Tuttavia, poiché Cristo ha lasciato alla Chiesa il sacramento del
suo sacrificio da perpetuare fino alla sua definitiva venuta, deve esserci
anche un sacerdozio a ciò deputato: un sacerdozio pubblico che, per la
Chiesa e a nome della Chiesa, compia il segno sacramentale che
riattualizza e applica il sacrificio di Cristo. Dire che esiste un sacerdozio
esterno e visibile (oggi si preferisce chiamarlo «ministeriale») e un
sacerdozio interno e spirituale («universale» o «comune») non significa
affermare che quest'ultimo non abbia nessun ruolo esterno anche
liturgico da compiere o che questo ruolo sia soltanto passivo. Affermare
che solo il sacerdote-ministro compie il gesto sacramentale che
riattualizza il sacrificio, non significa escludere il sacerdote-fedele da
ogni attiva partecipazione. È comprensibile che questo punto di
dottrina, proprio come reazione alle negazioni protestantiche, abbia
subito una certa eclissi. Tuttavia è sempre stato almeno implicito nella
dottrina e nella prassi della Chiesa.
San Tommaso aveva già ben chiaro che il carattere, in generale (e
quindi anche quello battesimale), importat quamdam potentiam
spiritualem ordinatam ad ea quae sunt divini cultus (III, q. 63, a. 2, c). Se
questa potenza è principalmente «recettiva» (il potere di ricevere i
sacramenti), è secondariamente anche attiva: statim baptizati idonei
sunt ad spirituales actiones (Contra Gentes, 1. IV, c. 59). Questa
partecipazione attiva si esprime liturgicamente nel consenso
manifestato all'azione del sacerdote (implicito nella presenza devota,
esplicito nel dialogo). Si esprime compiutamente nella comunione
sacramentale e può esprimersi anche nell'offerta dei doni, simbolo
dell'offerta dei propri sacrifici spirituali.
Il punto discriminante col protestantesimo non consiste dunque
nell'attribuzione o meno ai fedeli di una certa funzione sacerdotale e
quindi nel riconoscimento di una parte attiva nella celebrazione
eucaristica, quanto nel fatto che i cattolici ammettono due modi,
essenzialmente distinti41, di partecipare all'unico sacerdozio di Cristo,
mentre i protestanti ne riconoscono uno solo. È ovvio che il
riconoscimento di due partecipazioni essenzialmente diverse comporta
due relazioni essenzialmente diverse rispetto all'eucaristia (agere
sequitur esse). Solo il sacerdote-ministro agisce in persona Christi e
compie immediatamente il gesto sacrificale. Il sacerdote-fedele partecipa
a questo sacrificio della Chiesa come membro del Corpo mistico di
Cristo, agendo il ministro nella persona di Cristo Capo, immola il
sacrificio solo mediante il sacerdote e offre i suoi sacrifici personali,
unendoli al sacrificio di Cristo, insieme con lui.
Questa partecipazione si differenzia essenzialmente da quella del
ministro perché non è tale da porre in essere il sacrificio sacramentale,
quindi non è strettamente richiesta perché esso ci sia (di qui la validità
e la legittimità delle Messe celebrate dal solo sacerdote-ministro).
Tuttavia il sacrificio compiuto dal solo presbitero non diventa per questo
affare privato, perché egli non cessa di prestare la sua persona come
strumento della virtù divina di Cristo in quanto ministro della Chiesa e
non cessa di rappresentare tutta la Chiesa essendo anche – anzi, in
certo senso, soprattutto – sacerdote-fedele.
La negazione di questa partecipazione differenziata che costituisce
l'ossatura della gerarchia della Chiesa, che va, logicamente, di pari
passo con la negazione della sua visibilità, costituisce lo specificum
protestantico in tema di ministero.
Col Concilio di Trento la Chiesa si leva per difendere il deposito
della fede. Le proteste dei «riformatori», se si agganciano a veri o pretesi
abusi, coinvolgono però verità che i cristiani hanno sempre creduto con
fede fermissima. Non su tutti questi punti esiste, è vero, una teologia
perfettamente elaborata.
