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Novus Ordo Missae e Fede Cattolica

Ultimo Aggiornamento: 09/02/2011 18:09
09/02/2011 17:45
 
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Tuttavia questo procedimento, in sé validissimo, esige delle
condizioni ben precise:
a. Che vi siano nel testo singoli passaggi che manifestino per se stessi
esplicita opposizione alla dottrina cattolica. Passaggi cioè
chiaramente erronei.
b. Oppure che i singoli passi che possono avere un senso ortodosso,
costituiscano inequivocabilmente un sistema, in modo tale da
rivelarsi, alla luce del contesto, come solo materialmente
interpretabili pro bono, ma formalmente erronei.
Ora, nel caso presente, mi sembra di poter dire che:
1. Nessun passo può essere – preso in se stesso – dichiarato
assolutamente falso. Non è possibile parlare cioè di passi «confusi,
sospetti e eterodossi». Ciascuno anzi può essere interpretato, senza
violentare il testo, in senso cattolico. Qualche passo di difficile – non
impossibile – interpretazione, può essere considerato come «obiter
dictum».
2. L'interpretazione che deve far emergere il «sistema» dominante deve
estendersi a tutto il contesto prossimo e remoto: — Alle note che
costituiscono un elemento importantissimo per ogni interpretazione
e soprattutto per quella di un testo di Magistero
(Xavier da Silveira le
trascura completamente); — Ai documenti in cui l'autore formale del
testo (Papa e Santa Sede) manifesta – anche senza specifico
riferimento al documento in questione – il suo pensiero sulla materia
in oggetto; — Deve tener conto del genere letterario che si desume
non solo dal tono del testo stesso, ma anche (e soprattutto)
dall'intenzione dell'estensore4.

Xavier da Silveira ricorre ad elementi estrinseci al documento per
farne emergere il «sistema»: fa ampio riferimento al commento
Nuevas normas de la misa (BAC, Madrid 1969). Questa scelta non è
arbitraria: fra gli autori vi sono personalità che hanno partecipato ai
lavori di redazione del NOM. Tuttavia si tratta pur sempre di un
«luogo improprio». Chi ha redatto materialmente il NOM, ne è
soltanto l'autore materiale (come si dice che l'allora padre Billot e
padre Lemius siano stati gli «autori» dell'enciclica Pascendi di san
Pio X o padre Tromp della Mystici Corporis di Pio XII) mentre l'autore
formale è il Papa. Un riferimento a queste fonti per orientare la
propria interpretazione può essere utile, ma non è assolutamente
determinante, soprattutto se si tace quasi completamente dei testi
del Magistero che sono il «luogo proprio» da cui desumere il pensiero
dell'autore formale.

3. Una lettura integrale, alla luce di tutto il contesto e prossimo e
remoto, dà ragione insieme: — della fondamentale ortodossia del
sistema; — del perché dell'uso di espressioni edulcorate. La
spiegazione ovvia è l'ecumenismo. Ecumenismo inteso però come
scelta pastorale, non come posizione dottrinale (indifferentismo).
Questo non esclude affatto che altre intenzioni ben più pericolose e
distorte abbiano avuto il loro ruolo nella fase di materiale redazione
del testo. È anzi assai verosimile che le cose siano andate così.
Tuttavia quello che conta è quanto il testo dice oggettivamente come
testo del Magistero, non quanto avrebbero voluto dire alcuni suoi
estensori materiali.
Vedremo infatti, esaminando i principali punti
critici del NOM (soprattutto la Institutio generalis) che: — nessuna
espressione, anche singolarmente presa, è qualificabile come eretica;

— l'ambiguità di molte espressioni si scioglie alla luce del contesto
prossimo e del contesto remoto proprio; — il tutto risulta abbastanza
confuso, ma non di una confusione tale da rendere impossibile ad
una lettura attenta di riconoscere la dottrina cattolica.

Posto che rientra nelle funzioni del magistero quella di chiarire, di
«spezzare il pane», di proporzionare le verità di fede anche ai non
«addetti ai lavori», esso si mostra difettoso quando è bisognoso di
troppo attenta e sofisticata ermeneutica per rivelare le sue vere
intenzioni. Tuttavia un atto anche difettoso non è per ciò stesso
anche inaccettabile.

