacerdozio ministeriale:
    «Quanto alla natura del sacerdozio ministeriale, che è proprio del
    presbitero, in quanto egli offre il sacrificio nella persona di Cristo e
    presiede la assemblea del popolo santo, essa è posta in luce,
    nell'espressione stessa del rito, dal posto eminente del sacerdote e
    dalla sua funzione. I compiti di questa funzione sono indicati e
    ribaditi con molta chiarezza nel prefazio della messa crismale del
    giovedì santo, giorno in cui si commemora l'istituzione del
    sacerdozio. Il testo sottolinea la potestà sacerdotale conferita per
    mezzo dell'imposizione delle mani, e descrive questa medesima
    potestà enumerandone tutti gli uffici: è la continuazione della
    potestà sacerdotale di Cristo, pontefice della nuova alleanza»21.
    Tuttavia anche il Proemio non desiste dall'affermare che «la
    celebrazione dell'eucaristia è azione di tutta la Chiesa». Abbiamo
    visto che la concezione generale che sorregge questa espressione non
    può essere confusa con quella condannata da Pio XII: dire che il
    popolo di Dio è soggetto integrale della celebrazione non implica
    affatto una «concelebrazione» in senso stretto.

    Riguardo al ruolo di sacerdote e fedeli nella Messa si possono
    dare, in assoluto, tre possibilità:
    1) La Messa è tutta ed esclusivamente azione del Sacerdote. La
    partecipazione dei fedeli è pura assistenza e recezione passiva.
    2) La Messa è azione del Sacerdote e dei fedeli «alla pari». Il
    Sacerdote non è che un delegato dell'assemblea e non ha dunque poteri
    in proprio che lo distinguono essenzialmente dagli altri fedeli. È un
    «primus inter pares». L'azione del sacerdote e dei fedeli è
    «concelebrazione» nel senso tecnico più recente di questo termine22.
    3) La Messa è azione del Sacerdote e dei fedeli congiuntamente,
    ma non in modo indifferenziato. La partecipazione dei fedeli, reale e
    attiva, dipende essenzialmente dall'azione specifica del Sacerdote in
    modo tale che, senza di essa, non sussisterebbe la realtà a cui
    partecipare. Fra il sacerdozio del ministro e quello dei fedeli non esiste
    soltanto una differenza di grado, ma anche di essenza (cfr. LG 10).
    Di queste tre possibilità, la seconda è l'unica che riflette la
    posizione protestantica e non è quella espressa dal senso ovvio del
    nostro testo. In esso troviamo piuttosto la terza posizione. La differenza
    essenziale fra la seconda e la terza posizione è evidenziata
    inequivocabilmente dal fatto che il Sacerdote da solo è sufficiente per la
    celebrazione dell'Eucaristia, mentre i fedeli senza il Sacerdote ne sono
    incapaci. Questo significa che nel sacerdozio ministeriale sussiste un
    «plus» di potere irriducibile al sacerdozio comune.
    Non mi pare dunque esatto quanto dice Xavier da Silveira quando
    afferma che «in questo delicato problema, la questione non consiste
    soltanto, né soprattutto, nel sapere se il sacrificio è dipendente [affecté]
    in qualche modo dalla partecipazione dei fedeli. Essa consiste
    innanzitutto nel sapere se, quando partecipano, i fedeli concelebrano la
    messa con il prete. Vale a dire se anch'essi sono, come il prete, dei
    rappresentanti ufficiali di Nostro Signore per l'esecuzione delle funzioni
    liturgiche»23 (23). La questione infatti è proprio lì: se la presenza o meno
    dei fedeli non è tale da toccare la validità dell'Eucaristia, significa che il
    ruolo del Sacerdote è irriducibile a quello di un mero delegato e
    differisce sostanzialmente dal ruolo dei semplici fedeli, appunto
    «essentia et non gradu tantum» (LG 10).
    Si potrebbe, è vero, in pura ipotesi, immaginare che tutti i fedeli
    partecipino come «concelebranti» e non abbiano nessun potere in meno
    rispetto al sacerdote che celebra da solo. Nel qual caso questa azione
    potrebbe essere compiuta anche da ogni singolo fedele e se ciò non
    succede è solo per ragioni di ordine e di legittimità... Ma questa
    interpretazione è troppo in contrasto col senso ovvio del testo e contesto
    della IGMR per poter essere seriamente presa in considerazione.
    Certamente, nell'insieme, troviamo una sottolineatura insistente
    del ruolo dei fedeli, tanto da poter ingenerare l'impressione che la loro
    partecipazione sia indispensabile e sullo stesso piano di quella del
    sacerdote gerarchico. Una lettura più attenta però, che valuti il
    significato delle espressioni alla luce dei rimandi in nota e legga le
    espressioni equivocabili alla luce delle affermazioni nette e precise, ci fa
    comprendere che si tratta soltanto di una sottolineatura, che intende
    realizzare il massimo avvicinamento alle posizioni protestantiche nel
    rispetto però dell'ortodossia cattolica.
    Ritroviamo cioè quella scelta
    pastorale così ben descritta da Dalhaye24.
    Una parola ancora sul termine «celebrare». Xavier da Silveira
    attribuisce una grande importanza – come abbiamo visto – alle
    espressioni che pongono «tutta la Chiesa» o il «popolo di Dio» come
    soggetti della «celebrazione». Se «celebrare» dovesse significare sempre e
    inequivocabilmente qualcosa di equivalente a «conficere Eucharistiam»
    (consacrare, operare la transustanziazione, cioè l'azione specifica del
    sacerdote-ministro), allora quelle espressioni indicherebbero una
    autentica «concelebrazione» dei fedeli alla Messa, quella concelebrazione
    condannata da Pio XII.
    In realtà mi sembra dimostrato che «celebrare» ha, nel suo
    significato tradizionale, un valore più vasto, che ricopre tutto un
    insieme di azioni che vanno dalla immolazione all'offerta, dalla
    predicazione al festeggiamento, ecc.25. Questo significato è rimasto fino
    ad oggi; anche se l'accento si è andato spostando sull'azione specifica
    del sacerdote non ha mai preso un significato esclusivo in questo senso.

    Lo ha solo quando è usato in forma assoluta, per esempio: «Oggi ho già
    celebrato (ho già detto Messa)»26. La forma assoluta infatti, in un
    termine analogo, rende naturalmente l'«analogatum princeps».
    Quando poi il soggetto è il «popolo di Dio» lo si deve intendere nel
    senso che il termine ha ormai preso nel linguaggio teologico, canonistico
    e pastorale a partire dalla Lumen Gentium. Se prima del Concilio aveva il
    significato prevalente di «fedeli laici», oggi è diventato semplicemente
    sinonimo di «Chiesa». Questo fatto appare, per esempio, con tutta
    chiarezza, nel nuovo Codice, quando, sotto il titolo «De populo Dei», il
    Liber II rubrica insieme i «christifideles» (Pars I), la gerarchia (Pars II) e i
    religiosi (Pars III).
    1 Quando afferma che la Messa non è mai un sacrificio privato del sacerdote, ma
    pubblico, di tutta la Chiesa: «la Chiesa non condanna come private e illecite quelle
    Messe, nelle quali il sacerdote soltanto si comunica sacramentalmente, ma anzi le
    approva e le raccomanda, in quanto anche quelle Messe devono ritenersi veramente
    comunitarie, sia perché in esse il popolo partecipa spiritualmente, sia perché sono
    celebrate dal ministro pubblico della Chiesa non solo per sé, ma anche per tutti i fedeli
    appartenenti al Corpo di Cristo» (Sess. XXII, cap. 6: Fdc, p. 423). Quando dice che
    Cristo ha lasciata il sacrificio eucaristico alla Chiesa (Ibid., cap. 1: FdC, p. 419) e che,
    in questo sacrificio, Lui stesso è immolato dalla Chiesa per mezzo dei sacerdoti (Ibid.,
    cap. 1: FdC, p. 420).
    2 Si possono consultare: A. PIOLANTI, Il mistero eucaristico, cit., pp. 521-546, con
    ampia bibliografia, e S. TROMP, De Christo capite (Pontificia Università Gregoriana,
    Roma 1960) pp. 323-338. Utile, soprattutto per l'abbondante documentazione di Santi
    Padri, teologi pre e post-tridentini: Y.M-J. CONGAR, Per una teologia del laicato
    (Morcelliana, Brescia 1967) pp. 248-310.
    3 A. XAVIER DA SILVEIRA, Op. cit., p. 31.
    4 Ibid., pp. 117-118.
    5 Ibid., p. 32.
    6 Ibidem.
    7 Cfr. p. 33 con la nota 59.
    8 Cfr. Mediator Dei, in: Insegnamenti pontifici, vol. 8: La Liturgia, cit., n. 563.
    9 Cfr. A. XAVIER DA SILVEIRA, cit., pp. 102-105.
    10 Cfr. URBANO VIII, Sancta mater, 5 marzo 1633, cit. in: S. TROMP (edit.), Litterae
    encyclicae Pius Papa XII de mystico Iesu Christi Corpore deque nostra in eo cum Christo
    coniunctione «Mystici Corporis Christi» 29 iun. 1943 (Pontificia Università Gregoriana,
    Roma 19634) p. 122; PIO XII, Lett enc. Mystici Corporis, in: Insegnamenti pontifici, vol.
    12: La Chiesa (Roma 1961) nn. 1046.1083; IDEM, Lett. enc. Mediator Dei, 20 novembre
    1947, in: Insegnamenti pontifici, vol. 8: La Liturgia, cit., nn. 565, 569-572.
    11 A. PIOLANTI, Op. cit., pp. 538. La sottolineatura è nostra.
    12 Op. cit., p. 334.
    13 Questa differenza si può, analogicamente, paragonare a quella fra la
    concezione democratica moderna del potere, per cui il soggetto originario è il popolo
    come somma di individui e quella tradizionale-suareziana, secondo cui è lo stesso
    popolo, ma come unità organica. Fra Chiesa e società civile permane naturalmente la
    fondamentale differenza che in questa c'è libertà di espressione concreta della forma di
    governo, mentre in quella essa è prestabilita dal divin Fondatore.
    14 Can 813, 1. La norma si ritrova anche nel nuovo Codice, pur con una certa
    attenuazione che era però già entrata nella pratica: «Il sacerdote non celebri il
    Sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per
    giusta e ragionevole causa» (Can. 906).
    15 La crisi nella Chiesa e Mons. Lefebvre (Brescia 1976), p. 32, nota 12. Cfr.
    anche J.M. SUSTAETA, Misal y Eucaristia (Valencia 1979), p. 197.
    16 Lettera «Sacerdotium ministeriale» su questioni concernenti il ministro
    dell'Eucaristia del 6 agosto 1983, parte II, n. 3: L'Osservatore Romano, 9 settembre
    1983.
    17 GIOVANNI PAOLO II, Dominicae Cenae, 24 febbraio 1980: EV 7, 186; testo ripreso
    nel documento citato alla nota precedente: parte II, n. 4.
    18 Cfr. M. RIGHETTI, La Messa ..., cit., pp. 245 ss.
    19 Si vedano le documentate critiche di KLAUS GAMBER, Der Altarraum in der Ostund
    Westkirche in seiner geschichtlichen Entwicklung, in Una Voce Korrespondenz 2
    (1976) pp. 123-132; IDEM, La riforma della Liturgia Romana. Cenni storici –
    Problematica, (Una Voce, Roma 1980) pp. 52-60; Card. JOSEPH RATZINGER, Das Fest
    des Glaubens (Einsiedeln 1981) pp. 121-126. In sostanza i critici fanno notare che: 1)
    La celebrazione «versus populum» non può essere qualificata come «primitiva», in
    quanto l'antichità conosce soltanto un comune rivolgersi a Oriente (o verso la croce
    che si trova sulla parete orientale) di sacerdote e fedeli; 2) Questa forma di
    celebrazione comporta – nel contesto attuale – il rischio di mettere la comunità al
    centro, dimenticando l'orientamento trascendente del rito.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 16:40]
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    20 Card. G. LERCARO, Presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem
    liturgicam, Lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali, 25 gennaio 1966, n. 6:
    Notitiae 18 (1966) p. 160.
    21 IGMR, Proemio, n. 4: EV 3, 2022. Il testo del Prefazio dice: «Con l'unzione dello
    Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza,
    e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli non
    soltanto comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, ma con affetto di
    predilezione sceglie alcuni tra i fratelli e mediante l'imposizione delle mani li fa
    partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio
    redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo,
    lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti».
    22 Per il senso più antico (prefisso «con» che designa intensificazione del verbo), si
    veda: BENEDICTA DROSTE O.S.B., «Celebrare» in der römischen liturgiesprache: Eine
    liturgie-theologische Untersuchung (Max Hueber Verlag, München 1963) p. 90.
    23 Op. cit., p. 112. Mi pare che l'autore non tenga debitamente conto del fatto che
    il carattere battesimale conferisce una reale «deputazione al culto». Se primariamente
    esso abilita alla ricezione passiva dei sacramenti, secondariamente abilita anche ad un
    ruolo attivo nel culto, per cui anche il fedele offre – mediante il sacerdote ministro – la
    vittima eucaristica, ed è dunque, seppure subordinatamente, rappresentante ufficiale
    di Cristo nel culto. La posizione di fondo di Xavier da Silveira risulta assai
    minimalistica nei confronti del sacerdozio comune. Sostenibile forse come opinione
    teologica, non può però mai assurgere a «dottrina cattolica» e, men che meno, a dogma
    definito, da contrapporre ad un documento del Magistero.

    24 Cfr. Introduzione, p. 11, nota 9.
    25 «Abbiamo dimostrato che la parola "celebrare" a partire dai primi tempi della
    latinità classica fino alla lingua liturgica cristiana è rimasta intatta nel suo significato
    fondamentale. "Celebrare" è un agire comunitario, pubblico, che si perfeziona
    soprattutto in una certa solennità e si stacca dalla quotidianità»
    (B. DROSTE, cit., p.
    196). «In "celebrare" sono visibili il significato di "congregare" e "in unum convenire",
    l'agire creativo del "facere" e l'intensività dell'"agere", quello sempre rinnovantesi del
    "recurrere" e il ricordo affettuoso che si può rendere con "recolere". In rapporto
    all'oggetto corrispondente la parola si carica del senso di sacrificio o di rendimento di
    lode, con l'aspetto del "predicare" ed "esultare"» (Ibid., p. 197). È interessante rilevare
    che anticamente il soggetto di "celebrare" era per lo più al plurale: «Soggetto del
    "celebrare" è nei Sacramentari il più delle volte "nos", oppure questo è contenuto nella
    forma verbale "celebramus – celebremus"... Si tratta del "noi" della Chiesa e proprio
    quella hic et nunc riunita che compie il sacrificio, rappresenta il mistero, festeggia la
    solennità» (Ibid., p. 75).

