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Piccole riflessioni sull´evoluzione.....

Ultimo Aggiornamento: 24/10/2008 19:41
05/05/2007 22:04
 
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Datazioni enigmatiche

a cura del CNR

Una strumentazione unica in grado di datare, in pochi minuti, reperti minuscoli risalenti fino a 50 mila anni fa. L'acceleratore elettrostatico tandem del Circe- Centro di ricerche isotopiche per i beni culturali e ambientali- afferisce ad Innova, struttura coordinata da Antonio Massarotti dell'Istituto di cibernetica (Icib) del Cnr di Pozzuoli.

Niente più dubbi nella datazione di monumenti e reperti antichi. A sollevare gli archeologi e storici dell'arte dal rompicapo dell'attribuzione cronologica, sarà un acceleratore elettrostatico tandem in grado di datare manufatti e fossili risalenti fino 50 mila anni fa. Lo straordinario strumento si trova presso il Laboratorio di spettrometria di massa ultrasensibile, una nuova struttura ospitata nell'ex Ciapi di San Nicola La Strada, in provincia di Caserta.

Il laboratorio fa parte del Centro di ricerche isotopiche per i beni culturali e ambientali (Circe), uno dei “tasselli” di Innova, Centro di competenza regionale nato per trasferire i risultati scientifici alle imprese della Campania coordinato da Antonio Massarotti dell'Istituto di cibernetica (Icib) del Cnr di Pozzuoli. Il Circe e il suo acceleratore sono stati presentati oggi, in occasione della tavola rotonda: “Ruolo delle regioni nella promozione della ricerca e dell'innovazione ai Beni Culturali” svoltasi presso la Reggia di Caserta.

L'apparecchiatura del Circe, di cui esistono in Italia solo altri due esemplari, a Firenze e a Lecce, ma con caratteristiche funzionali differenti, è in grado di datare in pochi minuti anche campioni di un milligrammo, caratteristica che la rende scarsamente invasiva nei confronti dell'oggetto rinvenuto. “La metodologia di base impiegata” spiega il prof. Filippo Terrasi del Dipartimento di scienze ambientali della seconda Università di Napoli “è quella convenzionale del radiocarbonio 14, che consiste nel misurare nel reperto la quantità di carbonio residua. Il rapporto tra quest'ultima e quella iniziale, ci svela l'età dell'oggetto.

Con la tecnica tradizionale è però necessaria una grande quantità di materiale, in quanto, in un reperto, la presenza di radiocarbonio è molto bassa. L'acceleratore invece supera questo limite. Con uno speciale spettrometro riusciamo a individuare e a contare, uno per uno, anche in minuscoli frammenti, il numero di atomi di carbonio 14 presenti nel reperto. Gli atomi estratti vengono accelerati e, quindi, separati rispetto alle specie atomiche e molecolari interferenti”. La rapidità del suo utilizzo consentirà di eseguire circa 2 mila datazioni l'anno.

Al contrario di quanto si possa immaginare, sono in molti, tra enti, istituzioni ed imprese, ad aver bisogno di questo tipo di servizio. “Già cinque anni fa” spiega Masarotti dell'Icib-Cnr “nell'ambito del Progetto finalizzato beni culturali del Cnr, abbiamo stimato, attraverso un'indagine, che in Italia si richiedevano circa 3.000 datazioni l'anno, effettuate per la maggior parte in laboratori europei e americani. Ora il nostro acceleratore, più avanzato rispetto a quelli esistenti in Europa, potrà soddisfare non solo le esigenze di chi opera nel settore dei beni culturali. Numerosi sono, infatti, i suoi campi di applicazione: dall'analisi ambientale alla medicina legale, alla certificazione dell’annata di produzione di vini, all'individuazione di uranio impoverito”.

La macchina, acquistata dalla Regione Campania negli Stati Uniti, per un importo di 2 milioni di euro, è solo una delle tante che andranno a potenziare le strutture scientifiche aderenti ad Innova. A questo centro, che ha sede presso il Comprensorio Olivetti di Pozzuoli, afferiscono, oltre al Cnr, sette università campane, i parchi scientifici e tecnologici della regione, il Centro europeo per i beni culturali di Ravello, numerosi enti, oltre 300 professori universitari.

05/05/2007 22:05
 
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I girini solari

di: Enrico Loi

I “girini” solari, che si manifestano nel corso delle eruzioni solari, sono delle enormi esplosioni di energia che hanno attirato molta curiosità negli astrofisici a causa del loro bizzarro esordio. Essi, infatti, assumono la forma di gigantesche lingue di fuoco con teste scure e code serpeggianti che orbitano all'intero dell'atmosfera solare in senso contrario ai brillamenti energetici espulsi dalla stella. Ora un team di astronomi dell'Università di Warwick ha scoperto alcuni meccanismi fisici che potrebbero essere associati a questo fenomeno.

L'accurata analisi dei dati inerenti alle osservazioni provenienti dalla missione Transition Region and Coronal Explorer della NASA ha portato i ricercatori ad avanzare l'ipotesi che i “girini” solari siano composti da onde di energia negativa. Un processo della fisica in cui l'energia viene risucchiata dalle onde e quindi dal veicolo energetico attraverso il quale si propagano.

I “girino” solari sarebbero delle illusioni ottiche e non dei ammassamenti di materia. Ciò significa che la materia solare viene spinta di continuo verso l'alto e non verso il basso come si tende a credere. La discesa apparente della testa dei girini lascia presupporre il calo del punto di partenza dell'accelerazione della materia verso l'alto. I risultati della ricerca sono stati pubblicati dal periodico “Astronomy and Astrophysics”.

Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

University of Warwick
05/05/2007 22:09
 
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Clima nell'antichità

r.s. a cura della redazione ECplanet

Dai campioni rilevati nelle rocce sul fondo dell'Oceano Pacifico, 1600 chilometri ad Est del Giappone, risulta che nel Cretaceo, ovvero 120 milioni di anni fa, le oscillazioni di temperatura sulla superficie dell'oceano arrivarono 6 gradi centigradi nella media annuale (tra i 30° ed i 36°), con due episodi di raffreddamento che raggiunsero i 4 gradi sulla superfici marine ai tropici. Al confronto, oggi le temperature della superficie marine ai tropici oscillano tra i 29 e 30 gradi. I risultati degli esperimenti sono pubblicati sul numero di ottobre di Geology.

Il nuovo studio è stato diretto da Simon Brassell, geologo dell'Università dell'Indiana, secondo il quale le prove sui cambiamenti climatici in un passato in cui gli esseri umani proprio non c'erano dovrebbe aiutare a capire il fenomeno del riscaldamento globale: “Se vi sono grandi fluttuazioni, che sono inerenti al sistema stesso, come mostrano gli studi sul paleoclima, ciò rende la determinazione del clima futuro della terra persino più difficile di quanto non lo sia già”. “Stiamo cominciando a capire come il nostro clima, negli archi lunghi del tempo, sia stato una bestiaccia selvatica” ha detto Brassell.

Anche in epoca più recente, diciamo nel periodo successivo all'anno mille, è noto che in Inghilterra e persino i Scozia si riuscisse a coltivare la vite, anche se a fatica. A questo periodo di temperatura estremamente mite, evidentemente maggiore rispetto a quello attuale, seguì una piccola glaciazione protrattasi fino al 1880, che coprì di ghiacci le regioni più settentrionali dell'Europa, a cominciare dalla Groenlandia, che prima, come dice il nome stesso, “verdeggiava”. Le colonie vichinghe groenlandesi furono costrette ad abbandonare quegli stanziamenti per il freddo eccessivo.

Fonte: Pravda.ru / gennaio 2007
05/05/2007 22:10
 
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Il grembo primordiale

di: Alessio Mannucci

La geochimica Lynda Williams e suoi colleghi della Arizona State University hanno scoperto che certi minerali argillosi in particolari condizioni nel fondo degli oceani potrebbero aver agito come incubatori per le prime molecole organiche apparse sulla Terra. La ricerca suggerisce dunque che alcuni dei materiali fondamentali per l'origine della vita sul nostro pianeta si siano generati nelle profondità marine.

La Williams e il suo team hanno studiato le condizioni dei venti idrotermali lungo le linee in cui la crosta terrestre converge sul livello dell'oceano. I venti sono fenditure nel livello delle acque surriscaldano le acque super-calde come un vulcano sottomarino. I ricercatori sapevano che a temperatura e pressione sufficientemente alte le emanazioni vulcaniche possono produrre composti chimici come il metanolo. Quello che non sapevano era che il metanolo può sopravvivere a temperature molto elevate dai 300 ai 400 gradi Celsius.

“Questo ci è apparso subito strano”, ha detto la Williams, “ci siamo chiesti allora che cosa lo proteggesse a tali temperature. La risposta era nei comuni minerali argillosi”.

La Williams ha ipotizzato che l'argilla che circonda i venti idrotermali sia potuta servire come “grembo primordiale” per le molecole neonate proteggendole con i suoi strati minerali. Il team ha così simulato le stesse condizioni monitorando per sei settimane le reazioni di argilla e metanolo, scoprendo che non solo l'argilla protegge il metanolo ma anche che facilita le reazioni che formano composti chimici più complessi, ovvero nuovo materiale organico.

La scienza ha teorizzato che diverse molecole organiche protette dall'argilla potrebbero eventualmente essere state espulse dal grembo in un ambiente più ospitabile favorevole alla formazione della “zuppa” organica primordiale. “Ciò che rende particolarmente eccitante la nostra scoperta è che le condizioni che abbiamo sperimentato si accordano con le migliori stime delle più semplici condizioni necessarie all'origine della vita”, ha detto ancora la Williams, “sappiamo ora con certezza che se esistono le giuste condizioni e i giusti ingredienti chimici i comuni minerali argillosi possono aiutare la produzione di bio-molecole organiche”.

Inoltre, siccome le reazioni simulate dall'esperimento in teoria possono trovarsi dovunque esista attività vulcanica, non si può escludere l'ipotesi che la vita si sia prodotta anche su altri pianeti in cui si è formata l'acqua e una attività vulcanica (tipo Marte, ndr).

Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Arizona State University
05/05/2007 22:11
 
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Il grembo primordiale

di: Alessio Mannucci

La geochimica Lynda Williams e suoi colleghi della Arizona State University hanno scoperto che certi minerali argillosi in particolari condizioni nel fondo degli oceani potrebbero aver agito come incubatori per le prime molecole organiche apparse sulla Terra. La ricerca suggerisce dunque che alcuni dei materiali fondamentali per l'origine della vita sul nostro pianeta si siano generati nelle profondità marine.

La Williams e il suo team hanno studiato le condizioni dei venti idrotermali lungo le linee in cui la crosta terrestre converge sul livello dell'oceano. I venti sono fenditure nel livello delle acque surriscaldano le acque super-calde come un vulcano sottomarino. I ricercatori sapevano che a temperatura e pressione sufficientemente alte le emanazioni vulcaniche possono produrre composti chimici come il metanolo. Quello che non sapevano era che il metanolo può sopravvivere a temperature molto elevate dai 300 ai 400 gradi Celsius.