Una volta invece adottato il criterio ermeneutico che consiste, in
ultima analisi, nel mettere tra parentesi l'origine magisteriale del testo,
per elevare a chiave interpretativa la lettura progressistica più radicale,
si impongono conseguenze assai gravi:

1. Il NOM e, in modo particolare 1'IGMR, anche se le loro singole parti
possono essere intese in senso cattolico, costituiscono nell'insieme
un testo eretico. L'eresia non si esplicita in nessuna delle singole
affermazioni (o almeno assai raramente), tuttavia risulta chiaramente
da un esame di insieme. Si tratta insomma di un testo che è
«occultamente» eretico. Potremmo quindi dire: favens haeresi in
senso intrinseco.
2. Quindi, posto che il testo è stato promulgato dal Papa e accettato dai
suoi successori e dall'unanimità dei vescovi residenziali, oltre che
dall'unanimità morale dei fedeli (si consideri che non tutti i fedeli che
assistono anche abitualmente alla Messa tradizionale oppongono un
rifiuto di principio al NOM), discendono da queste altre conseguenze
ecclesiologiche:
− Il papa, tutti i vescovi residenziali e la totalità morale dei fedeli
sono almeno eretici materiali.
− Il fedele cattolico si può oggi salvare nella misura in cui: o rompe
ogni comunione liturgica con la gerarchia e la maggioranza dei
fedeli della Chiesa cattolica romana, o agisce in stato di ignoranza
invincibile (né più né meno come il fedele di una qualsiasi setta).
− La Chiesa gerarchica e visibile avrebbe dunque cessato di essere
vivente mezzo di salvezza. Non ci si salva più mediante essa, ma
nonostante essa.
Né l'una né l'altra di queste conseguenze è esplicitamente tratta
dal nostro autore. Mi sembra che questo derivi anche dalla natura
interlocutoria dell'opera. Nella sua intenzione originaria essa voleva
provocare un salutare dibattito sulla questione, che purtroppo non si è
sviluppato. Tuttavia esse si impongono – mi pare – a fil di logica.
1 «Leges ecclesiasticae intelligendae sunt secundum propriam verborum
significationem in textu et contextu consideratam; quae si dubia et obscura manserit,
ad locos parallelos, si qui sint, ad legis finem ac circumstantias et ad mentem
legislatoris est recurrendum» (Codex Iuris Canonici, can. 17). Il nuovo Codice riprende
il vecchio can. 18 del Pio-benedettino, estendendo semplicemente – come è nella
natura delle cose – il contesto a tutto l'ambito delle leggi ecclesiastiche e non soltanto
a quello del Codice.
2 ARNALDO XAVIER DA SILVEIRA, op. cit., p. 43.
3 Ibid., p. 44.
4 Cfr. la Dichiarazione della Congregazione per il Culto Divino «Institutio
generalis» del 18 novembre 1969: EV 3, pp. 1272-1273 in nota. Cfr. anche Missale
Romanum: EV 3, 1000. Questi testi sottolineano il carattere più pratico-descrittivo che
dottrinale dell'Institutio generalis. La versione italiana ufficiale del 1973 ha tradotto
Institutio generalis con «Principi e norme per l'uso del Messale Romano» confermando
questa tendenza a ridurre la portata dottrinale del documento.
Capitolo
Terzo
SACRIFICIUM MISSAE
MEMORIALE MORTIS DOMINI
«L'eucaristia è soprattutto un sacrificio» (Dominicae Cenae: App.
28). Per comprendere questa verità che fa eco oggi, sulla bocca del
Papa, all'affermazione solenne del Concilio di Trento e di tutta la
Tradizione della Chiesa, ci dobbiamo riportare «in illo tempore»,
all'avvenimento istitutivo: all'Ultima Cena e, in particolare, alle parole
che hanno istituito il «mysterium fidei».
Qualcuno (Bouyer) ha criticato la teologia eucaristica classica
giudicandola impoverita, circoscritta com'è a pochi passi scritturistici e,
soprattutto, alle parole dell'istituzione. Ora, se è vero che un
allargamento del quadro, soprattutto nella direzione delle tradizioni
liturgiche, non può che giovare all'approfondimento, ciò non toglie che
le parole e il gesto dell'istituzione «concentrano» in sé tutto il mistero
dell'eucaristia, in modo tale che sacramento e sacrificio trovano lì la loro