    26 Cfr. Lessico Universale Italiano (Treccani), volume IV (Roma 1970) sub voce.
    L'espressione «dir Messa» indica inequivocabilmente, nell'italiano corrente, l'azione
    specifica del sacerdote. Il fondamento teologico esiste: solo il sacerdote «dice» le parole
    essenziali, quelle della consacrazione. Così «sentir Messa» rende univocamente il ruolo
    del fedele.


    Capitolo
    Settimo


    NOVUS ORDO MISSAE
    E INFALLIBILITÀ

    Il problema dei rapporti fra NOM e infallibilità del Magistero
    ecclesiastico è un problema assai complesso, perché non esiste ancora
    una dottrina teologica compiutamente sviluppata sull'infallibilità
    e –
    soprattutto – sui criteri per discernere la sua portata concreta. C'è una
    certa anarchia, almeno nel linguaggio. Naturalmente questa complessità
    si rivela quando ci si pone sul piano della riflessione più approfondita
    sull'atto di fede e sulla sua intrinseca dimensione ecclesiale, perché
    altrimenti il fedele vive naturalmente questa infallibilità («prius vita
    quam doctrina» dice san Tommaso...). Il problema è quindi certamente
    risolvibile almeno a grandi linee, che sono quelle che ci interessano
    praticamente.
    È tesi pacifica che la Chiesa è infallibile nelle leggi universali.
    Comunemente si dice che c'è infallibilità quando c'è «definizione
    dogmatica». La Chiesa, si ripete, è infallibile quando «definisce». Tuttavia
    i teologi, in ossequio alle fonti della Rivelazione, hanno sempre esteso
    l'infallibilità oltre il campo di una definizione dogmatica in senso stretto.
    Anche oltre il campo di un magistero strettamente dottrinale.
    Normalmente, nei manuali classici, si ritengono oggetto «secondario»
    (essendo oggetto «primario» le verità formalmente rivelate) di infallibilità:
    ─ Le verità speculative connesse con i dati rivelati, cioè quelle dalla cui
    negazione, logicamente e metafisicamente segue la negazione della
    verità rivelata.
    ─ I fatti dogmatici come la legittimità di un Concilio o il senso
    ortodosso o eterodosso di un testo umano.
    ─ Le leggi universali che promanano dalla suprema autorità della
    Chiesa, come le leggi contenute nel Codex Iuris Canonici, le leggi
    liturgiche, le canonizzazioni dei santi, le approvazioni degli ordini
    religiosi1.
    Non mi pare seriamente contestabile che il NOM debba essere
    rubricato come legge universale. Il termine «universale» non deve trarre
    in inganno. Nell'uso tradizionale esso ha un significato più qualitativo
    che quantitativo2. L'obiezione tuttavia è stata sollevata (non però da
    Xavier da Silveira).
    Si è negato in particolare che si possa parlare a suo proposito di
    «legge della Chiesa». Sono stati avanzati dubbi di carattere formale:
    esisterebbero vizi decisivi nella sua promulgazione, oltre che di carattere
    sostanziale: è un provvedimento che non è ordinato al bene comune,
    quindi non è una legge3.
    Ora, che all'inizio si sia potuto produrre un dubbio sulla
    autenticità della Missale Romanum a causa di tante cose poco chiare
    nella forma della promulgazione, è anche comprensibile4, ma, una volta
    che l'autorità, almeno con la sua pratica di ormai quasi tre lustri, ha
    mostrato chiaramente di considerare come sua questa Costituzione
    Apostolica, il dubbio non ha più ragione di esistere.

    D'altra parte, promulgato o non promulgato, questo rito è
    utilizzato dalla totalità morale della Chiesa docente. Accettato a
    malincuore da una parte forse considerevole di quest'ultima, ma sempre
    ritus approbatus di quell'approvazione minimale che consiste nel
    considerarlo almeno come utilizzabile.
    Passando dalla forma alla sostanza, osserviamo che la valutazione
    di un atto di magistero, in quanto magistero, deve essere fatta secondo
    criteri innanzitutto esterni (è veramente l'autorità che parla o legifera?
    Qual è l'entità del suo impegno? ecc.), altrimenti si accantona
    puramente e semplicemente il principio di autorità. Dire che un atto di
    magistero non è infallibile perché è sbagliato vuol dire semplicemente
    vanificare il magistero nel momento in cui lo si afferma.
    La perplessità
    riguardo al contenuto mi spingerà a verificare più da vicino le condizioni
    in cui tale insegnamento si è dato. Verificate le condizioni che mi
    assicurano dell'infallibilità, dovrò allora ritornare sulle mie perplessità
    per espungerle in nome dell'obedientia fidei. Fermo restando che in ogni
    caso – nel caso sia di insegnamento infallibile, sia di insegnamento
    soltanto autentico – la presumptio veritatis è tutta dalla parte del
    magistero. Sostenere il contrario è, ancora una volta, svuotare la parola
    «autorità» di ogni suo contenuto reale.

    Quindi, che una legge universale (garantita – secondo la dottrina
    comune – dall'infallibilità) sia contro il bene comune, lo devo valutare,
    da cattolico, sulla base, prima di ogni altra considerazione, della sua
    «universalità», reale o fittizia.
    Obiezione più consistente è quella avanzata da Xavier da Silveira,
    che chiama in causa l'intenzione dell'autorità.
    L'infallibilità è prerogativa che accompagna l'impegno supremo
    dell'autorità, il suo impegno «pieno». Questo impegno è un «atto umano»
    che deve essere libero, consapevole, per essere veramente tale. Ci deve
    essere cioè l'intenzione di pronunciarsi compiutamente perché ci sia
    l'infallibilità. Quando l'autorità stessa, interpretando il suo gesto,
    esclude questa intenzione, è chiaro che, nonostante le eventuali
    apparenze in contrario, l'infallibilità deve essere parimenti esclusa.
    Innanzitutto ci pare che il problema sia visto in un'ottica
    eccessivamente volontaristica. L'intenzione che è qui decisiva, non è
    l'intenzione puramente soggettiva, ma quella che si manifesta
    esteriormente in un atto discernibile e interpretabile in se stesso. La
    interpretatio autentica ha ragion d'essere quando l'atto, in se stesso, è
    indeterminato e nella misura in cui lo è. Non quando, per la sua stessa
    natura esige un impegno ben preciso. Così quando il Magistero
    interviene in determinate materie delicate, che sono – a prescindere da
    condizioni esterne – di interesse vitale, quale il modo con cui deve
    essere celebrato il Mysterium fidei, l'entità dell'impegno è tutta
    deducibile dall'importanza della materia.
    Entità tanto più «densa», quanto più ci si trova al centro del
    mistero5. Un po' diverso è il caso di un testo puramente dottrinale, la
    cui incidenza nella vita della Chiesa è influenzata in modo determinante
    dall'importanza che l'autorità stessa, o anche tutta la Chiesa – sempre
    sotto il controllo dell'autorità – vi attribuisce.
    In pratica poi il punctum stantis et cadentis è tutto costituito da
    un intervento di Paolo VI: l'interpretatio autentica, appunto, che
    escluderebbe l'impegno supremo e quindi l'infallibilità.
    «Il rito e la rubrica relativa non sono di per sé una definizione
    dogmatica, e sono suscettibili di una qualificazione teologica di valore
    diverso a seconda del contesto liturgico a cui si riferiscono; sono gesti e
    termini riferiti ad un'azione religiosa vissuta e vivente di un mistero
    ineffabile di presenza divina, non sempre realizzata in forma univoca,
    azione che solo la critica teologica può analizzare ed esprimere in
    formule dottrinali logicamente soddisfacenti»6.
    In questo testo però non troviamo tanto l'enunciazione di una
    intenzione, quanto piuttosto la constatazione di un fatto: un rito non è
    una formulazione dogmatica. L'impegno del magistero deve dunque
    essere letto in esso tenendo conto della sua natura.
    Innanzitutto un rito ha una finalità eminentemente pratica. Ha
    caratteristiche sue proprie che lo differenziano nettamente sia da una
    definizione dogmatica, sia da un manuale di catechesi o di teologia. Da
    questa sua specifica natura discende che una certa ambiguità è insita
    strutturalmente nelle sue espressioni (si pensi, per esempio, alle
    rubriche del Messale tradizionale che contemplano ripetute benedizioni
    sulle sacre specie già consacrate, con l'uso di formule che lascerebbero
    supporre una consacrazione non avvenuta). Ambiguità relativa,
    naturalmente, rispetto alla precisione di una enunciazione dogmatica o
    di una formula catechistica. Ambiguità che deriva dall'uso di un
    linguaggio più simbolico che concettuale. Dunque, quando si esamina il
    suo valore teologico, occorre distinguere: – il valore teologico suo
    proprio, secondo la sua finalità specifica; – la deducibilità di dogmi dai
    suoi testi e dalle sue rubriche. Mi pare non abbia del tutto torto
    Vagaggini quando dice che dalla liturgia (isolatamente presa) sono
    pochissimi i dogmi che si possono dedurre con certezza7.
    La sua infallibilità dottrinale riflessa è quindi ridotta. Diversa è
    invece l'infallibilità che gli compete in relazione al suo valore teologico
    proprio (una infallibilità nell'ordine pratico) che però, per essere
    compreso, necessita di essere inserito in un vasto contesto. Parliamo
    dell'infallibilità nell'ordine dottrinale e dell'infallibilità nell'ordine
    pratico, perché l'assistenza divina – che fonda l'infallibilità – deve essere
    considerata una nozione analogica, che si applica diversamente a
    materie diverse8.
    L'infallibilità non si riduce senz'altro alle definizioni dogmatiche9.
    Il magistero è sempre assistito, anche quando non c'è definizione in
    senso stretto e anche quando non si può parlare propriamente di
    infallibilità. La ragione ultima dell'assenso dovuto al magistero
    autentico non è tanto il suo essere infallibile, quanto il suo essere
    divinamente assistito: «Chi ascolta voi, ascolta me»
    (Lc 10, 16).

    Seguendo le orme del card. Journet distinguiamo il potere della
    Chiesa in dichiarativo e canonico. Il potere dichiarativo è il potere di
    dichiarare, svelare, manifestare le decisioni che emanano direttamente
    da Dio: ciò che Dio ha rivelato. Dio si degna di parlarci immediatamente
    e la sua Verità e la sua Autorità sono la causa, il fondamento, il fine,
    dell'adesione che diamo alla sua parola. Dio però – nella logica
    economica che ha scelto – vuole servirsi di un mezzo creato (la Chiesa)
    per manifestarci quali sono le verità alle quali vuole che aderiamo. Qui
    la Chiesa interviene come semplice conditio sine qua non, necessaria per
    metterci in contatto con la parola divina. Il potere canonico è il potere di
    fondare, stabilire, promulgare delle decisioni immediatamente
    ecclesiastiche. Esso si distingue dal potere dichiarativo perché, mentre
    questo agisce solo come condizione manifestatrice del diritto
    immediatamente divino, il potere canonico agisce come fondamento del
    diritto immediatamente ecclesiastico, che non è che mediatamente
    divino. Qui la Chiesa non è soltanto condizione, ma vera e propria
    causa, anche se sempre assistita dalla Causa suprema che è Dio.
    Questo potere canonico è esigito dal potere dichiarativo stesso, si
    trova come contenuto in esso. Il potere di dichiarare con autorità le
    decisioni immediatamente divine contiene il potere di legiferare, cioè di
    promulgare le decisioni puramente ecclesiastiche o canoniche, come il
    ramo contiene le foglie. Cristo, che ha affidato ai suoi ministri il compito
    di diffondere la buona novella, non può averli lasciati senza i poteri
    necessari per eseguirlo concretamente e immediatamente10.
    Dunque:
    dichiarativo: dichiara la
    Rivelazione
    speculativa
    pratica
    Potere
    canonico: dispone tutto ciò che
    rende accessibile la Rivelazione
    speculativa
    pratica
    È ovvio che la Chiesa deve essere assolutamente infallibile
    quando dichiara che una proposizione (speculativa o pratica) è
    contenuta nel deposito della Rivelazione. Ma non si può pensare che
    l'infallibilità si riduca a questo. La Chiesa deve essere infallibile anche
    in tutte quelle provvidenze che sono atte a condurre alla Rivelazione o
    ad allontanare gli ostacoli che ne impediscono o offuscano l'accesso.
    Cosa servirebbe avere a disposizione il nutrimento con cui soccorrere
    degli affamati se non si fosse in grado di salvaguardare la distribuzione?
    La Chiesa è maestra riguardo al vero rivelato a cui si deve aderire,
    vero speculativo e pratico (fede e costumi). Ma la Chiesa è anche guida a
    cui ci si deve poter affidare per vivere concretamente la fede e i costumi
    insegnati da Dio.
    Riguardo a questo potere canonico i teologi hanno sempre distinto
    le leggi universali e le leggi particolari. Journet dal canto suo parla di
    «misure di interesse generale» e «misure di interesse particolare». Il
    riconoscimento di infallibilità per queste «misure di interesse generale» è
    sempre stato unanime nella Chiesa. Troppo stretto è il legame che
    intrattengono la santità e indefettibilità della Chiesa. «La Chiesa – dice
    Gregorio XVI – che è la colonna e il sostegno della verità e che
    manifestamente riceve di continuo dallo Spirito Santo l'insegnamento di
    ogni verità, non può comandare, né concedere, né permettere una cosa
    che sia a detrimento della salute delle anime, e che torni a disprezzo o a
    danno di un sacramento istituito da Gesù Cristo»11.
    Evidentemente
    queste misure non sono infallibili esattamente nello stesso modo di una
    dichiarazione secondo cui tale dottrina è rivelata da Dio (definizione
    dogmatica). In questo caso abbiamo qualcosa di strettamente
    irreformabile (anche se l'enunciazione – rispettando rigorosamente
    l'identità di senso – può essere perfezionata). La Rivelazione infatti si è
    chiusa con la morte dell'ultimo degli Apostoli. Una legge invece, che
    ordina una materia contingente è sempre riformabile, in quanto le
    ragioni che l'hanno resa opportuna in un contesto, possono non valere
    più in un contesto mutato. L'infallibilità allora sarà assoluta
    «radicalmente». Cioè i presupposti dogmatici della legge (per scoprire i
    quali è necessaria spesso l'esplorazione di un vasto contesto) saranno
    certamente veri. La dottrina riflessivamente contenuta nella legge deve
    essere vera, perché, anche se lo scopo della legge non è direttamente,
    quello di promulgare la dottrina rivelata, tuttavia si muove nell'ambito
    della dottrina rivelata e ne dipende.
    «La Chiesa – dice Melchiorre Cano – quando stabilisce in materie
    gravi e concernenti la formazione di costumi cristiani leggi riguardanti il
    popolo intero, non può mai ordinare niente di contrario al Vangelo o alla
    ragione naturale (...) come non può definire vizioso ciò che è onesto, né
    onesto ciò che è vizioso, così non può, promulgando le sue leggi,
    approvare qualcosa contraria al Vangelo o alla ragione. Se, mediante un
    giudizio espresso o stabilendo una legge, approvasse ciò che è disonesto
    o riprovasse ciò che è onesto, un errore di tale natura non solo sarebbe
    una peste e un disastro per i fedeli, ma in questo caso la Chiesa si
    opporrebbe in un certo modo alla fede, che approva ogni virtù e
    condanna ogni vizio. Inoltre, poiché Cristo ci ha ordinato di obbedire
    alle leggi della Chiesa dicendo: "fate tutto quello che vi diranno..." e:
    "Chi ascolta voi ascolta me ...", se la Chiesa sbagliasse sarebbe Lui
    l'autore dei nostri errori»12. San Roberto Bellarmino dice che è
    impossibile che il Papa possa sbagliare «nei precetti indirizzati a tutta la
    Chiesa» e concernenti «le cose necessarie alla salvezza, o per sé buone o
    cattive».
    Non potrebbe mai succedere, per esempio, che il Papa «si sbagli
    prescrivendo qualcosa di contrario alla salvezza, come la necessità della
    circoncisione e la osservanza del sabato, o proibendo qualcosa di
    necessario alla salvezza, come il battesimo o l'eucaristia»13. Le
    testimonianze si potrebbero moltiplicare.
    Bisogna osservare come Cano, mentre afferma senza reticenza la
    dottrina sull'infallibilità delle leggi universali, dice anche che non
    intende approvarle tutte e che ne conosce alcune mancanti di prudenza
    e di misura. Così i teologi posteriori – come Suarez e Giovanni di S.
    Tommaso – sono giunti a distinguere la sostanza delle leggi
    ecclesiastiche dalla loro prudenza
    (cioè dall'applicazione, circostanze,
    rigore, opportunità, molteplicità e altre componenti più legate a fattori
    contingenti) ed hanno affermato che le leggi ecclesiastiche sono
    infallibili nella loro sostanza.
    Journet precisa questo concetto dicendo
    che è nel loro fondamento, nel loro principio, nella loro radice che sono
    infallibili in modo assoluto.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:17]
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    00 09/02/2011 18:01
    Il discorso riguardo alla prudenzialità si fa necessariamente più
    complesso e più sfumato. Anche qui dobbiamo ammettere un'assistenza
    divina, assistenza divina che deve garantire questo risultato minimale:
    che non possano causare positivamente il male. La ragione è in stretta
    coerenza con quanto detto: una legge talmente inopportuna da essere
    positiva fonte di perversione sarebbe incompatibile con la santità della
    Chiesa e le promesse di Cristo, e a nulla varrebbe una sua eventuale,
    astratta, correttezza dottrinale. L'assistenza è promessa alla Chiesa non
    per risolvere i problemi degli apologeti del futuro, ma per garantire la
    sua missione nella quotidiana concretezza della vita («Io sarò con voi
    tutti i giorni...» Mt. 28, 20).