“Questo ci è apparso subito strano”, ha detto la Williams, “ci siamo chiesti allora che cosa lo proteggesse a tali temperature. La risposta era nei comuni minerali argillosi”.

La Williams ha ipotizzato che l'argilla che circonda i venti idrotermali sia potuta servire come “grembo primordiale” per le molecole neonate proteggendole con i suoi strati minerali. Il team ha così simulato le stesse condizioni monitorando per sei settimane le reazioni di argilla e metanolo, scoprendo che non solo l'argilla protegge il metanolo ma anche che facilita le reazioni che formano composti chimici più complessi, ovvero nuovo materiale organico.

La scienza ha teorizzato che diverse molecole organiche protette dall'argilla potrebbero eventualmente essere state espulse dal grembo in un ambiente più ospitabile favorevole alla formazione della “zuppa” organica primordiale. “Ciò che rende particolarmente eccitante la nostra scoperta è che le condizioni che abbiamo sperimentato si accordano con le migliori stime delle più semplici condizioni necessarie all'origine della vita”, ha detto ancora la Williams, “sappiamo ora con certezza che se esistono le giuste condizioni e i giusti ingredienti chimici i comuni minerali argillosi possono aiutare la produzione di bio-molecole organiche”.

Inoltre, siccome le reazioni simulate dall'esperimento in teoria possono trovarsi dovunque esista attività vulcanica, non si può escludere l'ipotesi che la vita si sia prodotta anche su altri pianeti in cui si è formata l'acqua e una attività vulcanica (tipo Marte, ndr).

Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Arizona State University
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Scoperte sul nucleo terrestre

redazione ECplanet

Il nucleo solido della Terra ruota a una velocità maggiore rispetto agli altri strati del nostro pianeta: la differenza è fra i 3 e i 5 decimi di grado all'anno. L'osservazione è stata pubblicata su “Science” e mette fine a una lunga polemica fra gli scienziati.

Il nucleo della Terra è composto di ferro e consiste di una parte più interna solida dal diametro di circa 2400 chilometri e di una più esterna di circa 7000 chilometri. La prima osservazione della sua diversa velocità di rotazione è stata fatta nel 1996 da Xiaodong Song, professore di geologia all'Università dell'Illinois a Urbana-Champaign, e da Paul Richards, un sismologo del Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, ma alcuni sismologi hanno sostenuto per anni che i loro dati fossero sbagliati o addirittura contraffatti. Ora Song e colleghi hanno la prova, ottenuta confrontando le onde sismiche che attraversano il nucleo fluido e quello solido registrate da 58 stazioni sismiche per un periodo di 35 anni.

“Le onde sismiche simili che sono passate nel nucleo interno mostrano sistematici cambi nei tempi di percorrenza e nella forma se due eventi si sono verificati ad anni di distanza”, spiega Song, “l'unica spiegazione possibile è il movimento del nucleo interno”. La causa più probabile del perché la rotazione del nucleo interno sia più veloce, secondo Song, è il fenomeno conosciuto come accoppiamento elettromagnetico: “il campo magnetico generato nel nucleo esterno si diffonde nel nucleo interno, dove genera a sua volta una corrente elettrica, e l'interazione della corrente con il campo magnetico provoca la rotazione del nucleo interno”. Questo processo, conclude Song, va al cuore di un problema fondamentale: l'origine e lo sviluppo del nostro pianeta. Questa notizia è stata diffusa dall'agenzia “ZadiG”.

Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

University of Illinois

Lamont-Doherty Earth Observatory
05/05/2007 22:14
 
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L'esplosione del Cambriano

di: Donata Allegri

Il nome Cambriano, o Cambrico, deriva dalla regione del Galles chiamata dai romani Cambria, dove le rocce risalenti a questo periodo, essendo in numero significativo, furono per la prima volta studiate. Questo periodo è il primo dell'era del Paleozoico, è compreso fra circa 544 e 505 milioni di anni fa. Il clima fu piuttosto uniforme e forse non molto caldo, probabilmente per fenomeni glaciali che si verificarono in alcune località della Cina, dell'India e del Brasile.

Alla sua base si realizza la cosiddetta esplosione cambriana (o bing-bang della vita) durante la quale compaiono praticamente quasi tutti i phyla viventi, ossia si ha l'origine degli animali che conosciamo oggi. Il Cambriano è suddiviso in 3 piani: il Georgiano, l'Acadiano e il Postdamiano, caratterizzati soprattutto da diversi generi di Trilobiti. Finora, tre sono le teorie più attentamente studiate per spiegare l'origine della vita:

1) la vita è scaturita dall'effetto combinato tra bombardamento meteoritico e innalzamento della temperatura della crosta terrestre;

2) L'esistenza proviene dai fondali marini e l'oceano è stato, circa 4 miliardi di anni fa, una sorta di incubatrice;

3) La vita si è formata e diffusa nei primi strati del sottosuolo, attraverso un complesso scambio fisico-biochimico che avrebbe portato allo sviluppo di molecole prebiotiche.

Quest'ultima teoria viene appoggiata da uno studio condotto da alcuni ricercatori tedeschi guidati da Werner von Bloh dell'Istituto di ricerca sul clima di Potsdam (PIK). Da questi studi sembra che quando iniziarono a diffondersi specie vegetali complesse, il “big bang” biologico non fu caratterizzato da temperature più alte, bensì da un loro calo dovuto a una complessa interazione con lo sviluppo delle specie vegetali che si stavano diffondendo.

