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Al-Qaeda non serve più, e gli Usa “licenziano” i sauditi

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    wheaton80
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    00 30/10/2013 22:24

    Dopo aver minacciato e “insultato” la Russia e la Cina, l’Onu e persino gli Usa, l’Arabia Saudita – che ha deciso di continuare ad alimentare la guerra civile in Siria nonostante il disgelo tra Washington e Mosca persino sull’Iran – ora rischia grosso: il suo petrolio non è più così indispensabile, e in ogni caso l’America non lo comprerebbe sotto ricatto, cioè in cambio della cessione a Riyadh della sua politica in Medio Oriente. Qualcosa di fondamentale sta accadendo, avverte su “Megachip” il giornalista indipendente Thierry Meyssan: per la prima volta, dopo tanti anni, gli Usa stanno abbandonando il loro più decisivo alleato occulto, il network del terrore chiamato “Al-Qaeda”, emanazione diretta dell’intelligence saudita. Agli occhi del nuovo capo della Cia, John Brennan, «lo jihadismo internazionale deve essere ridotto a proporzioni più deboli», tenuto in vita solo come carta di riserva da usare «in alcune occasioni». Lo dimostra la rinuncia della Casa Bianca – di fronte alla fermezza di Putin – a scatenare in Siria l’inizio di una possibile Terza Guerra Mondiale. I terroristi usa e getta? Probabilmente non serviranno più. Secondo Meyssan, se Riyadh non si adegua alla nuova linea di Obama, è a rischio la stessa sopravvivenza dell’Arabia Saudita come Stato: l’emirato petrolifero potrebbe facilmente essere smembrato in cinque unità.

    «È improbabile che Washington si lasci dettare la propria condotta da alcuni facoltosi beduini, mentre è prevedibile che li rimetterà a posto. Nel 1975, non esitarono a far assassinare il re Faysal. Questa volta, dovrebbero essere ancora più radicali». Lo conferma la presenza alla guida della Cia di un uomo come Brennan, «strenuo oppositore del sistema messo in atto dai suoi predecessori assieme a Riyadh: lo jihadismo internazionale». Secondo Meyssan, Brennan ritiene che, «ancorché questi combattenti abbiano svolto bene il loro compito, un tempo in Afghanistan, Jugoslavia e in Cecenia, siano nondimeno diventati troppo numerosi e troppo ingestibili». Quella che all’inizio era costituita da alcuni estremisti arabi partiti per sparare all’Armata Rossa, è poi diventata una costellazione di gruppi, presenti dal Marocco alla Cina, che si battono per far trionfare il modello saudita di società, più che per sconfiggere gli avversari degli Stati Uniti.

    Già nel 2001, continua Meyssan, gli Usa avevano pensato di eliminare Al-Qaeda «attribuendole la responsabilità degli attentati dell’11 Settembre». Tuttavia, «con l’assassinio ufficiale di Osama Bin Laden nel maggio 2011, hanno deciso di riabilitare questo sistema per farne ampio uso in Libia e in Siria: senza Al-Qaeda non si sarebbe mai potuto rovesciare Muhammar Gheddafi, come dimostra oggi la presenza di Abdelkader Belhaj, ex numero due dell’organizzazione, come governatore militare di Tripoli». Licenziare i terroristi e i loro gestori mediorientali? “Gettare i Saud fuori dall’Arabia” era il titolo di un powerpoint del 2002 presentato dal Pentagono allora diretto da Donald Rumsfeld. Sono i sauditi, oggi, a mettersi nei guai. Il principe Bandar Bin Sultan, capo dei servizi segreti, in pochi mesi si è messo contro il resto del mondo: ha minacciato la Russia (terrorismo sulle Olimpiadi di Soči), bocciato la politica dell’Onu sulla Siria (promossa anche dalla Cina, super-cliente saudita), rifiutato di parlare al Palazzo di Vetro e annunciato che non userà mai il seggio offerto all’Arabia Saudita al Consiglio di Sicurezza. Quindi ha accusato Israele e l’Iran di accumulare “armi di distruzione di massa”, e ha addirittura annunciato il ritiro dagli Usa degli investimenti sauditi. Gioco pericoloso. Riyadh non ha ancora capito che è terminata la fiction della dittatura medievale travestita da “alleato arabo moderato”, perché – oltre al petrolio – è finita in soffitta la sua arma migliore: il terrorismo “islamico” pilotato dall’intelligence occidentale per la sua “guerra infinita”.

    30/10/13
    www.libreidee.org/2013/10/al-qaeda-non-serve-piu-e-gli-usa-licenziano-i-...
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    wheaton80
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    00 21/01/2014 00:41
    Primavera araba: fine di una favola orientale?



    Dopo l’inizio trionfale nel 2011-2012, recentemente il “fiore all’occhiello” delle rivolte arabe, il movimento islamico dei Fratelli musulmani sponsorizzato dal Qatar, ha perso terreno praticamente in tutta la regione, di fatto primo segnale della decadenza della promettente favola orientale chiamata Primavera Araba. Innanzitutto, in Libia il blocco dei partiti islamici ha perso con l’unione delle forze politiche laiche del Paese nelle elezioni parlamentari del 2012. Dopo di che, vi fu il fallimento in Mali, dove la Francia riuscì ad impedire la formazione dello Stato islamico indipendente dell’Azawad guidato dall’odioso gruppo pro-Qatar Ansar al-Din, nella parte settentrionale del Paese. Poi con il fallimento in Siria e il colpo di Stato militare in Egitto, seguito dalla messa al bando dei Fratelli musulmani nel Paese, sembrano essere stati abbattuti i principali “capofila” del piano d’integrazione islamista regionale. Di conseguenza, lo scorso autunno, l’ex-”inconciliabile” emiro del Qatar shaiq Tamim bin Qalifa al-Thani inviava al presidente della Repubblica araba siriana Bashar al-Assad la sensazionale proposta di ripristinare le relazioni diplomatiche tra Doha e Damasco, rotte su iniziativa del Qatar dopo gli scontri scoppiati in Siria.

    Il regime del Qatar è sempre stato caratterizzato da un istinto politico appassionato. A quanto pare, Doha era pronto a continuare a sostenere le “rivoluzioni”, nonostante la sua lotta fallimentare contro le eccessive ambizioni regionali della Francia nel vicinato meridionale degli europei e i i problemi politici in Qatar. Tuttavia, il cambiamento nelle priorità della politica statunitense in Medio Oriente, in primo luogo il riavvicinamento tra Washington e Teheran, è pari a una ritirata. Naturalmente, la Casa Bianca può essere compresa. Il miglioramento delle relazioni con Teheran permetterà a Barack Obama di utilizzare l’Iran come contrappeso alla potenziale crescita d’influenza dei taliban dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Inoltre, consentirà all’attuale leader degli Stati Uniti di sbarazzarsi finalmente della politica dei neoconservatori che invoca la “democratizzazione del Grande Medio Oriente”, che Obama ha ereditato dalla precedente amministrazione, e concentrarsi sulla soluzione dei problemi interni.

    Tuttavia, mentre il più flessibile Qatar ha “capito” la situazione, un altro sponsor della Primavera araba, il lento regime “gerontocratico” saudita sembra non riuscire a cogliere le nuove tendenze geopolitiche. Pertanto, deve ora fare una scelta difficile: o continuare ad attaccarsi ostinatamente alla sua linea, esprimendo la propria insoddisfazione per la recente “politica traditrice” dell’alleato chiave d’oltre-atlantico ad ogni occasione o, come Doha, accettare il ruolo “extra” degli Stati Uniti nel nuovo scenario mediorientale. Per il momento, è evidente che la testardaggine prevale. In particolare, ciò è testimoniato dal rifiuto di Riyadh nel divenire membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Inoltre, la dichiarazione del capo dell’intelligence saudita, principe Bandar bin Sultan, durante un incontro con diplomatici occidentali, è eloquente in tal senso. Ha detto che il suo Paese avrebbe presto “cambiato significativamente politica estera”, riconsiderando le relazioni con gli Stati Uniti. Una delle persone più influenti del regno ha spiegato che tale decisione è dovuta alle differenze sugli approcci verso le principali questioni mediorientali. Prima di tutto, la questione siriana, dove la Casa Bianca ha deciso di astenersi dall’utilizzare metodi radicali, dopo aver finalmente capito che il regime siriano attuale potrebbe essere sostituito da gruppi islamisti folli. Inoltre, in particolare, i sauditi sono irritati dal processo di normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Iran, principale rivale del regno saudita nella regione. Tale processo è iniziato nella seconda metà dello scorso anno. Naturalmente, Riyadh spera che l’amicizia tra Washington e Teheran sia temporanea, e che presto tutto torni alla normalità. Tuttavia, iniziano a capire sempre più che l’attuale leadership degli Stati Uniti ha davvero perso interesse nel piano della primavera araba, e che gli statunitensi sembrano aver deciso di andare nella direzione opposta, concentrandosi sul “grande gioco anti-cinese”.

    Ciò significa che il piano wahhabita, avviatosi con la “guerra lampo” tunisino-egiziana tra fine 2010 e inizio 2011, sia ora in decadenza. Il piano era volto ad integrare l’”ecumene arabo” sotto l’egida delle monarchie arabe del Golfo (principalmente Qatar e Arabia Saudita) soggiogando i moderatamente severi regimi autoritari paramilitari laici, soprattutto in Egitto, Siria, Libia e Tunisia. Dopo aver effettivamente trasformato la Lega Araba nel “potere esecutivo” del Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo, in pieno entusiasmo “rivoluzionario”, Doha e Riyadh riuscirono a trarre il pilastro della futura integrazione “di un’UE araba” da tutto ciò. Lo scontro di interessi geopolitici con la Francia in Nord Africa, i cambiamenti degli appetiti regionali nella politica estera statunitense, e infine il “tradimento” del Qatar seguito dal rapido raffreddamento dei rapporti tra Doha e Riyadh, hanno fatto sì che ora l’Arabia Saudita sia l’unico Paese che ancora ostinatamente promuove l’idea della primavera araba. Ovviamente, Riyadh spera ancora che l’attuale sentimento filo-iraniano presto sparisca a Washington. In caso contrario, dovrebbe sperare che la Primavera araba diventi interesse del prossimo inquilino della Casa Bianca.