    Tuttavia dire che una misura di interesse generale non può essere
    intrinsecamente cattiva, sia quanto al fondamento, sia quanto alla
    prudenzialità, non vuol dire che rappresenti sempre quanto di meglio
    possibile nelle circostanze. Gli scopi fondamentali della Chiesa debbono
    risultare assicurati, ma le mende possono anche essere relativamente
    gravi.
    Una legge può essere erronea o corretta, buona (tale da assicurare
    il fine per cui è stata promulgata) o cattiva (tale da ostacolarlo
    positivamente),
    ma la sua «prudenzialità» tollera il più o meno. Le fonti
    della Rivelazione e il Magistero, oltre che le esperienze della storia, non
    suppongono affatto un'assistenza divina tale da garantire la massima
    prudenzialità delle misure di interesse generale della Chiesa. Può
    essere, per esempio, che, rispetto ad una normativa precedente, la legge
    rappresenti un passo indietro, anche importante. Nulla ci obbliga a
    credere il contrario. «Come Dio non vien meno nelle cose necessarie,
    così non abbonda in quelle superflue»14. Anche questo punto, pur con
    diversità di sottolineature, costituisce dottrina comune15.
    Invece le cose cambiano parecchio per le misure di ordine
    particolare. L'assistenza divina non le garantisce una per una, ma
    soltanto nell'insieme. Se una deficienza nell'atto singolo è possibile, ciò
    avviene «per accidens», «singillatim» e non «per sé», «ut in pluribus».
    Altrimenti ritorneremmo ad attribuire alla Chiesa una deficienza
    intrinseca.
    Bisogna però dissipare un equivoco possibile sul termine «di
    interesse particolare». Esso si riferisce alla materia, di carattere più
    contingente, non tanto al soggetto da cui emana (autorità particolare) o
    al fatto che interessa solo una parte della Chiesa. Qui si parla
    dell'assistenza promessa alla Chiesa universale. Una chiesa particolare
    gode di questa assistenza solo nella misura in cui agisce in comunione
    con la Chiesa universale,
    di cui centro e criterio è Pietro. Una parte della
    Chiesa, in quanto si contrappone al tutto, non gode di nessuna
    assistenza. Su di lei le porte dell'Inferno possono prevalere.
    L'ambito dell'infallibilità non è ancora finito: l'assistenza divina
    investe infatti tutto il complesso dell'azione della Chiesa, anche se in
    modo non univoco ma differenziato. Il principio che comanda la sua
    gradualità è questo: essa si fa tanto più debole quanto minore è
    l'impegno e quanto più ci si allontana dai fini propri della Chiesa.
    È ovvio che gli atti di quella che potremmo chiamare la «politica»
    della Chiesa (e la sua diplomazia) non sono garantiti in se stessi.
    Certamente molto meno degli atti, anche particolari, di interesse
    direttamente religioso. Anche qui però il fine della Chiesa deve essere
    raggiungibile: cioè deve essere garantita almeno la sopravvivenza della
    Chiesa universale. E quello che Journet chiama potere «biologico».
    L'assistenza è qui minimale: garantisce la vita della Chiesa nella sua
    consistenza sociologica ed è infallibile quanto a questo effetto. La Chiesa
    è indefettibile non soltanto quanto alla dottrina rivelata e ai sacramenti,
    ma anche quanto alla sua realtà sociale e istituzionale. Anche se questo
    evidentemente non vuol dir nulla sulla sua consistenza
    quantitativamente considerata: nulla impedisce – di per sé – che subisca
    forti ridimensionamenti nell'estensione e nei membri16.
    quanto al fondamento
    dottrinale:
    di assistenza assoluta
    interesse
    generale
    quanto alla prudenzialità:
    assistenza tale da
    garantire l'ottenimento
    del fine
    misure atte
    a rendere
    accessibile la
    Rivelazione
    di interesse particolare:
    assistenza che garantisce
    la loro riuscita «ut in pluribus» POTERE
    CANONICO
    misure per assicurare l'esistenza empirica
    della Chiesa: assistenza globale che garantisce
    per lo meno la sopravvivenza della Chiesa
    Il NOM ci fornisce un esempio patente di «misura di interesse
    generale» o legge universale. Si tratta infatti della regolamentazione
    della S. Messa, per cui il potere canonico stabilisce le norme concrete
    per attuare il comando di Cristo: «fate questo in memoria di me».
    Universale quanto alla causa finale: il bene comune che intende
    garantire è quello supremo dell'Eucaristia. Si può dire che non esiste
    punto più nevralgico e componente più intima del bene comune della
    Chiesa, se è vero, come è vero, che «la Eucaristia fa la Chiesa».
    Legge universale quanto alla causa formale: un rito liturgico è
    certamente una legge in senso proprio e una legge di carattere
    permanente.
    Universale quanto alla causa efficiente: emana dalla suprema
    autorità della Chiesa.
    Universale quanto alla causa materiale: interessa i fedeli di rito
    romano (si può dire di tutti i riti latini). È la parte materialmente più
    cospicua della Chiesa ed è considerata moralmente (per la «potior
    principalitas» della Chiesa di Roma e la sua conseguente esemplarità)
    come coincidente con la Chiesa universale17.
    Anche ad esso quindi compete quell'assistenza che abbiamo visto
    essere propria di ogni «misura di interesse generale».
    Assistenza assoluta e quindi infallibilità assoluta quanto al
    fondamento, alla radice dottrinale. Assistenza solo relativa quanto alla
    prudenzialità: cioè tale da garantire l'ottenimento dello scopo specifico
    del rito. Infallibilmente dunque, in virtù di questo rito, l'Eucaristia sarà
    degnamente offerta a Dio come sacrificio e efficacemente distribuita
    come sacramento.
    Poiché le disposizioni rituali, anche accessorie,
    hanno un notevole effetto sulle disposizioni atte a ricevere
    fruttuosamente le grazie della celebrazione sacramentale, una loro
    maggiore o minore perfezione riveste una notevolissima importanza,
    senza giudicare con ciò la validità e l'intrinseca dignità della «substantia
    sacramenti». In altri termini: se la legge è sostanzialmente «buona» non
    è detto che sia la migliore possibile. Essa può portare in sé delle mende
    anche gravi, che impongono una sua sollecita revisione.

    1 Cfr. SALAVERRI, De Ecclesia Christi, in: Sacrae theologiae summa, vol. I (Madrid
    19625), pp. 721-724. Per oggetto secondario o indiretto dell'infallibilità si intende tutto
    ciò che è necessario per assicurare la trasmissione dell'oggetto primario, che sono le
    verità rivelate.
    2 Cfr. Ch. JOURNET, L'Eglise du Verbe incarné, vol. I (Brouges 19623), pp. 473-
    474. Nel corso di questa esposizione ci serviremo abbondantemente delle pagine lucide
    e penetranti che questo autore ha dedicato al problema del magistero infallibile. Penso
    che siano, a tutt'oggi, quanto di più completo sia stato scritto dal punto di vista
    speculativo.
    3 «Come può essere antipastorale una legge disciplinare ecclesiastica universale,
    quale è quella che ha per oggetto la nuova Messa? Innanzitutto rovesciamo la frase:
    siccome è antipastorale – et contra factum non valet argumentum – non può essere
    oggetto di legislazione ecclesiastica, vuoi universale, vuoi particolare: la legge non può
    avere per oggetto che il bonum communitatis» (Pro Missa Traditionali, suppl. al n. 58 di
    Notizie, pro manuscripto, Torino s.d., p. 12).
    4 Cfr. L. SALLERON, Solesmes e la Messa (Roma 1976).
    5 Quindi le diverse parti di un rito sacramentale hanno valore diverso secondo il
    legame oggettivo che intrattengono con la substantia sacramenti.
    6 Allocuzione all'udienza generale del 19 novembre 1969: Insegnamenti di Paolo
    VI, vol. VII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1970, p. 1123.
    7 Cfr. Il senso teologico della liturgia, cit., pp. 493-496 e 535-536.
    8 Cfr. CH. JOURNET, Op. cit., p. 433.
    9 «Infatti anche se si trattasse di quella sottomissione da prestarsi attualmente
    alla Fede divina, non dovrebbe limitarsi tuttavia a quanto è stato definito con pubblici
    decreti dai Concili ecumenici o dai Romani Pontefici di questa Sede, ma deve
    estendersi anche a quanto è comunicato come rivelato da Dio per magistero ordinario
    di tutta la Chiesa sparsa nel mondo, e quindi per consenso universale e costante è
    ritenuto dai teologi cattolici come di Fede»
    (Lettera di Pio IX all'Arcivescovo di Monaco-

    Frisinga, 1862: FdC, p. 272).
    10 In tutta questa esposizione seguo passo passo il JOURNET, di cui riporto anche
    letteralmente certe espressioni.
    11 Enciclica Quo graviora del 4 ottobre 1833: Insegnamenti pontifici, vol. 11, La
    Chiesa (Roma 1961) n. 173.
    12 De locis theologicis, 1. V, cap. V, concl. 2, cit. in: JOURNET, cit., pp. 470-471.
    13 De Romano Pontifice, 1. IV, cap. V, cit. in: JOURNET, cit., p. 471.
    14 M. CANO, De locis theologicis, 1. V, cap. V, concl. 2: Ibid., p. 470.
    15 Citiamo a titolo di esempio, il più classico dei commentari del vecchio Codex, il
    WERNZ-VIDAL: «I romani Pontefici non sono per niente impediti di legiferare contro gli
    statuti disciplinari dei loro predecessori (poiché non vi è autorità di "par in parem") o
    contro il diritto comune di veneranda antichità... E sebbene può accadere che i romani
    Pontefici promulghino eventualmente, per breve tempo, leggi meno opportune che
    dovrebbero essere corrette o ritrattate da lui stesso o dai suoi successori, tuttavia non
    può succedere e non succederà mai che venga promulgata dal romano Pontefice per la
    Chiesa universale una legge disciplinare contraria alla retta fede e ai buoni costumi.
    Infatti, sebbene non sia stato promesso ai Papi il supremo grado di prudenza nel
    promulgare leggi disciplinari, tuttavia certamente godono di quell'infallibilità di cui
    gode la Chiesa circa le leggi universali disciplinari» (Jus canonicum, t. I [Roma 19522]

    pp. 268-269). Si senta anche il SUAREZ: «Bisogna comprendere questo (l'infallibilità
    assoluta), quanto alla sostanza o quanto all'onestà dei costumi: infatti, per quanto
    riguarda le circostanze o di moltiplicare i precetti o il rigore o pene eccessive, non è
    sconveniente talvolta incorrere in qualche umano difetto, poiché questo non va contro
    la santità della Chiesa; ma approvare cose turpi per oneste o, al contrario, condannare
    cose oneste per inique, ripugna alla verità e alla santità della Chiesa, e pertanto anche
    in queste cose il Pontefice non può errare» (Cit. in: Jus canonicum, cit., p. 269, nota

    28).
    16 San Roberto Bellarmino ritiene possibile che la Chiesa si riduca anche solo ad
    una «provincia». Cfr. BILLOT, De Ecclesia Christi, t. I (Roma 1927) p. 223, nota 1.
    17 Un caso analogo è costituito dal Codex Iuris Canonici che, pur regolamentando
    la sola Chiesa latina, è considerato legge universale.

