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Novus Ordo Missae e Fede Cattolica

Ultimo Aggiornamento: 09/02/2011 18:09
09/02/2011 17:38
 
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7 Breve Esame Critico, in: Cristianità 19-20 (1976) p. 7.
8 Pare che vi abbiano lavorato – secondo diverse indiscrezioni –: Mons. Renato
Pozzi (l'estensore materiale dell'enciclica di Giovanni XXIII Veterum sapientia), esperto
liturgista; p. Guérard de Lauriers O.P., allora docente di dogmatica alla Lateranense;
p. Philippe de la Trinité O.C.D., allora consultore del Sant'Uffizio; nonché un laico: il
prof. Agostino Sanfratello.
9 Un esempio di questa metodologia ecumenica conciliare ci è offerto da Mons.
Philippe Delhaye, attuale segretario della Commissione teologica internazionale. Perito
al Concilio, ebbe modo di seguire dall'interno l'elaborazione dei testi. A proposito della
famosa questione sul sacerdozio dei fedeli, quando si trattò di parlarne, soprattutto
nel contesto della Lumen Gentium, si fecero strada diverse tendenze. Nessuno pensava
di negare il dato indiscutibile di questo sacerdozio, tuttavia alcuni manifestarono
perplessità nei confronti di una sottolineatura troppo vivace. «Mons. Phillips mi aveva
chiesto di aiutarlo – racconta Mons. Delhaye – a livello di segretariato, su questo
punto di dottrina. Un giorno mi fece parte dei suoi timori davanti a certe esperienze
olandesi già realizzate. Si voleva ridurre il numero dei preti, organizzare parrocchie
senza preti ordinati e affidare a laici, scelti dalla comunità, le funzioni e i poteri dei
precedenti ministri. Ciò implicava evidentemente la trasformazione dell'eucaristiasacrificio
in convito-cena, così come implicava la fine della confessione (...). Verso la
stessa epoca Mons. Charue, vescovo di Namur e vice-presidente della commissione
conciliare per la fede e la morale, mi confidava analoghi timori, che peraltro non
nascevano originariamente da lui, ma da un osservatore appartenente a una delle
comunità ecclesiali della Riforma. Questo pastore gli aveva detto: "Commettete un
errore privilegiando i testi sul sacerdozio comune. Noi abbiamo commesso lo stesso
errore nel sedicesimo secolo e non siamo più riusciti a ristabilire la situazione"» (Ph.
DELHAYE, Il metaconcilio, in: Rivista del clero italiano 1 (1981) p. 28. Prevalse
l'ottimismo e ne uscì una formulazione che, se ricordava in termini inequivocabili la
distinzione «essentia et non gradu tantum» (LG 10) fra sacerdozio ministeriale e
comune, era tutta tesa ad esaltare quest'ultimo. «Qui si può cogliere dal vivo
l'ottimismo (in sé lodevole ma forse smentito dai fatti) di certe grandi personalità del
Vaticano II. Queste ritenevano che andando il più lontano possibile avrebbero chiuso
la strada agli eccessi. La "politica" del Concilio di Trento era stata, al contrario,
pessimistica: "siccome alcuni hanno abusato del sacerdozio comune, non parliamone
più". (Ibidem, nota 26).
10 Non riteniamo però che si tratti di una metodologia antiecumenica.
Circoscrivere i punti di permanente differenza, portandoli al centro della discussione,
non può che giovare ad un dialogo ecumenico improntato a chiarezza e lealtà. Non
pensiamo, infatti, che l'occultamento delle differenze sotto una coltre di ambiguità e
confusione sia vero e sano ecumenismo. Riteniamo invece che il vero dialogo passi
soprattutto attraverso l'approfondimento, cioè attraverso la soluzione dei punti
controversi, mediante la loro riduzione (nel senso di «concentrazione») a punti comuni.
È mostrando il nesso necessario con ciò che è accettato da tutti che si risolve ciò che è
controverso, lasciando eventualmente da parte terminologie che esaltano inutilmente le
differenze, urtano cioè la suscettibilità senza essere affatto indispensabili a questo
approfondimento. È ovvio, però, che questo procedimento postula la massima
chiarezza sui punti in discussione. Qualsiasi dialogo non può mai procedere
fruttuosamente a spese della chiarezza. Cfr. UR 11: «Bisogna assolutamente esporre
con chiarezza tutta quanta la dottrina».
11 Non rientra nelle mie finalità fare una recensione completa del libro: quindi
non ne esaurirò tutto il contenuto, ma mi limiterò ad alcuni punti che giudico
essenziali, per mettere a fuoco quelle che sono le critiche di fondo al NOM. Sarà utile
però riassumere il suo contenuto. Il libro si divide in due parti: nella prima si esamina
la «questione della Messa»; nella seconda un problema connesso: l'ipotesi del Papa
eretico. Perché problema connesso? Perché se il giudizio sul NOM dovesse risultare di
eterodossia, allora si imporrebbe l'esame della posizione canonica di chi lo ha
promulgato. È una conseguenza assolutamente logica e non ci sono sotterfugi
sentimentali che la possano eludere. Non intendo esaminare questa seconda parte: la
cosa ci porterebbe troppo lontano. Si tratta poi di una questione che si pone solo se si
pone una determinata conclusione nella prima parte. Penso che questa conclusione
non si ponga, ritengo quindi superfluo trattare di questo argomento. Mi permetto solo
una osservazione: allo stato attuale delle cose (diverso da quello in cui il libro fu
pubblicato per la prima volta: 1970-71) le conseguenze di un giudizio di eterodossia
sarebbero ben più ampie e non coinvolgerebbero più soltanto la persona del Papa che
ha promulgato il NOM. Si imporrebbe la conseguenza a cui è arrivato – del tutto
logicamente – il p. Guérard de Lauriers: l'autorità (tutta l'autorità) della Chiesa è
venuta meno. Essa sussiste solo materialmente, come un cadavere (cfr. M.L. GUERARD
DES LAURIERS, O.P., Le Siège Apostolique est-il-vacant? (Lex orandi, lex credendi), in:
Cahiers de Cassiciacum 1 (1979) pp. 5-99). Infatti il NOM gode oggi dell'accettazione
moralmente unanime di tutta la Chiesa. Anzi – dopo le dimissioni di Mons. de Castro
Mayer dalla diocesi di Campos – dell'accettazione fisicamente unanime di tutto
l'episcopato residenziale di rito latino. È ormai rito praticato dalla unanimità morale
della Chiesa da più di dieci anni. Quindi le difficoltà ecclesiologiche di un giudizo di
eterodossia sono oggi ben più cospicue di quelle – già di per sé notevoli – che comporta
la quaestio (tradizionale, ma tuttora irrisolta) «de papa haeretico». Oggi si sarebbe
perlomeno vicini alla quaestio «de Ecclesia haeretica». Ci si dovrebbe accingere a
investigare la possibilità di una «morte della Chiesa», ridotta, nella sua gerarchia, a
una «struttura» priva di vita... Si dovrebbe cioè entrare in una prospettiva decisamente
apocalittica, esoterica e in definitiva assurda se esaminata alla luce di una sana
ecclesiologia