    Vitalij Bilan, dottorato in storia, esperto di Medio Oriente, in esclusiva per la rivista online “New Oriental Outlook“

    20/21/2014
    Traduzione di Alessandro Lattanzio
    aurorasito.wordpress.com/2014/01/20/primavera-araba-fine-di-una-favola-or...
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    00 25/04/2014 03:24
    Bye Bye Bandar



    Il recente licenziamento del capo dell’intelligence saudita, principe Bandar bin Sultan, è un significativo sviluppo nella regione, ma non segna un cambiamento fondamentale. Anche se il licenziamento di un uomo a lungo noto come “Bandar Bush” rappresenta la dipartita di un’infame figura del regime dagli stretti legami con l’élite politica statunitense, la Casa dei Saud rimane l’autorità indiscussa in uno dei principali Stati clienti di Washington. Detto ciò, l’uscita senza cerimonie di Bandar potrebbe essere un segno che certe politiche della monarchia saudita, in primo luogo l’uso delle reti estremiste wahabite per raggiungere obiettivi politici in Siria e altrove, potrebbero subire un cambio strategico. Inoltre, tale sviluppo potrebbe anche essere un’indicazione che la natura dei rapporti di Riyadh con Washington potrebbero cambiare, se non altro almeno superficialmente e gradualmente.

    Bandar, la Siria e la scacchiera geopolitica
    È un segreto di Pulcinella che il principe Bandar bin Sultan sia l’architetto e principale regista della strategia dell’Arabia Saudita in Siria, e in diversa misura, a seconda a cui lo si chiede, la figura centrale della strategia geopolitica dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente in generale. Con il suo illustre (famigerato) curriculum di alto negoziatore dell’Arabia Saudita nella strategia geopolitica occidentale e saudita, non sorprese molti osservatori quando nel 2012 Bandar fu nominato capo dei servizi segreti dal re saudita, con il compito specifico di gestire destabilizzazione e la sovversione della Siria per mano di Riyadh. Jamal Khashoggi, commentatore saudita di primo piano legato alla famiglia reale, rilevò al momento che “C’era la sensazione che servisse un’intelligence più forte e Bandar ha una passato di questo tipo… assistiamo all’inizio di un nuovo Medio Oriente con la caduta del regime del presidente siriano (Bashar al-Assad). Siamo preoccupati per la Giordania e il Libano“. Dichiarazioni come queste si limitavano a confermare l’ampia comprensione che la nomina di Bandar segnasse più di un semplice cambio di leadership, anzi che facesse parte di un’ampia iniziativa dei sauditi per utilizzare il loro apparato d’intelligence per influenzare gli eventi della regione e, così facendo, mantenere e rafforzare la posizione dominante saudita nel grande Medio Oriente. Visto in questo modo, Bandar, anzi tutta la politica saudita nei confronti della Siria, può essere intesa come una mossa per consolidare il potere saudita attraverso la destabilizzazione. In effetti, per un momento almeno, sembrò che Bandar avesse successo nel suo obiettivo di rovesciare Assad e puntellare l’influenza saudita.

    Il quotidiano israeliano Haaretz pubblicò un articolo nel luglio 2012, poche settimane dopo la nomina di Bandar, in cui l’autore spiegò che: “La ragione principale della sua nomina (di Bandar) ora, è che l’Arabia Saudita prepara la prossima fase in Siria, dopo che il Presidente Bashar Assad lascerà la scena politica in un modo o nell’altro e la Siria diventerà un campo di battaglia per l’influenza… Bandar è considerato l’uomo della CIA a Riyadh… è noto come persona che prende decisioni rapide e non risparmia risorse per raggiungere gli obiettivi… commentatori sauditi dicono che Bandar fosse uno dei responsabili della decisione di finanziare i ribelli siriani, e anche di comprargli le armi. Dicono che la richiesta saudita che Assad si dimettesse rientrasse nella strategia di Bandar… La politica saudita in Siria è strettamente coordinata con gli Stati Uniti”. In sostanza quindi, Bandar dovrebbe essere inteso come il cardine fondamentale nella postura geopolitica e strategica di Riyadh in tutta la regione; allo stesso tempo ponte tra Riyadh e Washington e manager che “si sporca le mani” con il duro lavoro dell’organizzazione dell’armamento e del finanziamento dei jihadisti in Siria, molti dei quali furono inviati nel Paese tramite le reti wahhabite del regno. Tuttavia, è la sua intimità con l’intelligence degli Stati Uniti che rende la sua influenza particolarmente significativa, considerando la distanza politica che l’amministrazione Obama ha cercato di mantenere nella campagna di destabilizzazione in Siria. In questo modo, Bandar ha agito come surrogato di Washington, attuando doverosamente politiche in linea con gli interessi degli Stati Uniti, fornendo “la smentita plausibile” all’amministrazione sulla sovversione in Siria. Secondo il Wall Street Journal, “Loro (i funzionari sauditi) ritenevano che il principe Bandar, veterano degli intrighi diplomatici di Washington e del mondo arabo, potesse fornire ciò che la CIA non poteva: carichi di denaro e armi e, come un diplomatico statunitense ha confessato, il grande sotteso peso saudita“. L’influenza di Bandar sulla questione Siria non si fermava alla gestione della crisi e alle relazioni con gli Stati Uniti. In realtà, Bandar divenne l’emissario principale della Casa dei Saud, de facto la voce del re, tentando d’influenzare tutte le parti nella crisi e di strappare il risultato desiderato a Riyad. Fu a tal fine che Bandar visitò il presidente russo Putin nell’estate del 2013, al culmine dei rulli di guerra degli Stati Uniti contro la Siria, cercando di convincere Mosca a fare un accordo abbandonando il suo sostegno al presidente siriano Assad. Secondo i documenti trapelati sulla riunione, Bandar avrebbe offerto cooperazione alla Russia su una serie di crisi, tra cui la sospensione del terrorismo per le Olimpiadi invernali del 2014 a Sochi, in cambio dell’acquiescenza della Russia sulla questione della Siria. Il rapporto trapelato definì l’incontro burrascoso, con il presidente russo Putin profondamente indignato dalla sfacciataggine delle minacce di Bandar, che senza dubbio presentò quali “assicurazioni”.

    Anche se il tenore reale e specifico della riunione potrebbe essere un’interpretazione, ciò che è chiaro è che Bandar non riuscì a garantirsi un qualsiasi cambiamento significativo di Mosca sulla Siria. In effetti, si potrebbe sostenere che il suo stile da realpolitik ampollosa gli si ritorse contro, indurendo volontà e impegno pro-Assad della Russia. Inoltre, ci fu ampia speculazione sulla stampa internazionale secondo cui Bandar era direttamente coinvolto nell’invio di armi chimiche ai combattenti jihadisti in Siria, in particolare che Bandar avesse permesso l’invio del gas sarin usato nell’attacco chimico su Ghuta, sobborgo della capitale siriana Damasco. I resoconti sul coinvolgimento di Bandar, provenienti sia da esperti dell’intelligence che da ribelli siriani, coincidono con il fatto che fossero i sauditi stessi, senza dubbio organizzati da Bandar, che da subito accusarono dell’utilizzo del sarin il governo di Assad. Quindi, sembrerebbe che fin dall’inizio, la strategia di Bandar di rovesciare il regime di Assad comprendesse l’invio di armi, anche chimiche, ai jihadisti sponsorizzati dai sauditi, e quindi di usarle negli attacchi da essi stessi perpetrati per incolparne il governo di Damasco. Gli amici e compari di poker di Bandar a Langley, ne erano indubbiamente orgogliosi. Oggi, quasi due anni dopo la nomina di Bandar a capo dei servizi segreti e “Maestro di Cerimonie” dell’assalto alla Siria, il governo di Assad è ancora al suo posto, molto più radicato e stabile di quanto non lo fosse nel 2012, ed è invece Bandar che è stato rimosso. Nonostante i suoi piani ben definiti e le connessioni profonde in tutta la regione, Bandar ha fallito nel suo tentativo di rovesciare Assad e destabilizzare la Siria fino al punto di farla esplodere. Forse più di ogni altra cosa, tale fallimento ha portato alla sua estromissione.

    L’uomo di Riyadh a Washington, l’uomo di Washington a Riyadh
    Ciò che fa di Bandar un pezzo fondamentale del puzzle geopolitico sono i suoi rapporti intimi con l’establishment politico, diplomatico e d’intelligence degli Stati Uniti. Dopo aver trascorso la maggior parte della sua carriera come inviato saudita a Washington, Bandar divenne una figura indispensabile nell’ultradecennale “rapporto speciale” tra i due Paesi. David Ottaway, autore di The King’s Messenger: Prince Bandar bin Sultan and America’s Tangled Relationship with Saudi Arabia, ha osservato nella sua importante biografia che Bandar ha avuto a che fare con “cinque presidenti degli Stati Uniti, dieci segretari di Stato, undici consiglieri per la sicurezza nazionale, sedici sessioni del Congresso, i turbolenti media statunitensi e centinaia di politici avidi… (era) sia il messaggero esclusivo del re che il fattorino della Casa Bianca“. Il brano di sopra illustra molto chiaramente come Bandar fosse molto più che un diplomatico saudita negli Stati Uniti. Piuttosto, era il rappresentante del sistema imperiale USA-NATO-GCC che poteva sempre manovrare tra i circoli del potere a Washington e Medio Oriente, un uomo che non rappresentava semplicemente il suo Paese, ma che parlava per, e affrontava, l’establishment politico di entrambi i Paesi. L’elenco dei soli successi di Bandar lo dimostra chiaramente. Bandar vantava un ampio curriculum tra cui assicurarsi gli aerei AWACS per Riyadh nonostante le obiezioni di Tel Aviv, nel 1980; inviare denaro e armi, nonché il reclutamento di combattenti, per i mujahidin che combatterono i sovietici in Afghanistan; finanziare i contras del Nicaragua e il finanziamento da 10 milioni di dollari a politici anticomunisti in Italia. Bandar ebbe anche il merito d’intermediare l’affare assai importante sui diritti sulle basi statunitensi in Arabia Saudita nella prima guerra del Golfo. Il suo stretto e infame rapporto con George HW Bush, comprese l’ampia rete della CIA cui Bush era a capo. In realtà, Bandar e George Bush (sia il vecchio che il giovane) gli erano così vicini che il principe si guadagnò il soprannome di “Bandar Bush”, un soprannome ancora attuale. Il fatto che Bandar attraversasse le amministrazioni, mantenendo sempre i suoi importanti stretti legami, necessari per un uomo nella sua posizione, dimostra che fosse molto più di un abile politico e diplomatico.

    Piuttosto, Bandar era il vero rappresentante del sistema militare-industriale-imperiale in cui gli Stati Uniti dominano e in cui l’Arabia Saudita è situata comodamente. Bandar ha rappresentato un ponte tra i diversi ingranaggi di quel sistema. E’ per tale motivo che il suo licenziamento è così significativo. Non solo la dipartita di Bandar segna un cambiamento nella politica saudita in Siria, ma indica che la relazione unidimensionale tra Washington e Riyadh può subire un cambiamento fondamentale. Si dovrebbe essere cauti però a non confondere la dipartita di Bandar con quella dell’alleanza che tiene da decenni. Invece, si dovrebbe vederla come una semplice evoluzione geopolitica e strategica sulla Siria e, anzi, sull’intera regione. Con l’Arabia Saudita che accetta il fallimento della sua politica in Siria, e riconosce la natura mutevole della regione con un nuovo governo amico in Egitto, Riyadh rinnova la propria politica. In tal modo, Bandar, simbolo del potere saudita per decenni, è diventato l’agnello sacrificale. Purtroppo, il potere e il denaro che Bandar fedelmente ha rappresentato per tutti questi anni, rimangono. Così anche l’esportazione dei combattenti wahhabiti e dell’ideologia estremista che l’Arabia Saudita sfrutta come mezzi per migliorare la sua agenda politica. Fino a quando questi non saranno delegittimati e smantellati, nessuna singola dipartita, nemmeno di un’”inossidabile” come il principe Bandar, cambierà radicalmente la politica saudita o della regione.