Non fu l'aumento della temperatura conseguente ai violentissimi sommovimenti vulcanici e tellurici ad aver acceso il cerino della vita, quanto l'effetto biochimico indotto dall'”inquinamento” ambientale delle prime specie vegetali presenti sulla Terra. Secondo il professor Von Bloh, la diffusione delle piante causò un aumento dell'erosione dei suoli per cui il calcio (Ca) che, esposto all'anidride carbonica dell'atmosfera reagì, creando del carbonato di calcio (CaCO3) al suolo che, trasportato dalle piogge nei fiumi e immagazzinato sul fondo degli oceani, avrebbe provocò una sorta di “effetto serra” al contrario, determinando il raffreddamento della Terra.

La temperatura atmosferica più bassa favorì lo sviluppo di specie vegetali più complesse, che raffreddarono ulteriormente l'atmosfera. In circa 40 milioni di anni, la temperatura media del pianeta sarebbe scesa da una media di 30° ad una di 15°. Questa suggestiva ipotesi di von Bloh è avvalorata dalla datazione con il carbonio 14 (C14) la quale dimostra che tra 800 e 500 milioni di anni fa, vi fu un “notevole raffreddamento”.


Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Potsdam Institute for Climate Impact Research
05/05/2007 22:15
 
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Microbi in miniera

di: Massimo Ortelli

Alcuni ricercatori della Stanford University e della Dartmouth University hanno cercato di comprendere quali siano i fattori che permettono ai microbi, che vivono nei terreni situati all'interno delle miniere, di aumentare il tasso di acidità delle acque di deflusso interagendo con il minerale di pirite.

I risultati della ricerca sono stupefacenti: l'interazione provoca una reazione chimica fra i microbi e la superficie della pirite che viene a sua volta ricoperta da una sostanza chimica che dovrebbe, in teoria, inibire ogni altra reazione. Tuttavia, anche se la pirite è ricoperta dalla sostanza chimica, i microbi continuano a mediare susseguenti reazioni in maniera estremamente rapida.

Attraverso questo studio i ricercatori hanno cercato di risolvere un enigma ma in definitiva ne hanno creato uno nuovo. Infatti, non c'è spiegazione che giustifichi come possa la mutazione della chimica della superficie non rallenta l'ossidazione microbica. In futuro i ricercatori svolgeranno studi di laboratorio nel tentativo di imitare i complessi meccanismi naturali dei microbi e dei minerali. La ricerca è stata recentemente divulgata a San Francisco durante il convegno annuale dell'American Geophysical Union.

Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

Stanford University

Dartmouth University

American Geophysical Union
05/05/2007 22:18
 
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La migrazione delle capinere

di: Ester Capuano

Grazie ad uno studio, effettuato dalla Queen’s University di Belfast, si è scoperto come le capinere, uccelli che vivono nei boschi europei che solitamente migrano verso l'Africa o verso la Spagna, abbiano mutato la loro rotta: invece di migrare a sud hanno preferito viaggiare verso le isole britanniche.

Inoltre, tramite questo studio, i ricercatori hanno scoperto che le capinere stabilendosi al nord producono molte più nidiate rispetto a quelle che preferiscono migrare a sud, nella penisola Iberica e nell'Africa del nord. Analizzando le impronte chimiche delle unghie di questi uccelli, gli scienziati, guidati dal biologo Stuart Bearhop, hanno individuato cosa avevano mangiato e dove si erano stabiliti durante la stagione invernale.

In un'intervista il dottor Stuart Bearhop spiega che non è tanto facile seguire i movimenti delle capinere nel corso di un intero anno. Tuttavia, esaminando alcuni esemplari, si è scoperto che gli uccelli stabilitisi nelle isole britanniche hanno fatto più nidiate rispetto a quelli che hanno svernato altrove. Si è anche appurato che le capinere “britanniche” riescono tendenzialmente a raggiungere i luoghi di riproduzione prima degli altri, accaparrandosi i territori migliori.

I risultati di questo studio hanno permesso di comprendere le fasi evolutive di questi volatili, ma potrebbero anche fornire importanti dati sui comportamenti dei migratori rapportati ai cambiamenti climatici.

Fonte: Science / agosto 2006

Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Queen's University
05/05/2007 22:19
 
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Uccelli migratori e microfauna

di: Ester Capuano

Biologi composti da ricercatori della stazione biologica Doñana di Siviglia, in Spagna, e dell'Istituto di Ecologia olandese di Nieuwersluis, nei Paesi Bassi, hanno divulgato i risultati di una ricerca sugli uccelli acquatici migratori. I biologi hanno osservato che l'intestino di una anatra è un ottimo e confortevole mezzo di spostamento per la fauna d'acqua dolce, che in questo modo può spostarsi per centinaia di chilometri. In pratica, piccoli gamberetti, briozoi e pulci d'acqua hanno un confortevole mezzo per spostarsi e diffondersi. Questa ricerca ha dato una definitiva risposta ai ricercatori su come minuscole creature d'acqua dolce possano diffondersi fra specchi d'acqua palustri.

In passato, in diverse occasioni, gli ecologi aveva del tutto scartato l'ipotesi che la microfauna potesse servirsi del tubo digerente degli uccelli migratori per spostarsi a caso da un luogo all'altro. Ciò che avvalorava questo diniego era il fatto che all'inizio della stagione migratoria, le uova delle pulci d'acqua e gli stadi in letargo dei briozoi (statoblasti) non si trovano oltre il raggio entro il quale gli uccelli si nutrono, altrimenti affonderebbero sul fondo fangoso.

La nuova ricerca si è fondata su una più accurata analisi di quello che potrebbero trasportare gli uccelli che migrano nel sud della Spagna in autunno e in primavera. I risultati hanno rilevato, in due terzi dei campioni negli escrementi dei volatili, la presenza di centinaia di uova di pulce d'acqua, statoblasti di briozoi e pure uova di alcune specie di insetti acquatici. La ricerca è stata divulgata dal periodico "Global Ecology and Biogeography".


Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

Estación Biológica de Doñana

Nederlands Instituut voor Ecologie (NIOO-KNAW)
05/05/2007 22:20
 
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La memoria nei migratori

di: Donata Allegri

Gli uccelli migratori ricordano più e meglio di quelli non migratori. ogni anno tornano al medesimo posto, talvolta sostenendo viaggi lunghissimi, per accoppiarsi e nidificare. vantano una memoria a lungo termine senza errore, limata anno dopo anno dall'esperienza. È il risultato di una ricerca effettuata in Germania da Claudia Mettke-Hofmann e Eberhard Gwinner, dell'istituto di ricerche ornitologiche Max Planck.

La ricercatrice, come riferito su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), spiega che una simile memoria è inutile per gli uccelli che non migrano, anzi può anche esser loro d'intralcio, per questo l'evoluzione ha voluto che si sviluppasse solo nei migratori. Appare chiaro, anticipa la scienziata, il coinvolgimento di una regione del cervello, l'ippocampo, che è decisamente più sviluppato negli uccelli migratori e che i ricercatori sanno essere coinvolto nell'elaborazione dell'informazione spaziale, ma se ne dovrà verificare il diretto coinvolgimento nella memoria a lungo termine.

Durante gli esperimenti è stato eliminato ogni possibile fattore di disturbo prendendo esemplari delle due specie di uccelli canori, la Garden migratrice e la non migratrice Sardinian, direttamente nelle nidiate, ancora con gli occhi chiusi, di modo che non potessero raccogliere informazioni spaziali prima di essere portati nell'istituto di ricerca. Ciò dimostra senza dubbio, secondo la scienziata, che le differenze comportamentali osservate nei due tipi di uccelli durante i test sono di origine genetica, cioè ereditate di generazione in generazione e non acquisite per esperienza.

Garden

I due gruppi di uccelli sono stati introdotti per circa 9 ore in due vani comunicanti, in uno dei quali i ricercatori avevano riposto del cibo. Tolti dalle stanze, gli uccelli vi sono stati introdotti di nuovo dopo un tempo variabile da qualche giorno sino ad un anno però, come precisato, al loro secondo ingresso entrambe le stanze erano vuote. È a questo punto, rileva Mettke-Hofmann, che emergono le differenze: gli uccelli migratori anche dopo un anno dalla prima visita passavano molto più tempo nella stanza dove avevano trovato il cibo la prima volta, gli altri invece, rimessi nelle stanze già dopo qualche giorno, non avevano preferenze e giravano indistintamente nei due vani. Ciò avviene, secondo Mettke-Hofmann, perché solo i migratori mantengono anche a distanza di un anno il ricordo della presenza del cibo in uno dei due vani.

Sardinian

Sembra che in tempi antichi la selezione abbia favorito tra gli uccelli migratori gli esemplari dotati di una memoria migliore e questa capacità li avrebbe resi più fecondi. Infatti, spiega ancora Mettke-Hofmann, rispetto agli 'smemorati' gli altri arrivavano prima nei luoghi destinati all'accoppiamento e alla nidificazione, potendo così scegliere i territori migliori da occupare. Avvantaggiati com'erano, si sarebbero diffusi a discapito di quelli con scarsa memoria, cosicché dopo moltissime generazioni, sostiene l'esperta, tutti i migratori sarebbero stati caratterizzati da elevate capacità cognitive.

Per ora, precisa Mettke-Hofmann, ci sono ancora pochi dati per quel che riguarda il ruolo dell'ippocampo, ma le due specie osservate mostrano significative differenze. Infatti solo in quella migratrice, precisa, le sue dimensioni aumentano con l'età, come è evidente confrontando gli esemplari giovani privi di esperienza e quelli più anziani. Poiché danni all'ippocampo indeboliscono l'apprendimento spaziale, ricorda l'esperta, ne deduciamo che esso aiuta a migliorare la capacità migratoria dell'uccello, in sé basata su un programma innato e definito a livello ereditario. 'Il nostro studio però ci permette solo di dire che la memoria a lungo termine è prerogativa degli uccelli migratori - conclude l'esperta - mentre per verificare che al suo sviluppo contribuisca o addirittura che ne sia sede l'ippocampo servono altri studi'.
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Speciazione dei pipistrelli

di: Donata Allegri

Mentre un tempo la specie veniva considerata “immutabile” nel tempo, attualmente la si considera come una entità in continua evoluzione, la quale deriva da un' altra specie e che può, nel tempo, generarne a sua volta altre, secondo un processo che va sotto il nome di speciazione. Secondo questo processo differenti tipi di organismi prendono origine da un comune progenitore.

Tale processo assume un'importanza enorme se si pensa che tutti i metazoi sarebbero derivati da uno solo o pochi progenitori protisti, o che l'attuale enorme quantità di specie raccolte sotto la denominazione di insetti ha preso origine da un unico pregenitore, vivente all'incirca 400 milioni di anni fa. I motivi che hanno portato le popolazioni appartenenti alla stessa specie a divergere geneticamente sono la selezione naturale ed anche il flusso genetico che avviene allorquando gli individui di una popolazione si spostano per riprodursi. Questo può accadere tra continente ed isole, tra isole, o lungo un gradiente ambientale.

Gruppi di popolazioni per un certo tempo considerate conspecifiche potrebbero divergere e, dato che tale processo è graduale, non è sempre possibile individuare il momento esatto in cui i due gruppi costituiscono due differenti specie rispetto al momento precedente in cui ne costituivano una sola. La specie viene definita, non più come un insieme di individui, bensì come un “complesso di popolazioni interfeconde tra loro nel tempo e nello spazio e riproduttivamente isolate da tutte le altre”.