sorgente, il loro essere e il loro significato.
Il sacrificio della messa si attua tutto nell'azione sacra della
consacrazione. Così come il sacramento si fa con la consacrazione.
Facendo il sacramento si offre il sacrificio. «Rendendo veramente
presenti il Corpo e il Sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino,
(...) (la celebrazione eucaristica) rende – nello stesso tempo – attuale e
accessibile, alla nostra generazione, il Sacrificio della Croce» (Giovanni
Paolo II: App. 29).
Andiamo dunque all'Ultima Cena. Già il contesto di
quell'avvenimento parla un chiarissimo linguaggio sacrificale. Il Signore
compie quel gesto e pronuncia quelle parole nel rito della Pasqua
ebraica. Rito complesso, ma, innanzitutto, manducazione dell'agnello
precedentemente sacrificato nel Tempio. Il banchetto dipende da quel
sacrificio, da cui trae tutto il suo significato. Si tratta di un «convito
sacrificale».
Quando Gesù, in due momenti distinti (gli esegeti discutono
attorno alla loro esatta collocazione nella sequenza rituale), compie il
gesto di prendere del pane e del vino accompagnando questo gesto con
parole che ne determinano il significato, compie un «gesto simbolico», o
meglio, un «gesto profetico». Segno profetico del tipo di quelli che si
ritrovano spesso nella S. Scrittura (si pensi a Osea) col particolare,
peculiare, valore di segni che non si limitano a favorire l'apprendimento
di un insegnamento, ma denunciano e attuano un intervento di Dio.
Gesù annuncia, profetizza, il sacrificio dell'indomani e, nello stesso
tempo, lo rende misteriosamente già attuale. Il significato sacrificale del
suo gesto è palese. Risulta dall'insieme e anche da ogni singola parte. Il
pane è il suo corpo (forse «carne», basar) «dato», offerto, «per voi».
Nell'offerta del calice si ha «per molti», evidente richiamo ad una
importantissima profezia dell'AT, quella del Messia – «servo sofferente»,
che si sacrifica per i peccatori, di Is 53. «Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo
giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in
premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato
se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli
portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori» (53, 11-12).
Nel
richiamare le parole della profezia, Cristo chiaramente manifesta di
compierla in quell'atto stesso. Il sangue è «per la nuova ed eterna
Alleanza», riferimento trasparente al gesto di Mosè che sancisce
l'Alleanza con Dio aspergendo con il sangue delle vittime sacrificate
l'altare e il popolo (cfr. Es 24, 3-8). Anche pane e vino in quanto alimenti
hanno (sempre nel contesto biblico) un significato sacrificale: il pane si
spezza per distribuirlo. Il vino è il sangue dell'uva (cfr Gen 49, 11). Il
calice dice sofferenza («Padre (...) allontana da me questo calice!» Lc 22,
42). I due segni combinati insieme accentuano questo significato: carne
e sangue sono i due elementi del sacrificio espiatorio (cfr. Lv 1, 2-9). La
loro presenza separata parla un chiaro linguaggio di morte. In forza
delle parole infatti sono resi presenti separatamente corpo e sangue: per
concomitanza naturale poi sotto le specie del pane è reso presente
anche il sangue e viceversa. In forza dei simboli messi in opera dunque,
che sono «simboli di morte» (Mediator Dei), è direttamente la morte
sacrificale ad essere significata e, per essa, è significato il sacrificio nella
sua globalità. Il sacrificio nella sua globalità comporta l'accettazione da
parte di Dio. Questa accettazione è implicata nella Risurrezione, che si
inserisce così in pieno nella dinamica del sacrificio. È dunque vero che
la Messa è «memoriale mortis et resurrectionis», anche se, nella misura
in cui i due aspetti sono messi sullo stesso piano, non si rende con
precisione il fatto che essa è «direttamente» memoriale della morte e solo
«per concomitanza» della Risurrezione.
È un limite della terminologia