    Eric Draitser è un analista geopolitico indipendente di New York City, fondatore di StopImperialism.org ed editorialista per RT, in esclusiva per la rivista online “New Oriental Outlook“

    24/04/2014
    Traduzione di Alessandro Lattanzio
    aurorasito.wordpress.com/2014/04/24/bye-bye-bandar/
    [Modificato da wheaton80 25/04/2014 03:25]
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    wheaton80
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    00 17/05/2014 01:53
    L’offerta saudita all’Iran, ammissione di sconfitta



    Sembra che la Casa dei Saud finalmente ammetta la sconfitta nelle sue guerre terroristiche per procura regionali. Questa settimana il ministro degli Esteri saudita Saud al-Faysal bin Abdulaziz ha annunciato a sorpresa, indicandolo chiaramente, che il regno petrolifero saudita vuole migliorare le relazioni con l’Iran. I media occidentali hanno suggerito che i governanti sauditi avviano un’apertura amichevole verso l’Iran. ‘L’Arabia Saudita agisce per alleviare le tensioni regionali con l’Iran‘, si legge sul Financial Times di Londra. Per decenni, la wahhabita Casa dei Saud, con le sue credenze religiose estreme taqfire e il suo sistema monarchico repressivo, ha visto nell’Iran sciita il suo acerrimo nemico dalla rivoluzione del 1979. L’Arabia Saudita, per esempio, finanziò il dittatore iracheno Sadam Husayn lanciando l’ingiustificata guerra contro l’Iran nel 1980-1988, con l’obiettivo di distruggere la Rivoluzione iraniana. Tale guerra provocò più di un milione di morti. I governanti sauditi hanno sempre accusato l’Iran di fomentare complotti per destabilizzare il regno autocratico o i suoi alleati arabi del Golfo Persico. Sostenevano senza alcuna prova che la mano iraniana suscitasse i disordini in Bahrayn, Yemen e nelle petrolifere province orientali del regno stesso. Ora, a quanto pare, una nuova era di conciliazione appare improvvisamente, con il ministro degli Esteri saudita che questa settimana invita il suo omologo iraniano Muhammad Javad Zarif, dicendogli che è il benvenuto “quando decidesse” di visitare la capitale Riyadh. “L’Iran è un vicino, abbiamo rapporti con esso e negozieremo“, ha detto al-Faysal ai giornalisti. Si tratta di un marcato cambio di atteggiamento dei sauditi. Alla fine dello scorso anno, dopo l’accordo nucleare interinale di riferimento tra l’Iran e il gruppo P5+1 delle sei potenze mondiali, la proposta del ministro degli Esteri iraniano di visitare l’Arabia Saudita nell’ambito di un viaggio negli Stati del Golfo Persico, sarebbe stata snobbata dalla Casa dei Saud. I governanti sauditi erano irritati dal successo della diplomazia iraniana e dalla prospettiva di una svolta nella situazione di stallo nucleare, che avrebbe normalizzato le relazioni internazionali dell’Iran e migliorato notevolmente la presenza regionale del Paese. Allora, cos’è cambiato? Sembra più probabile che il fallimento della guerra terroristica segreta saudita in Siria abbia spinto tale brusca rivalutazione dell’atteggiamento di Riyadh. Questa settimana vede l’inizio della fine dell’operazione del cambio di regime filo-occidentale e filo-saudita in Siria. La guerra terroristica segreta eterodiretta è in corso da più di tre anni ed ha fatto circa 150000 morti. I governanti sauditi hanno speso miliardi di dollari finanziando i gruppi estremisti taqfiri nel tentativo di rovesciare il governo di Bashar Assad, stretto alleato dell’Iran. Ma questa settimana la base principale dei militanti, la Città Vecchia di Homs nella Siria centrale, è stata infine ripresa dalle forze governative, e migliaia di residenti rientrano reclamando le proprie case e proprietà. Ci sono state scene agrodolci con masse di civili che rientrano nelle case devastate dalla guerra. Homs, stucchevolmente spacciata dai media della disinformazione occidentale come la “culla” della cosiddetta rivoluzione, ora è il cimitero della guerra terroristica segreta eterodiretta. Con la cruciale perdita logistica di Homs per i gruppi mercenari, l’Esercito arabo siriano avanza ulteriormente nel riprendersi le ultime aree occupate dai militanti stranieri intorno la città settentrionale di Aleppo e nella provincia di Idlib. Inoltre, i cittadini siriani supportano massicciamente il presidente uscente Assad, in vista delle elezioni del 3 giugno. Assad dovrebbe avere un terzo mandato. C’è quindi il senso inequivocabile che la Siria stia lentamente ma inesorabilmente uscendo dall’incubo eterodiretto in cui il Paese era sprofondato nel marzo 2011.



    Le scene della vittoriosa risposta della nazione siriana dissipano i miti della propaganda occidentali sulla “rivolta democratica”. La riconquista di Homs, nel quadro di un accordo mediato da Russia e Iran la scorsa settimana, precisa inoltre il miserabile fallimento del complotto saudita per distruggere la Siria, insieme agli altri mandanti del terrorismo occidentali, turco ed israeliano. Ecco perché il ministro saudita sembra che questa settimana cercasse di negoziare la resa con l’Iran, senza però pronunciare la parola “resa”, naturalmente. “Noi negozieremo con esso (l’Iran)“, ha detto al-Faysal, come se il semplice fatto di parlare da diplomatico sia una grande concessione al nemico. “Parleremo con loro nella speranza che se ci sono differenze, saranno chiuse con soddisfazione di entrambi i Paesi“, ha aggiunto l’anziano della Casa dei Saud. In altre parole, i governanti sauditi non avvicinano all’Iran per un autentico movente conciliante. Cercano disperatamente di limitare i danni derivati dalle guerre terroristiche per procura che hanno alimentato in Siria, Iraq, Yemen e Libano. E vogliono che l’Iran li aiuti in qualche modo a scamparla limitando i danni. “La nostra speranza è che l’Iran faccia parte del tentativo di rendere la regione più sicura possibile“, ha detto al-Faysal. L’audacia di tale affermazione implica che l’Iran sia il Paese che ha istigato violenze e conflitti, quando i sauditi hanno scatenato il caos omicida in tutta la regione contro sciiti, sunniti, alawiti, armeni, cristiani e tutti coloro che coraggiosamente affrontano il totalitarismo taqfirita. E ora i sauditi vogliono che l’Iran “renda la regione più sicura possibile“. La Casa dei Saud ha bisogno di capire che gli sconfitti non possono dettare condizioni. Soprattutto quando i vinti sono colpevoli di enormi crimini contro l’umanità.

    Finian Cunningham, PressTV
    14 maggio 2014

    Traduzione di Alessandro Lattanzio
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    00 25/06/2014 01:44
    Al Jazeera: isola di libertà o megafono delle guerre?

    La maggior parte delle mogli nei paesi arabi aveva due rivali: le partite di calcio e Al Jazeera. Lasciamo da parte la febbre calcistica simile in tutto il mondo, sopratutto di questi tempi, e focalizziamoci sul canale arabo all news più seguito e padrone delle serate, che sta vivendo un momento molto particolare: Al Jazeera, la tv satellitare del Qatar, che ormai, più che Isola, (il significato del suo nome), è isolata. Questo canale è stato fondato nel 1996 dal principe Hamad bin Khalifa al Thani, definito l’uomo più carismatico del Paese, che aveva in mente di trasformare il più piccolo paese del golfo da ricco produttore di gas a un punto di riferimento del Mondo Arabo. Notizie, approfondimenti, informazione articolata e una rete infinita di corrispondenti in tutto il mondo sono il segreto del grande successo iniziale. Ma presto iniziano i problemi di Al Jazeera: l’eccessiva libertà nella linea editoriale e la malcelata volontà di influenzare il pubblico sono tra le principali accuse. Una televisione quindi scomoda, che più volte fa “arrabbiare” i paesi arabi. Al Jazeera si dichiara non di parte ed obiettiva, parole troppo impegnative per un network che ha un padrone con una linea politica precisa, criticata dai governi arabi ma anche dagli Stati Uniti. Nel 2005, l’ex segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, accusò l’emittente di essere dichiaratamente anti-americana e di promuovere il terrorismo e l’amministrazione Bush l’aveva definita un’emittente terroristica e portavoce degli interessi di Al Qaeda. Malgrado tutte queste critiche, Al Jazeera è sbarcata l’anno scorso negli Stati Uniti. La rete è spesso accusata di fomentare e incitare i conflitti a causa del suo metodo di trattare gli argomenti in modo ideologico, di ingrandirli, di criticare in modo selettivo, preservando e difendendo sempre suoi padroni del Qatar e loro alleati. Nessuna notizia sul processo inattuato di democratizzazione del paese a lungo promesso, che continua ad essere una monarchia assoluta, senza elezioni né politiche né amministrative, mentre il principe Hamad Al Thani che, nel totale silenzio, ha dovuto abdicare e lasciare il potere a suo figlio Tamim. Una sorta di colpo di stato bianco e la notizia è passata quasi inosservata sia ad Al Jazeera, sia nell’informazione occidentale, per non distabilizzare l’immagine di uno dei principali investitori in Europa. L’emittente televisiva quindi, accusata spesso di essere vicina al Movimento dei Fratelli musulmani, evita accuratamente di attaccare l’Arabia Saudita, o criticare il Bahrain, mentre cerca di tenere buoni i vicini in Kuwait, gli amici negli Emirati arabi e gli alleati Turchia.