Esistono, anzi, opinioni molto varie fra i teologi cattolici. In tutti
però vi è la convinzione che, quale che sia la spiegazione (il «come») che
di certe verità si può dare, il «fatto» che queste verità enunciano è fuori
discussione.
In questo caso
il Magistero non interviene per dirimere
controversie di scuola, ma per difendere la fede, per chiarire quali sono i
limiti che non si possono superare senza «far naufragio nella fede» (1
Tim 1, 19) e compromettere così, oggettivamente, la propria salvezza.
L'autorità si premura anche di difendere certe pratiche ecclesiastiche
che, anche se non costituiscono, di per sé, oggetto di fede, sono tuttavia
strettamente collegate a dogmi e sono come barriere per la sua difesa.
In particolare il Concilio si preoccupa di difendere la Chiesa dall'accusa
di aver favorito, con la sua disciplina, pratiche superstiziose, idolatriche
e contrarie al Vangelo. Anche in questo caso è, indirettamente, in gioco
un dogma, quello della santità della Chiesa. Quindi ci si preoccupa,
mediante canoni disciplinari, di attuare la vera Riforma della Chiesa.
Una Riforma che sopprima gli abusi senza sconvolgere gli usi legittimi e,
soprattutto, senza coinvolgere in alcun modo la sostanza intangibile
della fede. Che risponda insomma, autenticamente, al principio
dell'Ecclesia semper reformanda. D'altra parte sappiamo – e questo
rende problematica la terminologia recepta di «Riforma-Controriforma» –
che
la vera Riforma cattolica non aveva aspettato la ribellione di Lutero,
ma aveva avuto inizio ben prima e con ben altri orientamenti42. Segno
che la Sposa di Cristo ha sempre in se stessa le risorse per superare le
sue crisi, senza che nessuno possa mai sentirsi autorizzato a dettarle
dall'esterno quello che deve fare.
Noi qui ci occuperemo degli aspetti disciplinari, sia per quanto
riguarda la difesa della disciplina vigente, sia per quanto riguarda la
disciplina da introdursi; ci occuperemo innanzitutto di ciò che è
strettamente dogmatico.
È facile comprendere che
lo scopo del Concilio Tridentino, in
campo dogmatico, non è quello di fare una esposizione completa della
dottrina sull'Eucaristia e sulla Messa, ma soltanto quello di distinguere
con chiarezza ciò che il cattolico deve credere in contrapposizione agli
errori e alle deformazioni dei protestanti. Per questo si guarda bene
dall'esplicitare oltre quello che è necessario per difendere punti di
dottrina ben precisi, dall'entrare nelle questioni ancora disputate fra
teologi cattolici, dal toccare tutta quanta la materia.
Trattandosi di
attacchi a punti essenziali, ne risulta una risposta che esplicita quanto
vi è di essenziale, ma che non esclude integrazioni.
1) Innanzitutto il Concilio chiarisce che la Messa è un vero e
proprio sacrificio.
Nostro Signore Gesù Cristo «nell'ultima Cena (...) per lasciare alla
Chiesa, sua diletta sposa, un sacrificio visibile (come esige la natura
umana), col quale fosse rappresentato [repraesentaretur] quel sacrificio
cruento da compiersi una volta sulla croce, e la sua memoria
perdurasse fino alla fine del tempo, e inoltre la sua salutare virtù si
applicasse in remissione di quei peccati che si commettono da noi ogni
giorno (...), offrì il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del
vino a Dio Padre e sotto le medesime specie lo diede, perché ne
mangiassero, agli Apostoli (che allora costituiva sacerdoti del Nuovo
Testamento) e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, che
l'offrissero, con queste parole "Fate questo in memoria di me"»43.
