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Il loro piano sta fallendo: Benvenuti nel Nuovo Disordine Mondiale. Ora tutto dipende da noi

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2024 14:35
27/03/2020 05:30
 
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Dal coronavirus un nuovo colpo a una globalizzazione già malata

Dirlo adesso è facile, con Trump che chiude gli aeroporti all'Europa, l'Italia alla Cina, l'Austria i confini all'Italia, eccetera. Ma la Grande Deglobalizzazione era iniziata prima della pandemia del coronavirus e continuerà anche quando tutti saranno tornati a scuola e allo stadio. Il mondo dopo il coronavirus, insomma, non sarà lo stesso, ma non per via del virus. L'epidemia ha solo accelerato e, forse, reso irreversibili processi che già premevano su uno dei tre pilastri della globalizzazione: quello della produzione. Per gli altri due, comunicazioni e finanza, la deglobalizzazione era già in marcia, prima dell'epidemia. Il tessuto connettivo della globalizzazione sono le “catene di valore”, ovvero le filiere di produzione di beni che attraversano confini e Paesi, da un capo all'altro del mondo. La globalizzazione ha comportato una radicale redistribuzione della struttura produttiva a livello globale. Il caso più celebre è quello della Apple. L'iPhone che arriva in America figura come importazione dalla Cina, ma in realtà il valore realizzato in Cina non supera il 5 per cento. Il resto è sparso per il mondo su centinaia e centinaia di fornitori (come la STMicroelectronics italiana): il 97 per cento del valore di un iPhone è realizzato lontano dagli USA (anche se i profitti sono americani). La Apple è, forse, un caso estremo, ma replicato ovunque, in tutti i settori. Negli ultimi anni, tuttavia, si è innestata una marcia indietro.

Catene di fornitori così lunghe impediscono di aggiustare i prodotti velocemente, come richiede la prassi di tenere i magazzini al minimo. E, soprattutto, oggi nella produzione il costo del lavoro (elemento decisivo, una volta, per spingere le imprese a decentrarsi) pesa assai meno. Per quel che pesa, inoltre, il vantaggio comparato di produrre, ad esempio, in Cina, si riduce, man mano che salgono i salari dei lavoratori cinesi. L'epidemia ha mostrato vividamente alle grandi aziende che questa rete è anche fuori dal loro controllo. Si sono rese conto che, in moltissimi casi, non hanno la minima idea di chi fornisca quel particolare componente, dove diavolo stia e se, a questo punto, continuerà a fornire materiale o no. Vicende diverse, in diverse parti del mondo (uno tsunami, piuttosto che una epidemia) possono compromettere questa rete troppo fragile. La globalizzazione, insomma, funziona finché funziona. Se si inceppa è il caos. Le aziende lo avevano già avvertito, prima dell'epidemia, con le guerre delle tariffe di Trump che, con scelte imprevedibili e, a volte, contradditorie, hanno reso, dalla sera alla mattina, perdenti e impraticabili scelte di investimento che sembravano incontestabili. Le aziende si adegueranno, nei prossimi anni, semplificando e accorciando queste “catene di valore”, riportando più vicino a casa le produzioni o riassestandole su base regionale.

Un processo lungo e non indolore. Il 40 per cento dell'export totale americano avviene attraverso quelle catene. Per l'Asia, Cina compresa, si arriva al 50 per cento. Ma il continente che più ne sarà sballottato è l'Europa, dove il 70 per cento dei prodotti che vengono esportati ha alle spalle catene di valore più o meno lunghe. Se le catene di valore sono il tessuto connettivo della globalizzazione, il suo sistema cardiocircolatorio è Internet. E-commerce, social media, comunicazione in tempo reale, i grandi banchi memoria del cloud: globalizzazione e digitalizzazione sono due fenomeni quasi indistinguibili. Ma l'Internet globale di oggi è un sistema cardiocircolatorio che ha due cuori e due reti venose sempre più distinte. Amazon, Google, Facebook da una parte. Alibaba, Baidu, Tencent dall'altra. Dall'e-commerce al cloud sono due sistemi sempre più lontani e sempre più incomunicanti. Infine, il carburante che tiene in piedi il mondo globalizzato: i soldi. Girano sempre meno. Rispetto ai primi dieci anni del secolo, i flussi finanziari che attraversano i confini si sono ridotti di due terzi. Sono soprattutto le banche che prestano malvolentieri a lunga distanza. E' passato un quarto di secolo da quando Tom Friedman magnificava “il mondo diventato piatto”, lisciato dalla globalizzazione. Magari non è tornato rotondo, ma, certo, è molto gibboso.

Maurizio Ricci
14 marzo 2020
www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2020/03/14/news/coronavirus_deglobalizzazione-25...
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