    Sono stati infatti i vari conflitti nei paesi arabi a svelare il vero volto di Al Jazeera e la sua agenda. Ogni volta che scoppiava una crisi tutto era pronto: gli invitati, gli spot, e perfino i testimoni oculari; e così partivano le dirette per seguire le varie crisi definite “Rivoluzioni”. La professionalità percepita del canale comincia a venire meno, anche a causa della trasmissione di notizie rivelatesi costruite ad hoc, e video di dubbie provenienza e fonti non verificate. Queste attività raggiungono il loro culmine durante gli scontri e i disordini che stravolgono il Nord Africa e il Medio Oriente, quando il network viene accusato di alimentare le divisioni settarie, etniche e religiose, e di fomentare i conflitti, combattendo una vera guerra mediatica contro tutti i nemici del Qatar. Se da un lato si oscurano le rivolte interne nei paesi del golfo, dall’altro ci si schiera con le opposizioni volte a far cadere i governi non amici, appoggiando in pieno la strategia interventista dell’Occidentale (esempio eclatante l’appoggio all’intervento militare in Libia , con la partecipazione del Qatar). Ed è a questo punto che il network proprio in questo momento delicato inizia a perdere punti. Proprio all’inizio della crisi siriana inizia ad Al Jazeera la fuga di massa dei giornalisti, alcuni eccellenti, come l’ex direttore dell’ufficio di Beirut, Ghassan Bin Jeddo nonché una lunga lista di volti principali del canale. Ufficialmente si dirà per questioni interne, ma il vero motivo sembra essere il loro senso di responsabilità ed etica professionale, che li spinge a licenziarsi per protesta, in disaccordo con la direzione accusata di disinformazione e falsificazione dei fatti in Siria. Oggi le cose sembrano ulteriormente peggiorate: mentre tanti paesi hanno chiuso forzatamente gli uffici di Al Jazeera, negandogli il permesso di riprendere e trasmettere dai propri territori, come in Iraq e Siria, ci sono casi eclatanti come quello dell’Egitto dove giornalisti e operatori sono stati condannati a sette anni di detenzione, per terrorismo e attentato alla sicurezza nazionale. Il danno all’immagine è enorme, calano gli ascolti, e la reazione del pubblico diventa sempre più violenta: si cancella il canale dai propri ricevitori satellitari, e i giornalisti della rete sono costretti, spesso, ad interrompere i collegamenti e allontanarsi dalle piazze al grido “Al Jazeera torna a casa tua”. Quello dell’emittente di Doha, quindi, riporta d’attualità il tema dell’allineamento dei giornalisti alla politica del proprio canale e dei suoi proprietari, e della grande responsabilità di chi fa informazione quando la parola diventa un’arma che distrugge paesi e provoca vittime, a volte come e più delle stesse bombe.

    Naman Tarcha
    23 giugno 2014
    www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/23/al-jazeera-isola-di-liberta-o-megafono-delle-guerre/...
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    wheaton80
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    00 13/11/2014 01:22
    Disintegrazione saudita e nuovo asse iraniano

    Se molti ridicolizzano i commenti di Ali Reza Zakani sulla caduta imminente dell’Arabia Saudita e ciò che ha descritto come “disgregazione della tribù al-Saud” lo scorso settembre, bollando il suo vantare i successi politici dell’Iran nella regione come esagerato e infondato, altri sosterrebbero che l’analista politico di primo piano iraniano in realtà abbia fatto centro. Guardando ai recenti sviluppi in Medio Oriente nel solo mese scorso, ascesa degli huthi in Yemen, rivoluzione in Bahrayn, condanna a morte dello sceicco Nimr al-Nimr, avanzata del SIIL in Iraq e Siria, è chiaro che ampie fratture politiche, sociali e religiose sono apparse in Medio Oriente, e tutto punta ad incrementare l’erosione dell’impero degli al-Saud. Mentre l’Arabia Saudita ha dominato il mondo arabo e in una certa misura il mondo islamico da quando caddero gli ottomani, aiutata e sottomessa dall’impero inglese e dagli Stati Uniti per la sua disponibilità ad essere flessibile alla volontà occidentale, l’esclusivismo politico e l’ostracismo religioso degli al-Saud hanno creato una situazione in cui il regno è divenuto il peggiore nemico di se stesso.

    I petrodollari degli al-Saud

    In risalto egemonico per la sola immensa ricchezza, i petrodollari dell’Arabia Saudita sono tutto ciò che sostengono l’intrinseca architettura istituzionale, politica e religiosa del regno. Mentre i miliardi di dollari hanno permesso dell’Arabia Saudita degli al-Saud di dirigere e controllare nazioni, governi e politiche, appoggiandoli e ritirandoli, creando e distruggendo politici ed idee mentre perseguivano la loro visione del Medio Oriente; il regno s’è asservito alle capacità di finanziare le proprie alleanze. Si dà il caso che l’Arabia Saudita potrebbe presto affrontare una drammatica crisi economica. Come notato da Nick Butler sul Globalist, l’Arabia Saudita sembra aver perso il controllo del mercato petrolifero, in un momento in cui i prezzi hanno subito un calo senza precedenti per la crisi borsistica. “I sauditi potrebbero non poter contrastare la caduta dei prezzi“, ha scritto Butler aggiungendo che le prospettive politiche ed economiche negative dell’OPEC renderebbero qualsiasi politica di restrizione della produzione globale impossibile, sottoponendo così l’Arabia Saudita a una grande pressione. “E’ difficile pensare a qualsiasi Stato dell’OPEC, tranne forse il Quwayt, capace di accettare una notevole riduzione di produzione ed entrate. I sauditi vanno per conto proprio“. Vittime dei propri errori di calcolo politico ed economico, gli al-Saud avrebbero effettivamente appiccato l’incendio che molto presto potrebbe minacciargli la casa sbriciolando le monarchie del Golfo. Avendo l’Arabia Saudita dimostrato di poter sostenere finanziariamente i suoi Stati fantoccio e le guerre per procura nella regione, gli al-Saud hanno aperto più fronti, senza saperli risolvere finora, in Yemen, Siria, Iraq, Egitto, Libia, Bahrayn ed è probabile che saranno messi alle strette da quelle potenze che avanzano tra gli attriti e i vuoti che hanno inavvertitamente creato. Inconfondibilmente Turchia e Iran hanno visto accrescere la loro importanza dal 2011, potenziati dalle difficoltà politiche dell’Arabia Saudita.

    Il tempo scade
    Mentre le nazioni chiedono emancipazione politica, ed altre sono in dura lotta contro il radicalismo islamico, il Medio Oriente come lo conosciamo subisce una ristrutturazione massiccia e il ridisegno del potere. Come Zakani ha così eloquentemente indicato, “Tre capitali arabe sono oggi nelle mani dell’Iran aderendo alla rivoluzione islamica iraniana… e Sanaa è la quarta capitale araba sulla buona strada per l’adesione alla rivoluzione iraniana“. Mentre gli huthi nello Yemen, fazione organizzata guidata da Abdelmaliq al-Huthi, sostengono di non essere controllati da nessuno ma piuttosto di essere fieramente indipendenti, la fazione Zaydi, il più antico ramo dell’islam sciita, è innegabilmente appoggiata e indirizzata da Teheran, così come gli Hezbollah in Libano e più recentemente Baghdad. Ma a differenza dei sauditi, che governano come un monarca con i propri vassalli, la politica iraniana è la non interferenza, l’acume nel consigliare e non dirigere, nel sostenere e non dettare, rendendo la Repubblica islamica così attraente e il suo ombrello ideologico così ampio. Proprio mentre l’Arabia Saudita s’impone con la paura, usando martello e spada contro tutte quelle nazioni che considera sue proprietà, l’Iran si presenta da sua perfetta polarità alternativa. Ora che tanti si sono riuniti a denunciare l’egemonia e la tirannia dell’Arabia Saudita, l’edificio degli al-Saud inizia creparsi, e le sue fondamenta sono afflitte da pressioni politiche, economiche, sociali e religiose. Tutto ciò che ha fatto l’Arabia Saudita in modo formidabile, si sta lentamente disfacendo. La sua posizione di guida religiosa è offuscata dall’accusa di aver ideato il malvagio SIIL, la sua economia è sull’orlo del collasso, la sua società implode sotto la sferza del settarismo e dell’ingiustizia sociale, la sua posizione di super-potenza regionale è contestata da Iran e Turchia.

    Il Grande Jihad dell’Iran

    Dopo la filippica sulla dissoluzione imminente dell’Arabia Saudita, Zakani ha detto al Parlamento ciò che definisce fase del “Grande Jihad” dell’Iran, indicando l’intenzione dell’Iran di progettare ed esportare nella regione il proprio modello rivoluzionario islamico, avanzando ciò che ritiene essere emancipazione politica, sociale e religiosa entro i parametri della fede musulmana. Il Jihad non è da intendersi come sinonimo di guerra, ma piuttosto come campagna ideologica. È interessante notare che gli studiosi religiosi spesso sostengono che il vero Jihad, come indicato dalle Scritture, non abbia nulla a che fare con la guerra, ma piuttosto con “la conversione soft”. Zakani ha sottolineato che questa fase del grande Jihad “richiede una politica speciale e un approccio cauto perché può causare molte ripercussioni”, sottolineando che la decadente e decrepita Arabia Saudita è vittima della sua corsa al controllo e della cieca convinzione che il denaro infine s’impone. Acuto stratega, Zakani avverte che in realtà l’Iran “sostiene movimenti operanti nel quadro della rivoluzione iraniana, ponendo fine all’oppressione e aiutando gli oppressi del Medio Oriente”. In altre parole l’Iran agirà da leader delle nazioni e non da despota o dittatore politico. A differenza dell’Arabia Saudita, l’Iran vuole essere l’asse del cambiamento, promotore della transizione politica. Prima della rivoluzione islamica del 1979, il Medio Oriente era divisa tra due polarità dell’asse statunitense: la teocrazia assoluta dell’Arabia Saudita e la laica Turchia repubblicana. Apparve l’equazione manifestata dall’Islam politico sciita nel quadro del sistema repubblicano. Dopo tre decenni la Turchia è divenuta l’ombra secolare di se stessa e l’Arabia Saudita affronta un dissenso diretto. L’Iran, nonostante l’animosità estera e le sanzioni economiche, vede la propria attrazione regionale espandersi in modo esponenziale, il suo impeto alimentato dal sempre crescente vuoto lasciato da quelle potenze che si ritenevano troppo grandi per cadere. “Ora ci sono due poli, il primo è guidato da Stati Uniti ed alleati arabi e il secondo dall’Iran e dagli Stati che hanno aderito al progetto della rivoluzione iraniana“, ha sottolineato Zakani. Indipendentemente da come ci si ponga verso l’Iran o dai pregiudizi assunti verso la Repubblica islamica, il Medio Oriente di oggi è più persiano che mai. Catherine Shakdam è direttrice associata del Centro Studi sul Medio Oriente di Beirut e analista politica specializzata in movimenti radicali, per la rivista online “New Eastern Outlook“.