    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:33]
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    00 09/02/2011 18:02
    TESTI LITURGICI
    A DIRETTO CONFRONTO

    Al fine di valutare, come ci siamo proposti all'inizio del nostro
    lavoro, se fra il NOM e i riti protestanti – nonostante l'innegabile
    avvicinamento ecumenico – permanga una differenza essenziale,
    abbiamo esaminato soprattutto l'IGMR alla luce delle posizioni
    teologiche storiche dei riformatori. Abbiamo concluso per la permanenza
    dei punti discordanti fondamentali: sacrificio vero e proprio; presenza
    vera, reale, sostanziale; sacerdozio ministeriale e non soltanto comune.
    Occorre tuttavia verificare questo fatto anche nei riti concretamente
    celebrati, pur tenendo conto che un rito non è un trattato, e quindi non
    vi dobbiamo cercare queste differenze espresse con la precisione di un
    enunciato teologico. Già le abbiamo riscontrate in due pratiche rituali:
    la Messa celebrata dal solo sacerdote e il culto eucaristico extra Missam.
    A cui si potrebbe aggiungere l'applicazione della Messa per i defunti
    (solo la Prex eucharistica IV manca di una formula particolare per un
    defunto, mentre al n. 316 della IGMR si dice che «ogni Messa... è offerta
    tanto per i vivi quanto per i defunti»).
    Innanzitutto vedremo, nelle parti essenziali che ci interessano, le
    liturgie «storiche» della Riforma: la liturgia di Lutero, quella di Calvino e
    quella di Cranmer. Quindi la liturgia di Taizé, come massimo
    avvicinamento, anche sul piano rituale alle posizioni cattoliche. Infine le
    tre nuove preghiere eucaristiche del NOM e le preghiere eucaristiche V e
    VI introdotte nel Rito Ambrosiano.
    1. La liturgia eucaristica di Lutero1
    Inizialmente Lutero cerca di interpretare i riti tradizionali nel
    senso della sua teologia. Nel De captivitate babylonica riconosce che
    soprattutto il Canone Romano ha un forte significato sacrificale.
    Tuttavia pensa di potere interpretare le espressioni sacrificali
    come interamente riferite all'offerta del pane e del vino, materia del
    sacramento, o ai sacrifici spirituali dei cristiani, oppure alla preghiera,
    «sacrificio delle labbra».
    «Anche le parole del canone sembrano esprimere questa opinione
    (l'erronea opinione che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio), dove è
    detto: "Questi doni, queste offerte, questo santo sacrificio", e più giù:
    "questa offerta". Similmente in modo chiarissimo si chiede che riesca
    accetto a Dio il sacrificio, come fu gradito il sacrificio di Abele, ecc.
    Perciò Cristo viene definito vittima dell'altare. Concordano con queste
    opinioni le parole dei santi Padri, numerosi esempi ed una lunga
    tradizione costantemente mantenuta nel mondo intero. (...) Quali
    argomenti dunque contrapporremo al canone della messa e all'autorità
    dei Padri? Innanzitutto rispondo che, se non c'è niente da dire, è meglio
    negare tutto, piuttosto che considerare la messa come un'opera buona o
    un sacrificio, per non andare contro la parola di Cristo, perdendo
    insieme la fede con la messa. Tuttavia, per salvare gli argomenti dei
    Padri, diremo che dall'Apostolo (1 Cor 11, 18) apprendiamo come i
    cristiani erano soliti riunendosi per la messa portare con sé cibo e
    bevande che chiamavano collette, da distribuire ai poveri, seguendo
    l'esempio degli Apostoli (At 4,34); dalle collette si prendevano il pane e il
    vino destinati alla consacrazione. E poiché erano consacrati con parole
    e preghiere secondo il rito ebraico, per cui erano levati in alto, come si
    legge in Mosè, sono rimaste le parole e il rito di sollevare il pane e il vino
    in segno di offerta, pur essendo stato abolito da gran tempo l'uso di
    raccogliere i cibi e le bevande da offrire. (...) Perciò le parole sacrificio e
    offerta si devono riferire non al sacramento e al testamento di Cristo,
    ma alle collette. Perciò è rimasta la parola colletta per le preghiere fatte
    durante la messa.
    Per il medesimo motivo è avvenuto che il sacerdote, dopo aver
    consacrato il pane e il calice, li innalzasse [rito dell'elevazione] non con
    l'intenzione di offrire a Dio qualche cosa, poiché neppure con una
    parola ricorda la vittima o l'offerta; è anche questo un resto del rito
    ebraico, per il quale si levavano in alto quelle offerte che venivano
    considerate accette a Dio insieme con il rendimento di grazie (...).
    I sacerdoti, in questo secolo di rovina e di dannazione, stiano
    attenti, mentre celebrano la messa, innanzitutto a riferire le parole del
    canone maggiore e minore, con le collette che apertamente parlano di
    sacrificio, non al sacramento, ma al pane e al vino, oppure alle
    preghiere; ma quando il pane è stato benedetto e consacrato non può
    più essere offerto, ma viene ricevuto in dono da Dio ...»2.
    In seguito però Lutero cercò di adattare il rito alle sue concezioni.
    Gli scritti nei quali si occupò in modo particolare della riforma liturgica
    sono i seguenti: Dell'ordine del servizio divino nella comunità («Von der
    Ordnung des Gottesdienstes in der Gemeinde») preparato nel 1523 per
    la comunità di Leisnig (Sassonia elettorale) che gli aveva chiesto un
    ordinamento per il culto pubblico; la Formula missae et communionis,
    del medesimo anno, composta per il predicatore Nicolaus Hausmann di
    Zwickau, che si era lamentato con lui della eccessiva varietà di forme
    liturgiche esistenti; e la Messa tedesca e ordine del servizio divino
    («Deutsche Messe und Ordnung des Gottesdienstes») del 1526.
    La riforma liturgica di Lutero si risolve in una soppressione
    radicale del Canone; nel suo «Servizio divino» non si riscontra neppure
    la struttura di una preghiera eucaristica. Al suo posto (nella Deutsche
    Messe) c'è un prefazio, trasformato in una esortazione, con le parole
    dell'istituzione e della comunione. Il nucleo centrale della Messa, con
    uno schematismo che riflette meccanicamente la teologia eucaristica
    elaborata per es. nel De captivitate babylonica, consta di due parti: a) il
    testamento divino, cioè le parole dell'istituzione e b) la distribuzione del
    sacramento.
    La struttura si articola così: Introito, Kyrie, Colletta, Epistola e
    Vangelo, Professione di fede, Omelia, Parafrasi del Pater, Azione
    eucaristica (testamento e distribuzione), Inno eucaristico, Sanctus,
    Colletta e benedizione.
    Riporto qui di seguito la parafrasi del Pater e l'azione eucaristica
    che – nella Deutsche Messe – sostituiscono l'offertorio e la Preghiera
    eucaristica della Messa cattolica. Le rubriche sono in corsivo:
    Dopo la predica deve seguire una parafrasi pubblica del Padre Nostro e una
    monizione per quelli che vogliono ricevere il sacramento, nel modo che segue
    o in un modo migliore.
    Segue una predica che sta al posto dell'Offertorio e del Prefazio
    della Messa Romana. Riportiamo solo la fine
    .. D'altra parte vi ammonisco nel Cristo, affinché accogliate con retta fede il
    testamento di Cristo e soprattutto le parole, nelle quali Cristo ci dà il suo
    corpo e il suo sangue per la remissione. Prendetele saldamente nel cuore,
    affinché vi ricordiate dell'amore gratuito che ci ha dimostrato, salvandoci
    tramite il suo sangue dall'ira divina e dalla morte e dall'inferno e quindi
    prendiate esteriormente il pane e il vino, cioè il suo corpo e il suo sangue,
    come vostra assicurazione e pegno. Dopo di che vogliamo compiere ed
    usare il suo testamento nel suo nome e dietro suo ordine mediante le sue
    proprie parole.
    ... Ma l'ammonizione può diventare una pubblica confessione.
    ACTIO EUCHARISTICA
    Poi segue l'azione [das Amt] e cioè nel modo che segue.
    EXEMPLUM
    Nostro Signore Gesù Cristo nella notte in cui fu tradito, prese il pane,
    ringraziò e lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli e disse: Prendete e
    mangiate. Questo è il mio corpo, che viene dato per voi. Tutte le volte che
    fate questo, lo fate in memoria di me. Lo stesso fece col calice dopo la cena
    e disse: Prendete e bevetene tutti, questo è il calice, un nuovo testamento
    nel mio sangue che viene sparso per voi in remissione dei peccati. Tutte le
    volte che fate questo bevete in memoria di me.
    La differenza appare con evidenza nell'assenza totale di Preghiera
    eucaristica e quindi di riferimento sacrificale.
    Quello che Lutero ha inteso principalmente eliminare perché
    particolarmente scomoda per la sua teologia è l'anamnesi offerta: «Unde
    et memores ... offerimus ...»3, oltre che, naturalmente, le preghiere
    dell'offertorio: «Suscipe, sancte Pater» e «offerimus tibi, Domine, calicem
    salutaris ...».
    L'anamnesi-offerta rimane però nelle tre preghiere eucaristiche
    nuove, dando un chiaro e inequivocabile significato sacrificale all'azione
    eucaristica. Per rendersi conto di come ci si allontani qui
    sostanzialmente dalla teologia di Lutero, basta confrontare l'anamnesi –
    offerta della Preghiera II (la più povera di significati sacrificali):
    «Celebrando il memoriale (...) ti offriamo, Padre, il pane della vita e il
    calice della salvezza ...», con la chiara posizione luterana: «Quando il
    pane è stato benedetto o consacrato non può più essere offerto ma viene
    ricevuto in dono da Dio»4.
    Lutero avrebbe respinto questa formula con lo stesso vigore con
    cui respinse l'«Unde et memores ...», perché, pur nella sua povertà,
    racchiude il nocciolo della posizione cattolica. Si possono lecitamente
    rimpiangere le ricchezze delle preghiere offertoriali soppresse e
    l'insistenza delle non inutili ripetizioni, dobbiamo però riconoscere che
    le nuove preghiere intendono accompagnare ed esprimere l'offerta di un
    sacrificio.
    In alcune forme liturgiche luterane attuali la preghiera eucaristica
    ha fatto la sua ricomparsa, tuttavia sempre con riferimenti precisi alle
    posizioni tipiche del luteranesimo: enfasi particolare nel sottolineare
    l'unicità e la sufficienza del sacrificio della Croce, pane e vino come
    «segno della presenza di Cristo», presenza di Cristo «nel pane e nel vino»
    o «sotto il pane e il vino», ecc.5.
    Così, per esempio, nell'attuale liturgia valdese (che ha però come
    principale fonte di ispirazione la teologia di Calvino), se ha fatto la sua
    ricomparsa una formula che riecheggia l'anamnesi-offerta, essa non
    esce dallo schema luterano del testamento-comunione: «Noi vogliamo
    ora commemorare il sacrificio del nostro Salvatore, partecipando alla
    comunione del suo corpo e del suo sangue nella celebrazione della
    santa cena».
    L'anamnesi si consuma interamente nella comunione, mentre, se
    di offerta si può parlare, essa è soltanto la offerta riconoscente della
    nostra vita»6 intesa come ben distinta da quella di Cristo Salvatore.
    Così, in un'altra formulazione: «Commemorando il sacrificio unico e
    perfetto del Signore nostro Gesù Cristo sulla croce, nella gioia della
    risurrezione e nell'attesa della sua venuta, ti offriamo noi stessi in
    sacrificio vivente e santo ...»7. Il sacrificio attualmente offerto è dunque
    il sacrificio vivente e santo di Rm 12, 1, non il sacrificio unico e perfetto
    di Cristo presente sotto i segni sacramentali.
    2. La liturgia eucaristica di Calvino8
    Per Calvino la predicazione è l'unico mezzo di grazia che comunica
    la salvezza, mentre i sacramenti si limitano a confermarla. La sua
    riforma liturgica sfocia quindi naturalmente in un culto tutto incentrato
    sulla predicazione.
    La struttura che prende il «Servizio divino» con la riforma di
    Calvino (1553) è la seguente: 1) Preghiera per la Chiesa; 2) Lettura della
    narrazione dell'istituzione secondo Paolo; 3) Scomunica dei peccatori
    scellerati; 4) Esortazione sulla dottrina della Cena; 5) Comunione; 6)
    Ringraziamento; 7) Benedizione finale.
    Riportiamo il testo del racconto dell'istituzione con la rubrica che
    l'accompagna.
    Poi, dopo aver fatto le preghiere e la confessione di fede per testimoniare a
    nome del popolo che tutti vogliono vivere e morire nella dottrina e religione
    cristiana, dice ad alta voce:
    Ministro: Ascoltiamo come Gesù Cristo ci ha istituito la sua santa Cena
    secondo che san Paolo lo racconta nell'undicesimo capitolo della prima ai
    Corinti ...
    Segue il testo di 1 Cor 11, 23-29 che costituisce l'«anamnesi».
    È evidente il totale prevalere dell'aspetto di narrazione e quindi di
    memoria puramente soggettiva.
    Significative, fra tante altre, anche queste espressioni, contenute
    nell'esortazione:
    Eleviamo i nostri spiriti in alto, dove è Gesù Cristo nella gloria del suo
    Padre e dove l'attendiamo in nostra redenzione. E non ci attardiamo su
    questi elementi terreni e corruttibili, che vediamo con gli occhi e tocchiamo
    con le mani, per cercarlo qui, come se fosse imprigionato nel pane e nel
    vino ... Contentiamoci dunque, d'avere il pane e il vino per segni e
    testimonianze, cercando spiritualmente la verità dove la parola di Dio
    promette che la troveremo.
    3. La liturgia eucaristica di Cranmer9
    La liturgia di Cranmer è la liturgia anglicana introdotta col
    decreto di Edoardo VI (1547), dopo l'approvazione del senato (21
    gennaio 1549), nel «Book of the common prayer and administration of
    the sacraments and other rites and ceremonies of the churche after the
    use of the churche of England». In questa prima edizione Cranmer si
    ispira agli ordinamenti luterani e zwingliani. Ne risulta un servizio
    liturgico con questa struttura: Introito e Kyrie, Gloria, Collette, Lezioni e
    professione di fede, Omelia o esortazione alla comunione, Offertorio,
    Prefazio, Preghiera eucaristica, Anamnesi, Preghiera domenicale, Rito
    della pace, Confessione prima della comunione, Invocazione
    dell'assoluzione, Preghiera prima della comunione, Comunione sotto le
    due specie, Canto alla comunione, Rendimento di grazie dopo la
    comunione, Benedizione del popolo.
    Non c'è elevazione né ostensione del Sacramento per i fedeli. Nella
    II edizione del Prayer Book sono eliminate anche le intercessioni che,
    tolte dal canone, si riducono alla preghiera dei fedeli e viene soppressa
    anche l'anamnesi. Anamnesi che tuttavia, anche nella I edizione,
    rispondeva alla dottrina teologica di Zwinglio, che è quella che accentua
    maggiormente il carattere soggettivo del memoriale.
    Ecco la preghiera eucaristica (le sottolineature sono nostre):
    È veramente cosa degna e giusta, nostro dovere rendere grazie in ogni
    tempo e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed
    eterno. Per questo, con gli angeli e gli arcangeli, e con tutta la santa
    compagnia dei cieli, noi lodiamo ed esaltiamo il tuo nome glorioso,
    lodandoti senza fine e dicendo Santo, santo, santo, il Signore Dio degli
    eserciti. Il cielo e la terra sono pieni della tua gloria! Osanna nel più alto
    dei cieli. Benedetto è colui che viene nel nome del Signore: Gloria a te, o
    Signore, nei cieli altissimi.
    Dio onnipotente e da sempre vivente, che, per mezzo dei tuoi santi
    apostoli, ci hai insegnato a rivolgerti preghiere e suppliche e a rendere a te
    grazie per tutti gli uomini: noi umilmente ti supplichiamo di ricevere nella
    tua grande misericordia queste preghiere che noi offriamo alla tua divina
    maestà, supplicandoti di ispirare continuamente la chiesa universale con
    lo Spirito di verità, di unità e di concordia; accorda a tutti coloro che
    confessano il tuo santo nome di intendersi nella verità della tua santa
    parola e di vivere nell'unità e nell'amore divino.
    In modo particolare, noi ti preghiamo di salvare e difendere il tuo servo
    Edoardo nostro re, in modo che sotto di lui possiamo essere governati nella
    pietà e nella tranquillità. Accorda a tutto il suo Consiglio e a tutti coloro
    che egli ha provvisto di autorità sotto di sé di amministrare la giustizia
    vera ed equa, per punire la malvagità e il vizio e mantenere la divina
    religione e la virtù.
    O Padre celeste, dona a tutti i vescovi, pastori e parroci la grazia, sia per la
    loro vita sia per la loro dottrina, di esporre la tua parola vivente e veritiera
    e di amministrare degnamente e fedelmente i tuoi sacramenti; e a tutto il
    popolo dona la tua grazia celeste perché, con cuore umile e conveniente
    riverenza, esso ascolti e riceva la tua santa parola, servendoti veramente
    nella santità e nella giustizia per tutti i giorni della vita. Noi ti
    supplichiamo molto umilmente, o Signore, di consolare e soccorrere nella
    tua bontà tutti coloro che, in questa vita passeggera sono nel turbamento,
    nelle preoccupazioni, nelle necessità, nella malattia o in qualsiasi altra
    avversità. Specialmente raccomandiamo alla tua bontà misericordiosa
    questa comunità, qui radunata nel tuo nome per celebrare la
    commemorazione della gloriosissima morte del tuo Figlio. E ti rendiamo la
    più alta lode e le più sincere azioni di grazie per la grazia e la virtù
    meravigliosa che hai fatto risplendere nei tuoi santi fin dall'inizio del
    mondo; prima di tutto nella gloriosa e sovranamente beata Vergine Maria,
    Madre del tuo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e nei santi
    patriarchi, profeti, apostoli, e martiri: sia tua volontà, o Signore, accordarci
    di seguire i loro esempi, la loro fermezza nella tua fede, e di osservare i tuoi
    santi comandamenti.
    Raccomandiamo alla tua misericordia, o Signore, tutti gli altri tuoi
    servitori, che ci hanno lasciati con il segno della fede e ora riposano del
    sonno della pace: accorda loro, te ne supplichiamo, la tua misericordia e la
    pace eterna; nel giorno della risurrezione generale noi e tutti coloro che
    appartengono al corpo mistico del tuo Figlio, potremo essere messi insieme
    alla tua destra e sentire la sua gioiosa parola: Venite a me, o voi, benedetti
    del Padre mio: possedete il regno che vi è stato preparato fin dall'inizio del
    mondo; accordacelo, o Padre, per l'amore di Gesù Cristo, nostro unico
    mediatore e avvocato.
    O Dio, Padre celeste, nella tua commovente misericordia, ci hai dato il tuo
    unico Figlio Gesù Cristo perché soffrisse la morte sulla croce per la nostra
    redenzione: egli vi ha compiuto (con la sua unica oblazione offerta una sola
    volta) un pieno, perfetto e sufficiente sacrificio, oblazione e soddisfazione per
    i peccati del 'mondo intero; ha istituito e ci ha comandato nel suo santo
    vangelo di celebrare una perenne memoria della sua preziosa morte fino a
    che egli ritorni; ascoltaci, o Padre misericordioso, te ne supplichiamo e, con
    il tuo Spirito santo e con la tua parola, sia tua volontà benedire e
    santificare i tuoi doni qui presenti, queste creature di pane e di vino, in
    modo che essi siano per noi il corpo e il sangue del tuo dilettissimo Figlio