Il Concilio, nell'esporre la dottrina, ha presente sullo sfondo la
fondamentale obiezione protestantica che fa leva sulla unicità e
irripetibilità del sacrificio del Calvario. A Trento si risponde che il
sacrificio della Messa non deroga a quello del Calvario perché non è un
altro sacrificio ma ne è la rappresentazione e l'applicazione. Croce e
Messa sono unum et idem44 infatti:
«Una sola e medesima è l'offerta, lo stesso è anche ora l'offerente
per il ministero dei sacerdoti, il quale un giorno offrì se stesso sulla
croce, soltanto diverso è il modo di offrire»45.
Quindi, nei canoni, si afferma perentoriamente che la Messa è
«vero e proprio sacrificio» (can. 1). Possiamo dire che questa è
l'affermazione centrale. Per valutarla nella sua reale portata, dobbiamo
ricordare, lo abbiamo già accennato, che i protestanti parlano anch'essi
di «sacrificio». Il termine è però assunto in sensi impropri. Sacrificio
perché nell'Eucaristia il pane e il vino sono offerti in cibo ai fedeli,
perché offriamo al Padre le nostre preghiere in cui gli ricordiamo il
sacrificio del Figlio ... Non sacrificio «vero e proprio», cioè avente in se
stesso una efficacia propiziatoria (per la remissione dei peccati). La
stessa efficacia del Sacrificio del Calvario. Nel cap. 2 della XXII sessione,
che espone il fine propiziatorio della Messa, il Concilio argomenta a
partire dall'identità fra il sacrificio della Croce e il sacrificio della Messa.
Questo ultimo è propiziatorio perché, essendo sacramentalmente lo
stesso del Calvario, ne ha la stessa efficacia. Un pasto, per quanto
sacro, o una semplice preghiera che ricorda quel sacrificio avvenuto una
volta per tutte, non ha nessuna efficacia propiziatoria propria.
Il Concilio, contro queste riduzioni, dà un significato preciso
all'espressione «sacrificio vero e proprio»:
a. Esso non consiste soltanto nel «darsi di Cristo a noi in cibo» (can. 1).
b. Non è «soltanto (un sacrificio) di lode e di ringraziamento» (can. 3).
Non soltanto una preghiera («sacrificio delle labbra»).
c. Non è «una memoria vuota (nudam commemorationem) del sacrificio
compiuto sulla croce» (ibidem).
d. È «propiziatorio» (ibidem). Contiene cioè la stessa virtus del Calvario.
Il Concilio difende anche la liceità della Messa in cui «solo il
sacerdote partecipa sacramentalmente» (can. 8). Abbiamo visto come,
per Lutero, sono messe «private» non soltanto quelle in cui celebra il
solo sacerdote, ma anche quelle in cui solo il sacerdote fa la comunione
sacramentale. E questo perché la Messa si riduce per lui
sostanzialmente alla comunione. Queste Messe invece non sono da
condannarsi come «private», perché in realtà, essendo sempre offerte da
un ministro pubblico per tutti i fedeli, sono sempre «Messe veramente
comunitarie (Missae vere communes)» (cap. 6).
Prima di affrontare il secondo punto dottrinale, soffermiamoci un
momento
sugli interrogativi che solleva la dottrina prospettata dal
Concilio. Come è possibile che la Messa «sacrificio vero e proprio» non
deroghi al Calvario, posto che sono indubbiamente, almeno dal punto di
vista storico-fenomenico, due realtà diverse? La risposta più tecnica il
Concilio la lascia ai teologi. Suo compito è quello di difendere la fede,
mostrando dove si situano le verità da credere. Ogni spiegazione
teologica, per non svuotare il mistero, deve tenere i due anelli della
catena: la Messa è vero e proprio sacrificio, tuttavia non «un altro»
sacrificio rispetto a quello del Calvario.