    Catherine Shakdam
    Fonte: journal-neo.org/2014/11/12/the-disintegration-of-the-saudi-empire-and-the-new-irani...
    12/11/2014

    Traduzione di Alessandro Lattanzio
    aurorasito.wordpress.com/2014/11/12/disintegrazione-saudita-e-nuovo-asse-i...
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    00 29/12/2014 22:45
    L’Arabia Saudita paga lo scotto della sottomissione a Obama

    Trentotto miliardi e 600 milioni di dollari USA; questo il deficit proiettato sul bilancio 2015 delle casse reali saudite con l’attuale, disastrosamente basso, prezzo del petrolio. Ovviamente gli sclerotici regnanti di Casa Saoud devono solamente incolpare loro stessi e la loro miope e imbecille politica di sottomissione ai voleri americani visto che come già detto é su ordine dell’inquilino nero della Casa Bianca che la produzione di greggio del reame é salita a livelli tali da far precipitare il prezzo medio del barile. A Obama il barile ‘svenduto’ serve (a costo di sacrificare alla manovra la ridicola ‘bolla’ speculativa del fracking) per tentare di indebolire Russia, Venezuela, Iran e altri paesi del campo anti-imperialista che sono forti esportatori di greggio, anche se tale espediente tattico non è prolungabile indefinitamente ed è perciò destinato a fallire:

    palaestinafelix.blogspot.it/2014/11/putin-si-attrezza-per-la-gue...

    Ed é veramente ironico, di quell’ironia dantesca caratterizzata dal Contrappasso, che i primi a pagarne i costi siano proprio i servi sciocchi degli USA. Con quasi 40 miliardi di $ in meno sul bilancio, Riyadh sarà costretta a draconiane economie, certo non sulle riserve di Scotch e Gin o sul numero di Rolls-Royce e Ferrari dei membri della real casa, ma ‘ovviamente’, i tagli saranno concentrati sul welfare, sui benefit sociali, sui posti di lavoro pubblici e sui loro salari. I primi a risentirne saranno i giovani impoveriti e irrequieti delle città saudite, specie di quelle più distanti da Riyadh; azzerbinandosi bovinamente ai ‘diktat’ di Obama i reali sauditi potrebbero star direttamente contribuendo ad accendere la miccia della rivolta che li farà saltare. E questa sarebbe davvero l’ironia massima.

    Suleiman Kahani
    26 dicembre 2014
    www.statopotenza.eu/17846/larabia-saudita-paga-lo-scotto-della-sottomissione...
    [Modificato da wheaton80 29/12/2014 22:47]
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    00 28/02/2016 18:15
    I monarchi dell’Arabia Saudita si trovano sull’orlo di una “crisi di nervi”

    Non c’è dubbio che lo sviluppo degli avvenimenti di queste ultime settimane non ha lasciato dormire sonni tranquilli ai membri della famiglia regnante dei Saud, nelle loro lussuose residenze di Rijad, in Arabia Saudita. In particolare l’esito dei conflitti che la Monarchia dei Saud sta conducendo su più fronti: da una parte la Siria e l’Iraq, dove i sauditi hanno finanziato, reclutato ed armato i gruppi jihadisti che combattono rispettivamente per rovesciare l’odiato regime di Bashar al-Assad e per stabilire un principato di ispirazione wahabita-sunnita in Iraq, dall’altra parte l’aggressione militare condotta direttamente dalle forze saudite assieme ai propri alleati, contro lo Yemen. Su entrambi i fronti i gruppi jihadisti filo sauditi stanno subendo rovesci su rovesci: in Siria, l‘intervento delle forze dell’aviazione russa è risultato decisivo, unitamente alla controffensiva sostenuta dall’Esercito Siriano, da Hezbollah, dai curdi siriani e dai reparti iraniani, che sta sbaragliando sul campo i gruppi terroristi, nonostante il supporto che questi ricevono da turchi e sauditi. Le forze siriane stanno recuperando buona parte dei territori, incluse tutte le città importanti (sta per cadere anche Aleppo), con il coprifuoco raggiunto per accordo fra USA e Russia, che ha come principale conseguenza la legittimazione internazionale del regime di Damasco, sostenuto da Russia, Iran ed altri Paesi (fra cui la Cina), proprio quello che i sauditi non volevano.

    In Iraq l’ISIS (Daesh in arabo), di cui non sono un mistero i collegamenti avuti e costantemente mantenuti con Rijad, sta arretrando in conseguenza dell’attacco del riorganizzato Esercito Iracheno, appoggiato dai reparti delle Forze Popolari sciite addestrate e supportate dall’Iran. Sfuma quindi la prospettiva inseguita costantemente dalla Monarchia Saudita di costituire un nuovo Stato sunnita-wahabita sui territori tra parte della Siria e l’Iraq centrale, sotto protettorato USA-Saudita. La costituzione di questa nuova entità era prevista ed appoggiata nei piani di Washington e dell’amministrazione Obama ma l’intervento russo e la forte resistenza dei siriani ha mandato all’aria il progetto. I sauditi non si sono tuttavia rassegnati e stanno pianificando un possibile intervento di forze terrestri assieme alla Turchia di Erdogan, che nutre altrettante ambizioni nello smembramentio della Siria.

    Per quanto riguarda lo Yemen, nonostante l’appoggio logistico e militare fornito alle forze saudite dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna (di cui l’Arabia Saudita è il miglior cliente), i sauditi stanno subendo duri rovesci militari da parte delle forze yemenite degli Houthi, che hanno colpito e distrutto diverse basi militari nel territorio saudita, con l’uccisione di almeno un centinaio di militari sauditi, oltre ad aver abbattuto anche alcuni aerei della loro aviazione. Una magra figura per i sauditi, che subiscono anche una forte perdita di prestigio nel mondo arabo, e non soltanto in quello, a causa delle stragi di civili causate dagli attacchi indiscriminati effettuati dalla loro aviazione. Come se questo non bastasse, arriva un rapporto segreto stilato dai generali dell’Esercito Saudita i quali, allarmati dalla possibilità di dover eseguire un’operazione militare di terra in Siria e dover affrontare russi, siriani, iraniani ed Hezbollah, hanno messo per iscritto le loro preoccupazioni e le hanno inviate alla Corte dei Saud, sfidando anche il rischio di uno scatto d’ira dei sovrani che potrebbe costare loro la testa.

    In particolare i generali hanno riconosciuto nel rapporto la debolezza dell’Esercito Saudita (visti i rovesci subiti nello Yemen), hanno messo in guardia i sovrani dai rischi connessi ad un possibile intervento diretto delle forze saudite in Siria, rischi che potrebbero comportare l’instabilità in tutto il Paese e le possibili proteste e sollevazioni di una parte della popolazione saudita. In sostanza hanno sconsigliato Rijad di farsi coinvolgere direttamente nel conflitto. Nel documento tradotto e diretto a “Sua Altezza, al Vicepresidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’Interno del Regno”, si confermano questi concetti ed in particolare si informa che l’operazione denominata “Tormenta Decisiva” nello Yemen non ha ottenuto gli obiettivi desiderati a causa della debolezza delle forze arabe inviate e di conseguenza si mette in risalto l’impreparazione e la debolezza delle truppe. Si sconsiglia quindi un intervento diretto nel contesto siriano. Molte domande circondano l’apparizione di questo documento sul Web, poi apparso sulla stampa, e ci si chiede se sia stato fatto volutamente filtrare da una fonte all’interno dello stesso governo saudita o dell’esercito con la speranza che una fuga di notizie controllata possa essere più efficace nel dissuadere i monarchi sauditi dall’idea di lanciare una invasione dai possibili effetti disastrosi.

    Documento originale: i1.wp.com/www.controinformazione.info/wp-content/uploads/2016/02/Carta-de-los-sa...

    Questo documento sembra che abbia determinato un forte nervosismo nella corte saudita ed i portavoce del governo hanno rifiutato ogni commento, ma fonti ben informate hanno segnalato indizi di grande “irritazione” pervenuti anche all’esterno. In qualsiasi caso, molti osservatori affermano che sarà prudente che i monarchi sauditi prestino attenzione a questi avvisi prima di prendere “decisioni irrevocabili” che avrebbero nefaste conseguenze per il Paese e per la stessa monarchia saudita. Si ritiene tuttavia che non sarebbero comunque in tanti a piangere per un eventuale crollo di questa monarchia, assolutista, oppressiva, totalitaria ed oscurantista. Forse gli unici a piangere sarebbero i responsabili della lobby delle armi e del petrolio di Washington e di Londra, di cui i sauditi sono i migliori clienti in assoluto.

    Luciano Lago
    28 febbraio 2016
    www.controinformazione.info/i-monarchi-dellarabia-saudita-si-trovano-sullorlo-di-una-crisi-d...
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    00 07/03/2016 19:10
    Donald Trump:"Vi dico chi c'è dietro le Torri Gemelle"

    "Fatemi entrare alla Casa Bianca e vi dirò chi c'è dietro l'11 settembre". Donald Trump ha promesso di rendere pubblici tutti i segreti sugli attacchi dell’ 11/09, se dovesse essere eletto Presidente. Durante un evento della campagna elettorale in Carolina del Sud, Trump ha puntato il dito contro la presidenza di George W. Bush:"Abbiamo colpito l’Iraq, ma non sono stati loro a buttare giù il World Trade Center", ha affermato. E ancora:“Non sono stati gli iracheni ad abbattere il World Trade Center, abbiamo colpito l’Iraq, abbiamo decimato il Paese”. Poi spiega:"Non erano gli iracheni, scoprirete chi ha veramente abbattuto il World Trade Center. Perché c’erano dei documenti lì dentro ed erano molto segreti; potreste scoprire che sono stati i sauditi, va bene? Lo scoprirete. Ma quando guardo un tipo come Lindsey Graham, si finirà con l’essere in guerra, potrebbe iniziare la terza guerra mondiale”, ha anche avvertito Trump. Di fatto il leader repubblicano ha citato le 28 pagine dell’originale inchiesta congiunta del Congresso sull’11 Settembre, che continuano ad essere classificati e trattenuti al pubblico per motivi di sicurezza nazionale "top secret". Si pensa che le pagine coinvolgano la famiglia reale saudita nel finanziamento dei presunti “dirottatori” prima degli attacchi al World Trade Center.