Esistono popolazioni naturali che in passato vennero definite “specie criptiche” o “razze biologiche” mentre ora si preferisce adottare la terminologia suggerita da Mayr che attribuisce il nome “sibling species” o specie sorelle, si tratta di popolazioni naturali simili o addirittura identiche, ma riproduttivamente isolate, riconoscibili tra loro attraverso metodi che non siano esclusivamente morfologici. Queste popolazioni hanno un'importanza notevole nello studio della speciazione.

Sono distribuite in quasi tutti i principali gruppi zoologici, anche se sono più frequenti in alcuni gruppi, quali gli insetti, ed in particolare i lepidotteri, i ditteri, gli ortotteri e gli imenotteri; specie sorelle sono note anche tra i vertebrati: nei roditori, nei rettili (serpenti e lucertole) e, con elevata frequenza, nei pesci.

Stephen Rossiter della Queen Mary's School of Medicine and Dentistry di Londra e Tigga Kingston dell'Università di Boston hanno scoperto che i pipistrelli Ferro di Cavallo dalle grandi orecchie (Rhinolophus philippinensis) nel Sulawesi, in Indonesia, si sono evoluti in due nuove specie con forme di tre dimensioni: piccola, media e grande, senza utilizzare un isolamento geografico. Per effettuare questo studio le scienziate hanno registrato i richiami di ecolocazione dei pipistrellidi ed hanno notato che emettono differenti armoniche della stessa frequenza, 13,5 kHz. La forma più grande emette suoni a 27 kHz, quella media a 40,5 kHz e quella piccola a 54 kHz.

Questi cambiamenti sono avvenuti nel tempo e ciò ha influenzato la loro dieta sulla loro dieta in quanto le basse frequenze sono ottime per individuare grandi insetti, mentre quelle più alte servono a rivelare insetti più piccoli; è risultato altresì che le varie specie sono isolate da un punto di vista riproduttivo. Questo studio è stato pubblicato dalla rivista “Nature”.

Istituzioni scientifiche citate nell'articolo:

Barts and The London School of Medicine and Dentistry

Boston University

Donata Allegri

06/05/2007 10:55
 
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Le origini del dingo

di: Ester Capuano

Sulle origini del dingo si sono sempre aperti forti dibattiti fin all'arrivo degli europei nel territorio australiano dove notarono che il dingo, che assomiglia moltissimo ad un comune cane domestico, era l'unico mammifero placentato a vivere in quelle immense aree.

Recentemente, un gruppo di ricercatori del Royal Institute of Technology Stockholm hanno esaminato il DNA mitocondriale (mtDNA) al fine di descrivere accuratamente le origini del dingo. Essi hanno analizzato i segmenti di mtDNA di: 211 esemplari di dingo provenienti da zone situate in ogni parte dell'Australia; 676 cani provenienti da tutto il mondo; 38 lupi euroasiatici; 19 reperti archeologici appartenenti a cani pre-europei della Polinesia.



È emerso che i dingo esaminati avevano tutte le sequenze di DNA mitocondriale uguali fra loro oppure differivano solamente di una singola lettera. Ciò prova che le origini del dingo derivano da cani molto piccoli, forse da una sola femmina, o da cani asiatici privi di variazione genetica.

I promotori della ricerca suggeriscono che i dingo sono originari da cani addomesticati dell'Asia orientale circa 5mila anni or sono. Il loro approdo in Australia sarebbe avvenuto mediante l'espansione della cultura austronesiana dal sud della Cina alle isole del sud-est asiatico.


Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Royal Institute of Technology Stockholm
06/05/2007 10:57
 
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mammiferi del Madagascar

di: Ester Capuano

Gli scienziati erano sempre convinti che nel Madagascar vivessero sette specie native rappresentate da due a quattro linee evolutive separate, e che questi animali avessero conquistato più volte il territorio indipendentemente.

Ora, un panel scientifico composto da biologi statunitensi, francesi e malgasci, supportati dalla National Science Foundation, ha scoperto che tutti gli animali carnivori del Madagascar sono i discendenti di una singola specie che proveniva dal continente africano tra i 24 e i 18 milioni di anni fa. Secondo i ricercatori, questa specie riuscì ad approdare nel Madagascar probabilmente a bordo di vegetazione galleggiante che gli permise di superare il lungo tratto di mare situato tra il continente africano e l'isola.

Questa ricerca - spiega John Flynn, del Field Museum of Natural History di Chicago – suggerisce come tutte le specie di carnivori che popolano il Madagascar facciano parte di un solo ramo evolutivo formato da un esclusivo evento nel tempo. Le attuali cento specie di mammiferi nativi dell'isola, che appartengono ai mammiferi, tenrec, roditori e lemuri, hanno colonizzato il Madagascar con solo quattro distinti cicli. A causa della penuria di reperti fossili, restano ancora un mistero le modalità e il periodo in cui i mammiferi colonizzarono per la prima volta l'isola.

Tuttavia, gli scienziati hanno superato il problema, grazie all'analisi dei geni degli animali e dei loro più vicini parenti africani ed asiatici. Inoltre, è stato pure stimato il periodo in cui gli animali si sono distinti l'uno dall'altro, mediante la sequenziazione del DNA di quattro geni. Gli schemi ottenuti sono stati poi analizzati con metodi statistici che hanno permesso di ottenere una stima molto accurata. La scoperta è stata pubblicata dal periodico “Nature”.


Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Field Museum of Natural History
06/05/2007 11:01
 
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La chitina oceanica

di: Massimo Ortelli

Ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora hanno svolto uno studio per determinare come i batteri possano avvertire la presenza della chitina, una sostanza oceanica altamente insolubile nota con il nome di “neve marina”. Secondo alcune stime, gli organismi marini producono annualmente mille miliardi di tonnellate di chitina. Questo composto ha delle proprietà di durezza talmente elevate da essere impiegato come abrasivo nell'ambito della pulizia.

Nel processo biochimico, il polisaccaride si deposita sul fondo del mare e, nel contempo, i batteri provvedono a decomporlo con lo scopo di ottenere energia, riciclando i due elementi che lo costituiscono in forme utilizzate da altri organismi: il carbonio e l'azoto. Lo studio ha appurato un degrado della cascata di segnalazione responsabile della degradazione batterica della chitina.

Oceano Atlantico

I ricercatori hanno effettuato una singolare sperimentazione. Essi hanno prodotto mutazioni casuali nei batteri di una qualità di Vibrio. Fra questi, hanno cercato di individuare uno che potesse decomporre la chitina senza però individuarla. Il genoma del mutante è stato poi analizzato scoprendo che il batterio aziona un meccanismo di segnalazione a due componenti, una metodologia ovvia nell'ambito della trasduzione dei segnali.

In pratica, il meccanismo segue questa procedura: la molecola, conosciuta come proteina CBP, capta al di fuori della cellula gli zuccheri che contraddistinguono la chitina. Successivamente, la molecola CBP lancia un segnale alla molecola ChiS, che innesca il processo conduttore alla degradazione della chinina. Lo studio è stato pubblicato dal periodico “Proceedings of the National Academy of Sciences”.


Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Johns Hopkins University


06/05/2007 11:02
 
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di: Anna Ermanni

Ricercatori del Laboratoire de Biologie du Comportement di Grenoble hanno svolto un'attenta analisi scientifica sulle strategie di orientamento dei pesci elettrici, che vivono nei corsi d'acqua situati in Africa e in Sud America.

I risultati delle sperimentazioni, svolte in laboratorio con pesci allevati in un acquario, hanno suggerito che questi pesci si orientano nell'ambiente circostante mediante impulsi o onde elettrici. Un tipo di orientamento che si differenzia totalmente con quello degli altri animali che si servono invece dell'udito, dell'olfatto e della vista per scrutare l'ambiente che li circonda.

Il team scientifico, composto da biologi e neuroscienziati, sostiene che il “senso elettrico” di questo tipo di pesci ha un'acutezza molto più sottile di quanto si pensi: essi determinano la forma e l'orientamento di un oggetto solo mediante la generazione di un campo elettrico e l'osservazione della sua distorsione. Inoltre, i pesci riescono a differenziare, mediante il tipo di ripiego del campo elettrico, un essere vivente, come un altro pesce, che produce anch'esso un campo elettrico, con un oggetto statico, come ad esempio una roccia. Questa capacità – secondo gli scienziati – è importante per procurarsi il cibo di notte.

Anche secondo precedenti studi l'utilizzo, da parte dei pesci elettrici, del senso elettrico e del tatto ha come scopo quello di stabilire le forme e le tipologie degli oggetti circostanti. Ma secondo il nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati dal periodico "Current Biology", il “senso elettrico” sarebbe più che sufficiente.

Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Laboratoire de Biologie du Comportement
06/05/2007 11:04
 
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di: Anna Ermanni

Ricercatori del Laboratoire de Biologie du Comportement di Grenoble hanno svolto un'attenta analisi scientifica sulle strategie di orientamento dei pesci elettrici, che vivono nei corsi d'acqua situati in Africa e in Sud America.

I risultati delle sperimentazioni, svolte in laboratorio con pesci allevati in un acquario, hanno suggerito che questi pesci si orientano nell'ambiente circostante mediante impulsi o onde elettrici. Un tipo di orientamento che si differenzia totalmente con quello degli altri animali che si servono invece dell'udito, dell'olfatto e della vista per scrutare l'ambiente che li circonda.

Il team scientifico, composto da biologi e neuroscienziati, sostiene che il “senso elettrico” di questo tipo di pesci ha un'acutezza molto più sottile di quanto si pensi: essi determinano la forma e l'orientamento di un oggetto solo mediante la generazione di un campo elettrico e l'osservazione della sua distorsione. Inoltre, i pesci riescono a differenziare, mediante il tipo di ripiego del campo elettrico, un essere vivente, come un altro pesce, che produce anch'esso un campo elettrico, con un oggetto statico, come ad esempio una roccia. Questa capacità – secondo gli scienziati – è importante per procurarsi il cibo di notte.

Anche secondo precedenti studi l'utilizzo, da parte dei pesci elettrici, del senso elettrico e del tatto ha come scopo quello di stabilire le forme e le tipologie degli oggetti circostanti. Ma secondo il nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati dal periodico "Current Biology", il “senso elettrico” sarebbe più che sufficiente.

Istituzione scientifica citata nell'articolo:

Laboratoire de Biologie du Comportement
06/05/2007 12:02
 
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PaleontologiaIn un fossile di 68 milioni di anni
Scoperta una proteina di T. rex

Risalente a 68 milioni di anni fa, mostra somiglianze con quelle di pollo, rana e tritone.