dell'IGMR e anche del rito. Il Canone Romano dice, con molta finezza
(nell'originale latino però ...): «unde et memores (...) tam beatae
passionis, nec non et ab inferis resurrectionis».
Il pane e il vino, mentre hanno un indubbio significato sacrificale,
non cessano di essere alimenti. Segno che sono stati prescelti perché la
partecipazione al sacrificio possa perfezionarsi mediante la
manducazione («prendete e mangiate...»). Il sacrificio è «sacrificio
conviviale»1.
Abbiamo detto che il gesto di Cristo è un «gesto profetico» che, nel
ricordare le antiche profezie e fatti profetici, le compie, indicando ed
attuando l'intervento divino che è la realtà prefigurata. È dunque un
segno che attua ciò che significa. In altri termini, un «sacramento».
San Tommaso e, sulla sua scia, il Concilio di Trento, distinguono
nell'eucaristia sacrificio e sacramento.
Si tratta di una distinzione
importante: negarla, o anche minimizzarla, è un errore pericoloso2.
Tuttavia questa distinzione deve guardarsi bene dal diventare
separazione, dimenticando che si tratta di aspetti intimamente
congiunti in una stessa realtà. Essi si richiamano a vicenda e non è
possibile comprendere adeguatamente l'uno senza aver presente anche
l'altro. Questa verità ha subito un certo oscuramento nel periodo posttridentino,
in cui la distinzione si è accentuata in modo un po'
unilaterale, mentre è evidente in san Tommaso: per lui l'eucarestia è
insieme sacrificio e sacramento
«quod quidem et offertur ut sacrificium,
et consecratur ut sacramentum» (III q. 83, a. 4 c). Sono due formalità di
una stessa concreta realtà, due formalità che ne designano l'aspetto
anabatico (ascendente) di sacrificio offerto dall'uomo a Dio, e l'aspetto
catabatico (discendente) di strumento mediante il quale Dio opera la
santificazione dell'uomo. È il sacramento stesso, preso nella sua
totalità, che è sacrificio. Il che implica, reciprocamente, che il sacrificio è
tutto intero nel sacramento3.
È merito del card. Billot l'aver riportato, in linea col rinnovamento
tomistico,
la ratio sacrificii nell'ambito della sacra-mentalità4. Se
l'eucaristia è un sacramento, la sua natura sacrificale deve essere, alla
radice, sacramentale.
Il rito eucaristico è rappresentativo del Sacrificio
del Calvario. Lo rappresenta e lo ri-presenta. È segno efficace della
Passione di Cristo5.
Per comprendere come la natura sacrificale della eucaristia si
inscriva nella sacramentalità è opportuno ricostruire a grandi linee la
struttura del sacramento, seguendo sempre le orme del Dottore
comune.
Nella teologia tomistica sono fondamentali due nozioni per
comprendere il sacramento. Quella di segno e quella di strumento. Il
sacramento è innanzitutto segno e poi strumento.
È infatti strumento
nelle mani di Dio per causare la grazia in quanto innanzitutto significa,
rappresenta, questo intervento di Dio che salva. L'intervento
fondamentale è l'Incarnazione
(con tutta l'opera della Redenzione che ne
segue), per cui i sacramenti possono essere detti «reliquiae
incarnationis». La causalità del sacramento si trova così, in qualche
modo, in dipendenza dal suo significato: produce quello che significa,
significandolo (significando causat, causando significat).
Il sacramento però è un segno molteplice. Rimanda direttamente al
gesto del Verbo Incarnato, che rende presente significandolo. In questo
modo rende possibile che questo gesto, evocato e ri-presentato, produca
il suo effetto. Quindi non rimanda a questo effetto (grazia) che in quanto
significa e rappresenta la causa che lo produce, dunque indirettamente.
È quanto insegna san Tommaso quando definisce il sacramento «segno
di una realtà che santifica l'uomo» (III q. 60, a. 2 c; a. 3, ob. 2 e ad 2).
Questo doppio significato fondamentale del sacramento (1. Gesto
di Cristo reso presente significandolo, 2. Produzione dell'effetto
significato nella significazione rappresentativa della causa) si esprime in
una classica tripartizione.