    Mario Valenza
    24/02/2016
    www.ilgiornale.it/news/mondo/donald-trump-vi-dico-chi-c-dietro-torri-gemelle1228...
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    wheaton80
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    00 07/03/2016 19:29
    Il crollo totale della dittatura saudita si avvicina velocemente

    Per l’osservatore casuale, l’Arabia Saudita potrebbe attualmente sembrare una Nazione coraggiosa che si va affermando. Sfida l’Iran, lotta contro i ribelli nello Yemen, minaccia d’invadere la Siria, e se certe voci sono credibili, avrebbe ottenuto missili nucleari dal Pakistan. Tuttavia, queste non sono le azioni di una Nazione stabile che si afferma dominante nella regione. Sono le convulsioni di una Nazione che agonizza. Da quando i prezzi mondiali del petrolio sono precipitati, l’Arabia Saudita non è la stessa. Non sorprende che dato che i prezzi sono scesi, altre Nazioni petrolifere ne siano colpite. L’economia russa era alle corde, il Canada precipita nella recessione e il Venezuela è sull’orlo del collasso totale. Tuttavia, probabilmente non c’è una nazione più dipendente dal petrolio dell’Arabia Saudita. Se qualcuno sarà distrutto dai bassi prezzi del petrolio, sono i sauditi. Il nocciolo della questione è che questo Paese è a corto di denaro. Non sembra a prima vista. Solo di recente ha iniziato ad usare le enormi riserve, e il debito in rapporto al PIL è notevolmente basso. Tuttavia, l’emorragia di denaro avviene a un ritmo allarmante. Inondano il mercato con petrolio a buon mercato per soffocare la concorrenza (una mossa pericolosa per un governo che riceve l’80% delle sue entrate dal petrolio), e combatte diverse costose guerre per procura contro l’Iran, che non vanno così bene. La situazione è talmente disastrosa che il FMI si aspetta sia a corto di denaro entro 5 anni. Per la maggior parte dei Paesi non sarebbe un grosso problema. Ricorrerebbero al debito e continuerebbero fin quando il sistema finanziario non si sbriciola dopo anni. Ma i sauditi non possono farlo. Il loro governo e la loro società sono strutturati in modo tale che non possono vivere col debito. Il motivo è che non è uno Stato-nazione. “In realtà, l’Arabia Saudita non lo è affatto. Ci sono due modi per descriverla: una società politica con un modello di business intelligente, ma in ultima analisi insostenibile, o è così corrotta da assomigliare a un’organizzazione criminale verticalmente e orizzontalmente integrata. In entrambi i casi non può durare. E’ da tempo che i politici si preparano al crollo del regno saudita. Nelle ultime conversazioni con i capi militari e governativi, siamo rimasti sconvolti da quanto sorpresi sembrassero da tale prospettiva. Ecco l’analisi su cui si dovrebbe lavorare. In un certo senso, il re saudita è l’amministratore delegato di un’azienda a conduzione familiare che converte il petrolio in proventi per acquistare lealtà politica. Prendono due forme: dispense in denaro o concessioni commerciali ai sempre più numerosi rampolli del clan reale, e un minimo di beni pubblici e opportunità di lavoro per la gente comune”.

    In sostanza, l’Arabia Saudita si basa sulla corruzione istituzionalizzata. Ha bisogno di contanti immediati per mantenere in riga la popolazione, mantenere la sempre più grande famiglia reale ricca e felice e per assicurarsi che ognuno faccia il suo dovere. Non è come ciò che si vede nella maggior parte delle Nazioni occidentali, dove gran parte della popolazione ha senso civico. Questo sistema ha bisogno del denaro, e non può sopravvivere sulle cambiali. Le élite in questa società pretendono una vita lussuosa perpetua e i sussidi del governo sono l’unica cosa che impedisce alle masse oppresse di ribellarsi. Una volta a corto di denaro, tutto cadrà a pezzi. Ma la situazione finanziaria non è l’unico problema del regno saudita. Gran parte del budget è stato bruciato per combattere la guerra allo Yemen, che va male. Decine di mercenari della Blackwater sono stati uccisi in un attacco missilistico il mese scorso; due settimane fa i ribelli yemeniti hanno catturato una loro base militare (nel territorio saudita, tra l’altro), e la settimana scorsa le forze yemenite sono riuscite a catturare oltre un centinaio di soldati sauditi. Questo è un regime che governa con la paura e l’oppressione. Come potranno continuare se l’esercito non può battere una rivolta nel proprio cortile? Quando dispense e tangenti finiranno, e con una popolazione stufa e stanca di essere dominata dalla famiglia saudita, quanto tempo credete ci vorrà perché si ribelli? E soprattutto l’Arabia Saudita affronta una grave crisi idrica. Proprio come in California, è fortemente dipendente dalle falde acquifere sotterranee non rinnovabili, e si usa più acqua per persona di molte nazioni occidentali (in realtà, il doppio della media UE). Saranno a corto di acqua tra meno di 13 anni. Questo ha portato il regime saudita ad iniziare a tassare l’acqua per la prima volta, in parte per la crisi idrica, e in parte a causa del calo dei proventi del petrolio. Come si vede, molte minacce esistenziali incombono sull’Arabia Saudita. Le sue guerre per procura contro l’Iran esauriscono le casse così come i proventi del petrolio sono ai minimi storici; la popolazione oppressa è inquieta e non potrà avere risposte alle proprie esigenze dall’élite avida, e affronta un disastro ambientale nazionale che potrebbe imporre una battuta d’arresto totale. In breve, uno dei più forti alleati degli USA in Medio Oriente, e fulcro dei petrodollari, affronta il crollo totale, che può accadere entro un decennio. Questo creerebbe il caos in Medio Oriente, e avrebbe enormi conseguenze per l’economia globale. E alla fine, non c’è davvero nulla che si possa fare per impedirlo.

    Joshua Krause
    6 marzo 2016
    Fonte: www.thedailysheeple.com/the-total-collapse-of-saudi-arabiaisfastapproachin...

    aurorasito.wordpress.com/2016/03/07/il-crollo-totale-della-dittatura-saudita-si-avvicina-velo...
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    00 15/03/2016 02:11
    Sophie Marceau rifiuta la Legion d’Onore

    La Legion d’Onore? Se la tengano pure: protesta l’attrice Sophie Marceau, esasperata per la scelta di François Hollande di decorare con la stessa onorificenza, la più importante di Francia, il principe ereditario saudita nonché Ministro dell’Interno, Mohammed Ben Nayef. L’attribuzione del brillocco napoleonico al rappresentante di una monarchia accusata di violare i diritti umani ha irritato tanti francesi. La cerimonia si è tenuta venerdì scorso, tra gli ori dell’Eliseo, senza nessuna comunicazione ufficiale. Se a Parigi lo si è venuto a sapere è solo perché nel frattempo i media sauditi l’annunciavano in gran cassa a Riad. Ingenuo Eliseo, ai tempi del villaggio globale ci è voluto poco affinché la notizia tornasse a scorrere dalle parti della Senna. Nel comunicato saudita si legge che la massima onorificenza della République è stata attribuita a Ben Nayef “per i suoi sforzi nella regione e nel mondo nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo”. E però a Parigi in tanti hanno rischiato di strozzarsi dalla rabbia, incluso la solitamente riservata Sophie Marceau, che questa volta non ci ha visto più. Su Twitter l’attrice di 49 anni, che già diede del ’’cialtrone’’ a François Hollande per la sua love story segreta con Julie Gayet, ha allegato un articolo sulle settanta esecuzioni perpetrate da inizio anno in Arabia Saudita e la postilla:“Ecco perché ho rifiutato la Legion d’Onore”. La più francese delle comédiennes divenuta celebre a quattordici anni con “Il tempo delle Mele” annuncia così tra le righe di aver opposto il gran rifiuto.

    Una scelta che fino ad oggi aveva preferito tenere per sé. Istituita da Napoleone Bonaparte, la Légion d’Honneur è già stata rinviata al mittente da grandi personalità della Nazione, tra cui Sartre e Simone de Beauvoir, Courbet, Lafayette, Brigitte Bardot e Claude Monet. L’ultimo a dire “non merci” fu, l’anno scorso, Thomas Piketty, autore del libro best seller “Il Capitale nel XXI secolo”. Repressione, arresti, esecuzioni capitali. A inizio settimana, anche la comica Sophia Aram, coperta da un burqa nero, si è lanciata in un’implacabile satira radiofonica per denunciare l’indulgenza della “Patria dei diritti umani” nei confronti della monarchia wahabita. “Anch’io vorrei la Legion d’Onore - ha detto rivolgendosi al Ministro degli Esteri, Jean-Marc Ayrault, presente nello stesso studio di France Inter - Che devo fare? Ah, sì, lo so, forse dovrei acquistarvi dei Rafale”, gli stessi aerei da caccia che Parigi ha venduto per centinaia di milioni di euro a Riad. Come Sophie anche Sophia ha denunciato le settanta esecuzioni del boia saudita di cui 47 in appena un giorno. “Se poi vi restassero una o due piccole ghigliottine - ha concluso rivolgendosi al capo della diplomazia transalpina - credo che sarebbe un bel regalo da fare al nostro Ministro dell’Interno”.

    Paolo Levi
    10/03/2016
    www.lastampa.it/2016/03/10/esteri/sophiemarceaurifiutalalegiondonoreS2cNfqsGn7fCBTYxfb3mxM/pag...
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    00 16/03/2016 20:42
    Il Parlamento olandese ha votato per bloccare la vendita di armi all'Arabia Saudita

    Il Parlamento olandese martedì ha approvato una legge chiedendo al governo di fermare la vendita di armi all'Arabia Saudita per la sua operazione militare in Yemen. La mossa segue una risoluzione del Parlamento Europeo di febbraio che chiedeva un embargo europeo totale. Gran Bretagna, Francia e Germania sono tra i principali fornitori dell'Arabia Saudita.

    16/03/2016
    www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=11&pg=14814
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    00 18/04/2016 14:57
    La minaccia saudita agli USA:“Non declassificate i documenti segreti sull'11 settembre”

    Se il Congresso degli Stati Uniti dovesse approvare una legge per riconoscere le possibili ed eventuali implicazioni dell’Arabia Saudita negli attentati dell’11 settembre, il Paese arabo ritirerà tutti i capitali, stimati in miliardi di dollari, investiti nelle attività finanziarie statunitensi. È questa la posizione ufficiale dell'Arabia Saudita comunicata alla Casa Bianca. L'amministrazione Obama sta cercando di bloccare l’approvazione di un disegno di legge, dal momento in cui il Ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha comunicato la posizione del proprio Paese. Secondo il New York Times, Al-Juberi avrebbe anche quantificato ad Obama l’importo del denaro che l’Arabia Saudita sarebbe disposta a riportare in patria: 750 miliardi di dollari in titoli del Tesoro ed in altre attività finanziarie americane sul mercato mondiale. Le rivelazioni sull’ultimatum dei sauditi arrivano pochi giorni dopo la paventata possibilità di declassificare le 28 pagine sugli attentati dell’11 settembre. Quelle 28 pagine potrebbero dimostrare una connessione saudita con i terroristi che pianificarono ed eseguirono gli attacchi, riscrivendo le dinamiche dell’attentato. Una decisione sull'opportunità di declassificare i documenti sarà presa entro 60 giorni. La decisone spetterà al Presidente degli Stati Uniti. Le amministrazioni Bush ed Obama, fino ad oggi, si sono rifiutate di declassificare quelle 28 pagine, sostenendo che il loro rilascio metterebbe a repentaglio la sicurezza nazionale. I critici, invece, motivano tale riluttanza a causa del coinvolgimento dell'Arabia Saudita nell’attacco terroristico di al-Qaeda che ha ucciso quasi 3.000 persone sul suolo americano. La Commissione 9/11 ha sempre affermato che non esiste alcuna prova che possa dimostrare un coinvolgimento dell’Arabia Saudita. Da rilevare che tale conclusione non può tenere conto di quanto sarebbe emerso nelle 28 pagine classificate.