Capitolo
Primo

CATTOLICESIMO E PROTESTANTESIMO
A CONFRONTO
BREVE PREMESSA STORICA

Per situare correttamente il nostro studio sono molto utili, per
non dire indispensabili, alcuni richiami di carattere storico-dottrinale,
che mettano sotto i nostri occhi gli aspetti salienti della controversia
protestantica sull'Eucaristia e la Messa. Inutile dire che si tratta
soltanto di un abbozzo che intende evidenziare la reale portata dei punti
discriminanti: che cosa veramente differenzia, al di là della pura
terminologia, cattolicesimo e protestantesimo in tema eucaristico1.

Riteniamo insufficiente un puro e semplice rimando ai capitoli e
ai canoni del Tridentino: il Concilio deve essere interpretato nel suo
contesto storico. Le sue affermazioni e le sue condanne si rivolgono a
interlocutori determinati, sapere – anche se a grandi linee e con
indispensabili approssimazioni – quello che questi interlocutori
dicevano, non è evidentemente senza importanza per comprendere non
superficialmente il dettato conciliare. Le sue affermazioni hanno un
valore assoluto, perché intendono proporre autenticamente e
definitivamente la fede della Chiesa, ma per comprenderle appieno è
indispensabile vederle nel loro contesto.

Pur essendo consapevoli, con san Tommaso, che: «non si tratta
tanto di sapere che cosa gli uomini abbiano pensato, ma come
veramente sia la realtà delle cose»2, non possiamo però dimenticare il
monito di san Gerolamo: «molti cadono in errore, perché non conoscono
la storia»3.


Va innanzitutto notato come la controversia eucaristica sia uno
dei punti più importanti nel più vasto contesto della controversia
protestantica. È noto il detto di Lutero: «triumphata vero Missa puto nos
totum Papam triumphare»4. Questo ci conferma nella convinzione che,
con l'eucaristia e la Messa, ci troviamo al centro della fede e della vita
della Chiesa.
Tratteggiare una dottrina protestantica univoca in materia è
difficile e questo per la natura stessa del Protestantesimo. Il rifiuto del
magistero ecclesiastico conduce per forza di cose alla frammentazione
delle opinioni, tanto che qualcuno ha potuto affermare che «non esiste il
Protestantesimo, esistono soltanto dei protestanti».
Fu proprio la dottrina eucaristica il terreno su cui si svilupparono
le più violente controversie all'interno del protestantesimo stesso. Le
prime divisioni in seno alla «Riforma» ancora incipiente (1529) sorgono
infatti in occasione della disputa sollevata dai «sacramentari» sulla
presenza reale. Calvino, davanti al fallimento dei suoi tentativi di
mediazione, esterna a Melantone tutto il suo disappunto con parole che
esprimono bene la piega preoccupante che il movimento stava
fatalmente prendendo: «È molto importante che i secoli a venire non
sospettino neppure delle divisioni che ci sono fra noi; perché è ridicolo
al di là di ogni immaginazione, che dopo aver rotto con tutti, noi ci
mettiamo tanto poco d'accordo fra di noi fin dall'inizio della nostra
riforma»5.
Il Protestantesimo si presenta esteriormente come una reazione
contro degli abusi, come un movimento di «Riforma» che intende
purificare e rinnovare la Chiesa riportandola all'autenticità originaria.