Per non avventurarsi in un campo che era ancora assai disputato
anche fra i teologi cattolici, il Concilio ripropone la terminologia
tradizionale: la Messa non deroga al Calvario perché è repraesentatio di
quest'ultimo. Solo che questa repraesentatio non equivale a una nuda
commemoratio. Nel linguaggio tradizionale troviamo i termini: figura,
sacramento, memoria o memoriale, rappresentazione o ripresentazione
(è l'ambiguità non casuale del termine repraesentatio46, rinnovamento,
applicazione. Tutti questi termini sono legittimi e convengono in uno
stesso, fondamentale (anche se sempre misterioso) significato. Non è del
tutto corretto invece parlare di «ripetizione», perché il sacrificio della
Croce è avvenuto una volta per tutte e non può più essere ripetuto.
Il Concilio dunque non condanna l'espressione commemoratio
applicata alla Messa. La condanna porta non sul termine in se stesso,
ma sull'aggettivo nuda. Il Concilio intende cioè condannare la
concezione soggettiva di memoriale dei protestanti, non la nozione in se
stessa che è assolutamente tradizionale. È comprensibile tuttavia che,
in seguito, i teologi abbiano abbandonato (meglio: relegato in un canto)
questo termine, a causa dell'ambiguità di cui l'interpretazione
protestantica lo aveva rivestito.
L'insistenza del Concilio sulla natura veramente sacrificale
dell'eucaristia non deve neppure far dimenticare la ricchezza del mistero
che non si esaurisce qui. Questa sottolineatura non intende escludere
altri aspetti.
Per esempio, accanto alla verità che la Messa è sacrificio
vero e proprio, resta vero che essa è anche convito, comunione, «sinassi»
(cfr. III q. 73, a. 4), ecc.47.
2) In una sessione distinta (la XIII), il Concilio afferma che nel
sacramento dell'Eucaristia Cristo è presente «veramente, realmente e
sostanzialmente». Il modo con cui si opera questa presenza è una
«mirabile conversione» che si dice appropriatamente
«transustanziazione».
«Mediante la consacrazione del pane e del vino si ha una
trasformazione (conversione) di tutta la sostanza del pane nella
sostanza del corpo di Cristo nostro Signore, e di tutta la sostanza del
vino nella sostanza del sangue di lui. E questa trasformazione
convenientemente e propriamente è stata chiamata dalla santa Chiesa
cattolica transustanziazione»48.
«Se alcuno dicesse che nel SS. Sacramento dell'Eucaristia
rimanesse la sostanza del pane e del vino insieme con il corpo e il
sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, e negasse quella mirabile e
singolare trasformazione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di
tutta la sostanza del vino nel sangue, rimanendo soltanto le specie del
pane e del vino, la quale trasformazione viene chiamata molto
opportunamente transustanziazione dalla Chiesa cattolica: sia
scomunicato»49.
Le verità affermate sono dunque fondamentalmente tre:
a. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo sono presenti sotto le specie
(apparenze) del pane e del vino.
b. Sotto le specie sacramentali non vi è più la sostanza del pane e del
vino.
c. La presenza del corpo e del sangue di Cristo e l'assenza del pane e
del vino si spiegano con la conversione totale della sostanza del pane
e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù. Questa
conversione totale si chiama transustanziazione.
Questa dottrina ha come conseguenza due importanti pratiche
rituali, nelle quali si trova come verificata in concreto: quella della
conservazione dell'Eucaristia (cann. 4 e 7) e quella della sua adorazione
(can. 6).
3) Per poter pronunciare efficacemente le parole della
consacrazione, dando luogo alla presenza reale di Cristo e realizzando il
sacrificio, occorre essere investiti di un potere dall'alto che abilita ad
agire in persona Christi. Potere con origine sacramentale, radicato in un
carattere indelebile.
Il Concilio ha già fatto una importante affermazione sul
sacramento dell'ordine nella XXII sessione, quando ha detto che Cristo
ha costituito sacerdoti del Nuovo Testamento gli Apostoli nell'ultima
Cena, comandando loro di offrire il suo corpo e il suo sangue:
«Se alcuno dicesse, che con quelle parole "Fate questo in memoria
di me" (...) Cristo non abbia costituito gli Apostoli sacerdoti oppure non
abbia ordinato che essi stessi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo
e il suo sangue: sia scomunicato» (can. 2).