    Franco Iacch
    16/04/2016
    www.ilgiornale.it/news/mondo/monito-dei-sauditi-agli-usa-non-declassificate-i-documenti-s-1247...
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    00 05/05/2016 13:04
    Il Qatar ammette: in Siria non fu vera rivoluzione. Abbiamo guidato noi i “ribelli”

    Capita che persino il Financial Times non faccia notizia. Capita quando la notizia pubblicata, seppur rilevante, contrasta troppo con la verità formale, quella verità che i media mainstream hanno ripetuto per anni. Capita che la maggior parte dei media anziché riprendere con forza lo scoop e pretendere chiarimenti dai governi coinvolti, preferiscono ignorarlo; d’altronde sono talmente abituati al bombardamento dalla propaganda – sia esplicita sia subliminale – che quando viene a mancare l’enfasi provocata dagli spin doctor, si sentono smarriti; non scattano, preferiscono comunque seguire l’onda, dunque il silenzio. Lo scoop è rappresentato dall’intervista all’ex Primo Ministro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Jassim Al Thani, nella quale rivela che la “rivoluzione” del 2011, che diede avvio alla guerra civile che dura fino ad oggi, non fu propriamente spontanea. “Lo scoppio della crisi in Siria nel 2011 non fu una rivoluzione ma uno scontro politico internazionale”, afferma l’ex Premier. Qui una breve sintesi:

    awdnews.com/political/qatar%E2%80%99s-ex-foreign-minister-reveals-qatar-and-saudi-arabia-start-and-escalate-the-civil-war-...

    E ancora:“Non l’ho mai detto prima: quando abbiamo iniziato a interferire sulla scena politica siriana, eravamo sicuri che il Qatar avrebbe presto assunto la guida delle operazioni, in parte per la riluttanza dei sauditi a interferire in quel Paese. Poi però la situazione cambiò, la monarchia saudita decise di intervenire direttamente e ci chiese di sederci sul sedile posteriore. Questo portò a una competizione tra noi e loro”. Com’è andata a finire lo sappiamo: l’interferenza di Qatar e sauditi – con il consenso degli Stati Uniti – è costata tra i 200 e i 400mila morti, la destabilizzazione di una regione e flussi di profughi verso l’Europa. Un disastro sotto ogni punto di vista. Un disastro generato non da una romantica rivolta popolare contro un dittatore, bensì dai giochi di potenze che, quanto ad autoritarismo, non hanno nulla da invidiare ad Assad. Una storia molto diversa da quella raccontata dai media mainstream.

    Marcello Foa
    6 maggio 2016
    blog.ilgiornale.it/foa/2016/05/05/il-qatar-ammette-in-siria-non-fu-rivoluzione-abbiamo-guidato-noi-la-...
    [Modificato da wheaton80 05/05/2016 13:05]
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    00 13/05/2016 00:19
    "L'Arabia Saudita ha sostenuto i dirottatori dell'11 Settembre"

    John H. Lehman, un ex membro repubblicano della commissione d'inchiesta per gli attentati dell'11 Settembre ha esortato il governo del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ad agire rapidamente per declassare un rapporto del Congresso sui legami tra il governo saudita e l'attacco terroristico, ha dichiarato al quotidiano britannico The Guardian (http://www.theguardian.com/us-news/2016/may/12/911-commission-saudi-arabia-hijackers). "C'è stata una grande affluenza di persone dall'Arabia Saudita a sostegno dei dirottatori e alcuni di loro hanno lavorato nel governo", ha affermato John H. Lehman, che era Segretario della Difesa durante l'amministrazione di Ronald Reagan. Le notizie non pubblicate dal rapporto ufficiale sugli attentati del 2001 sono fondamentali per avviare un contenzioso giudiziario e citare il regno saudita per i danni. Anche se alcuni membri del Congresso insistono sulla pubblicazione dei documenti, permangono ostacoli importanti. Il 16 aprile, il governo dell'Arabia Saudita ha minacciato di vendere 750.000 milioni di dollari di attività, che "avrebbe gravi conseguenze per l'economia mondiale", secondo quanto avvertito da Riyadh. Il 18 aprile, il Senatore democratico dello stato del Vermont ha riferito che una parte della famiglia regnante in Arabia Saudita Al Saud è coinvolta nella diffusione a livello mondiale del wahhabismo, "ideologia fondamentalista estremista." Inoltre, è venuto alla luce che la moglie del ex capo dell'Intelligence saudita Bandar bin Sultan, potrebbe essere una delle finanziatrici degli attacchi del 11 Settmbre negli Stati Uniti, secondo un rapporto pubblicato dal quotidiano britannico The Independent (http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/finding-discussion-and-narrative-regarding-certain-sensitive-narrative-matters-saudi-arabia-911-11-a6999091.html).

    Fonte: www.hispantv.com/newsdetail/arabia-saudi/255340/autoridades-saudies-atenta...

    12/05/2016
    www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=15636
    [Modificato da wheaton80 13/05/2016 00:19]
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    00 10/06/2016 16:05
    Ban Ki-moon denuncia 'indebite pressioni' dietro la rimozione di Riyad dalla 'lista nera'

    Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha ammesso che la sua decisione di rimuovere temporaneamente la coalizione guidata dall'Arabia Saudita in Yemen dalla lista nera dei Paesi e delle organizzazioni che commettono crimini contro i bambini è arrivata dopo le minacce, è stata "una delle decisioni più dolorose e difficili" che ha dovuto prendere, aggiungendo che questo aumenta "la possibilità molto concreta che milioni di altri bambini debbano soffrire duramente". Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha detto che era inaccettabile per gli Stati membri "esercitare indebite pressioni" e che la sorveglianza è "una parte naturale e necessaria del lavoro delle Nazioni Unite". Questi commenti vengono dopo che una fonte diplomatica ha detto a Reuters in condizione di anonimato che le Nazioni Unite hanno ricevuto "intimidazioni, minacce e pressioni" da Riyad, aggiungendo che era "un vero e proprio ricatto". La fonte ha anche detto che "i religiosi sauditi hanno minacciato di mettere una fatwa contro le Nazioni Unite, definendola anti-musulmana e facendo venire meno ogni contatto con i membri dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), nessun rapporto, nessun contributo, nessun supporto a progetti e programmi delle Nazioni Unite".

    10/06/2016
    www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=16066
    [Modificato da wheaton80 10/06/2016 16:06]
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    00 10/06/2016 16:16
    Yemen, bambini uccisi:"l'ONU s'inchina alla coalizione a guida saudita"

    ROMA - E' stata Amnesty International a mettere in forte discussione la credibilità delle Nazioni Unite dopo il vergognoso cedimento alle pressioni per rimuovere i partecipanti alla coalizione militare, guidata dall’Arabia Saudita, dall’elenco degli Stati e dei gruppi armati che violano i diritti dei bambini nel corso dei conflitti. La notte tra il 6 e il 7 giugno un portavoce del Segretario Generale Ban Ki-moon ha annunciato che c’era stata una modifica all’elenco pubblicato il 2 giugno nel rapporto annuale del Rappresentante speciale sui bambini e i conflitti armati. La modifica è stata la conseguenza diretta delle pressioni esercitate dalla dinastia saudita, contrariata dalle conclusioni cui era giunta l’ONU, ovvero che le operazioni militari della coalizione guidata da Riyad avevano causato morte e sofferenza di bambini durante il conflitto armato dello Yemen.

    Un cedimento che compromette seriamente

    “Che l’ONU s’inchini alle pressioni fino al punto di alterare un rapporto già pubblicato sui bambini nei conflitti armati - ha commentato Richard Bennett, rappresentante di Amnesty International presso le Nazioni Unite - è un fatto senza precedenti, così come è irresponsabile che le pressioni siano state esercitate proprio da uno degli Stati elencati nel rapporto. Cedere alle pressioni in questo modo compromette tutta l’azione delle Nazioni Unite per proteggere i bambini nei conflitti. Il Segretario Generale - ha aggiunto Bennett - non deve arretrare né sminuire l’importanza del lavoro del suo Rappresentante speciale. Altrimenti, rischia di danneggiare la credibilità dell’ONU nel suo complesso. Questo è un esempio lampante - ha concluso - del motivo per cui le Nazioni Unite devono stare sempre dalla parte dei diritti umani e dei loro principi: altrimenti finiscono per diventare parte del problema e non la sua soluzione”.

    La replica dell'ONU:"E' un'eliminazione temporanea"
    Secondo fonti dell’ONU, l’eliminazione dall’elenco è temporanea in attesa che le stesse Nazioni Unite e l’Arabia Saudita rivedano congiuntamente le conclusioni del rapporto. Nel frattempo però i diplomatici sauditi all’ONU non hanno perso tempo a esaltare quella che hanno definito una “irreversibile” vittoria morale. Mai in passato le Nazioni Unite avevano rimosso uno Stato da un elenco già pubblico. L’anno scorso erano state criticate perché nel rapporto del Rappresentante speciale non era stato inserito Israele, nonostante le numerose e credibili denunce riguardo a centinaia di bambini uccisi e migliaia di feriti nel conflitto armato del 2014 a Gaza.

    Un pericoloso precedente

    “Qui siamo di fronte a un passo ulteriore. Il Segretario Generale ha istituito un pericoloso precedente che metterà ancora più a rischio le vite dei bambini nei Paesi in conflitto” – ha accusato Bennett. Secondo il rapporto delle Nazioni Unite del 2 giugno, nel 2015 la coalizione a guida saudita è stata responsabile del 60 per cento delle 510 morti e dei 667 ferimenti di bambini nel conflitto dello Yemen. Il Segretario Generale aveva a tale proposito dichiarato:“Le gravi violazioni ai danni dei bambini sono drammaticamente aumentate con l’escalation del conflitto”. Amnesty International ha ripetutamente documentato le violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, anche ai danni dei bambini, da parte degli Stati membri della coalizione a guida saudita impegnata nel conflitto dello Yemen, responsabile di attacchi aerei contro le scuole e dell’uso delle bombe a grappolo - armi vietate a livello internazionale - che hanno ucciso tre bambini e ne hanno feriti nove. I bambini costituiscono un terzo – 127 su un totale di 361 – dei civili uccisi in 32 attacchi illegali, documentati da Amnesty International, portati a termine dalla coalizione a guida saudita dall’inizio delle operazioni militari nello Yemen.