Non è difficile però constatare come, dietro la polemica contro l'abuso, si
celi la negazione di qualcosa di sostanziale della dottrina cattolica,
qualcosa che la Chiesa ha sempre creduto e praticato e considerato
come irrinunciabile.
Riguardo al nostro tema specifico questi punti sostanziali sono
fondamentalmente tre : 1) il carattere sacrificale della Messa, 2) la
presenza reale sostanziale di Cristo nell'Eucaristia, 3) il sacerdozio
ministeriale essenzialmente distinto da quello dei semplici fedeli.
Attorno a questi tre punti ruota tutta la polemica.
Se a riguardo della presenza reale sorgono fra i protestanti – fin
da subito – divergenze, tutti sono d'accordo nella negazione radicale del
carattere sacrificale della Messa
e – quindi – conseguenza
assolutamente logica, di un sacerdozio esterno e visibile, che costituisce
un ministero permanente in seno alla Chiesa.
Fin dal 1522 Lutero conduce «questa lotta contro la Messa
ininterrottamente lungo tutta la sua vita»6. Anche quando gli estremisti
(i «sacramentari»: Carlostadio, Zwinglio, Ecolampadio) porteranno alle
ultime conseguenze le sue dottrine, arrivando alla negazione della
presenza reale e suscitando le ire del «riformatore», Lutero non cesserà
di negare caparbiamente che la Messa è un sacrificio.
Sono note le sue
espressioni violente, che lasciano intravedere – su questo punto – una
passionalità veramente sconcertante.
Abbiamo già ricordato come il monaco tedesco abbia visto nel
sacrificio della Messa il baluardo della cittadella cattolica. Per lui
concepire la Messa come un sacrificio è «il peggiore degli abusi»7, che si
manifesta concretamente soprattutto nello «scandalo della messa
privata»8. «La Messa costituisce nel papato il massimo e orrendo
abominio»9. Da essa derivano tutti gli altri mali: «questa coda del
dragone, cioè la Messa, partorisce una moltitudine di abomini e di
idolatrie». Di fronte alla fermezza e all'impegno con cui tanti cattolici
scendono in campo per difendere il Santo Sacrificio minacciato, Lutero
osserva che i «papisti» «sanno perfettamente che una volta caduta la
Messa è finito anche il papato». Per parte sua, afferma di essere
«disposto a lasciare bruciare il suo corpo per la causa di Dio, piuttosto
che equiparare il ventre dei messari (= i preti) a Gesù Cristo»10. «Tutte le
case chiuse, che pure Dio ha severamente condannato, tutti gli omicidi,
gli assassini, gli stupri e gli adulteri sono meno nocivi dell'abominazione
della Messa papista»11.
Che cosa è allora la Messa?
Nella liturgia eucaristica – secondo Lutero – bisogna distinguere
accuratamente la Messa e la preghiera, il sacramento e l'opera, il
testamento e il sacrificio. L'uno (Messa-sacramento-testamento) viene
da Dio a noi mediante il ministero del presbitero e l'altro (la preghiera,
l'opera, il sacrificio) si eleva verso Dio dalla nostra fede mediante il
sacerdote12.
La Messa è innanzitutto un testamento, vale a dire la «promessa
della remissione dei peccati, promessa fatta da Dio, rafforzata dalla
morte del figlio di Dio»13, e che si accompagna ad un segno visibile, cioè
il sacramento del pane e del vino. Questo sacramento non ha altro fine,
né altro effetto che quello di eccitare in noi la fede che, sola, giustifica. È
empio dunque volerne fare un'opera buona applicabile agli altri: questo
carattere può tutt'al più convenire alle preghiere di cui la Messa è la
occasione e che costituiscono come la risposta da parte dell'uomo al
testamento del Signore. La Messa non è un sacrificio perché Cristo non
ha celebrato un atto rituale, ma un banchetto, e tutto quello che è stato
aggiunto in seguito alla semplicità di quella prima cena è un
cerimoniale senza valore. «C'è contraddizione nell'opinione per cui si
considera come sacrificio la Messa: noi riceviamo la Messa, offriamo
invece un sacrificio»14. Se qualche formula della liturgia parla ancora di
sacrificio (Lutero si riferisce alla liturgia romana del suo tempo, perché
dalla sua cercherà di espungere ogni anche lontano ricordo di
sacrificio), bisogna intenderlo delle preghiere che accompagnavano una
volta il rito dell'offerta (la processione con cui si portavano i doni
all'altare) e che gli sono sopravvissute.
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 10:53]
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