    Gesù Cristo. Egli, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, avendolo
    benedetto e reso grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo:
    Prendete e mangiate: questo è il mio corpo dato per voi; fate questo in
    memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese la coppa e,
    avendo reso grazie, la diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il
    mio sangue del nuovo testamento, sparso per voi e per molti in remissione
    dei peccati: fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me. Per
    questo, o Signore e Padre celeste, secondo l'istruzione del tuo dilettissimo
    Figlio, salvatore nostro Gesù Cristo, noi tuoi umili servi, celebriamo e
    facciamo, alla presenza della tua divina maestà, con questi santi doni che
    vengono da te, il memoriale che il tuo Figlio ha voluto che noi compissimo,
    ricordando la sua beata passione, la sua possente risurrezione e la sua
    gloriosa ascensione, rendendo a te le nostre più sincere azioni di grazie, per
    i benefizi innumerevoli che egli ci ha così procurati, desiderando solamente
    dalla tua bontà paterna che voglia accettare misericordiosamente questo
    nostro sacrificio di lode e di azione di grazie: supplicandoti molto umilmente
    di accordare, per i meriti e la parte del tuo Figlio Gesù Cristo, e per la fede
    nel suo sangue, che noi e la tua chiesa intera, possiamo ottenere la
    remissione di tutti i nostri peccati e tutti gli altri benefici della sua
    passione.
    E noi, o Signore, qui ti offriamo e ti presentiamo, noi stessi, le nostre anime, i
    nostri corpi come sacrificio conveniente, santo e vivente ai tuoi occhi,
    supplicandoti umilmente che tutti coloro che parteciperanno alla tua santa
    comunione possano ricevere degnamente il preziosissimo corpo e sangue
    del tuo Figlio Gesù Cristo, possano essere ripieni della tua grazia e della
    tua benedizione celeste ed essere fatti un solo corpo con il tuo Figlio Gesù
    Cristo in modo che egli dimori in essi ed essi in lui.
    E sebbene noi siamo indegni (per i nostri numerosi peccati) di offrirti
    qualunque sacrificio, tuttavia ti supplichiamo di accettare questo nostro
    doveroso servizio, e di comandare che queste preghiere e suppliche, per il
    ministero dei tuoi santi angeli, siano portate fino al tuo santo tabernacolo,
    davanti alla tua divina maestà, non avendo riguardo ai nostri meriti, ma
    perdonandoci le nostre offese: per Cristo nostro Signore, per il quale, e con
    il quale siano a te, o Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito santo, ogni
    onore e gloria, nei secoli dei secoli. Amen.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:44]
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    Heleneadmin
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    00 09/02/2011 18:03
    Si noti l'enfasi con cui si sottolinea l'unicità e la sufficienza del
    sacrificio di Cristo, contrapposta alla memoria che viene ora celebrata.
    Termini come memoria, commemorazione, ricevono incontestabilmente
    dal contesto teologico in cui sono immersi e da cui nascono un senso di
    semplice ricordo soggettivo. La «nuda commemorazione» appunto,
    condannata da Trento.
    I presupposti teologici traspaiono dalle formule liturgiche: che
    cosa vien offerto nella celebrazione eucaristica? Non il sacrificio di
    Cristo la cui «unica oblazione» è stata «offerta una sola volta». Il
    sacrificio che attualmente si compie è «di lode e di azione di grazie» e
    consiste nell'offerta di «noi stessi, le nostre anime, i nostri corpi» e di
    «queste preghiere e suppliche». Si confronti la preghiera «ti
    supplichiamo ... di comandare che queste preghiere e suppliche, per il
    ministero dei tuoi santi angeli ...» con il «supplices te rogamus» del
    Canone Romano (a cui certamente si ispira): nel Canone Romano quello
    che l'angelo deve portare davanti alla maestà divina è «la vittima pura,
    santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell'eterna
    salvezza», che trova il suo tipo nei sacrifici di Abele, Abramo e
    Melchisedech; nella preghiera di Cranmer sono soltanto «queste
    preghiere e suppliche» ... Il memoriale di cui si parla è dunque vuoto
    della Divina Vittima che rinnova la sua offerta e si risolve in una
    preghiera-ricordo.
    Questa influenza zwingliana si è fatta sentire anche nelle
    confessioni protestanti nate in seno all'anglicanesimo.
    Ecco come si esprime per es. Alexander McLuren, uno dei
    massimi predicatori battisti del secolo XIX: «Tutte le teorie circa il
    significato e il valore del servizio di comunione vanno rinchiuse dentro
    quell'unica parola [in memoria]: si tratta di un rito commemorativo, e
    assolutamente niente di più»10. In moltissimi casi dunque l'espressione
    «memoriale», nel contesto liturgico del protestantesimo anglosassone,
    deve essere letta tenendo conto di questa pesante ipoteca dottrinale.
    Recentemente c'è stata, è vero, una certa riscoperta della nozione
    tradizionale. Per es., sempre in campo battista, «nella guida esplicativa
    sulla cena del Signore data in The Lord's Supper [pubblicazione del 1981
    della Unione battista inglese] viene ricordato che la parte della liturgia
    della cena chiamata Words of Institution (parole dell'istituzione)
    "corrisponde a quella che è stata tradizionalmente conosciuta come
    l'anamnesi o memoriale. Il memoriale, però, è assai più che un ricordare
    eventi del passato (...). Esso, piuttosto, richiama ciò che appartiene al
    passato e proclama la sua potenza vivente per il presente ... Il
    memoriale ripete davanti alla congregazione lo spezzamento del corpo di
    Cristo e il versamento del suo sangue mediante il quale noi siamo
    redenti ora. È per questo che la morte e la resurrezione sono tanto
    strettamente unite come simbolo e come presenza. Sono una sola cosa
    nel sacramento. La storia diventa presente, il Cristo crocifisso è in
    questo momento presente in mezzo al suo popolo, la potenza salvifica
    del Signore è visibile ora per tutti coloro che la vogliono vedere"»11.
    Tuttavia, l'anamnesi è sempre nel contesto della comunione:
    «prendi questo pane nel ricordo...»12 e non comprende in sé l'«offerimus».
    A Dio sono offerte «le nostre anime e i nostri corpi in sacrificio
    vivente»13, mentre il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono solo ricevuti.
    4. La liturgia di Taizé14
    La punta dell'avvicinamento ecumenico protestante alle posizioni
    cattoliche in campo liturgico è certamente rappresentata dalla liturgia di
    Taizé.
    Riportiamo solo la preghiera eucaristica. Le sottolineature sono
    nostre.
    Epiclèse
    O notre Père, Dieu des forces du ciel,
    rempli de ta gloire
    notre sacrifice de louange
    +
    cette offrande,
    benis-la, achève-la, accepte-la
    comme la figure
    du sacrifice unique de notre Seigneur
    +
    envoie ton Saint-Esprit
    sur nous et notre eucharistie:
    consacre ce pain au corps du Christ
    et cette coupe au sang du Christ;
    que le Saint-Esprit createur
    accomplisse la parole de ton Fils bien-aimé
    Institution
    qui, dans la nuit où il fut livré,
    prit du pain,
    et, après avoir rendu grâces, le rompit
    et le donna à ses disciples en disant:
    prenez, mangez,
    ceci est mon corps donné pour vous;
    faites ceci en mémorial de moi.
    +
    De même, après avoir soupé,
    il prit la coupe,
    et, après avoir rendu grâces,
    la donna à ses disciples en disant:
    buvez-en tous,
    cette coupe est la Nouvelle Alliance
    en mon sang,
    repandu pour vous, pour une multitude,
    pour la rémission des pechés;
    toutes les fois que vous en boirez.
    Faites ceci en mémorial de moi.
    +
    Ainsi, toutes les fois
    que nous mangeons ce pain
    et que nous buvons cette coupe,
    nous proclamons la mort du Seigneur,
    jusqu'à ce qu'il revienne.
    Mémorial
    C'est pourquoi, Seigneur,
    nous accomplissons dévant toi
    le mémorial de l'Incarnation
    et de la Passion de ton Fils,
    de sa Résurrection du séjour des morts,
    de son Ascension dans la gloire des cieux,
    de son intercession perpétuelle
    en notre faveur;
    nous attendons et nous implorons son rétour.
    +
    Tout vient de toi et notre seule offrande
    est de rappeler tes merveilles et tes dons.
    +
    Aussi, nous te présentons, Seigneur de gloire,
    comme notre action de grâce
    et notre intercession,
    les signes du sacrifice éternel du Christ,
    unique et parfait, vivant et saint,
    le pain de la vie qui descend du ciel et
    la coupe du répas en ton royaume
    +
    dans ton amour et ta miséricorde
    accueille notre louange et notre prière
    dans le Christ,
    comme tu as bien voulu accepter
    les présents de ton serviteur Abel le juste,
    le sacrifice d'Abraham notre père
    et celui de Melchisédech,
    ton souverain prêtre.
    Invocation
    Nous t'en supplions, Dieu tout-puissant,
    fais porter cette prière,
    par les mains de ton Ange,
    là-haut, sur ton autel, en ta présence;
    et quand nous récevrons,
    n communiant à cette table,
    le corps et le sang de ton Fils,
    puissions-nous tous être remplis du Saint-Esprit,
    comblés des grâces
    et des bénédictions du ciel,
    par le Christ, notre Sauveur.
    Conclusion
    Par lui, Seigneur, toujours
    tu crées, tu sanctifies, tu vivifies, tu bénis
    et tu nous donnes tous tes biens.
    +
    Par lui,
    et avec lui,
    et en lui,
    te sont rendus,
    Père tout-puissant
    dans l'unité du Saint-Esprit,
    tout honneur et toute gloire,
    à travers tous les siècles des siècles.
    T Amen.
    Il tentativo di avvicinamento al cattolicesimo è innegabile: se non
    altro per l'insistenza con cui ricorrono i termini «oblazione» e «sacrificio».
    Basta fare il confronto con la liturgia di Calvino («frère» Thurian, vicepriore
    di Taizé, è calvinista). Tuttavia rimaniamo (purtroppo) nell'ambito
    della concezione protestantica. L'offerta eucaristica non è che la «figura
    del sacrificio unico di Cristo». Una figura vuota, perché «la nostra sola
    offerta è di ricordare le tue meraviglie e i tuoi doni». Ciò che viene
    presentato non è lo stesso sacrificio di Cristo, ma «i segni del sacrificio
    eterno di Cristo». Come la liturgia di Cranmer, anche quella di Taizé
    riprende alcune espressioni del Canone Romano: il parallelismo che ne
    deriva permette di stabilire un confronto in cui la differenza teologica si
    staglia in modo nettissimo. Riportiamo i due testi a fronte (quello del
    Canone Romano nell'attuale traduzione italiana).
    Canone Romano Taizé
    ... offriamo alla tua maestà divina,
    tra i doni che ci hai dato,
    la vittima, pura, santa e immacolata,
    pane santo della vita eterna
    e calice dell'eterna salvezza.
    Volgi sulla nostra offerta Dans ton amour et ta miséricorde
    il tuo sguardo sereno e benigno, accueille notre louange et notre prière
    come hai voluto accettare dans le Christ,
    i doni di Abele, il giusto, comme tu as bien voulu accepter
    il sacrificio di Abramo, nostro padre nella les présents de ton serviteur Abel le juste,
    [fede le sacrifice d'Abraham notre père
    e l'oblazione pura e santa et celui de Melchisédech,
    di Melchisedech, tuo sommo sacerdote ton souverain prêtre,
    Ti supplichiamo, Dio onnipotente: Nous t'en supplions, Dieu tout-puissant,
    fa' che questa offerta fais porter cette prière,
    per le mani del tuo angelo santo, par les mains de ton ange,
    sia portata sull'altare del cielo là-haut, sur ton autel, en ta présence ...
    davanti alla tua maestà divina...
    Questa differenza teologica, sebbene in modo molto meno definito,
    permane anche nel confronto con le nuove preghiere eucaristiche. Ciò
    che viene offerto non è una semplice preghiera, ma il Corpo e il Sangue
    di Cristo e il suo sacrificio15.
    II. «Ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza ... Per la
    comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un
    solo corpo».
    III. «Ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e
    santo. Guarda con amore e riconosci nell'offerta della tua Chiesa, la
    vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del
    corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché
    diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito».
    IV. «Ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la
    salvezza del mondo».
    5. Le nuove preghiere eucaristiche
    Tralasciamo la I Preghiera eucaristica, perché si tratta del vecchio
    Canone Romano. È vero che sono state introdotte modifiche, però – a
    parte la formula di consacrazione – riguardano tutte punti di dettaglio.
    Sono stati soppressi 24 segni di croce, le genuflessioni (nell'ambito del
    canone) sono state portate da 5 a 2, inoltre la conclusione delle singole
    preghiere (per Christum Dominum nostrum) è stata resa facoltativa in
    latino e soppressa nella traduzione italiana.
    La formula consacratoria merita un discorso a parte. Ecco i due
    testi a fronte:
    Formula antica Formula nuova
    Hoc est enim Corpus meum Hoc est enim Corpus meum, quod
    pro vobis tradetur
    Hic est enim Calix Sanguinis Hic est enim calix Sanguinis
    mei, novi et aeterni testamenti: mei novi et aeterni Testamenti,
    mysterium fidei: qui pro vobis qui pro vobis et pro multis
    et pro multis effundetur effundetur in remissionem
    in remissionem peccatorum. peccatorum.
    Haec quotiescumque feceritis, Hoc facite in meam
    in mei memoriam facietis. commemorationem.
    «L'espressione Mysterium Fidei, tolta dal contesto delle parole di
    Cristo Signore, e detta dal sacerdote, serve da introduzione
    all'acclamazione dei fedeli» (Missale Romanum). L'acclamazione, che si
    presenta in tre versioni alternative, esprime l'aspetto «prognostico»
    dell'eucaristia.
    La modifica di una formula di consacrazione di uso plurisecolare
    è certamente un fatto non trascurabile. Ci si può chiedere quale sia
    stata la gravissima ragione che ha costretto ad un simile intervento: i
    cambiamenti, quanto più toccano materie delicate, tanto più devono
    essere solidamente motivati. Nella Missale Romanum, oltre ad
    imprecisati «motivi di ordine pastorale», si adduce il «fine di facilitare la
    Concelebrazione». La cosa rimane, almeno per noi, misteriosa.
    Quello che soprattutto conta, però, è che il cambiamento
    avvenuto è accidentale e non sostanziale. L'essenza della forma
    sacramentale non è toccata.
    Che cosa è cambiato? I mutamenti sono quattro:
    1) alla formula di consacrazione del pane è stato aggiunto «quod pro
    vobis tradetur», espressione tolta da 1 Cor 11, 24;
    2) l'inciso Mysterium fidei viene spostato fuori dalla formula vera e
    propria e introduce una acclamazione di carattere escatologico;
    3) il comando di Cristo viene riportato secondo i termini della S.
    Scrittura (Lc 22,19 e 1 Cor 11, 24);
    4) «Pro multis» nelle traduzioni diventa, generalmente, «per tutti».
    Nessuno di questi cambiamenti tocca l'essenza della forma.
    Infatti, secondo l'opinione comune dei teologi (compreso san Tommaso)
    la forma essenziale è «Hoc est corpus meum», «Hic est calix sanguinis
    mei» (o anche: «Hic est sanguis meus»). Alcuni tomisti sostengono che le
    parole che seguono la formula consacratoria del vino sono anch'esse
    essenziali, perché esprimono il fine propiziatorio del sacrificio16 (16).
    Nell'ipotesi della verità dell'una o dell'altra tesi la nuova formula
    contiene sempre l'essenziale. Anzi, il «quod pro vobis tradetur» rinforza il
    significato propiziatorio (l'espressione è presente anche in altre liturgie
    venerabili). Il Mysterium f idei non è, con tutta evidenza, essenziale, non
    tanto perché non ricorre nella Scrittura, quanto perché è assente da
    altre liturgie venerabili17. Anche l'acclamazione escatologica (di origine
    paolina: 1 Cor 11, 26) non fa difficoltà: «Cristo non ha concluso l'epopea
    della salvezza; l'ha soltanto inaugurata. Essa è sempre in corso, in
    attesa del suo compimento nel regno dei cieli. Questa è la vera
    conclusione del processo salvifico, in Dio. Nella revisione del testo
    arcaico [del Canone Romano] secondo il De Sacramentis, la clausola
    escatologica finale paolina, comune a tutte le liturgie, è stata omessa; il
    Canone ambrosiano l'ha mantenuta e largamente sviluppata: "Haec
    quotiescumque feceritis, in meam commemorationem facietis...,
    adventum meum sperabitis, donec iterum de coelis veniam ad vos". La
    clausola si trovava ancora nel testo gregoriano del Messale di Stowe, ma
    poi scomparve per motivi che non conosciamo»18.
    Quanto al «pro multis» e «per tutti» bisogna considerare due cose:
    a) Questa espressione è presa dalla Scrittura (il Catechismo del
    Concilio di Trento dice: «Le parole: per voi e per molti, prese
    separatamente da Matteo (26, 28) e da Luca (22, 20), sono riunite dalla
    santa Chiesa, ispirata da Dio, per esprimere il frutto e l'utilità della
    passione», n. 216, p. 261), è dunque nel contesto biblico che bisogna
    innanzitutto cercare il suo significato pieno.
    Ora, tutti gli interpreti
    cattolici, soprattutto dopo gli abusi dei predestinaziani e dei calvinisti,
    sono d'accordo nel vedere in questa espressione un equivalente di «pro
    omnibus» o, meglio ancora, una espressione con un significato piuttosto
    indefinito: «per una moltitudine»19. Nella spiegazione del catechismo
    tridentino: «con ragione ... non è stato detto: per tutti, trattandosi qui
    soltanto dei frutti della passione, la quale apporta salute soltanto agli
    eletti» dobbiamo dunque vedere soltanto una ragione di convenienza,
    non di necessità.
    Si può dire convenientemente «per molti», ma non è
    affatto sbagliato dire «per tutti», perché Cristo è morto per tutti.
    b) In molti testi liturgici antichi si trova nel «Qui pridie» l'inciso
    «pro nostra omniumque salute» o formule equivalenti. Questa
    espressione è rimasta nel rito ambrosiano fino ai nostri giorni. Questo
    mostra bene che l'espressione «pro multis» conserva nel contesto
    liturgico il significato largo e indefinito che ha in quello biblico.
    Naturalmente ci si può chiedere se questa traduzione non può
    portare acqua al mulino di quell'esagerato ottimismo salvifico che c'è
    oggi nell'aria (ottimismo del tutto antiscritturistico). È necessario
    dunque spiegare accuratamente che il «per tutti», nell'indefinita formula
    biblica, sottolinea il piano della redenzione oggettiva (la salvezza è alla
    portata di tutti, perché Cristo ha meritato in modo sovrabbondante per
    tutti), mentre lascia in ombra quello della redenzione soggettiva, che
    comporta la cooperazione dei singoli ... Così come deve essere spiegato il
    «pro multis», per evitare che sia inteso in senso giansenistico e
    fatalistico.