    08 giugno 2016
    www.repubblica.it/solidarieta/dirittiumani/2016/06/08/news/yemen_bambini_uccisi_l_onu_s_inchina_alla_coalizione_a_guida_saudita_-14...
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    wheaton80
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    00 05/07/2016 18:00
    Stati Uniti: più di 30 cittadini sauditi legati agli attacchi dell'11-S

    Il documento intitolato "Articolo17" elenca più di 30 cittadini sauditi con collegamenti con gli attacchi dell'11 settembre 2001, con riferimento al rapporto di 28 pagine che ancora rimane segreto riguardo ad un'indagine del Congresso sugli attacchi, ha riferito l'agenzia di stampa statunitense AP (http://bigstory.ap.org/article/fe56c5d224a8463aa7cfc6ccf4689122/file-17-glimpse-still-secret-28-pages-about-911). La ricerca rivela i nomi delle persone che erano in contatto con i dirottatori negli Stati Uniti prima degli attacchi. Alcuni di loro erano diplomatici sauditi, sollevando dubbi sul fatto che questi funzionari non sapessero in anticipo degli attacchi. "Il documento fornisce indizi che potrebbero rinnovare gli appelli da parte dei legislatori per approvare una legge che consente ai membri delle famiglie delle vittime di citare in giudizio il governo dell’Arabia Saudita per avere legami con questi attacchi", ha dichiarato il senatore Bob Graham, uno dei responsabili per l'indagine dell'11-S. La relazione finale della Commissione sugli attentati dell'11-S ha dichiarato di non aver trovato alcuna prova che dimostrerebbe che il governo saudita o funzionari del regno arabo finanziassero il gruppo terroristico di Al-Qaeda. Tuttavia, questa conclusione non esclude la possibilità che le associazioni legate al governo saudita abbiano deviato fondi per il gruppo terroristico.

    Fonte: www.hispantv.com/noticias/arabia-saudi/280606/atentado-11-s-arabia-saudi-archivo-bo...

    03/07/2016
    www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=16377
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    00 02/10/2016 22:58
    11 Settembre, il Congresso USA annulla il veto di Obama alla legge per fare causa all'Arabia Saudita

    La bocciatura che ha subìto Obama stavolta è di proporzioni enormi. Il Senato e subito dopo la Camera hanno bocciato il veto che il Presidente ha posto alla legge che autorizza i parenti delle vittime dell’11 settembre 2001 a fare causa all’Arabia Saudita. La legge, votata a larga maggioranza da Camera e Senato, la scorsa settimana era stata bloccata da Obama per scongiurare la crisi diplomatica con Riyad. Per superare il veto il Senato aveva bisogno di più di 60 voti. E i voti (97 a favore, uno contrario) sono arrivati. Alla Camera 348 sì e 77 no. Ora c'è il rischio di un forte deterioramento nei rapporti tra gli Stati Uniti e il Regno Saudita, che non a caso ha già minacciato di ritirare i circa 750 miliardi di dollari di asset negli USA, oltre a vendere centinaia di miliardi di dollari di titoli del debito sovrano USA. Sul veto alla legge "Justice Against Sponsors of Terrorism Act" si è espressa la Camera con lo stesso esito. È la prima volta che un veto opposto da Obama viene annullato dal Congresso americano in otto anni di Presidenza. Ma cosa prevede la norma? Di fatto autorizza i familiari delle vittime dell'11 Settembre ad adire la giustizia contro qualunque membro del governo saudita: 15 dei 19 dirottatori degli aerei che si schiantarono durante gli attentati, infatti, erano cittadini sauditi, ma sino ad ora nessun legame è stato stabilito con certezza a sostegno della tesi e dei sospetti di appoggi finanziari da parte di funzionari sauditi agli attentatori.

    Obama: è un errore del Congresso

    Barack Obama ha definito un ‘errore’ il voto con cui il Congresso ha annullato il veto sulla legge. "Si tratta - ha detto alla CNN - di un pericoloso precedente e di un esempio del perché a volte bisogna fare cose difficili. E francamente speravo che il Congresso lo facesse. La mia preoccupazione non ha nulla a che fare con l'Arabia Saudita in sé né intacca in alcun modo i miei sentimenti nei confronti delle famiglie delle vittime. Ha a che vedere con il fatto che non voglio che si determini improvvisamente una situazione in cui veniamo esposti a responsabilità per tutto il lavoro che stiamo facendo nel mondo trovandoci improvvisamente noi stessi oggetto di cause private". Secondo il Presidente il voto del Congresso è stato chiaramente influenzato da considerazioni di tipo politico:"Votare contro le famiglie delle vittime dell'11 settembre proprio prima delle elezioni non è sorprendente che sia difficile. Ma sarebbe stata la cosa giusta da fare".

    Raffaello Binelli
    29/09/2016
    www.ilgiornale.it/news/mondo/11-settembre-senato-usa-annulla-veto-obama-legge-fare-causa-1312...
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    00 11/01/2017 17:20
    Come l’Arabia Saudita ha danneggiato la sua industria petrolifera

    L’Arabia Saudita pensava, dall’alto del suo status di primo esportatore mondiale di petrolio greggio, di poterne deprimere il prezzo a volontà per ridurre all’obbedienza i suoi rivali regionali (Iran) e internazionali (Federazione Russa), rovinando nel contempo l’industria americana del petrolio di scisto (fracking), ed oltretutto compensando qualunque calo nei propri ricavi con le sue enormi riserve di capitale, per poi far rialzare gradualmente le tariffe una volta ottenuti i suoi obiettivi politici, ma non tanto rapidamente da vanificare la minaccia di un improvviso ulteriore ribasso. Questo piano è riuscito per quanto riguarda l’obiettivo “americano” (le compagnie impegnate nel fracking vendono petrolio a 80-100 dollari al barile a clienti che l’avevano ordinato, col sistema dei futures, quando costava 120-150 dollari, e il loro avvenire coi prezzi del greggio “normale” che si aggirano tra 45 e 55 $ per barile appare oggi nerissimo). Ma per quanto riguarda Iran e Russia esso è clamorosamente e spettacolarmente fallito. Dotati di economie ben più diversificate della “monocoltura petrolifera” saudita, e temprati nel passato più o meno recente da avversità economiche ben più problematiche, russi e iraniani hanno sopportato bene l’urto dei bassi prezzi petroliferi e non hanno per nulla abbandonato i loro obiettivi politici e strategici, anzi, li hanno riconfermati avvicinandosi ulteriormente tra di loro. L’impatto della fortissima flessione nei ricavi di Riyad invece è stato ben peggiore delle previsioni e per la prima volta nella sua storia il regno assoluto di Casa Saud ha dovuto ricorrere al mercato del debito emettendo titoli di Stato; con le spese per la disastrosa guerra contro lo Yemen questa situazione ha prodotto comunque un taglio nelle agevolazioni, nei prezzi calmierati e nella spesa pubblica, dalla quale dipendono per la propria stessa sopravvivenza milioni di “regnicoli” sauditi. Infatti, contrariamente alla percezione occidentale sul suddito medio di Re Saud, al di fuori di una ristrettissima cerchia di principi, nobili, consiglieri e maggiordomi di palazzo che nuotano letteralmente in ricchezze faraoniche, il cittadino saudita medio fa sopravvivere la sua spesso numerosissima famiglia con un impiego pubblico (spesso una sinecura).

    Questo impiego spesso è ottenuto grazie a favori e clientelismi guadagnati presso il gradino inferiore della burocrazia statale, e fino ad oggi lo stipendio bastava a far sbarcare il lunario solo grazie ai forti sussidi ai beni essenziali e ai servizi di base, che li rendevano particolarmente economici. Lo strattone ai legacci della spesa pubblica ha avuto forti ripercussioni nello stile di vita della cittadinanza media e se questa tendenza dovesse perdurare in futuro non si potrebbero escludere tumulti e manifestazioni di insofferenza a livelli mai riscontrati nel regno. Inoltre, anche le esportazioni di petrolio verso Paesi terzi risentono, molto negativamente, dell’immagine pubblica ormai consolidata di Riyad come maggior finanziatore e promotore dell’integralismo islamico di matrice takfira e wahabita (già diffusa ai tempi della guerra in Afghanistan e del sostegno saudita alle scuole coraniche estremiste che lungo il confine settentrionale del Pakistan generarono il fenomeno talebano e “Al-Qaeda”). Ciò è ormai divenuto un fatto di dominio pubblico, con gli eventi della guerra alla Siria e i numerosissimi sequestri di armi, fondi e droga veicolati verso le bande takfire di Al Nusra ed altre sigle da personaggi legati ai servizi sauditi o addirittura a membri della famiglia reale. Sempre più Paesi vedono il commercio con Riyad come una porta aperta all’estremismo wahabita e soprattutto i più grandi, che hanno minoranze musulmane al loro interno, sono più che preoccupati della possibilità di una loro radicalizzazione terrorista una volta che queste venissero esposte alla nefasta influenza di imam e predicatori sauditi (esattamente come il Pakistan, che fino agli anni ’70 praticava una forma molto blanda di Islam, permeato di sufismo e di apporti buddisti e induisti, e che in trent’anni è diventato un bastione del sunnismo radicale non solo verso i cosiddetti “infedeli”, ma anche nei confronti degli Sciiti e di altre minoranze musulmane).

    Lo dimostra recentemente anche l’India, che negli ultimi mesi ha iniziato a diminuire sempre di più l’acquisto di greggio saudita (finora sua primaria fonte di approvvigionamento energetico), fino a far diventare nello scorso mese di ottobre la Repubblica dell’Iran suo fornitore principale, per la prima volta nella storia. In India, ricordiamo, vivono oltre cinquanta milioni di musulmani, quasi tutti sunniti. A volte è poi la stessa erratica politica estera di Casa Saud a mettere un bastone tra le ruote alla sua macchina esportatrice: quando alcune settimane fa l’Egitto del Presidente Al-Sisi si schierò all’ONU contro la risoluzione saudita sulla Siria, votando invece a favore di quella russa, Riyad per ripicca interruppe “fino a nuovo ordine” le forniture di greggio al Cairo, che dipendeva del tutto da quel petrolio per fornire luce, elettricità e, a seconda della stagione, calore o refrigerio ai suoi ottanta milioni di cittadini. Per tutta risposta l’Egitto ha siglato un accordo con l’Emirato del Kuwait per l’importazione di 2 milioni di barili di petrolio e di 1.200.000 tonnellate di prodotti petroliferi vari secondo “un contratto di lunghissima durata” i cui termini temporali non sono ancora stati definiti. Forse è ancora presto per poter decretare la decadenza di Riyad da aspirante potenza regionale a Paese di secondaria importanza, tuttavia è innegabile che vi siano molti indizi in questo senso. Una prudente profezia a medio termine suggerirebbe a Re Salman e ai suoi parenti di adottare approcci più morbidi e meno unilaterali alla politica regionale e internazionale.

    Paolo Marcenaro
    18 novembre 2016
    www.opinione-pubblica.com/come-arabia-saudita-danneggiato-sua-industria-petr...
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