Nella XXIII sessione però viene affrontato ex professo l'argomento.
Argomento importante e complesso: accanto a quello sulla
giustificazione questo decreto è quello che ha richiesto la più difficile
fase di preparazione. Lo stretto legame col tema del sacrificio è rilevato
in partenza e costituisce come la base di tutta l'esposizione:
«Il sacrificio e il sacerdozio sono talmente uniti nei disegni di Dio,
che si ebbero entrambi sotto ogni legge. Avendo la Chiesa cattolica
ricevuto nel Nuovo Testamento, per istituzione del Signore, il santo
sacrificio visibile dell'Eucaristia, occorre anche affermare, che in essa vi
è un nuovo sacerdozio visibile ed esterno (...) nel quale l'antico
sacerdozio è stato trasferito (...). La S. Scrittura lo mostra, e la
tradizione della Chiesa cattolica ha sempre insegnato, che questo
sacerdozio fu istituito dallo stesso Signore, nostro Salvatore, e fu dato il
potere agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio di consacrare, di
offrire e di distribuire il suo corpo e il suo sangue nonché di rimettere e
di ritenere i peccati»50.
All'origine del ministero sacerdotale vi è un vero e proprio
sacramento (cap. III e can. 3) che imprime un carattere indelebile (cap.
IV e can. 4). Non tutti i cristiani sono «indifferentemente sacerdoti del
Nuovo Testamento»; non «tutti godono di eguale potere spirituale». Chi
affermasse il contrario proporrebbe un'immagine inorganica della
Chiesa: «come se, contro l'insegnamento di S. Paolo, tutti fossero
Apostoli, Profeti, Evangelisti, Pastori e Dottori (cfr. 1 Cor 12, 29; Ef 4,
11)».
1 Su questo punto cfr.: J. RIVIERE, La Messe durant la période de la Réforme et du
concile de Trente: DrhC X/1 (1928) coll. 1085-1142; L. GODEFROY, Eucharistie d'après
le concile de Trente: Ibid. V/2 (1913, 1924) coll. 1326-1356; A. BAUDRILLART,
Calvinisme: Ibid. 11/2 (1923), coll. 1398-1422; B. NEUNHEUSER, Eucharistie in
Mittelalter und Neuzeit: Handbuch der Dogmengeschichte IV/4 b (Herder, Freiburg i.B.
1963); J. PAQUIER, Luther. Le nouveau culte: DThC IX/1 (1926), coll. 1304-1308; J.
POLLET, Zwinglianisme. Eucharistie: Ibid. XV/1 (1950) coll. 3825-3842; A. MICHEL,
Ordre: Ibid. XI/2 (1932), coll. 1333-65.
2 San TOMMASO D'AQUINO, Comm. in Aristotelem, De caelo et mundo, lib. I, cap.
10, lect. 22, n. 8.
3 In Mattheum, lib. I, cap. 2: ML 26, 29.
4 Contra Henricum regem Angliae (1522): W 10/II, 220, 13.
5 «Nec vero pauci refert ne qua ad posteros exeat ullius nos exortae discordiae
suspicio. Plus quam enim absurdum est, postquam discessionem a toto mundo facere
coacti sumus inter ipsa principia alios ab aliis dissilire» (lettera di Calvino a Melantone
del 28 nov. 1552: Corpus Reformatorum, vol. 42, col. 415).
6 E. ISERLOH, Der Kampf um die Messe in den ersten Jahren der
Auseinandersetzung mit Luther (Münster 1952) p. 11: cit. in: NEUNHEUSER, op. cit., p.
53.
7 Ein Sermon von dem neuen Testament, das ist von der heiligen Messe (1520): W
6, 365, 23-25.