    La II Prex eucharistica è quella che ha sollevato (e solleva) più
    problemi. Il riferimento sacrificale è in essa veramente assai tenue.
    Generalmente, nel rispondere alle critiche, ci si è accontentati di
    trincerarsi dietro l'origine venerabile per antichità di questa preghiera.
    Così argomenta p. Congar: «... è del tutto inesatto che le nuove
    preghiere eucaristiche mettano in ombra o perfino ignorino l'idea di
    sacrificio. Il termine stesso figura due volte nell'offertorio; l'accenno è
    ancora più formale nelle preghiere eucaristiche terza e quarta. Quanto
    alla seconda, si noti che è presa quasi letteralmente dal più antico testo
    liturgico conosciuto, quello della Tradizione apostolica di sant'Ippolito
    (inizio del III secolo). Quello stesso Ippolito che, dopo essersi opposto al
    papa Callisto da lui accusato d'essere troppo indulgente coi peccatori, si
    ritrovò con il successore di questo pontefice, s. Ponziano, condannato
    come lui per la fede, ad essere deportato in Sardegna!»20. Basta un
    confronto, anche superficiale, con l'antica anafora per rendersi conto di
    cosa valga questo argomento21. Anche p. Lanne, che non può
    certamente essere annoverato fra gli avversari della riforma liturgica,
    rileva che «nella nuova anafora romana... quanto si riferisce all'opera
    salvatrice di Cristo è stato arbitrariamente abbreviato perché male si
    adattava alla mentalità moderna.
    Cristo con la sua Passione libera
    coloro che credono in lui; egli ha spezzato i vincoli del diavolo,
    calpestato l'inferno, illuminato i giusti ... Il testo ippolitiano dice: "Et
    petimus ut mittas spiritum tuum sanctum in oblationem sanctae
    ecclesiae, in unum congregans de omnibus qui percipiunt sanctis in
    repletionem spiritus sancti ad confirmationem fidei in veritate ut ..." ...
    È stata ritenuta... la domanda perché coloro che partecipano al Corpo e
    al Sangue di Cristo siano uniti come una sola cosa mediante lo Spirito
    Santo, mentre è scomparso l'oggetto di questa unione per opera dello
    Spirito: la confermazione della fede nella verità. Si noterà che questa
    soppressione corrisponde a quella fatta poco prima nella
    commemorazione dei vari elementi dell'opera salvatrice di Cristo: la
    Passione libera coloro che credono in lui. Per ben due volte quindi in
    questa anafora d'Ippolito la fede viene posta al primo piano, mentre è
    scomparsa nel nuovo testo. Tutta l'eucaristia come proclamazione della
    fede risente di una certa incrinatura»22.
    Tuttavia, benché tenue, il riferimento sacrificale, che specifica
    quel «celebrando il memoriale del Signore» c'è. Lo sottolineiamo nel
    testo. Per apprezzarlo nel suo valore, conviene considerare che si tratta
    di un'aggiunta rispetto all'antica anafora di sant'Ippolito e confrontarlo
    coll'analoga espressione del Canone Romano: «Ti offriamo... la vittima
    pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice
    dell'eterna salvezza».
    Padre veramente santo,
    fonte di ogni santità,
    santifica questi doni
    con l'effusione del tuo Spirito,
    perché diventino per noi
    il corpo e + il sangue di Gesù Cristo
    nostro Signore.
    Egli, offrendosi liberamente alla sua passione,
    prese il pane e rese grazie,
    lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
    PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
    QUESTO È IL MIO CORPO
    OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI
    .
    Dopo la cena, allo stesso modo,
    prese il calice e rese grazie,
    lo diede ai suoi discepoli, e disse:
    PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
    QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
    PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
    VERSATO PER VOI E PER TUTTI
    IN REMISSIONE DEI PECCATI.
    FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.