Un gruppo internazionale di ricercatori della North Carolina State University, del Beth Israel Deaconess Medical Center e della Harvard Medical School ha annunciato sulle colonne della rivista "Science" di aver trovato una proteina di un tessuto molle in un fossile di Tyrannosaurus rex risalente a 68 milioni di anni fa. La scoperta modifica il modo in cui si può guardare alla conservazione dei fossili. Secondo le attuali teorie, infatti, dovrebbe essere impossibile che materiale organico originale possa conservarsi per tanto tempo dopo i processi di fossilizzazione. Quando tuttavia Mary Schweitzer, che ha diretto la ricerca, ha proceduto a demineralizzare un osso di T. rex, ha trovato che rimaneva una matrice dall'apparenza analoga alla matrice di collagene che rappresenta uno dei componenti delle ossa.
Per averne conferma hanno esaminato il reperto prima al microscopio elettronico e quindi sottoponendolo a reazione con diversi tipi di anticorpi che si sanno legarsi al collagene.

Dato che i risultati erano fortemente suggestivi, ma non consentivano la definitiva conferma che si trovavano di fronte a una proteina organica, un campione è stato inviato al centro di ricerca del Beth Israel Deaconess Medical Center, dove è stata messa a punto una tecnica di spettroscopia di massa particolarmente sensibile, che ha consentito di fornire la sequenza di questa vecchissima proteina e di identificarla. La tecnica era stata in precedenza validata applicandola a campioni di molluschi moderni e di un mastodonte risalente a "soli" 160.000-600.000 anni fa.

Quando i ricercatori hanno confrontato la proteina così identificata con il dato relativo alle sequenze delle specie moderne, hanno trovato somiglianze con quelle di polli, rane e tritoni.

"La somiglianza con i polli ce la aspettavamo, dati i rapporti esistenti fra gli uccelli moderni e i dinosauri: da un punto di vista paleontologico è l'ago nel pagliaio che conferma la preservazione del tessuto originario", ha osservato la Schweitzer
06/05/2007 12:09
 
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L'evoluzione congiunta di predatori e prede

Lo studio dei crinoidi fossili conferma la teoria secondo cui l'evoluzione delle prede può essere innescata dallo sviluppo dei corrispondenti predatori

Nuovi fossili hanno fornito ai paleontologi indicazioni su un'antica "corsa agli armamenti" fra predatori e prede. Da tempo i biologi avevano ipotizzato che, nella lotta fra i predatori e le prede, il miglioramento di una delle parti (per esempio, lo sviluppo di denti più affilati) stimoli una risposta evolutiva nell'altra (per esempio, una pelle più robusta). Studiando crinoidi fossili, un gruppo di animali marini imparentati con le stelle marine e i ricci di mare, Tomasz Baumiller dell'Università del Michigan e Forest Gahn del National Museum of Natural History dello Smithsonian Institution hanno contato il numero di arti masticati e hanno scoperto che gli attacchi subiti dagli animali erano peggiori nel periodo in cui i pesci e altri grandi predatori si stavano diversificando. Nel periodo noto come Rivoluzione Marina del Medio Paleozoico (circa 380 milioni di anni fa), gli squali e altri pesci si stavano fortemente diversificando. E anche gli invertebrati nelle acque poco profonde, come i crinoidi (noti anche come gigli di mare), stavano sviluppando spine e armature più spesse. Fra gli altri trucchi donati dall'evoluzione ai crinoidi, c'è stata la capacità di rigenerare le parti del corpo andate perdute. Così, quando un pesce ingoiava qualcuna delle loro appendici simili a tentacoli, i crinoidi ne facevano crescere di nuove. In un articolo pubblicato sul numero del 3 settembre della rivista "Science", i ricercatori scrivono che per quasi 100 milioni di anni prima della Rivoluzione Marina del Medio Paleozoico, meno del 5 per cento dei crinoidi esibisce braccia rigenerate. Quando invece la rivoluzione dei predatori era in pieno svolgimento, più del 10 per cento dei crinoidi si faceva crescere arti sostitutivi.
06/05/2007 12:13
 
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Più recente la speciazione dei mammiferi

Non fu la scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa, a determinare la grande diversificazione della classe dei mammiferi.

Finora era diffusa la convinzione che la conquista del mondo da parte dei mammiferi, fino a quel tempo rappresentati da un numero molto ridotto di specie, adattato a piccole nicchie ecologiche, abbia avuto come punto di partenza la scomparsa dei dinosauri circa 65 milioni di anni fa. Ora una ricerca condotta da un gruppo internazionale di scienziati pone seriamente in forse questa spiegazione.
Come viene riferito in un articolo pubblicato sull'ultimo numero di Nature, fra i due eventi sarebbe infatti trascorso un lungo periodo di tempo: fra i 10 e i 15 milioni di anni. "Combinando i dati relativi alle testimonianze fossili con la riscostruzione dell'albero genealogico delle specie di mammiferi, abbiamo scoperto che i tempi non tornano." spiega John Gittleman, dell'Università della Georgia, che - con Olaf R.P. Bininda-Emonds del Politecnico di Monaco di Baviera e Andy Purvis dell'Imperial College di Londra - ha coordinato la ricerca.

Confrontando infatti gli alberi evolutivi parziali di oltre 2500 specie di mammiferi, i ricercatori hanno così potuto stabilire - sulla base del tempo medio di accumulo di mutazioni nel DNA che porta alla nascita di una nuova specie - che i loro più antichi antenati comuni sono vissuti fra i 34 e i 56 milioni di anni fa, ossia molto tempo dopo la fine del regno dei rettili.

In effetti, in base ai reperti fossili risulta che anche subito dopo la fine dei dinosauri ci sia stata una certa diversificazione di specie fra i mammiferi, ma questa fu molto ridotta rispetto alla fioritura avvenuta 10 milioni di anni dopo, e soprattutto produsse rami evolutivi che ebbero scarso successo, tanto da estinguersi in un lasso di tempo geologicamente breve.

Resta ora da spiegare quali furono i fattori che portarono al secondo, riuscito periodo di intensa speciazione
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