8 «Rogemus autem dominum, ut mittat operarios in messem suam et angelos
suos, qui colligant de regno eius omnia scandala. Multa enim sunt valde, sed nunc
nobis unum istud insigne petitur, quod si tulerimus, non unum tulerimus, cum sit
ferme caput omnium» (De abroganda missa privata Martini Lutheri sententia, 1521: W
8, 412, 23-27).
9 «Quod Missa in papatu sit maxima et horrenda abominatio, simpliciter et
hostiliter e diametro pugnans contra articulum primum» (Articuli Smalcaldici, pars II,
art. II, De Missa: J.T. MUELLER, Die Symbolischen Bücher der evangelisch-lutherischen
Kirche deutsch und lateinisch (Gütersloh 192812) p. 301, 1). L'articolo primo è quello
che enuncia la dottrina della giustificazione per sola fede, senza le opere: «Quod Iesus
Christus, Deus et Dominus noster, sit propter peccata nostra mortuus, et propter
iustitiam nostram resurrexit Rom 4; et quod ipse solus sit agnus Dei, qui tollit peccata
mundi Joh. 1, et quod Deus omnium nostrum iniquitates in ipsum posuerit Esaiae
53; Omnes peccaverunt et iustificantur gratis absque operibus seu meritis propriis, ex
ipsius gratia, per redemptionem, quae est in Christo Jesu, in sanguine eius Rom. 3.
Hoc cum credere necesse sit, et nullo opere, lege aut merito acquiri et apprehendi
possit, certum est et manifestum solam hanc fidem nos iustificare ...» (Ibid., p. 300, 1-
4).
10 Il secondo degli Articoli Smalcaldici è tutto dedicato ai «papisti più ragionevoli»
(«sanioribus pontificiis», «vernünftige Papisten») al fine di convincerli che la Messa è
un'invenzione umana. Per Lutero questo è il punto di fondamentale divisione,
destinato addirittura a proiettarsi nell'eternità, per cui, mentre egli si rende conto che
il cattolicesimo fa un tutt'uno con la Messa, si dice disposto a morire piuttosto che
accettare una tale pratica: «Et ego etiam per Dei opem in cineres corpus meum redigi
et concremari patiar prius, quam ut missariorum ventrem, vel bonum vel malum,
aequiparar Christo Jesu, Domino et Servatori meo, aut eo superiorem esse feram. Sic
scilicet in aeternum disiungimur et contraria invicem sumus. Sentiunt quidem optime,
cadente missa cadere papatum. Hoc priusquam fieri patiantur, omnes nos
trucidabunt, si poterunt. Ceterum draconis cauda ista (missam intelligo) peperit
multiplices abominationes et idololatrias» (Ibid., p. 302, 10-11).
11 «Ich sag, das alle gmeyne hewser, die doch gott ernstlich verbotten hat, ja alle
todtschleg, diebstal, mord and eebruch nitt also schedlich seyn als diser grewel des
Papisten Mess» (Predigt am 1. Advent, 27 novembre 1524: W 15, 774, 19-21).
12 Cfr. De captivitate Babylonica ecclesiae praeludium (1520): W 6, 522-523.
13 «Vides ergo, quod Missa quam vocamus sit promissio remissionis peccatorum,
a deo nobis facta, et talis promissio, quae per mortem filii dei firmata sit» (Ibid., p. 513,
34-36).
14 «Repugnat Missam esse sacrificium, cum illam recipiamus, hoc vero demus»
(Ibid., pp. 523-524).