    Mistero della fede
    Il popolo acclama dicendo:
    1. Annunziamo la tua morte, Signore,
    proclamiamo la tua risurrezione,
    nell'attesa della tua venuta.
    Oppure:
    2. Ogni volta che mangiamo di questo pane
    e beviamo a questo calice
    annunziamo la tua morte, Signore,
    nell'attesa della tua venuta.
    Oppure:
    3. Tu ci hai redenti con la tua croce
    e la tua risurrezione:
    salvaci, o salvatore del mondo.
    Celebrando il memoriale
    della morte e risurrezione del tuo Figlio,
    ti offriamo, Padre,
    il pane della vita e il calice della salvezza,
    e ti rendiamo grazie
    per averci ammessi alla tua presenza
    a compiere il servizio sacerdotale.
    Ti preghiamo umilmente:
    per la comunione
    al corpo e al sangue di Cristo
    lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
    Ricordati, Padre, della tua Chiesa
    diffusa su tutta la terra:
    rendila perfetta nell'amore
    in unione con il nostro Papa N.,
    il nostro Vescovo N.,
    tutto l'ordine sacerdotale.
    Formula particolare per un defunto (omessa)
    Ricordati dei nostri fratelli,
    che si sono addormentati
    nella speranza della risurrezione,
    e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza:
    ammettili a godere la luce del tuo volto.
    Di noi tutti abbi misericordia:
    donaci di aver parte alla vita eterna,
    insieme con la beata Maria,
    Vergine e Madre di Dio,
    con gli apostoli e tutti i santi,
    che in ogni tempo ti furono graditi:
    e in Gesù Cristo tuo Figlio
    canteremo la tua gloria.
    Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
    a te, Dio Padre onnipotente,
    nell'unità dello Spirito Santo,
    ogni onore e gloria
    per tutti i secoli dei secoli.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 17:59]
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    00 09/02/2011 18:04
    Anche nelle preghiere III e IV la «celebrazione del memoriale» viene
    specificata come attuale offerta di un sacrificio. Questo sacrificio poi
    non è altro che il sacrificio stesso di Cristo (III: «riconosci nell'offerta
    della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione»; IV:
    «guarda con amore... la vittima che tu stesso hai preparato per la tua
    Chiesa»). Le espressioni «vittima immolata per la nostra redenzione»,
    «sacrificio di riconciliazione», «sacrificio a te gradito per la salvezza del
    mondo» indicano inequivocabilmente il fine propiziatorio del sacrificio,
    anche se non con la stessa forza e lo stesso nitore del «Suscipe sancte
    Pater...» dell'antico offertorio o dei passi equivalenti del Canone Romano
    («salvaci dalla dannazione eterna ...»)23.
    Sottolineiamo i passi più significativi e omettiamo l'acclamazione,
    uguale in tutte e quattro le preghiere.
    Preghiera eucaristica III
    Padre veramente santo,
    a te la lode da ogni creatura.
    Per mezzo di Gesù Cristo,
    tuo Figlio e nostro Signore,
    nella potenza dello Spirito Santo
    fai vivere e santifichi l'universo,
    e continui a radunare intorno a te un popolo,
    che da un confine all'altro della terra
    offra al tuo nome il sacrificio perfetto.
    Ora ti preghiamo umilmente:
    manda il tuo Spirito
    a santificare i doni che ti offriamo,
    perché diventino il corpo e + il sangue
    di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato
    di celebrare questi misteri.
    Nella notte in cui fu tradito,
    egli prese il pane,
    ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
    lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
    PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
    QUESTO È IL MIO CORPO
    OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
    Dopo la cena, allo stesso modo,
    prese il calice,
    ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
    lo diede ai suoi discepoli, e disse:
    PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
    QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
    PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
    VERSATO PER VOI E PER TUTTI
    IN REMISSIONE DEI PECCATI.
    FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
    Acclamazione
    Celebrando il memoriale del tuo Figlio,
    morto per la nostra salvezza,
    gloriosamente risorto e asceso al cielo,
    nell'attesa della sua venuta
    ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie
    questo sacrificio vivo e santo.
    Guarda con amore
    e riconosci nell'offerta della tua Chiesa,
    la vittima immolata per la nostra redenzione;
    e a noi, che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo Figlio,
    dona la pienezza dello Spirito Santo
    perché diventiamo in Cristo
    un solo corpo e un solo spirito.
    Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito,
    perché possiamo ottenere il regno promesso
    insieme con i tuoi eletti:
    con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,
    con i tuoi santi apostoli,
    i gloriosi martiri,
    e tutti i santi,
    nostri intercessori presso di te.
    Per questo sacrificio di riconciliazione
    dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero.
    Conferma nella fede e nell'amore
    la tua Chiesa pellegrina sulla terra:
    il tuo servo e nostro Papa N.,
    il nostro Vescovo N., il collegio episcopale,
    tutto il clero
    e il popolo che tu hai redento.
    Ascolta la preghiera di questa famiglia,
    che hai convocato alla tua presenza.
    Ricongiungi a te, Padre misericordioso,
    tutti i tuoi figli ovunque dispersi.
    Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti
    e tutti i giusti che, in pace con te,
    hanno lasciato questo mondo;
    concedi anche a noi di ritrovarci insieme
    a godere per sempre della tua gloria,
    in Cristo, nostro Signore,
    per mezzo del quale tu, o Dio,
    doni al mondo ogni bene.
    Per Cristo, con Cristo e in Cristo
    a te, Dio Padre onnipotente,
    nell'unità dello Spirito Santo
    ogni onore e gloria
    per tutti i secoli dei secoli.
    Preghiera eucaristica IV
    Questa Preghiera eucaristica forma un tutt'uno con il suo prefazio ...
    Omettiamo il dialogo iniziale del Prefazio.
    È veramente giusto renderti grazie,
    è bello cantare la tua gloria,
    Padre santo, unico Dio vivo e vero:
    prima del tempo e in eterno tu sei,
    nel tuo regno di luce infinita.
    Tu solo sei buono e fonte della vita,
    e hai dato origine all'universo,
    per effondere il tuo amore su tutte le creature
    e allietarle con gli splendori della tua luce.
    Schiere innumerevoli di angeli
    stanno davanti a te per servirti,
    contemplano la gloria del tuo volto,
    e giorno e notte cantano la tua lode.
    Insieme con loro anche noi,
    fatti voce di ogni creatura,
    esultanti cantiamo:
    Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell'universo.
    I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
    Osanna nell'alto dei cieli.
    Osanna nell'alto dei cieli.
    Padre santo, hai tanto amato il mondo
    da mandare a noi, nella pienezza dei tempi,
    Il tuo unico Figlio come salvatore.
    Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo
    ed è nato dalla Vergine Maria;
    ha condiviso in tutto, eccetto il peccato,
    la nostra condizione umana.
    Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza,
    la libertà ai prigionieri,
    agli afflitti la gioia.
    Per attuare il tuo disegno di redenzione
    si consegnò volontariamente alla morte,
    risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.
    E perché non viviamo più per noi stessi
    ma per lui che è morto e risorto per noi,
    ha mandato, o Padre, lo Spirito Santo,
    primo dono ai credenti,
    a perfezionare la sua opera nel mondo
    compiere ogni santificazione.
    Ora ti preghiamo, Padre:
    lo Spirito Santo
    santifichi questi doni
    perché diventino il corpo e + il sangue
    di Gesù Cristo, nostro Signore,
    nella celebrazione di questo grande mistero,
    che ci ha lasciato in segno di eterna alleanza.
    Egli, venuta l'ora d'essere glorificato da te,
    Padre santo,
    avendo amato i suoi che erano nel mondo,
    li amò sino alla fine;
    e mentre cenava con loro,
    prese il pane e rese grazie,
    lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
    PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
    QUESTO È IL MIO CORPO
    OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
    Allo stesso modo,
    prese il calice del vino e rese grazie,
    lo diede ai suoi discepoli, e disse:
    PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
    QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
    PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
    VERSATO PER VOI E PER TUTTI
    IN REMISSIONE DEI PECCATI.
    FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
    Acclamazione
    In questo memoriale della nostra redenzione
    celebriamo, Padre, la morte di Cristo,
    la sua discesa agli inferi,
    proclamiamo la sua risurrezione
    e ascensione al cielo, dove siede alla tua destra,
    e, in attesa della sua venuta nella gloria,
    ti offriamo il suo corpo e il suo sangue,
    sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.
    Guarda con amore, o Dio,
    la vittima che tu stesso hai preparato
    per la tua Chiesa;
    e a tutti coloro
    che mangeranno di quest'unico pane
    e berranno di quest'unico calice,
    concedi che,
    riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo,
    diventino offerta viva in Cristo,
    a lode della tua gloria.
    Ora, Padre, ricordati di tutti quelli
    per i quali noi ti offriamo questo sacrificio:
    del tuo servo e nostro Papa N.,
    del nostro Vescovo N., del collegio episcopale,
    di tutto il clero
    e di coloro che si uniscono alla nostra offerta,
    dei presenti e del tuo popolo
    e di tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero.
    Ricordati anche dei nostri fratelli
    che sono morti nella pace del tuo Cristo,
    e di tutti i defunti,
    dei quali tu solo hai conosciuto la fede.
    Padre misericordioso,
    concedi a noi, tuoi figli, di ottenere
    con la beata Maria Vergine e Madre di Dio,
    con gli apostoli e i santi,
    l'eredità eterna del tuo regno,
    dove con tutte le creature,
    oberate dalla corruzione del peccato e della morte,
    canteremo la tua gloria,
    in Cristo nostro Signore,
    per mezzo del quale doni al mondo ogni bene.
    per Cristo, con Cristo e in Cristo,
    a te, Dio Padre onnipotente,
    nell'unità dello Spirito Santo,
    ogni onore e gloria
    per tutti i secoli dei secoli.
    Le quattro preghiere non costituiscono alternative teologiche, ma
    alternative rituali. Cioè offrono la possibilità di sottolineare, secondo
    l'opportunità, aspetti che però si trovano tutti compresenti nello stesso
    contenuto teologico.
    Non possono dunque costituire, di per sé,
    alternative per l'espressione di una fede protestantica o cattolica.
    Appartengono tutte allo stesso contesto, che è un contesto cattolico.
    6. Le preghiere eucaristiche ambrosiane
    L'11 aprile 1976 è stato promulgato il nuovo Messale Ambrosiano.
    Le prime quattro preghiere eucaristiche sono – salvo lievi differenze che
    non interessano la nostra ricerca – identiche a quelle romane. La
    preghiera V e VI sono invece peculiari a questo rito. La preghiera V è
    riservata specialmente, oltre che alla Messa «nella Cena del Signore»,
    alle ordinazioni, agli anniversari sacerdotali e alle riunioni sacerdotali.
    Importante quindi come espressione della fede in tema di sacerdozio
    ministeriale.
    Venute dopo il NOM romano, sembrano aver recepito – almeno in
    parte – le critiche che gli sono state mosse. Si notino in particolare le
    espressioni forti come «ripresentare» e «rinnovare».
    Sottolineiamo, come al solito, i passi degni di particolare
    attenzione.
    Preghiera eucaristica V
    Veramente santo, veramente benedetto sei tu, o Dio; tu ci hai voluto in
    comunione di vita col Figlio tuo, eredi con lui del tuo regno, cittadini del
    cielo e compagni degli angeli, se però conserviamo con fede pura il mistero
    cantato dalle schiere celesti.
    E noi, elevati a tale dignità da poter presentare a te, per l'efficacia dello
    Spirito Santo, il sacrificio sublime del corpo e del sangue del Signore nostro
    Gesù Cristo, tutto possiamo sperare dalla tua misericordia.
    Per la redenzione del mondo, egli andò incontro liberamente alla passione
    che ricordiamo con venerazione e con amore.
    E per istituire un sacrificio quale sacramento di imperitura salvezza, per
    primo offrì se stesso come vittima e comandò di ripresentarne l'offerta.
    (In questo giorno,) alla vigilia di patire per la salvezza nostra e del mondo
    intero, stando a mensa tra i suoi discepoli, egli prese il pane e alzando gli
    occhi al cielo a te, Dio, Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera
    di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse:
    PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
    QUESTO È IL MIO CORPO
    OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
    Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e alzando gli occhi al cielo a
    te, Dio, Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione,
    lo diede ai suoi discepoli e disse:
    PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
    QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
    PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
    VERSATO PER VOI E PER TUTTI
    IN REMISSIONE DEI PECCATI.
    Diede loro anche questo comando:
    Ogni volta che farete questo
    lo farete in memoria di me:
    predicherete la mia morte,
    annunzierete la mia risurrezione,
    attenderete con fiducia il mio ritorno
    finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
    Mistero della fede.
    Il popolo acclama:
    Tu ci hai redento con la tua croce
    e la tua risurrezione:
    salvaci, o Salvatore del mondo.
    Obbedendo al divino comando, noi celebriamo, o Padre, questo mistero e,
    ricercando nel convito del corpo del Signore una comunione inseparabile
    con lui, ne annunziamo la morte.
    Manda a noi, o Padre onnipotente, l'unigenito tuo Figlio, tu che ce lo hai
    mandato con amore spontaneo prima ancora che l'uomo potesse cercarlo.
    Da te, che sei Dio ineffabile e immenso, lo hai generato Dio ineffabile e
    immenso, a te uguale. Donaci ora, quale fonte di salvezza, il suo corpo che
    ha sofferto per la redenzione degli uomini.
    Guarda propizio a questo popolo che è tuo possesso e a tutta la tua
    famiglia, che in comunione col nostro papa ... e col nostro vescovo ...,
    rinnovando il mistero della passione del Signore, proclama le tue opere
    meravigliose e rivive i prodigi che l'hanno chiamata a libertà.
    Tu che ora ci raduni col vincolo di un amore sincero nell'unità della Chiesa
    cattolica, serbaci per il banchetto del cielo e per la partecipazione alla tua
    gloria con la beata vergine Maria e con tutti i santi.
    Con il Signore nostro Gesù Cristo, nell'unità dello Spirito Santo, a te, o
    Padre, è l'onore, la lode, la gloria, la maestà e la potenza, ora e sempre,
    dall'eternità e per tutti i secoli dei secoli.
    Preghiera eucaristica VI
    Veramente santo, veramente benedetto è il Signore nostro Gesù Cristo,
    Figlio tuo.
    Egli, che è Dio infinito ed eterno, discese dal cielo, si umiliò fino alla
    condizione di servo e venne a condividere la sorte di chi si era perduto.
    Accettò volontariamente di soffrire per liberare dalla morte l'uomo che lui
    stesso aveva creato; con amore che non conosce confini ci lasciò quale
    sacrificio da offrire al tuo nome il suo corpo e il suo sangue, che la potenza
    dello spirito santo rende presenti sull'altare.
    La vigilia della sua passione, sofferta per la salvezza nostra e del mondo
    intero, stando a mensa tra i suoi discepoli, egli prese il pane, ti rese grazie
    con la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo diede a loro dicendo:
    PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
    QUESTO È IL MIO CORPO
    OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI,
    Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e alzando gli occhi al cielo a
    te, Dio, Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione,
    lo diede ai suoi discepoli e disse:
    PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:
    QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE
    PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,
    VERSATO PER VOI E PER TUTTI
    IN REMISSIONE DEI PECCATI.
    Diede loro anche questo comando:
    Ogni volta che farete questo
    lo farete in memoria di me:
    predicherete la mia morte,
    annunzierete la mia risurrezione,
    attenderete con fiducia il mio ritorno
    finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
    Mistero della fede.
    Il popolo acclama:
    Tu ci hai redento con la tua croce
    e la tua risurrezione:
    salvaci, o Salvatore del mondo.
    Il mistero che celebriamo, o Padre, è obbedienza al comando di Cristo.
    Manda tra noi in questa azione sacrificale colui che l'ha istituita perché il rito
    che noi compiamo con fede abbia il dono della presenza del Figlio tuo
    nell'arcana sublimità del tuo sacramento. E a noi, che in verità partecipiamo
    al sacrificio perennemente offerto nel santuario celeste, concedi di attingere
    la viva e misteriosa realtà del corpo e del sangue del Signore.
    Degnati, o Dio, di accogliere questo sacrificio pasquale: uniti alla beata
    vergine Maria madre di Dio e a tutti i santi, insieme col papa nostro ... e
    col vescovo nostro..., noi te lo offriamo con cuore umile e grato per la tua
    santa Chiesa, diffusa su tutta la terra e radunata nello Spirito santo
    dall'amore del tuo Redentore; te lo offriamo inoltre per i sacerdoti a te
    consacrati, per questo tuo popolo che in te ha trovato misericordia e per i
    nostri fratelli che ci hanno preceduto nella fiduciosa speranza della venuta
    del tuo regno. Serba scritti nel libro della vita i nomi di tutti perché tu li
    possa tutti ritrovare nella comunione di Cristo Signore nostro.
    Con lui e con lo Spirito santo, a te, o Padre, è l'onore, la lode, la gloria, la
    maestà e la potenza, ora e sempre, dall'eternità e per tutti i secoli dei
    secoli.
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 18:03]
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    00 09/02/2011 18:05
    1 Cfr. E. LODI, Enchiridion euchologicum fontium liturgicorum (Roma 1979) nn.
    3426-3432; IDEM, Clavis methodologica cum commentariis selectis (Bologna 1979) p.
    247-249.
    2 Scritti politici (Torino 1978) pp. 269-272. Il «canone minore» è l'offertorio.
    3 Cfr. O. CASEL, Das Mysteriengedächtnis..., cit.; Y. CONGAR, Théologie de
    l'eucharistie et christologie chez Luther, in: Rev. Sc. ph. th. 66 (1982) p. 179.
    4 Scritti politici, cit., p. 272.
    5 Cfr. Gemeinsame römisch-katolische Kommission, Das Herrenmahl, cit.: ampia
    raccolta di forme liturgiche luterane attuali alle pp. 59-84.
    6 G. SCUDERI, La cena del Signore: significato e celebrazione liturgica nella dottrina
    e nella prassi delle chiese evangeliche in Italia, in Eucaristia sfida alle Chiese divise
    (Padova 1984) p. 85.
    7 Ibid., p. 87.
    8 Cfr. E. LODI, Op. cit., nn. 3433-3438.
    9 Cfr. Ibid., nn. 3439-3457. Qui riportiamo i nn. 3347-3348 tratti dal Prayer
    Book del 1549. La traduzione è dello stesso Lodi, Liturgia della Chiesa. Guida allo
    studio della liturgia nelle sue fonti antiche e recenti (Bologna 1981) pp. 534-537.
    10 E. PASCHETTO, La celebrazione eucaristica nel movimento battista in: Eucaristia
    sfida alle Chiese divise, cit., p. 141.
    11 Ibid., p. 147.
    12 Ibid., p. 150.
    13 Ibidem.
    14 Cfr. D. BONNETERRE, Le mouvement liturgique (Escurolles 1980) pp. 180-183.
    Trad. it. in M. THURIAN, L'eucaristia..., cit., pp. 305-341.
    15 Come mai allora lo stesso M. Thurian ha potuto scrivere, su la Croix del 30
    maggio 1969, che «Le nouvel Ordo de la Messe, quelles que soient ses imperfections
    relatives ... est un exemple de ce souci fécond d'unité ouverte et de fidélité dynamique,
    de véritable catholicité: un des fruits en sera peut-être que des communautés non
    catholiques pourront célébrer la sainte Cène avec les mêmes prières que l'Eglise
    catholique. Théologiquement, c'est possible» (in: G. OURY, La messe de S. Pie V à Paul VI
    [Solesmes 1975] p. 123)? Questa dichiarazione ha sollevato, comprensibilmente, molto
    scandalo e l'iniziativa del quotidiano cattolico francese di far presentare il NOM da un
    pastore protestante lascia – per usare un eufemismo – molto perplessi. Non è però
    possibile concludere senza altro che la Messa di Paolo VI è protestante.
    A mio avviso si
    impongono alcune osservazioni:
    a) ogni testo liturgico, in virtù del suo genere letterario proprio,
    che non è quello didascalico ma piuttosto quello poetico e figurato, si
    presta facilmente ad interpretazioni diverse. Non dimentichiamo che
    anche Lutero – agli inizi delle sue riforme, ma già «luterano» – non
    trovava troppe difficoltà ad interpretare le formule del Messale Romano
    nel senso della sua teologia del sacrificio (
    cfr. J. RIVIERE, La Messe...,
    cit., col. 1087). Anche nel patrimonio tradizionale esistono preghiere
    che, tolte dal loro contesto, si prestano con estrema facilità ad una
    interpretazione impropria (si veda, a titolo di esempio, l'antifona di
    offertorio della Messa dei defunti: «Domine Jesu Christe, Rex gloriae...»,
    in cui si chiede al Signore di liberare le anime di tutti i fedeli defunti
    dalle fiamme dell'inferno ... quasi che la sorte eterna dell'uomo non si
    decida irrevocabilmente all'istante della morte...). I nuovi formulari poi
    si prestano certamente più facilmente di quelli antichi ad essere
    interpretati in senso protestantico;
    b) la teologia di M. Thurian è tutt'altro che chiara ed univoca.
    Abbiamo già rilevato, nel corso del nostro studio, qualche incoerenza.
    Accanto ad una fedeltà, almeno nominale, alla tradizione calvinistica, si
    fanno luce elementi decisamente cattolicheggianti ...;
    c) la posizione di M. Thurian è lungi dal rappresentare quella della generalità dei
    protestanti. Anzi, le sue dichiarazioni hanno provocato vivaci proteste. Per es. il
    luterano GUNTHER WENZ (Die Lehre vom Opfer Christi im Herrenmahl als Problem
    ökumenischer Theologie in Kerygma und Dogma 28/1/1982 pp. 7-41) ci offre una ben
    diversa lettura della riforma della liturgia cattolica. Dopo aver constatato che «sarebbe
    certamente un errore credere che il Concilio Vaticano II, per quanto riguarda il
    rapporto fra avvenimento della Croce e sacrificio della Messa, rappresenti una radicale
    revisione della concezione cattolica tradizionale» (p. 14), conclude che le nuove
    preghiere eucaristiche esprimono una dottrina dell'offerta sacrificale molto più
    esplicita di quella del Canone Romano!
    Ad ogni modo, quali che siano le cause di ordine oggettivo o soggettivo che
    hanno reso possibile questa dichiarazione, rimane fuori discussione che un protestante
    che intenda professare il suo rifiuto dei dogmi cattolici attraverso le formule del NOM
    deve necessariamente assumerle come distaccate dal loro contesto ed attribuire loro un
    senso diverso da quello ovvio e proprio.