Essa affonda le sue radici nella speculazione
medioevale, gioca un ruolo fondamentale nella teologia tomistica ed è
ancora merito del Cardinal Billot l'averla riportata in auge a dar nuova
prova della sua fecondità.

È la tripartizione in sacramentum tantum, res
et sacramentum, res tantum.
Il sacramentum tantum è il segno sacramentale nella sua realtà
sensibile e percepibile in quanto segno. Materia, gesto parole. «Materia e
forma» secondo un'applicazione analogica del binomio ilemorfico
mutuato dalla cosmologia.
La res et sacramentum è la realtà direttamente significata. Realtà
che opera la santificazione dell'uomo e la gloria di Dio. Se a fondamento
vi è l'Incarnazione con tutta l'opera della Redenzione, la realtà
direttamente significata è sempre la Passione, in quanto la sola
formalmente meritoria.
La res tantum è la realtà significata nella precedente, in quanto da
essa procede. È la grazia che santifica l'uomo e costruisce la Chiesa.
Quando si dice che il segno rende presente l'evento salvifico,
bisogna intendere questo non nella sua fattualità storica, e è irripetibile,
ma nella realtà soprastorica ormai raggiunta in Cristo, Verbo di Dio
incarnato, morto e risorto. L'oblazione di Cristo è ormai
inscindibilmente legata alla sua persona. Il Risorto, che siede alla destra
del Padre, continua ad offrire il suo sacrificio. Il sacramento lo rende
presente, cioè Cristo lo offre di nuovo al Padre attraverso la persona del
ministro e il segno sacramentale.
Il merito di aver recentemente esplicitato questo aspetto è del
p. Garrigou-Lagrange6. Ripresentando il sacrificio di Cristo, il rito
consacratorio rende a Dio un culto perfetto. Lo stesso identico a Lui
reso sul Calvario. Nello stesso tempo l'evento ri-presentato è causa di
salvezza per chi vi partecipa con le dovute disposizioni. Sia offrendo con
e per mezzo del sacerdote. Sia, soprattutto, partecipando al banchetto
sacro che è la logica conseguenza del sacrificio. Non solo: essendo
applicazione del sacrificio del Calvario, il sacrificio della Messa può
essere offerto anche per i vivi non presenti e per i defunti e – in quanto
offerto sempre a nome della Chiesa – giova di fatto sempre a tutta la
Chiesa.
Questo aspetto di culto a Dio è presente in ogni sacramento.
Come in ogni sacramento è presente il riferimento al sacrificio di Cristo.
Solo questo però è il «sacramentum perfectum passionis» (III q. 73, a. 5
ad 2), perché contiene il protagonista stesso dell'evento salvifico
commemorato: Cristo in corpo, sangue, anima e divinità (sacramentum
perfectum Dominicae passionis tanquam continens ipsum Christum
passum).
Questo «sacramento della Croce»non è dunque una nuda
commemorazione per due motivi:
a. Uno comune a tutti i sacramenti: perché contiene la virtus salvifica
che profluisce dall'evento riattualizzato.
b. L'altro suo specifico: perché «continet ipsum Christum passum». Da
intendersi non di un Cristo attualmente sofferente, ma di un Cristo
che, in virtù della sua passione, continua a meritare davanti al
Padre. Il Cristo presente nell'eucaristia è il Cristo glorioso. Tuttavia
sempre offerente al Padre il suo sacrificio. L'evento è ripresentabile in
quanto «eternizzato» nella persona del suo protagonista.
Alla luce di quanto abbiamo detto si comprende facilmente come
il sacrificio della Messa sia, in se stesso, immolazione. Abbia cioè un
valore assoluto di sacrificio senza essere «un altro» sacrificio rispetto a
quello del Calvario. È sacrificio in quanto il segno sacramentale realizza
nel modo suo proprio l'atto compiuto allora da Cristo sul Calvario,
ripetendo il «gesto profetico» dell'Ultima Cena. È proprio del sacramento
realizzare rappresentando: «imago quaedam est repraesentativa
passionis Christi, quae est vera eius immolatio» e producendo: «per hoc
sacramentum particeps efficimur fructus Dominicae passionis» (III q.
83, a. 1 c). È dunque nell'ordine del segno che la Messa è immolazione.
Appunto: immolazione sacramentale (o «mistica»). Non nell'ordine reale,
altrimenti ci troveremmo di fronte fatalmente ad «un altro» sacrificio. Il
sacrificio sacramentale non contraddice all'unicità del Sacrificio di
Cristo per la semplice ragione che, non essendo dello stesso ordine, non
si può «sommare» con lui. Due realtà di ordine diverso non possono
entrare in concorrenza. E questo vale anche per il gesto dell'Ultima
Cena, che non costituisce, sacramentalmente, un'altra cosa rispetto al
Sacrificio del Calvario, anche se la sua collocazione temporale (prima
del Calvario) lo connota differentemente rispetto alle Sante Messe
celebrate in seguito. È anticipazione e non ancora memoria. Rispetto
all'Ultima Cena la Messa «ripete», mentre rispetto al Calvario
«ripresenta».
Il sacrificio è lo stesso («unum et idem» dice il Catechismo
tridentino) ma compiuto in due modi differenti: nell'Ultima Cena e nella
Messa nel modo del segno e del rito sacramentale (modo «incruento»);
sulla Croce nella realtà della vita e della storia (modo «cruento»).
[Modificato da Heleneadmin 10/02/2011 13:10]
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