15 La Tradizione aveva sempre interpretato quest'affermazione in perfetta
armonia con la fede nel carattere veramente sacrificale di ogni Messa. La Messa non è
«un altro sacrificio» rispetto a quello irripetibile del Calvario. Sacrificio che ne
denuncerebbe – in modo blasfematorio – l'insufficienza. La sua realtà di sacrificio sta
nell'essere rappresentazione (la rappresentazione di un sacrificio deve essere a sua
volta sacrificale), raffigurazione, del Sacrificio del Calvario e quindi nell'essere –
sacramentalmente – tutt'uno con esso. In questa prospettiva l'«una volta per tutte»
viene ad avere il valore opposto a quello che gli vogliono attribuire i protestanti:
irripetibile come fatto storico definitivamente trascorso nella sua realtà puramente
fenomenica (come sacrificio cruento) è infinitamente ripresentabile nel «sacramento»
(nel rito eucaristico che è sacrificio incruento), perché la sua virtus salvifica è infinita e
trascende lo spazio e il tempo. «Forse che con la Messa sradichiamo la Croce? – dice
san Roberto Bellarmino, il più grande controversista cattolico –. Niente affatto, la
stabiliamo invece [statuimus] (...). Affermiamo che il sacrificio della Croce ha una
efficacia salvifica infinita e eterna (...), neghiamo però che ne consegua che non si
possa, senza offendere la Croce di Cristo, moltiplicare i sacrifici rappresentativi del
sacrificio della Croce che ci applicano i suoi frutti» (De Missa, cap. 25: Respondeo II,
cit. in: S. TROMP, De Christo capite Mystici Corporis (Università Gregoriana, Roma 1960)
pp. 194-195).
16 B. NEUNHEUSER, cit., p. 62. Cfr. anche pp. 54-57; RIVIERE, cit., coll. 1102-1112;
i capitoli dottrinali non promulgati in: BETZ, L'eucarestia come mistero centrale:
Mysterium salutis 8 (Queriniana, Brescia 19772) p. 346.
17 «Sagt uns, yhr pfaffen Baal: Wo steht geschrieben, das die Mess eyn Opffer ist,
odder wo hatts Christus gelernt, das man gesegnet brott und weyn gott opffern soll?
Hort yhr nicht? Christus hatt eyns sich selbst geopffert, er wil von keyn andern
hynnfort werden geopffert. Er wil, das man seyns opffers gedenken soll. Wie seytt yhr
denn so kuene, dass yhr aus dem gedechtnis eyn opffer macht? Sollt yhr aus ewrm
eygen kopff, on alle schrifft, so torich seyn? Denn so yhr aus dem gedechtnis seyns
opffers eyn opffer macht und yhn noch eyns opffert, warumb macht yhr denn auch nit
aus dem gedechtnis seyner gepurt eyn ander gepurt, das er also noch eyn mal geporn
wuerde?» (Vom Missbrauch der Messen, 1521: W 8, 493, 19-28).
18 «I maestri del giovane monaco, Trutvetter, Usingen e Paltz, erano nominalisti
riconosciuti e Martino stesso si vantò di essere "della fazione", della "setta" d'Ockham
(...) P. Denifle fa rilevare, a ragione, che Lutero non conosceva la vera dottrina dei
grandi maestri della teologia medioevale, in particolare quella di san Tommaso» (A. DE
MOREAU, Lutero e il luteranesimo: Storia della Chiesa, a c. di A. Fliche e L. Martin, vol.
XVI, ed. it. SAIE, Torino 1968, p. 46).
19 Cfr. TH. BEER, Der fröhliche Wechsel und Streit. Grundzüge der Theologie Martin
Luthers (Johannes Verlag, Einsiedeln 1980) pp. 526-527.
20 «L'offerimus cattolico (...) contrasterebbe con il principio solus Deus solus
Christus, che in questioni di salvezza deve essere fatto valere in maniera
incondizionata; contrasterebbe anche con la struttura fondamentale dell'evento della
croce, che per sua natura dovrebbe essere determinato non come autosacrificio di
Gesù, ma come sua donazione ad opera del Padre; infine un sacrificio dei cristiani,
soprattutto inteso come sacrificio espiatorio, significherebbe il tentativo di una
rinnovata espiazione e di un completamento del sacrificio della croce, che è
autosufficiente, sarebbe quindi un'opera» (J. BETZ, cit., p. 355).
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 12:23]