    16 Cfr. P. RADO, Enchiridion Liturgicum (Roma 1961), vol. I, pp. 530-531.
    17 Cfr. E theia leitourghia tou en aghiois patros emon Ioannou tou Krisostomou
    (Roma 1967) p. 107.
    18 M. RIGHETTI, La Messa, cit., p. 397.
    19 Cfr. CORNELIUS A LAPIDE, in Mt 20,28; in Mt 26,28: «Qui pro multis, – id est pro
    omnibus ...»; in Rom 5, 19; SIMON-DORADO, Praelectiones biblicae – Novum
    Testamentum, vol. I (Torino 19608) pp. 896, 797-798; ZERWICK, Analysis philologica
    N.T. gracci in Mt 26,28: «omnes qui multi sunt».
    20 La crisi nella Chiesa..., cit., p. 32. questo pamphlet è un esempio di come
    anche persone competenti abbiano affrontato con superficialità e pressappochismo
    questo delicato problema.
    21 La si può leggere nella traduzione latina dell'originale greco perduto per es. in:
    J. SOLANO, Textos eucaristicos primitivos, vol. I (Madrid 19782) nn. 170-171.
    22 E. LANNE, Introduzione a: M. Thurian, L'eucaristia.... cit., pp. XXIV-XXV. Anche
    per E. Mazza «l'anafora II nasce per un radicale ridimensionamento del testo di
    Ippolito, per conservare solo i tratti fondamentali» (Le odierne preghiere eucaristiche,
    vol. I [Bologna 1984] p. 130).
    23 Credo che non si possa seriamente contestare il valore sacrificale di queste
    espressioni, anche se questa contestazione è stata fatta. Per Enrico Mazza (op. cit., pp.
    180-184), la fonte dell'anamnesi-offerta della Prex III non è il testo mozarabico – che
    peraltro padre Vagaggini stesso (che è l'autore materiale della Preghiera) indica come
    tale – ma ha bensì una origine romana, anzi, in definitiva scritturistica: Rm 12, 1.
    Ecco il testo mozarabico: «Questa è la vittima che pendette dal legno; questa è la
    carne che è risorta dal sepolcro. Ciò che il nostro sacerdote (= Cristo) offri in verità,
    questo stesso noi offriamo nella soavità del pane e del vino. Guarda (cognosce), ti
    preghiamo, Dio onnipotente, la vittima per la cui intercessione sei stato placato e
    accetta come adottivi coloro per i quali, per grazia, sei divenuto padre» (p. 181).
    È evidente che qui abbiamo la identificazione (sacramentale) fra questa vittima
    offerta nella liturgia e Gesù Cristo, mentre «il sacrificio vivente, santo, gradito a Dio» di
    san Paolo è la vita santa dei cristiani. Nel significato preciso di questo vocabolo c'è
    tutta la differenza fra la concezione protestantica e cattolica del sacrificio eucaristico.
    Mazza parla, con notevole improprietà di linguaggio, di una teologia dell'anamnesi e di
    una teologia del «di nuovo»: «questa discussione ci serve per concludere che non è
    tanto un vocabolo che fa difficoltà per le sue implicazioni di "sacrificio cruento" quanto
    piuttosto il sistema teologico basato sulla ripetizione del sacrificio. Questa
    associazione tra l'uso del vocabolo "vittima" e la teologia della ripetizione del sacrificio
    è chiara in Gregorio magno: "... dobbiamo immolare quotidiani sacrifici (hostias) della
    sua carne e del suo sangue. Infatti unicamente questa vittima (victima) salva l'anima
    dalla morte eterna dato che, per il mistero, rinnova (reparat) per noi proprio la morte
    dell'Unigenito che, quantunque risorgendo da morte non muoia più e la morte non
    domini più su di lui, pur vivendo in se stesso immortale e incorruttibile, per noi di
    nuovo viene immolato in questo mistero del santo sacrificio" (Dialogorum libri quattuor
    IV, 58: PL 77, 425). Qui il concetto di sacrificio è completamente sganciato dal "far
    memoria", dall'ultima cena e dal "mandato" di cui la messa è obbedienza. Tutto questo
    settore dei Dialoghi di Gregorio è pervaso di questa teologia della vittima dato che deve
    mostrare la sua efficacia contro il peccato dei vivi e dei defunti. La traduzione
    dell'anafora terza recepisce il termine "vittima"; ciò significa che recepisce anche
    questa teologia del "di nuovo"? Non necessariamente. Il testo resta piuttosto neutro al
    riguardo, ma dato che introduce il racconto istitutivo con il comando di Gesù di
    "celebrare questi misteri", possiamo concludere che la teologia dell'anamnesi prevale
    sulla teologia del di nuovo» (pp. 181-183).
    A questo autore sembra sfuggire il valore dell'espressione «per il mistero» di san
    Gregorio, per cui anamnesi e rinnovamento nel mistero sono la stessa cosa. In realtà
    l'identità fra l'offerta della Messa e la vittima divina non è propria della teologia, ma del
    dogma: «in divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur
    et incruente immolatur, qui in ara crucis "semel se ipsum cruente obtulit"» (Conc.
    Trid.: DS 1743), mentre la catalogazione di questa dottrina come «teologia del di
    nuovo» ci riporta alla fondamentale incomprensione protestantica della realtà
    sacramentale.
    Tuttavia, quello che qui mi interessa è che il senso oggettivo dell'espressione
    liturgica non può essere altro che quello che identifica questa vittima attualmente
    offerta colla vittima del Calvario. Lo prova il senso ovvio del testo, il contesto
    magisteriale in cui è inserito, oltre che, in questo caso specifico, l'origine materiale
    della sua formulazione. Si noti poi che Mazza mette in opera la stessa interpretazione
    anche per le espressioni corrispondenti del Canone Romano (pp. 108-110) e si lamenta
    del crudo realismo della Prex IV: «ti offriamo il suo corpo e il suo sangue sacrificio a te
    gradito per la salvezza del mondo».

    146
    CONCLUSIONE

    Giunti al termine del nostro cammino, è arrivato il momento di
    lanciare uno sguardo retrospettivo all'itinerario percorso.
    Siamo partiti da questa domanda fondamentale: le critiche di
    radicale protestantizzazione rivolte al NOM, che si .presenta con
    caratteristiche tanto diverse dall'ordo tradizionale e con tante
    somiglianze con la pratica protestantica, sono giustificate?
    Per rispondere a questo quesito abbiamo, anche se
    frettolosamente, interrogato la storia, per cogliere i punti essenziali di
    divisione/distinzione fra concezione cattolica e protestantica della
    Messa.
    Identificatili nel carattere sacrificale, nella presenza reale e nel
    sacerdozio ministeriale, ci siamo accinti a verificarne il permanere nel
    nuovo rito, nella sua «introduzione generale» e nelle sue rubriche.
    Ci è sembrato tuttavia necessario premettere due esposizioni di
    carattere teologico e metodologico. Perché la Messa è sacrificio? Perché è
    «imago repraesentativa passionis Christi», risponde san Tommaso.
    Perché è il «memoriale della morte del Signore», dice la tradizione. Il
    concetto chiave di memoriale si trova così inserito nella «sana dottrina».
    Quali sono i criteri corretti di interpretazione di un testo liturgico e di
    un atto del magistero (perché in casu si tratta dell'uno e dell'altro)?
    Poiché si tratta di interpretare un testo, il problema di una corretta
    metodologia che tenga conto della natura del testo si impone, e si rivela
    in definitiva come il punto centrale. L'allargamento dell'orizzonte
    ermeneutico alle note e ai pronunciamenti del Magistero nella loro
    continuità costituisce un imprescindibile dovere. Solo in questo
    contesto allargato si può cogliere il senso proprio e oggettivo dei nostri
    testi ed esso si rivela inequivocabilmente cattolico.
    La prova documentaria si snoda seguendo i punti dottrinali
    cardine che si vuole verificare negli articoli dell'IGMR e nelle preghiere
    dell'OM.
    146
    a) Si constata allora che il carattere sacrificale non è negato
    coll'uso del termine «memoriale» e che il fine propiziatorio è affermato
    con l'affermata identità di sacrificio del Calvario e sacrificio eucaristico e
    con l'uso di termini equivalenti.
    b) Si constata che il sospetto silenzio sul termine scottante
    «transustanziazione» è stato corretto nel testo definitivo, che l'insistenza
    su altre forme di presenza di Cristo, diverse da quella eucaristica, non
    esce dall'ambito della concezione cattolica della presenza eucaristica
    «reale non per esclusione ma per antonomasia» (Mysterium fidei).
    c) Si constata che la differenza essenziale fra sacerdozio comune e
    sacerdozio ministeriale è nuovamente affermata e l'insistenza sulla
    partecipazione dei fedeli si inserisce in una concezione «organica» e non
    ha niente a che vedere con la concezione indifferenziata dei protestanti.
    Fatta la verifica che il rito è sostanzialmente cattolico, ci siamo
    posti la domanda se – data la sua indiscutibile natura di «misura di
    interesse generale» emanante dalla suprema autorità della Chiesa –
    sarebbe stato, per ipotesi, possibile giungere ad una conclusione
    contraria. La dottrina sull'infallibilità dottrinale e pratica della Chiesa
    ha confermato i nostri rilievi. Problematica esaminata dopo nella
    riflessione teologica, ma che viene prima nel concreto esercizio dell'atto
    di fede.
    Una raccolta di testi del Magistero viene a fornire il supporto
    documentario (non completo, ma sufficientemente vasto) alla nostra
    linea interpretativa, mentre qualche testo liturgico, esaminato nelle sue
    parti più importanti, costituisce una ulteriore, preziosa, verifica.
    Abbiamo detto all'inizio che era nostra intenzione fare
    dell'apologetica autentica, la quale, fondata come è sulla verità e
    sull'obiettività, non può esimersi dal registrare anche quello che le
    critiche hanno di vero. Questo è importante per comprendere come le
    critiche sono state possibili e per aprire la strada ad una soluzione che
    dia soddisfazione ai malcontenti fondati.
    Abbiamo così riscontrato uno sbilanciamento ecumenico
    eccessivo che dà luogo ad una certa confusione. L'attenuazione dei
    termini efficacemente propiziatori risulta poi tanto più pericolosa in
    quanto avviene nel contesto edonistico contemporaneo che ha perduto –
    è cosa evidente per tutti – il senso del peccato e ha dimenticato il valore
    del sacrificio. La centralità della presenza eucaristica risulta anch'essa
    attenuata, quando si tratta del nucleo centrale del mistero e di qualcosa
    di particolarmente ostico per la mentalità moderna refrattaria al
    «miracolo» e al «mistero» (e quindi bisognoso di più ferma professione).
    Anche la sottolineatura unidirezionale del sacerdozio dei fedeli ci pare
    146
    molto
    [Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 18:17]
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